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OPERAI CONTRO MAGGIO 2004
by OPERAI CONTRO Friday, May. 07, 2004 at 1:13 PM mail:  

GIORNALE PER LA CRITICA, LA LOTTA, L'ORGANIZZAZIONE DEGLI OPERAI CONTRO LO SFRUTTAMENTO Anno V Numero 159 SOMMARIO MAGGIO 2004 1. PRIMO MAGGIO A MELFI 2.OPERAI FIAT DI MELFI 3.OPERAI ALFA DI POMIGLIANO 4.CRONACA DALLA FIAT DI MELFI 5. CRONACA FIAT CASSINO 6.OPERAI PRATOLA SERRA 7.ALITALIA 8.GLI IRAKENI DI FALLUJA 9.CAMPO ANTIMPERIALISTA 10. IL PARTITO DELLA FERMEZZA 11. TORTURE IN IRAK 12. L'ONORE DEGLI USA

MAGGIO 2004
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GIORNALE PER LA CRITICA, LA LOTTA, L'ORGANIZZAZIONE DEGLI OPERAI CONTRO LO SFRUTTAMENTO
Anno V Numero 159
SOMMARIO
MAGGIO 2004


1. PRIMO MAGGIO A MELFI 2.OPERAI FIAT DI MELFI
3.OPERAI ALFA DI POMIGLIANO 4.CRONACA DALLA FIAT DI MELFI
5. CRONACA FIAT CASSINO 6.OPERAI PRATOLA SERRA
7.ALITALIA 8.GLI IRAKENI DI FALLUJA
9.CAMPO ANTIMPERIALISTA 10. IL PARTITO DELLA FERMEZZA
11. TORTURE IN IRAK 12. L'ONORE DEGLI USA
















































1.PRIMO MAGGIO A MELFI

Fotocopiato

Primo maggio a Melfi, 2004



Un colpo secco lo abbiamo dato. Piangono oggi su trentamila macchine in meno. Piangono sul blocco totale di tutti gli stabilimenti FIAT per quasi una settimana. Ora è davanti agli occhi di tutti che la più moderna fabbrica d’Europa non è nient’altro che una galera industriale dove donne e uomini vengono consumati per quattro soldi al mese.

Morchio, l’onnipotente capo della FIAT, è stato costretto dagli operai a giocare sulla difensiva, a cambiare continuamente tattica. Agli scioperi articolati ha risposto con la messa in libertà, alla messa in libertà abbiamo risposto con il blocco totale di Melfi e lo abbiamo messo sotto. Col blocco totale ha tentato la carta dell’accordo separato con FIM e UILM, non è servito che a dimostrare che questi sindacalisti non servono a niente, non sono nessuno, solo servi. Allora le bastonate della polizia per forzare il blocco, abbiamo ancora tenuto, gli operai sono rimasti compatti, la polizia ha usato i manganelli per far entrare al lavoro i fantasmi degli operai, nessun operaio concreto è entrato al lavoro, solo alcune decine di capi UTE. La produzione è rimasta bloccata.

Morchio a Roma incontra i giornalisti e dichiara: c’è una svolta. E’ sulla difensiva. Chi può convincere gli operai a riavviare la produzione? La FIOM, la stessa che il giorno prima era stata semplicemente messa fuori dalla porta, gli era stato chiesto di aderire ad un generico impegno alla trattativa in un futuro prossimo in cambio di una condanna immediata dei blocchi e la loro rimozione, aveva detto NO. Morchio ora aveva bisogno della FIOM, questa era la svolta. La FIOM nazionale è diventata di colpo l’interlocutore necessario per la FIAT perché essa e solo essa era in grado di gestire la forza degli operai ormai diventata potente, incontenibile. La FIAT ha messo da parte FIM e UILM, inservibili, ed ha messo alla prova la FIOM, doveva dimostrare di essere capace di smobilitare i blocchi. Gli operai per arrivare al blocco hanno subito dieci anni di sottomissione brutale, hanno accumulato giorno dopo giorno una rabbia sorda, hanno scelto di affrontare il padrone fuori dal suo territorio, la fabbrica, dove si sentivano più ricattati. Per smobilitare una forma di lotta con queste profonde ragioni ci volevano i dirigenti FIOM, i loro funzionari, le medagliette da sventolare in campo.

Far vincere su tutto il fronte gli operai di Melfi era ed è per la FIAT il suicidio, la fine di un’epoca, apre la strada a forme di lotta nuove, coraggiose, capaci di resistere ai padroni ovunque. Morchio ha scelto: “faccio vincere la FIOM ma tolgo agli operai di Melfi la possibilità di cantare vittoria”.

Il gioco passa al gruppo dirigente nazionale della FIOM. Ha dimostrato a malapena di governare gli operai, per convincerli a togliere i blocchi ha speso tante parole sui risultati della trattativa e ha dovuto cedere agli operai l’assemblea permanente e gli scioperi che continuano. Che cosa la FIOM nazionale porterà a casa è una questione di vita e di morte per la coppia Rinaldini- Cremaschi.

Anche al sorridente Morchio l’operazione costerà. Se non molla niente la tregua a Melfi non si fa ed è di nuovo daccapo, ma con un problema in più, non potrà più utilizzare il gruppo dirigente della FIOM per tenere a bada gli operai.

Gli operai con un colpo secco, dieci giorni di blocco totale, hanno spazzato via FIM e UILM e la pratica degli accordi separati, hanno colpito la FIAT nel portafoglio creando scompiglio fra manager e direttori, il TMC2 che da Melfi doveva imporsi a tutti gli stabilimenti è stato attaccato proprio nella sua culla da parte degli operai. La differenza salariale fra operai e operai delle diverse fabbriche del gruppo è ormai inaccettabile. La FIAT era sulle difensive, aveva già perso di fronte alla compattezza del blocco, ma Morchio ha fatto di tutto per non far vincere gli operai sul campo e la FIOM nazionale ha la responsabilità di essere stata al gioco. Ma la partita è ancora aperta, e non si chiuderà finché non si porteranno a casa: il recupero della differenza salariale, l’abolizione della seconda battuta, un limite al dispotismo di fabbrica. Su questo non devono esserci dubbi.

Finalmente un primo maggio sul campo di battaglia dove si sta combattendo una delle lotte più significative di questi ultimi venti anni, finalmente operai contro i padroni, apertamente, senza chiacchieroni e intermediari.

Associazione per la Liberazione degli Operai
Per contatti scrivere: Via Falck, 44 20099 Sesto San Giovanni (MI)




prima pagina
































2.FIAT DI MELFI
VOLANTINO DISTRIBUITO ALLA FIAT DI MELFI


apriamo gli occhi!



La lotta alla SATA di Melfi è un evento storico.

Gli operai stanno dimostrando che la FIAT non è invincibile.

La stessa organizzazione SATA, studiata per far funzionare lo stabilimento senza scorte in magazzino, integrata con gli altri stabilimenti FIAT, fatta apposta per far lavorare il più possibile gli operai; questa stessa organizzazione creata per fregarci si dimostra il punto debole del padrone FIAT. Basta bloccare per qualche giorno la SATA e l’indotto per bloccare a catena gli altri stabilimenti del gruppo.



Di fronte alla nostra lotta decisa, FIM, UILM e FISMIC hanno gettato la maschera e si mostrano per quello che sono sempre stati: servi dei padroni.

L’“accordo” farsa siglato questa notte a Roma, dettato direttamente dal padrone FIAT, è un’offesa a tutti gli operai in sciopero, in primo luogo agli iscritti di questi sindacati. Occorre iniziare a fare i conti con queste organizzazioni di comodo. Né una lira, né un voto, né un lavoro comune con questi venduti.



La gestione delle trattative non possiamo lasciarla ai vertici nazionali dei sindacati. Le trattative non si fanno a Roma con i dirigenti.



Operai, possiamo vincere, basta continuare la lotta. La FIAT ha paura e per fermarci si è dovuta inventare l’accordo farsa.

Dobbiamo però stare attenti, troppe volte siamo stati fregati dai dirigenti nazionali del sindacato. Una delegazione nominata dagli operai in lotta deve partecipare a pieno titolo alle trattative.



A politici e amministratori, che vengono a fare la passerella fuori alla fabbrica in orari comodi, quando c’è la televisione, diciamo che servono atti di solidarietà concreta: sottoscrizioni di soldi, cibo, legna, maggiori e corrette informazioni sulla lotta nella stampa e nella televisione.



Vinciamo se otteniamo tutti i punti richiesti:

1) Parificazione con gli altri operai FIAT. Tutti operai FIAT, a tutti le stesse condizioni! Stesso lavoro stesso salario!

2) Eliminazione della doppia battuta senza fregature.

3) Migliori condizioni di lavoro. Basta con i ritmi infernali e con la repressione!



Associazione per la Liberazione degli Operai



prima pagina
























3.ALFA DI POMIGLIANO
VOLANTINO DISTRIBUITO ALL'ALFA DI POMIGLIANO



Facciamo come a Melfi!

Questi quattro parassiti che vivono sul nostro lavoro pensano

di essere dei duri. Dimostriamo loro che noi siamo più duri.



La FIAT non mostra nessuna volontà di mediazione. Va come un carro armato. Sulla 147 vuole 338 auto a turno, neanche una di meno. Gli operai non ce la fanno? I ritmi sono troppo alti? All’azienda non importa niente.

I padroni vogliono che gli operai si pieghino al lavoro più bestiale. Chi non ci sta: multe e sospensioni. Contro gli scioperi: serrata. Tutti a casa per l’intero turno e senza salario, anche per un quarto d’ora di sciopero.

Come reagire?

Abbiamo fatto sentire la nostra voce ai politici di Pomigliano. Ora bisogna insistere ancora nella lotta e non accettare più la “messa in libertà”. L’azienda chiude e noi rimaniamo dentro, non ce ne andiamo. I cortei li organizziamo anche all’interno. Nessuna auto finita deve uscire dallo stabilimento. Il blocco delle merci in entrata e in uscita deve essere totale!

Gli operai di Melfi contro le provocatorie “messe in libertà” dell’azienda hanno risposto con il blocco totale dello stabilimento ad oltranza. Una lotta da sostenere e un esempio da seguire, rispondendo colpo su colpo alle provocazioni aziendali.

E’ un braccio di ferro. Vince chi resiste di più.

Bisogna avere le idee chiare e agire organizzati.

Tre punti su cui lottare:

- L’accordo di aprile sul TMC2 firmato dai sindacalisti venduti deve essere stracciato.

- La cadenza della linea deve essere abbassata ad un ritmo sostenibile per gli operai.

- Ci vogliono più pause di lavoro.

- L’azienda ci deve pagare le ore perse per le “messe in libertà”

Costringiamo l’azienda a trattare. Alla trattativa deve partecipare anche una delegazione diretta degli operai in sciopero, dei sindacalisti non ci fidiamo!

Non pieghiamo la testa. Facciamoci sentire.

Associazione per la Liberazione degli Operai
fip 20/ 04/04 Per contatti scrivere: Via Falck, 44 20099 Sesto San Giovanni (MI)

http://www.asloperaicontro.org http://www.operaicontro.org e-mail: pp10023@cybernet.it operai.contro@tin.it

prima pagina
























4.CRONACA DI 7 GIORNI A MELFI

Per il settimo giorno consecutivo continuano i blocchi alla Fiat di Melfi. Gli operai non hanno alcuna intenzione di smobilitare. Il blocco delle merci dell’intera area produttiva, compreso l’indotto, ha già provocato la chiusura degli stabilimenti di Mirafiori, Termini Imerese, Termoli e della Sevel di Castel di Sangro. Da Lunedì si fermerà anche l’Alfa di Pomigliano. A Melfi infatti si producono i componenti che servono in buona parte l’intero circuito produttivo della Fiat. Inoltre fabbriche come Termoli che producono i motori sono costrette a fermarsi perché l’arresto delle produzioni delle auto rende problematico la produzione ulteriore dei motori destinati ad essere montati sulle vetture. Il blocco dell’intera area produttiva di Melfi sta mettendo in ginocchio la Fiat.

E’ un evento storico. Facilitato dalla concentrazione produttiva nell’area industriale di Melfi ma provocato essenzialmente dall’intelligenza con la quale gli operai stanno portando avanti la protesta. Tante chiacchiere sul “prato verde”, sulla fabbrica integrata, sulla nuova e perfetta organizzazione del ciclo produttivo, basata sulla piena integrazione e l’attivo coinvolgimento degli operai, spazzate via in un attimo. La scelta di localizzare l’indotto a Melfi per garantire il continuo rifornimento dello stabilimento senza grosse spese di magazzino si manifesta in un attimo come un vero e proprio boomerang. Il blocco totale delle merci e il controllo di tutte le vie di comunicazione, comprese la ferrovia, hanno costretto la Fiat a ricorrere agli elicotteri per recuperare in qualche modo le scorte di componenti utili agli altri stabilimenti. Ma questo non è bastato. L’effetto domino del blocco produttivo si estende a macchia d’olio.



Tutto è iniziato Lunedì 19. Per il terzo giorno consecutivo, di fronte ad uno sciopero degli operai dell’indotto, l’azienda decreta la messa in libertà di buona parte degli operai dello stabilimento. E’ una pratica che la Fiat sta utilizzando in molte fabbriche. Non vuole sentir parlare di scioperi, neanche di un’ora sola. E così ad ogni sciopero proclamato anche solo da un reparto o, come è successo a Melfi, dagli operai dell’indotto, la Fiat risponde mandando a casa per l’intera giornata gli operai. Il che significa che gli operai perdono il salario. E’ un atteggiamento arrogante ed odioso con il quale la Fiat cerca di mettere in ginocchio gli operai e annientare il loro diritto di sciopero. La schiavitù della fabbrica assume così dei contorni sempre più definiti. E i famosi diritti, compreso quello dello sciopero, sono annientati.

Ma questa volta gli operai hanno ribaltato la frittata. Lunedì infatti l’azienda ha parcheggiato interi reparti nella sala mensa in attesa di comunicare loro la definitiva messa in libertà o la ripresa della giornata lavorativa. L’arroganza della Fiat è giunta al punto di comunicare giorno per giorno, ora per ora, se si lavora oppure no. Gli operai trattati come schiavi senza alcuna considerazione. Per raggiungere Melfi gli operai sono costretti a compiere veri e propri viaggi dalla durata anche di un’ora e mezza. E spesso arrivando con i bus devono aspettare per il ritorno la fine del turno. Ma di tutto questo la Fiat se ne frega.

La sala mensa di Lunedì invece di essere l’area di parcheggio di una massa inerme che aspetta di conoscere la volontà del padrone si è trasformata in una assemblea di operai rabbiosi e determinati a ribellarsi al sopruso della Fiat. Anche la parte degli operai del montaggio “risparmiati” quel giorno dalla “messa in libertà” si fermano, spontaneamente in sciopero.

A nulla basta la decisione dell’azienda di riammettere gli schiavi al proprio posto di lavoro. Il gioco è sfuggito alla Fiat e lo hanno preso in mano gli operai. NON SI TORNA AL LAVORO. L’assemblea cerca di stilare un primo documento di rivendicazioni. I delegati sindacali di Fim, Uilm e Fismic sono smarriti. Non sanno più cosa fare. Gli operai sono determinati: oggi non lavoriamo e a deciderlo siamo noi. Tra mille mediazioni gli operai costringono i delegati presenti a firmare un documento in cui si chiede all’azienda l’equiparazione salariale e normativa con gli altri operai Fiat, la fine della doppia battuta (12 notti consecutive), migliori condizioni di lavoro e la fine della repressione che alla Sata di Melfi significa 2500 contestazioni all’anno, licenziamenti a raffica degli operai ribelli e pugno duro con chiunque mette in discussione lo strapotere del padrone. L’atto di forza della direzione aziendale si trasforma per il padrone in un incubo. Gli operai escono dalla sala mensa e chiamano gli altri reparti che stanno ancora lavorando. A quel punto l’intera fabbrica è in sciopero. Si decide di uscire dallo stabilimento. Alcuni propongono il blocco totale degli ingressi. La proposta è accolta con un’ovazione. I precedenti blocchi attuati insieme agli operai di Termini Imerese nel sostegno alla loro lotta che provocò il blocco di tre giorni dello stabilimento di Melfi è un utile bagaglio di esperienza. Memori di quei blocchi gli operai sanno già come organizzarsi. Dispongono i picchetti in tutti i posti di accesso alla fabbrica. Si recano al vicino stabilimento della Barilla e in cambio del lasciapassare dei loro mezzi e del personale chiedono pedane e una scorta di merendine. Il padrone Barilla non esita. La solidarietà tra padroni mostra immediatamente la corda. In pochi minuti arrivano pedane e merendine così come avevano chiesto gli operai. Inizia la rivolta.

Gli operai del secondo turno arrivano e trovano il blocco. Non esitano ad unirsi alla protesta. E così accade per il terzo turno. Nel frattempo iniziano le prime defezioni. La Fim, la Uilm e la Fismic si dissociano dal blocco. Affermano che sono d’accordo nel merito delle proposte ma non nel metodo. La prima elementare protesta degli operai fa subito una prima chiarezza sugli schieramenti in campo. I nemici degli operai sono costretti a gettare la maschera e a dichiararsi apertamente come tali. Si costituisce così una prima forma di coordinamento della lotta. All’interno ci sono tutti i delegati Rsu che non hanno abbandonato la protesta. In primo luogo i delegati di Fiom, slai cobas, Alternativa Sindacale e Failms a cui si aggiunge l’Ugl. L’equilibrio tra le varie componenti è abbastanza teso ma finora tenuto saldo dalla determinazione degli operai di portare avanti la lotta.



Martedì 20: i picchetti non si fermano. Gli operai tengono fede alla loro dichiarazione iniziale: blocco totale dello stabilimento fino all’accettazione da parte della Fiat dei punti rivendicativi. E’ chiaro che un punto centrale è quello del salario. Ad es., il lavoro notturno a Melfi subisce una maggiorazione del 45% a fronte del 60,5% degli altri stabilimenti Fiat. I livelli medi sono inferiori a parità di mansioni con gli altri colleghi della Fiat. L’azienda torinese si è inoltre rifiutata di firmare il contratto integrativo.

I ritmi di lavoro sono incessanti. La Sata di Melfi è stata la prima fabbrica Fiat ad introdurre il Tmc2, ad avere pause ridotte e ad imporre agli operai di seguire un ciclo produttivo forsennato. Con 5.000 operai si producono 1.500 vetture al giorno. Non c’è spazio per nessuna ribellione. Chiunque non segue la maratona produttiva viene punito. Fioccano lettere di contestazioni, giornate di sospensione, licenziamenti per i più ribelli. E in più c’è il problema della ribattuta. Dodici notti consecutive. Una mazzata che gli operai da tempo denunciano. In realtà la Fiat ha mostrato qualche segno su questo fronte. A Pratola Serra, la fabbrica gemella della Sata, l’Fma, ha ottenuto il superamento della ribattuta, in cambio di un maggiore utilizzo degli impianti. Il tutto è stato cioè reso possibile solo perché rientrava nelle esigenze di riorganizzazione produttiva della Fiat. Ma anche a Melfi è da tempo che si discute di un superamento delle 12 notti. Sul salario invece la Fiat non ha mai mostrato alcun segnale di disponibilità ed è su questo che gli operai si giocano la partita.



Mercoledì 21 arrivano le prime provocazioni. La più pesante tra il primo e il secondo turno.

Si presentano due autobus di impiegati e capi. Scortati dalla polizia tentano di forzare il blocco. Gli operai non ci stanno. Si dispongono lungo la strada seduti per terra. Pongono la loro condizione: se i capi vogliono entrare devono scendere e passare a piedi. I capi si rifiutano. Molti di loro sono stati precettati dall’azienda. Alcuni dichiarano di aderire allo sciopero. Il tentativo di forzare i blocchi fallisce. Gli autobus tornano a casa.

Nel pomeriggio la tensione torna alta. Col passare delle ore la polizia aumenta visibilmente. Ad un certo punto in assetto anti-sommossa si dispongono per tentare una carica. Si tenta di identificare gli operai che partecipano ai picchetti. Nessun operaio ha con sé i documenti. Gli operai non cedono neanche a questa provocazione. Si dispongono sui bordi della strada e stupiti assistono ai preparativi di una eventuale carica. Tentano di spiegare che sono lì per difendere il loro diritto ad un salario più elevato e per condizioni di lavoro più umane.

L’aria si stempera e la polizia rinuncia ad avanzare. Almeno per ora.



Giovedì 22. La lotta continua e la Fiat è costretta a fermare le produzioni a Mirafiori, Termini Imerese e alla Sevel di Castel di Sangro. I componenti non arrivano e la produzione non può andare avanti. In totale 7.500 operai in cassa integrazione. La Fiat diffonde una nota in cui lamenta le grandi difficoltà in cui versa l’intero apparato produttivo. La Fim, la Uilm e la Fismic cercano di darle una mano. Organizzano una contromanifestazione nella città di Melfi. Nonostante i grandi proclami l’iniziativa viene disertata da tutti gli operai. Uno sparuto gruppo di capi con famiglie al seguito che non raggiungono le 200 persone. Il sindaco cittadino di Forza Italia solidarizza con i manifestanti. Il vescovo benedice la manifestazione ma questo non serve a nasconde il colossale fallimento.

Nel frattempo il coordinamento delle Rsu in lotta convoca una manifestazione nazionale per Sabato 24 in appoggio alla lotta di Melfi. Fim, Uilm e Fismic non sanno più cosa fare per aiutare il padrone Fiat. Hanno tentato una manovra per ripetere l’esperienza della marcia dei 40.000 a Torino e stroncare la protesta degli operai. Ma la marcia trionfante non si è ripetuta. Qualcuno dai balconi li ha pure fischiati. Gli iscritti ai sindacati padronali prendono le distanze e una parte di loro partecipano ai blocchi. Tra di loro anche qualche delegato più avveduto. Qualcun altro straccia la tessera. La protesta degli operai li ha spiazzati.

Nel pomeriggio una riunione del coordinamento delle Rsu in lotta. I delegati più combattivi continuano a ribadire che la lotta è finalizzata all’ottenimento dei tre punti che sono stati sin dall’inizio indicati dagli operai: parificazione salariale e contrattuale con il resto degli operai Fiat, superamento della ribattuta e un miglioramento delle condizioni di vita in fabbrica. Nessuna mediazione al ribasso e nessun accordo che recepisca solo parzialmente le richieste può bastare per rimuovere i blocchi. Gli operai che si succedono in massa ai picchetti hanno ben presente questo obiettivo. E non sopporterebbero nessun tradimento rispetto a questa piattaforma. La Fiom ne prende atto e va avanti.

Ma i servi non mollano. Nella notte arriva una telefonata: è la confederazione dei trasportatori che annuncia che stanno per arrivare i camion per caricare le merci dopo che si è appreso che i soliti sindacati hanno firmato l’accordo per gli operai dell’indotto. E’ un’altra manovra per dividere e disorientare gli operai. La notizia si rivela ben presto falsa. Ma gli operai avevano già dato la loro risposta: tutto quello che fanno Fim, Uilm e Fismic è un affare del padrone e dei loro lacché. Questi signori possono firmare quello che vogliono: i blocchi restano.

Più passano le ore e più è evidente che si tratta di un braccio di ferro tra gli operai e la Fiat. L’azienda ricorre continuamente a dei colpi bassi. Utilizza sapientemente i sindacati padronali ma anche questa mossa si rivela inefficace: li ha resi talmente asserviti che tutti li identificano immediatamente come controparte. In questo braccio di ferro perde chi si arrende prima. La Fiat lo sa bene. E lo sanno bene anche gli operai che ribattono colpo su colpo.



Venerdì 23. Gli operai continuano ad organizzarsi. Si allestisce una mensa. Servono viveri, legna e soldi per continuare la protesta. Si tengono i contatti con le altre fabbriche per apprendere notizie e organizzare la manifestazione del sabato.

Dopo i dati allarmanti diffusi dalla Fiat la stampa che ha ignorato del tutto la protesta (tranne Il Manifesto che l’ha seguita con un certo rilievo) inizia a parlarne. Gli operai mettono in ginocchio il più grande gruppo industriale del paese e nessuno se ne accorge. Il padrone lancia il grido d’allarme e la stampa inizia ad interessarsi al caso.

I grandi capi della sinistra disertano i cancelli. La protesta operaia di Melfi è un affare che preoccupa tutti. Nessun partito politico si attiva per sostenere la lotta. Solo qualche politico locale e qualche deputato cercano di inviare qualche timida richiesta al governo affinché organizzi un tavolo di trattativa. Ma a questo ci pensa la Fiat. I sindacati vengono convocati a Roma. Fim, Uilm e Fismic mentre si apprende la notizia della convocazione sono già seduti a discutere con i capi della Fiat. Più tardi si apprenderà che la convocazione è rivolta alla Fiom. Più passano i giorni e più “Cisl, Uil e Fismic” si identificano con il padrone. La Fiom partecipa all’incontro. La Fiat pone subito una pregiudiziale: per discutere con la Fiom bisogna sciogliere i blocchi. La Fiom rifiuta e viene estromessa dal tavolo della trattativa. Dopo poche ore arriva la notizia: i soliti noti hanno firmato l’accordo con la Fiat. E’ un’intesa che si copre di ridicolo. L’accordo è un calendario di incontri in ci si stabilisce che il 4 Maggio i sindacati incontreranno la Fiat per discutere del caso Melfi. All’ordine del giorno del futuro incontro la questione della ribattuta e del salario. E’ una farsa che copre di vergogna chi l’ha firmata e offende gli operai, innanzitutto gli iscritti ai sindacati firmatari. Ma la notizia passa senza che nessuno gli dia importanza.

Sabato 24. Arrivano 10.000 operai. Gli operai dell’intera area industriale della Sata sono tutti lì. Nessuno assente. Dopo 6 giorni di sciopero ancora più arrabbiati e decisi. Nel frattempo si apprende che altri stabilimenti potrebbero fermarsi da Lunedì in poi. Termoli innanzitutto che produce i motori e poi l’Alfa di Pomigliano che è presente con una nutrita delegazione operaia alla manifestazione. Arrivano delegazioni anche da Mirafiori, Arese, Termini Imerese, Alenia e altri stabilimenti dell’intero territorio nazionale. Alla manifestazione non partecipano le altre classi. Solo un piccolo gruppo di giovani ed uno sparuto manipolo di politicanti, incluso qualche sindaco del circondario, con tanto di fascia tricolore. Il contrasto con le recenti manifestazioni popolari contro il deposito di scorie radioattive a Scanzano è evidente. Ancora una volta gli operai apprendono che devono fare da soli. Il corteo attraversa il lungo violone che costeggia la fabbrica, i cui cancelli sono presidiati in forza da ingenti forze dell’ordine.

Fim. Uilm e Fismic fanno recapitare un volantino in cui si legge che i blocchi non servono alla causa degli operai ma c’è bisogno di dialogo. Gli operai rispondono: solo i servi non servono.

Nel frattempo la notizia acquista una certa valenza. I tg iniziano ad occuparsene. Il governo fa sapere tramite Maroni che non interverrà in alcun modo nella trattativa: è un affare della Fiat e dei sindacati. Il sottosegretario al lavoro Sacconi si sbilancia e dichiara che la Fiom deve essere spazzata via per ricostruire un clima di relazioni sindacali moderne. Nel governo si fa strada l’ipotesi di assestare un colpo agli operai. La Fiom decreta 4 ore di sciopero nell’intero gruppo Fiat per martedì prossimo. Il segretario generale della Cgil Epifani invita a riflettere: i blocchi potrebbero essere una strada sbagliata. Ma gli operai dimostrano di conoscere bene la loro strada. E da quella strada, quella che conduce alla fabbrica, non si passa.

Domenica 25. La giornata trascorre tranquilla, anche se è forte il timore di un’azione di forza della polizia. In serata centinaia di operai e capi vengono contattati telefonicamente dall’azienda che li invita a riprendere il lavoro lunedì mattina, perché i blocchi saranno tolti. La notizia fa immediatamente il giro fra gli operai. I picchetti diventano subito più numerosi. Molti operai decidono di venire con i pullman per convincere qualche eventuale crumiro a non tentare di passare. La notte trascorre aspettando l’ennesimo braccio di forza.

Lunedì 26. Il blocco del lunedì inizia con una visita. Alle 6,00 del mattino si presentano due autobus con a bordo 30 capi e capetti della Fiat. La polizia è intenzionata a farli entrare. Anche i manifestanti, che pongono una condizione: i capi possono scendere e recarsi a piedi allo stabilimento. La proposta non viene accettata. I capi si rifiutano di scendere. Gli operai si dispongono seduti davanti ai blocchi: Resistenza passiva. La polizia si dispone in assetto antisommossa e inizia a sollevare gli operai per allontanarli dal blocco. Sono presenti anche i dirigenti sindacali della Fiom tra cui Gianni Rinaldini, segretario nazionale della Fiom.

Gli operai ora sono in piedi ai bordi della strada. Si ridispongono davanti ai blocchi con le mani alzate. La polizia cerca di fare pressione. La tensione è molto alta. Partono le prime cariche. Si cerca di disperdere i manifestanti. Le manganellate aumentano. Le cariche si ripetono. Gli operai cercano di ricomporsi. Questo si ripete per 4 ore. Alle 10,00 passano gli autobus. Il bilancio di questa prima mattinata registra undici operai feriti. Il segretario Gianni Rinaldini dichiara alla stampa : "La polizia ha fatto un atto di servilismo nei confronti della Fiat ed è stata filo-diretta dall' azienda. Così qui è successo un fatto vergognoso, picchiando lavoratori che protestavano pacificamente le loro ragioni".

In queste prime ore la Fiom a caldo revoca lo sciopero di 4 ore proclamato per il giorno successivo nel Gruppo Fiat e indice uno sciopero generale del settore metalmeccanico per Mercoledì. In Basilicata sciopero generale di 8 ore sempre per Mercoledì.

Nel frattempo gli operai dell’intero gruppo Fiat si trovano i cancelli chiusi. Anche in altri stabilimenti dove la produzione non risente della mancanza di componenti, come all’Fma di Pratola Serra, la produzione è ferma. La Fiat teme reazioni e manda gli operai a casa. Ma la notizia degli scontri a Melfi si diffonde in poche ore. Dall’Alfa di Pomigliano delegazioni di operai si organizzano e si recano a Melfi per sostenere la lotta. Lo Slai di Pomigliano arriva con furgoni, altoparlanti e una folta delegazione. Anche un gruppo di operai e delegati della Fiom dell’Alfa di Pomigliano si presenta ai blocchi. Così succede per altri stabilimenti vicini. Anche gli operai di Melfi non presenti ai blocchi si precipitano davanti ai cancelli. In poche ore cresce visibilmente la massa degli operai ai presidi. La tensione non si allenta. Nel varco della Fenice, dove esiste un altro importante presidio, continuano le cariche.

Alle 16,30 si presenta un delegato sindacale della Uilm. Gli operai sono sbigottiti. L’”eroico” delegato viene assalito ma gli operai si guardano bene dall’avvicinarsi anche solo fisicamente. Forse per schifo o forse perché temono che si tratti di una provocazione e non vogliono cadere nella trappola. Dopo pochi minuti, tra fischi e pernacchi, il delegato esce di scena, al grido di “venduto, venduto”.

Alle 17,40 arriva il presidente della Regione Basilicata Bubbico (DS). Viene accolto tra gli applausi. Rilascia le prime dichiarazioni alla stampa augurandosi una ripresa della trattativa e la ricomposizione dell’unità sindacale. Parole che non suonano male alle orecchie degli operai. Nel frattempo arriva la notizia di cariche al varco della Fenice. Gli operai chiedono al Presidente di recarsi dall’altra parte per fermare la polizia. Bubbico continua a parlare. In poco tempo viene sommerso da fischi. E’ costretto a lasciare i cancelli di Melfi tra gli insulti. Si reca in un luogo sicuro: la vicina caserma dei carabinieri.

Nel frattempo continuano a giungere le notizie delle dichiarazioni politiche. L’opposizione condanna le carica della polizia. "Quanto avvenuto oggi a Melfi è una cosa molto grave", dice il leader di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, che si è recato in mattinata nell’area occupata. "Ciò che è successo - aggiunge Bertinotti - era stato provocatoriamente annunciato dal sottosegretario al Lavoro Maurizio Sacconi, che in questi giorni si è distinto per la sua attività antisindacale". Sacconi risponde: "La rimozione del blocco illegale in atto da ben sette giorni è a questo punto non solo giusta ma necessaria per salvare il gruppo Fiat dal collasso produttivo e quindi finanziario". E ancora: "Insisto a ritenere che la modernità del paese passa per la sconfitta politica di questo tipo di sindacato". Tutto il governo si schiera a favore delle cariche. Fioccano proclami di solidarietà alle forze dell’ordine.

Dello sparuto gruppo di capetti fatto entrare con la forza in fabbrica non si ha più notizia. Nessuno li ha visti uscire. In serata, gli autobus con i quali erano entrati ripartono vuoti dallo stabilimento, scortati da mezzi della polizia, fra cui un cellulare. C’è chi dice che al suo interno, ben nascosti, siano stati trasportati i capetti Fiat.

In queste ore arriva un’altra notizia: le cariche della polizia sugli operai hanno spinto il titolo della Fiat in su alla Borsa di Milano. Agli operai sembra di assistere ad un film. Ogni minuto che passa le immagini si schiariscono. La trama del film diventa sempre più chiara. E gli attori sempre più riconoscibili. Ma i protagonisti principali vanno avanti. Al cambio turno si temono nuovi scontri. Gli operai si danno il cambio. Quelli del blocco mattutino vanno a casa. Alcuni acciaccati e stanchi. Quelli del turno serale prendono il loro posto. Ma questa volta più numerosi. In poche ore la presenza davanti ai presidi cresce: più di 2.000 operai presidiano i cancelli. La Fiat ha perso. L’intimidazione ha accresciuto la lotta. Centinaia di comunicati di solidarietà arrivano da tutte le fabbriche in Italia. Carovane di autobus arrivano vuoti lungo il vialone che porta alla fabbrica. Nessun operaio si è recato al lavoro. Lo polizia si allontana. E durante la notte cala una mezzaluna nitida e splendente ad illuminare l’ottava notte degli operai di Melfi.














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5.CRONACA FIAT CASSINO

Fiat di Cassino



Oggi 26 aprile abbiamo siamo intervenuti alla Fiat di Cassino. , l’intervento , diffusione del giornale e del comunicato sulla campagna di tesseramento alla ASLO, era stato programmato da tempo e ha coinciso con il rientro degli operai da due settimane di Cigs.La riapertura dello stabilimento ha coinciso con i fatti di Melfi, così intorno alle 13,30 la direzione faceva attaccare fuori dai cancelli , la comunicazione della sospensione del secondo turno di lavoro dalle 14 alle 22 per i reparti di lastratura, verniciatura, montaggio, a causa del blocco delle merci effettuato dagli operai di Melfi. Molti degli operai in attesa dell’apertura dei cancelli erano in ascolto dei notiziari che davano le ultime notizie sulle cariche della polizia per rimuovere i picchetti degli operai di Melfi , così abbiamo approfittato per commentare con loro questi fatti. Il fatto che Cassino era chiusa nelle ultime settimane non ha permesso agli operai di discutere della situazione di Melfi , molti di loro oltre a dichiarare la loro solidarietà agli operai di Melfi lamentavano l’assenza oggi davanti ai cancelli dei sindacalisti, che dessero maggiori informazioni e magari indicazioni precise su come muoversi nei prossimi giorni. Gli unici presenti il SinCobas, che hanno attaccato alcuni manifesti ai cancelli di denuncia delle cariche della polizia, ed estremamente limitati nel commento politico dei fatti , unica indicazione di lotta in sostegno, l’adesione alla quattro ore di sciopero indette per mercoledì.

I compagni della sezione Lazio



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6.OPERAI PRATOLA SERRA

Gli operai di melfi devono vincere

serve il nostro aiuto



Sette giorni di blocco totale alla SATA di Melfi ed indotto fanno chiudere quasi tutti gli stabilimenti del gruppo. Questo dimostra che la FIAT non è invincibile.



Cosa vogliono gli operai di Melfi?

Parificazione con gli altri operai FIAT. Tutti operai FIAT, a tutti le stesse condizioni! Stesso lavoro stesso salario!

Migliori condizioni di lavoro. Basta con i ritmi infernali e con la repressione!



Questi sono anche gli obiettivi degli operai dell’FMA!



La FIAT è in ginocchio. Se blocchiamo anche l’FMA sarà costretta a cedere alle nostre richieste.

Operai dell’FMA, la strada dello sciopero ad oltranza percorsa con determinazione oggi a Melfi, l’avete indicata voi, nelle lotte del gennaio 2001. Vi siete solo fermati troppo presto, a causa delle colpevoli “indecisioni” dei dirigenti sindacali, spaventati della vostra stessa forza.

E’ ora di riprendere la lotta.

La vittoria a Melfi sarà una vittoria per tutti gli operai supersfruttati della FIAT. Un’eventuale sconfitta a Melfi sarebbe una sconfitta pesante per tutti noi. Se riuscisse a piegare gli operai di Melfi, la FIAT si sentirebbe così forte da peggiorare ulteriormente le condizioni di lavoro di tutti gli operai.

Non siamo mai stati tanto vicini alla vittoria. Vincerà chi durerà un giorno in più dell’avversario.



Sosteniamo i compagni di Melfi.

Estendiamo la lotta anche a Pratola Serra.

Associazione per la Liberazione degli Operai
fip 25/04/04 Per contatti scrivere: Via Falck, 44 20099 Sesto San Giovanni (MI)

http://www.asloperaicontro.org http://www.operaicontro.org e-





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7.ALITALIA

28 aprile 2004
Vertenza Alitalia:Alle ore 12 scatta la mobilitazione.

Tra l'incudine e il martello.
La vertenza sta inasprendosi giorno dopo gioro e non
poteva ch essere così, in quanto è chiaro che il
cosidetto risanamento dell'alitalia lo dovrebbero fare
i soli noti: gli operai e gli altri lavoratori.
L'azienda vuole 1100 esuberi e sui 2000 lavoratori
acccompagnati fuori dall'azienda in outsourcing, cioè
venduti ad altre ditte che rientrano nel giro dei
servizi aeroportuali. I sindacati , dopo le assemblee
con i lavoratori hanno detto no, fino ad adesso
all'outsourcing. Tutto a posto all'ora ? No, perchè è
'più possibilista' su fatto che se per i 1100 esuberi
arrivassero i decreti sui cosidetti requisiti di
sistema cioè la cassa integrazione e i
prepensionamenti, si potrebbe discutere nel merito.
Dimenticandosi che la cass integrazione, viene
adoperata nei settori industriali per licenziare prima
o poi gli operai e questa è storia di tutti i giorni
per gli operai che ci capitano .
Allora? La crisi dell'Alitalia in particolare e la
crisi produtttiva in generale, non è derivata dagli
operai ma è la crisi dei padroni. Gli operai non
devono essere nè licenziati, nè messi in outsourcing,
nè tantomeno buttati in casas integrazione: che la
crisi la paghino i padroni e i loro governi.

Roma, 28 aprile 2004

operai contro-aslo roma







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8.GLI IRAKENI DI FALLUJA NON SONO ESSERI UMANI

Le truppe di occupazione dei padroni USA dal 5 Aprile assediano per rappresaglia Falluja. Bombardieri, carri armati, elicotteri mettono a ferro e fuoco la città senza riuscire a conquistarla. Come in tutte le rappresaglie l'obiettivo è uccidere la popolazione civile. Oltre mille morti: donne, vecchi e bambini. Nessun borghese versa una lacrima. Nessun giornalista denuncia il massacro, nessuna intervista sulla rappresaglia ai saltimbanchi degli spettacoli televisivi, nessun papa chiede di fermare il massacro in nome dell'unico Dio, nessun politico di destra sinistra chiama alla mobilitazione. I morti di Falluja sono delle bestie. Ma nemmeno gli animalisti intervengono per chiedere di fermare il massacro. Giornalisti, politici di destra e di sinistra, preti e papi ci bombardano con la richiesta di liberare i tre italiani prigionieri dei partigiani irakeni. Eppure facevano parte dell'esercito mercenario costituito dagli USA in Iraq. Sono stati catturati con le armi in pugno durante l'assedio a Falluja. Erano in Iraq per lavorare a mille dollari al giorno. Niente i tre italiani sono dei bravi ragazzi. Si intervistano i parenti, gli amici, i conoscenti, i mussulmani presenti in Italia. Si crea la commozione intorno alla loro sorte. I difensori di Falluja che li hanno catturati sono dei terroristi ricattatori. Il mondo civile non deve cedere al ricatto del terrorismo. Vengono in mente le immagini dei partigiani impiccati o fucilati dai nazisti. I loro cadaveri erano lasciati marcire con al collo il cartello: attenzione banditi. In Irak le truppe di occupazione ammazzano, torturano, affamano la popolazione, fanno di più e peggio dell'esercito nazista eppure i banditi, i terroristi sono i partigiani irakeni. Ma nonostante la ferocia criminale delle truppe USA, nonostante il silenzio del civile mondo occidentale i difensori di Falluja non hanno ceduto.



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9.CAMPO ANTIMPERIALISTA

http://www.antiimperialista.org

Comunicato del Campo Antimperialista - 27 aprile 2004

itacampo@antiimperialista.org





IL VERO RICATTO E’ QUELLO DEL GOVERNO BERLUSCONI!
IL VERO TERRORISMO E’ QUELLO IMPERIALISTA!
Tutti in piazza per la pace e la solidarietà col popolo iracheno!




Con l’ultimo comunicato i guerriglieri iracheni che tengono prigionieri gli italiani Salvatore Stefio, Umberto Cupertino e Maurizio Agliana:

- prendendo atto che il governo Berlusconi è a tal punto asservito a Bush da essere privo di ogni autorevolezza e autonomia decisionale;

- denunciando che esso “non ha preso alcuna iniziativa per cercare di liberare gli ostaggi”;

si rivolgono direttamente al popolo italiano affinché, in aperto dissenso col proprio governo, esprima un gesto tangibile di solidarietà con la lotta di liberazione del popolo iracheno “e quella di tutti gli uomini liberi del mondo” per il ritiro immediato delle truppe d’occupazione italiane.

Questa lucida posizione politica è stata irresponsabilmente bollata dallo sgangherato schieramento bipolare: “inaccettabile ricatto” e “indegna provocazione di un manipolo di volgari terroristi”.

Questi politicanti, che un giorno si e uno no si fregiano di essere antifascisti, dimenticano che anche la Resistenza italiana è dovuta ricorrere alla cattura dei nemici per scambiarli coi partigiani prigionieri.

L’atteggiamento di questo redivivo e ipocrita “fronte della fermezza” è di una inaudita gravità politica e morale:

- disprezza palesemente la volontà del popolo italiano che a più riprese ha manifestato la sua volontà di pace;
- suona come una cinica condanna a morte dei prigionieri;
- calpesta brutalmente i sentimenti dei familiari dei sequestrati.

L’unico ricatto che abbiamo di fronte è in realtà proprio quello di questo nostrano “fronte della fermezza”, la cui sfrontata sordità verso la legittima lotta del popolo iracheno (che sembra mutuata dai proclami isterici dell’imperatore in pectore G.W. Bush) è una pistola puntata sulla tempia del movimento per la pace, che non da oggi si oppone alla guerra imperialista.

E’ urgente respingere il terrorismo psicologico del regime bipolare asservito ai dettami nordamericani e manifestare subito per chiedere il ritiro dei soldati italiani e porre fine alla sanguinaria occupazione dell’Iraq.

Visto il servilismo di questo Esecutivo imbelle è un bene che la parola passi ora ai cittadini italiani. Di fronte alla scelta tra la pace e la guerra, tra la vita degli italiani catturati e quella del governo Berlusconi essi non esiteranno a fare la cosa giusta: “che muoia Berlusconi e tutti i filistei” con l’elmetto!

Se la pace è meglio della guerra, la causa del popolo iracheno è mille volte più preziosa della sorte di questo governo che si tiene a galla grazie ad uno Stato di polizia le cui armi principali sono la repressione sistematica e illegale del dissenso, l’imbavagliamento e la censura dei mezzi di informazione.

Per quanto ci riguarda non abbiamo dubbi di sorta: saremo in tutte le manifestazioni contro la guerra, a partire da quella che si svolgerà a Roma giovedì 29 aprile promossa dai familiari dei prigionieri, i cui scopi umanitari possono e debbono sposarsi non solo con l’anelito alla pace ma con la solidarietà alla Resistenza irachena che si batte per affermare i sacrosanti diritti del martoriato popolo dell’Iraq.

Fuori le truppe imperialiste dall’Iraq!
Solidarietà con la Resistenza Irachena!
Autodeterminazione e libertà per tutti i popoli oppressi!

Campo Antimperialista - 27 aprile 2004





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10.IL PARTITO DELLA FERMEZZA

PARTITO DELLA FERMEZZA, PESCI IN BARILE E PARACULI


Dopo le scontate dichiarazioni del triciclo, il primo a pronunciarsi è stato Bertinotti, opportunamente invitato da Vespa. Con i terroristi non si tratta. Egli è arrivato a consigliare (come fece Ulisse con gli amici) al governo di tapparsi le orecchie per non ascoltare le sirene dei terroristi. Dunque nessuna manifestazione entro il 30 aprile.

Il secondo è stato Bernocchi. Ritenendo la richiesta del gruppo iracheno paradossale e inquietante, anche per lui la manifestazione entro il 30 aprile non va fatta, perché (accipicchia!) noi le manifestazioni le abbiamo sempre fatte e non ce le facciamo dettare da nessuno: quindi si va al primo maggio.

Chiunque abbia un briciolo di intelligenza politica capisce i motivi opportunistici che hanno portato Bertinotti e Bernocchi a bloccare qualsiasi mobilitazione “specifica”. Bertinotti aspetta che l’Europa, vestita Onu, rientri nel gioco iracheno e quindi non può, in quanto terminale di sinistra di Prodi, consentire precipitazioni non controllabili. Il povero Bernocchi vive delle elemosine del “social forum” e quindi non può permettersi strappi.

Stupefacenti invece sono i vari pesci in barile e paraculi che vivacchiano all’ombra di Bertinotti e di Bernocchi. Pur sapendo cosa significano le prese di posizioni dei due dirigenti, non solo non hanno mosso loro una critica, ma si sono scatenati a trovare ogni sorta di motivazione ultrasinistra per aderire al partito della fermezza. Ne scegliamo alcune: si va tutti a Melfi; gli iracheni hanno moderato le loro richieste perché non hanno chiesto il ritiro delle truppe; ci sono giochi di potere tra le varie fazioni della resistenza; la manifestazione è ormai stata indetta a Roma dai familiari degli ostaggi e ha un carattere solo umanitario; è giusto che ammazzino gli ostaggi perché sono mercenari.



Avevamo da tempo intuito che una buona maggioranza della sinistra antagonista si è arrotolata su una linea di disimpegno e di adesione di fatto alle linee della sinistra istituzionale, dietro il paravento di una retorica reducista impudente quanto patetica. Sotto questo profilo, la linea è una sola, sebbene essa sia frantumata in un centinaio di rivoli che corrono divisi unicamente per grette ragioni identitarie o di mediocre leaderismo strapaesano. Torneremo in altra sede su questo argomento. Ora, ci preme sulla vicenda irachena mettere in chiaro alcune cose, perché anche sulla cronaca si sta cercando di cambiare le carte in tavola.



Il governo Berlusconi per circa venti giorni ha riempito giornali e tv con le immagini dei poveri ostaggi sperando di poterli liberare e così rafforzare la sua campagna elettorale. Improvvisamente, dal gruppo che tiene prigionieri i mercenari italiani arriva un messaggio, il cui scopo principale è quello di discreditare il governo italiano. Apertis verbis, si dice: noi non abbiamo trattato e non trattiamo con questo governo che occupa militarmente l’Iraq a scopo di rapina e quindi voi italiani non fate affidamento su di esso. Il messaggio viene echeggiato da tutti i resistenti iracheni, anche da parte di quelli che lottano a viso aperto alla testa di milioni di persone: insomma è a tutta evidenza un messaggio della “resistenza irachena” e non di un gruppo di terroristi.

A quest’ultimo proposito bisogna fare una precisazione, poiché si insiste con il definire terrorista chi userebbe gli ostaggi in modo ricattatorio. La facciamo in base alla Convenzione di Ginevra, che certamente impone il rispetto dei prigionieri di guerra. La resistenza irachena però ha ancora una volta precisato nel suo messaggio (e ciò non può essere smentito) che i tre italiani prigionieri non sono soldati regolari, bensì individui mercenari che avevano approfittato del loro apparente ruolo di civili per compiere proditoriamente operazioni di spionaggio e di killeraggio. Tuttavia, i resistenti, mostrando magnanimità, si rendono disposti a liberare i tre mercenari, ma non perché lo chiede o lo impone l’esercito occupante o il suo governo. La condizione per la loro liberazione è una manifestazione entro cinque giorni contro il governo Berlusconi e solidale con la resistenza irachena. Semplicissimo! Berlusconi l’ha capito, Bernocchi –ritenendosi improvvisamente e inopinatamente l’avanguardia del movimento antimperialista mondiale- la interpretata invece come un affronto. Voi “piccoli resistenti iracheni” volete insegnare a noi come si fa!?

Evidentemente, siamo al delirio tremens dell’onni-impotenza. Lo spiega molto bene Fabozzi nel suo articolo sul Manifesto, ma lo spiega benissimo persino la Morgantini. Sarebbe puerile pensare che gli autori dell’appello non sapessero che in Italia non ci siano state reiterate e grandiosi manifestazioni per il ritiro delle truppe (Bernocchi diceva appena qualche mese fa che queste manifestazioni erano state rese possibili proprio dalla tenace ed eroica resistenza armata irachena). Altrettanto puerile quindi sarebbe stato da parte degli iracheni cercare di ricattare il movimento contro la guerra. Si tratta invece di un tentativo che, mentre delegittima il governo Berlusconi, stabilisce un ponte diretto con due soggetti. Ai familiari (e a tutti quelli che hanno la stessa ideologia dei familiari) dice: noi vi restituiamo i tre prigionieri se voi scendete in piazza contro il vostro governo e solidarizzate con la nostra causa. Al movimento contro la guerra dice: apriamo un dialogo.

Il governo Berlusconi, temendo la frana che poteva assumere le dimensioni di quella spagnola, ha fatto appello a tutte le forze di opposizioni a non strumentalizzare il messaggio. Un eventuale manifestazione di piazza questa volta avrebbe aggiunto ai “pacifisti” anche settori di gente che ancora legittimano l’aggressione neocoloniale. E Bertinotti, con raddoppiata durezza pacifista (salvo a chiedere in Iraq la presenza delle truppe francesi) contro i terroristi, è andato subito in soccorso. Che si tratti di soccorso è dimostrato dalla sua dichiarazione dopo che si è saputo della manifestazione del 29 aprile: si può andare a questa manifestazione –egli ha detto- a patto che resti umanitaria. Come a dire: non mi turba che la gente scenda in piazza e sarebbe anche meglio scendere solo per sostenere la liberazione degli ostaggi; mi turba che si scenda in piazza contro il governo per il ritiro delle truppe. Spieghiamo meglio ai pesci in barile: se Bertinotti avesse sul serio voluto respingere i ricatto dei terroristi, avrebbe dovuto sostenere l’assoluta non partecipazione alla manifestazione del 29 aprile, giacchè questa –a tutta evidenza- è stata indetta su appello non dei genitori ma del cosiddetti terroristi. Egli invece, quando ha capito che c’è la possibilità di stemperare la manifestazione in termini umanitari, si è subito affrettato a dire: andiamo a stemperare. In sintesi, il problema non è quello di fare o meno una manifestazione su invito dei “terroristi”, ma quello di evitare che una manifestazione politica faccia precipitare gli equilibri per una soluzione timbrata Onu.

Questo è il partito della fermezza e al riguardo solo un imbecille può menare dubbi. Contro di esso, la sinistra antagonista avrebbe dovuto scendere in piazza. Ma ha opposto i soliti pretesti estremistici. Che si tratti di pretesti questa volta è dimostrato, senza possibilità di smentite, da un’omissione clamorosa: nessun sinistro ha criticato il partito della fermezza!!! E tutto questo si svolge mentre su Falluja e Najaf si sta scatenando l’inferno.

RED LINK



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11.TORTURE IN IRAK

L’AMERICA E I PRIGIONIERI
Torture, l’onore da riconquistare



Le armi di sterminio di massa di Saddam restano un mistero e la legittimità morale dell’intervento anglo-americano in Iraq si basa dunque sulla ferocia del regime Baath, le fosse comuni dei dissidenti, le torture nel famigerato carcere di Abu Ghraib, alla periferia di Bagdad. È con stupore e amarezza, «siamo lividi» dice il portavoce del Pentagono, che l’opinione pubblica americana prende atto delle rivelazioni nella rete tv Cbs sui maltrattamenti, gli abusi e le umiliazioni inflitte da soldati Usa a detenuti iracheni proprio ad Abu Ghraib, popolato oggi da 8 mila prigionieri. Le immagini di un uomo incappucciato, legato a cavi elettrici, issato su una scatola e minacciato «se cadi resti fulminato» non sapendo che i cavi erano staccati dalla rete, di prigionieri nudi scherniti da una donna soldato che finge di sparare con pollice e indice puntati, con una piramide umana di uomini nudi, costretti a stare in posa, uno con insulti graffiti sulla pelle, il corpo di un poveretto picchiato a sangue, un detenuto con cavi legati ai genitali, finti coiti tra detenuti nudi, i cani aizzati contro, hanno impressionato più della ritirata dei marines da Falluja, che costituisce una indiretta vittoria per i ribelli, che usando della tv come mediazione politica hanno costretto all’impasse la maggiore armata della storia. Oggi ricorre il primo anniversario dell’annuncio dato dal presidente George W. Bush dalla tolda della portaerei con lo striscione prematuro «Missione compiuta» e peggiore coincidenza non potrebbe immaginarsi. Il decano del Senato, Robert Byrd si leva a parlare: «Fallimento».
Da Bagdad è il portavoce della coalizione, il generale Mark Kimmitt a riconoscere amareggiato: «Ci sono giorni in cui non si può essere fieri dei nostri soldati, pochi individui hanno messo a rischio il lavoro positivo di 150 mila soldati. Se non rispettiamo noi la dignità dei prigionieri come aspettarsi che lo facciano gli altri?». A far partire l’inchiesta la denuncia di un soldato americano, disgustato dalla condotta dei suoi compagni. Entrato in possesso delle foto che testimoniano gli abusi, il militare le ha consegnate ai suoi superiori, che hanno aperto il caso. Quando la Cbs ha avuto gli originali, il capo di stato maggiore generale Richard Myers ha chiesto tempo, temendo vendette contro le truppe di stanza in Iraq, ma presto la notizia si è diffusa e la rete ha lanciato lo scoop.
I provvedimenti militari sono scattati con la severità che lo smacco di immagine impone: la generale Janis Karpinski, comandante di Abu Ghraib e della 800ª Brigata di polizia è stata sospesa già da gennaio con sette suoi ufficiali e sei soldati, responsabili diretti degli abusi, affronteranno la corte marziale.
Sono imputati di «atti crudeli, inumani, indecenti, percosse, violazione della disciplina militare, profanazione di cadavere e associazione a delinquere». Il «livore» del Pentagono è moltiplicato dall’assurdità della vicenda, non si tratta di sistematiche torture ma di umiliazioni sadiche inflitte a prigionieri inermi, non a caccia di informazioni che possano portare ad evitare un grave attentato, ma quasi per gioco, da militari ridotti al rango di teppisti ubriachi. L’ex colonnello dei marines Bill Cowan e l’ex dirigente Cia Bob Baer sintetizzano la reazione di tanti militari e agenti di intelligence: «Ho visitato Abu Ghraib subito dopo la liberazione - dice Baer - era la cosa peggiore che avessi mai visto. Mi son detto che se ci vuole una ragione per cacciare Saddam Hussein questo carcere ne fornisce a sufficienza. C’erano cadaveri azzannati dai cani, torture, cavi elettrici ai muri, era un luogo di morte». E il tenente colonnello Cowan: «Siamo andati in Iraq per impedire questi abusi e dà tristezza che si ripetano sotto il nostro mandato». La reazione della stampa araba è furiosa. La popolare rete tv Al Jazira ha mostrato a lungo le immagini, schermando il pube dei prigionieri. La foto della donna soldato che fa la pistolera con le dita davanti ai maschi nemici nudi è stata a ripetizione mandata in onda e il suo impatto psicologico sull’inconscio collettivo arabo costerà caro al Pentagono. Amnesty International, da Londra, parla di «situazione grave», l’attivista televisiva per i diritti civili yemenita Mustafa Rageh sostiene: «Di abusi del genere l’Iraq è pieno, Abu Ghraib è solo un esempio».
I soldati accusati si difendono citando il caos e la mancanza di ordini superiori, la Cia che esigeva confessioni rapide, l’anarchia del dopoguerra. L’avvocato Gary Myers, che difende uno degli imputati, il sergente Ivan Frederick (un riservista, secondino nella vita civile) parla dell’«inebriante liquore che intossica il potere assoluto» e ammette che i detenuti venivano abbandonati fino a 72 ore di seguito in celle senza finestre né bugliolo di un metro per un metro, ma sostiene che quando Frederick informò dell’abuso i superiori, la risposta fu «chi se ne frega se dormono in piedi, tu obbedisci agli ordini». «Sono stati gli ufficiali ad insegnare al mio cliente come umiliare gli arabi», dice Myers.
La donna che abusa dei nemici nudi e ora è detenuta in un carcere militare si chiama Lynndie England, ha 21 anni. Sua mamma Terrie prova a difenderla: «Una goliardata, e allora quel che gli iracheni fanno ai nostri? Solo noi dobbiamo osservare la convenzione di Ginevra?». La flebile difesa di una madre non scherma gli alleati dallo scandalo. Il premier inglese Tony Blair «condanna la vicenda» parlando però di «caso isolato», il premier australiano John Howard si dice «sconvolto» e loda l’inchiesta in corso.
L’avvocato Myers accusa anche i tecnici di due aziende private, la Caci e la Titan Corporation, che avrebbero collaborato alla gestione della galera. Si parla di un licenziato e di un interprete incriminato per stupro. I siti internet http://www.caci.com e http://www.titan.com conducono ad aziende specializzate in sicurezza, la Caci promette «alti valori etici sul lavoro», la Titan «un’esperienza professionale condotta nella guerra al terrorismo».
L’iracheno incappucciato come un razzista del Ku Klux Klan è legato ai cavi disconnessi, la soldatessa che scambia una galera per la discoteca di infimo rango creano un disagio morale che supera, nello squallore, tutte le polemiche per i detenuti di Guantanamo e fornisce materiale crudo all’arsenale della propaganda antiamericana. I teppisti in divisa di Abu Ghraib espongono i loro colleghi, tutti i militari della coalizione multinazionale e, soprattutto, gli ostaggi in mano ai terroristi al pericolo di ritorsioni, vendette e torture. Che lo scandalo sia emerso, reso noto al mondo e che i colpevoli verranno processati e puniti dimostra quanto ipocrita sia parlare di «macchina del consenso fascista» o di «giunta militare» a proposito dell’opinione pubblica Usa. Ma con l’impasse diplomatica affidata all’Onu, e le operazioni militari in scacco a Falluja, la partita per ottenere consenso e legittimità morale a Bagdad vive il giorno peggiore. È un superiore e valido standard etico contro Saddam la motivazione più convincente per la guerra, ma nel caos di Bagdad si rischia di perderlo.
Un processo esemplare ai «bravi» di Abu Ghraib non è solo positivo, ma indispensabile a questo punto.
Quanto al perché della condotta dei secondini è la «banalità del male», che lascia gli individui senza controllo ad esprimere sempre il peggio di se stessi.
Gianni Riotta



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12.L'ONORE DEGLI USA

L’America chiede giustizia per riconquistare l’onore



Le immagini di un uomo incappucciato, legato a cavi elettrici, issato su una scatola e minacciato «se cadi resti fulminato» non sapendo che i cavi erano staccati dalla rete, di prigionieri nudi scherniti da una donna soldato che finge di sparare con pollice e indice puntati, con una piramide umana di uomini nudi, costretti a stare in posa, uno con insulti graffiti sulla pelle, il corpo di un poveretto picchiato a sangue, un detenuto con cavi legati ai genitali, finti coiti tra detenuti nudi, i cani aizzati contro, hanno impressionato più della ritirata dei marines da Falluja, che costituisce una indiretta vittoria per i ribelli, che usando della tv come mediazione politica hanno costretto all’impasse la maggiore armata della storia. Oggi ricorre il primo anniversario dell’annuncio dato dal presidente George W. Bush dalla tolda della portaerei con lo striscione prematuro «Missione compiuta» e peggiore coincidenza non potrebbe immaginarsi. Il decano del Senato, Robert Byrd si leva a parlare: «Fallimento». Da Bagdad è il portavoce della coalizione, il generale Mark Kimmitt a riconoscere amareggiato: «Ci sono giorni in cui non si può essere fieri dei nostri soldati, pochi individui hanno messo a rischio il lavoro positivo di 150 mila soldati. Se non rispettiamo noi la dignità dei prigionieri come aspettarsi che lo facciano gli altri?». A far partire l’inchiesta la denuncia di un soldato americano, disgustato dalla condotta dei suoi compagni. Entrato in possesso delle foto che testimoniano gli abusi, il militare le ha consegnate ai suoi superiori, che hanno aperto il caso. Quando la Cbs ha avuto gli originali, il capo di stato maggiore generale Richard Myers ha chiesto tempo, temendo vendette contro le truppe di stanza in Iraq, ma presto la notizia si è diffusa e la rete ha lanciato lo scoop.
I provvedimenti militari sono scattati con la severità che lo smacco di immagine impone: la generale Janis Karpinski, comandante di Abu Ghraib e della 800ª Brigata di polizia è stata sospesa già da gennaio con sette suoi ufficiali e sei soldati, responsabili diretti degli abusi, affronteranno la corte marziale.
Sono imputati di «atti crudeli, inumani, indecenti, percosse, violazione della disciplina militare, profanazione di cadavere e associazione a delinquere». Il «livore» del Pentagono è moltiplicato dall’assurdità della vicenda, non si tratta di sistematiche torture ma di umiliazioni sadiche inflitte a prigionieri inermi, non a caccia di informazioni che possano portare ad evitare un grave attentato, ma quasi per gioco, da militari ridotti al rango di teppisti ubriachi. L’ex colonnello dei marines Bill Cowan e l’ex dirigente Cia Bob Baer sintetizzano la reazione di tanti militari e agenti di intelligence: «Ho visitato Abu Ghraib subito dopo la liberazione - dice Baer - era la cosa peggiore che avessi mai visto. Mi son detto che se ci vuole una ragione per cacciare Saddam Hussein questo carcere ne fornisce a sufficienza. C’erano cadaveri azzannati dai cani, torture, cavi elettrici ai muri, era un luogo di morte». E il tenente colonnello Cowan: «Siamo andati in Iraq per impedire questi abusi e dà tristezza che si ripetano sotto il nostro mandato». La reazione della stampa araba è furiosa. La popolare rete tv Al Jazira ha mostrato a lungo le immagini, schermando il pube dei prigionieri. La foto della donna soldato che fa la pistolera con le dita davanti ai maschi nemici nudi è stata a ripetizione mandata in onda e il suo impatto psicologico sull’inconscio collettivo arabo costerà caro al Pentagono. Amnesty International, da Londra, parla di «situazione grave», l’attivista televisiva per i diritti civili yemenita Mustafa Rageh sostiene: «Di abusi del genere l’Iraq è pieno, Abu Ghraib è solo un esempio».
I soldati accusati si difendono citando il caos e la mancanza di ordini superiori, la Cia che esigeva confessioni rapide, l’anarchia del dopoguerra. L’avvocato Gary Myers, che difende uno degli imputati, il sergente Ivan Frederick (un riservista, secondino nella vita civile) parla dell’«inebriante liquore che intossica il potere assoluto» e ammette che i detenuti venivano abbandonati fino a 72 ore di seguito in celle senza finestre né bugliolo di un metro per un metro, ma sostiene che quando Frederick informò dell’abuso i superiori, la risposta fu «chi se ne frega se dormono in piedi, tu obbedisci agli ordini». «Sono stati gli ufficiali ad insegnare al mio cliente come umiliare gli arabi», dice Myers.
La donna che abusa dei nemici nudi e ora è detenuta in un carcere militare si chiama Lynndie England, ha 21 anni. Sua mamma Terrie prova a difenderla: «Una goliardata, e allora quel che gli iracheni fanno ai nostri? Solo noi dobbiamo osservare la convenzione di Ginevra?». La flebile difesa di una madre non scherma gli alleati dallo scandalo. Il premier inglese Tony Blair «condanna la vicenda» parlando però di «caso isolato», il premier australiano John Howard si dice «sconvolto» e loda l’inchiesta in corso.
L’avvocato Myers accusa anche i tecnici di due aziende private, la Caci e la Titan Corporation, che avrebbero collaborato alla gestione della galera. Si parla di un licenziato e di un interprete incriminato per stupro. I siti internet http://www.caci.com e http://www.titan.com conducono ad aziende specializzate in sicurezza, la Caci promette «alti valori etici sul lavoro», la Titan «un’esperienza professionale condotta nella guerra al terrorismo».
L’iracheno incappucciato come un razzista del Ku Klux Klan è legato ai cavi disconnessi, la soldatessa che scambia una galera per la discoteca di infimo rango creano un disagio morale che supera, nello squallore, tutte le polemiche per i detenuti di Guantanamo e fornisce materiale crudo all’arsenale della propaganda antiamericana. I teppisti in divisa di Abu Ghraib espongono i loro colleghi, tutti i militari della coalizione multinazionale e, soprattutto, g

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