Documento Sudan
SUDAN POPOLAZIONE: 32.594.000 RELIGIONE: islam 73%; animisti 16.7%; cristiani 8.2% Cattolici: 2.958.467 Diocesi: Juba - 418.663; Malakal - 43.500; Rumbek - 49.000; Tomboura-Yambio - 215.316; Torit - 456.000; Wau - 620.000; Yei - 167.360; Khartoum - 876.828; El Obeid - 105.000; Siri: Territorio dipendente dal Patriarca di Antiochia dei Siri, in quanto non costituito in circoscrizione ecclesiastica - 300. Greco-Melkiti - Territorio dipendente dall’Esarcato patrarcale di Le Caire dei Greco-Melkiti (Egitto e Sudan) - 6.500
Pur essendo formalmente una repubblica, il Sudan è a tutti gli effetti un regime militare: dal 1969 fino alla fine degli anni Ottanta nel Paese si sono susseguiti vari colpi di Stato. L’attuale regime è retto dal generale Omar Hassan el-Bechir. Il Sudan riceve consistenti aiuti e forniture militari (il materiale bellico è di provenienza cinese) dai Paesi arabi, soprattutto dall’Iran. Il Sudan aderisce all’Organizzazione della conferenza islamica ed ha instaurato dal 1993-1994 stretti rapporti politici e commerciali con l’Iran. Non va trascurato, tuttavia, che nel 1996 il Sudan ha aderito, insieme a Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Uganda e Somalia all’IGAD (Inter Governmental Authority for the Development), una comunità politico-economica che, nonostante divisioni e contrasti che perdurano tra i suoi membri (si veda il recente conflitto tra Eritrea ed Etiopia), si avvia ad assumere un ruolo strategicamente fondamentale in questo delicato settore geo-politico. Secondo alcuni commentatori il “nocciolo duro” dell’IGAD sarebbe costituito da leader politici, come Meles Zenawi, presidente dell’Etiopia, e Yoweri Museveni leader dell’Uganda che hanno negli USA il loro referente principale.
Nella sua espansione verso sud, verso “il Paese dei neri” (bilâd as-sûdan), l’islam incontrò sin dall’inizio la tenace resistenza dei regni cristiani di Nubia: Nobatia, Makurria e Alwa, i quali riuscirono ad arginare l’avanzata islamica fino alla fine del XII secolo. Con la caduta di Dongola nel 1317 cominciò il processo di islamizzazione della valle del Nilo, ma solo nel 1505 cadde l’ultimo dei regni cristiani di Nubia. Solo l’Etiopia, grazie all’intervento nel 1543 di una spedizione portoghese, riuscì a resistere e a conservare la sua indipendenza politica e religiosa.
Dunque, la presenza cristiana nelle terre che oggi corrispondono allo Stato sudanese è di antica data e costituisce un elemento prezioso dell’identità culturale di una parte consistente di quella popolazione, essendo radicata ancora tra i cristiani, presenti soprattutto nella zona meridionale del Sudan, nonostante le persecuzioni e i tentativi di acculturazione che i cristiani hanno affrontato.
Le radici dell’attuale conflitto religioso in Sudan risalgono quindi a tempi lontani e certamente vi si sovrappone anche la secolare rivalità delle diverse etnie (non va dimenticato in questo senso il ruolo dei mercanti islamici nella tratta degli schiavi) che si trovano oggi a convivere in una nazione che è il frutto di un disegno arbitrario, di un affrettata decolonizzazione e della scarsa lungimiranza delle nuove “classi dirigenti”. Una storia complessa e turbolenta, quindi, fa da sfondo al conflitto attuale, che ha assunto l’aspetto di una vera e propria guerra civile, con il Paese, di fatto, diviso a metà: il nord controllato dal governo e fortemente islamizzato, il sud controllato dalle forze ribelli.
Una tappa importante della tragedia attuale va individuata nell’introduzione, nel 1983, della legge islamica (la shari’a), che ha scatenato l’insurrezione del sud, animista e cristiano, e che ha dato il via a una sanguinosa guerra civile non ancora conclusa. Nel 1994 il regime sudanese attraverso il Missionary Act ha di fatto proibito ogni forma di proselitismo non islamico ed equiparato la Chiesa ad Organizzazione Non Governativa straniera. In generale la linea di condotta di governo del Fronte Nazionale islamico, tesa a un’assimilazione culturale (islamizzazione) e linguistica (arabizzazione) delle popolazioni del sud, non riesce ad avere ragione dei ribelli e, allo stesso tempo, spinge il Sudan a un isolamento sempre maggiore nel contesto internazionale. Dopo quindici anni di guerra (che ha già fatto più di due milioni di morti e provocato enormi devastazioni), il fallimento degli ultimi tentativi di accordo dell’ottobre del ’97 e la presente carestia, il Paese appare in una situazione di gravissima necessità. La principale forza di opposizione politica del Paese è costituita dall’Alleanza Nazionale Democratica (NDA), che comprende sia alcuni settori della guerriglia, sia i partiti musulmani moderati, aboliti nel 1989. Diversi sono stati i tentativi di raggiungere un accordo: recentemente a Nairobi, con la mediazione dell’IGAD sono stati avviati colloqui tra il NDA e il governo sudanese, ma allo stato attuale la guerra continua. Nell’estate del 1998 lo SPLA (il Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese) ha proclamato un cessate il fuoco unilaterale della durata di tre mesi, a causa delle gravissime condizioni dei profughi di guerra e per consentire l’invio di aiuti umanitari.
Il direttore dell’agenzia di stampa “Misna”, padre Giulio Albanese, comboniano, in un’intervista al mensile “Inside the Vatican” del novembre 1998, fornisce gli elementi di giudizio per comprendere l’atteggiamento dei musulmani sudanesi nei confronti degli “infedeli”: “le ‘religioni del Libro’, cioè il cristianesimo e l’ebraismo, sono tollerate, se i loro appartenenti acconsentono alla sottomissione alla legge musulmana. Non è loro concesso fare opera di proselitismo o svolgere attività di culto in pubblico”, afferma p. Albanese, che prosegue: “La maggioranza degli abitanti del Sud è animista, vale a dire che segue una religione legata alla natura. Costoro sono considerati ‘pagani’ o ‘infedeli’ dai musulmani, cioè senza anima, alla stregua di cani o di altri animali. In altre parole, i governanti del Nord disprezzano i ‘selvaggi’ del Sud come indegni di fare appello ai ‘diritti umani’. Per fare un esempio, nella versione ufficiale sudanese della ‘Carta dei diritti dell’Uomo’, la parola ‘persona’ è tradotta come ‘musulmano’.I musulmani sudanesi affermano ‘apertis verbis’: ‘Riconosciamo la Carta dei diritti dell’Uomo – ma per i musulmani’. Questo giustifica i massacri, le torture e altre atrocità inflitte dai musulmani del Nord agli abitanti del Sud e ai profughi del Sud nelle periferie urbane. Perciò il conflitto non vede opposti il cristianesimo e l’islam, ma la cultura islamica del Nord e quella nera e animista del Sud”.
Un articolo di Alison Parker, Background to the conflict in Sudan, in “Servir” dell’8 dicembre 1996, ricorda alcuni dei casi più gravi di persecuzione religiosa verificatisi in Sudan negli anni precedenti il 1995: - nel dicembre del 1994 un sacerdote cattolico italiano è stato percosso perché in possesso di vino per la comunione; - il 5 dicembre 1994 l’Arcivescovo Mazzolari della diocesi di Rumbek ha denunciato il caso di quattro catechisti fustigati e poi crocifissi per aver rifiutato di riconvertirsi all’islam, fede che avevano abbandonato vent’anni prima. Secondo padre Joseph Bragotti dei missionari comboniani la responsabilità di tali uccisioni sarebbe da attribuire alle forze di sicurezza del governo.
Dall’inizio degli anni Novanta il governo sudanese ha adottato la politica di rapire i bambini di etnia Toposa e di internarli in un campo a Quarint-Hanan, con il pretesto di educarli e di averne cura. In realtà questi bambini vengono indottrinati attraverso un programma di islamizzazione. Alcuni sono stati deportati in Libia, in Ciad o in Arabia Saudita, altri sono stati obbligati a lavorare in fattorie, altri ancora dopo aver ricevuto un addestramento militare sono stati inviati al fronte nel Sud.
Dal 1991 Padre Mark Lotede, lui stesso di etnia Toposa, ha cominciato a denunciare tale politica: alcuni giovani, evasi dal campo ove erano internati, sono stati accolti da padre Lotede e iscritti nelle scuole della diocesi di Juba. Il governo non deve aver apprezzato l’iniziativa del sacerdote che è stato più volte minacciato, sottoposto a vessazioni, interrogatori e arresti ingiustificati. Alla fine del 1995 padre Lotede viene nuovamente arrestato insieme ad altri.
Questo arresto è stato alla base di una montatura organizzata dal regime islamista sudanese per screditare la Chiesa cattolica (cfr. France Catholique 1° marzo 1996). Vittima principale è il nunzio apostolico Mons. Erwin Ender, il quale viene invitato con l’inganno ad assistere alla liberazione, sollecitata dalla pressione internazionale, di padre Lotede e di altri due religiosi. In realtà mons. Ender è costretto ad assistere, alla presenza della televisione, alla confessione, evidentemente estorta, di padre Lotede, il quale ha confessato, in quella circostanza, di aver partecipato a un piano sovversivo e di aver progettato il “bombardamento di installazioni strategiche a Juba”. La strategia di diffamazione messa in opera dal regime appare del tutto simile a quella praticata soprattutto dai regimi marxisti (mons. Ender nella sua lettera di protesta al governo sudanese ha ricordato “gli anni più neri del regime comunista nella Germania Est”). Essa costituisce un espediente propagandistico al quale i Paesi totalitari hanno fatto spesso ricorso nella storia recente: si pensi al Vietnam, alla Cina o, più di recente, all’Iraq.
Nel gennaio del 1995 Amnesty International ha accusato il governo sudanese e i ribelli del Sud di violazioni aperte dei diritti umani. Il Segretario Generale di Amnesty International, Pierre Sane invocando l’apertura di negoziati, ha denunciato tuttavia il pericolo che la comunità mondiale diventi connivente rispetto a una situazione in progressivo peggioramento.
Weltkirche del febbraio 1996 informa che il Vescovo Paride Taban della diocesi di Torit nel sud nel Paese in un messaggio rivolto ai cristiani del Sudan ha ricordato i casi di alcuni fedeli che hanno saputo affrontare dure persecuzioni: nella parrocchia di Kapocta sei o sette catechisti, che sono stati imprigionati o torturati, hanno continuato a insegnare e a pregare anche nelle loro celle. Due sacerdoti sono stati torturati a Juba e Khartum, mentre il Vescovo di Juba è stato messo in prigione.
L’agenzia “ANB-NIA” del 15 marzo 1996 riporta diverse testimonianze che confermano la pratica dello schiavismo, soprattutto di bambini, attuato in Sudan soprattutto contro le popolazioni cristiane del sud. James Pareng Alier è uno di questi bambini: aveva solo dodici anni quando fu rapito nel sud del Paese, in seguito a un attacco contro un villaggio vicino tenuto dai ribelli. “L’esercito ci ha portati ad un campo chiamato Khalwa, vicino Khartum. Poi dopo due mesi fummo trasferiti in un campo a Fao, nel Sudan dell’Est. Questo campo era diretto dalla Dawa islamiyaa (un’organizzazione per la diffusione dell’islam). Io sono stato costretto ad apprendere il Corano e ribattezzato Ahmed. Loro mi hanno detto che il cristianesimo è una religione cattiva. Dopo un certo tempo siamo stati addestrati militarmente e ci hanno detto che saremmo andati a combattere”. James non sa più dove sia la sua famiglia; ha potuto scappare perché una delegazione delle Nazioni Unite aveva ottenuto il permesso di visitare il campo dove era detenuto. Dopo una detenzione di più di un anno è stato liberato e ha potuto raggiungere alcuni parenti a Khartum.
La pratica della deportazione, dello schiavismo e della tratta dei minori è confermata da numerosi testimoni, come il giornalista inglese David Orr, o l’ex ufficiale di polizia David Majur Mamur, ora membro attivo dell’associazione Prokid, dedita alla difesa dei bambini rapiti. Secondo Gaspar Biro, delle Nazioni Unite, da una ricerca effettuata nel 1995 in venti campi delle regioni del Kordofan e dei Monti Nuba risulta che in questi campi 9.034 bambini sono detenuti e subiscono un indottrinamento islamico.
Padre Sesana Kzito, un missionario comboniano che conosce bene la situazione del Sudan, dopo aver visitato la regione Heiban dei Monti Nuba, controllata dalle forze ribelli dell’SPLA, e aver incontrato alcuni membri della Chiesa locale ha confermato la gravissima situazione in cui versano gli abitanti della regione, minacciati dalla politica del governo sudanese “vicina alla pulizia etnica”. In particolare nel rapporto di padre Kzito si fa riferimento ai campi di lavoro istituiti dal governo come a veri e propri “campi di concentramento”, di cui dà notizia France Catholique del 1° marzo 1996. Le truppe governative, in seguito a un combattimento con i ribelli avvenuto nella regione dei Monti Nuba nel quale avevano avuto la peggio, hanno saccheggiato e distrutto per rappresaglia alcuni villaggi vicini. In seguito i soldati governativi hanno profanato la chiesa cattolica locale.
La questione dei diritti umani in Sudan è stata al centro dei lavori di una tavola rotonda tenutasi il 14 ottobre del 1996 a Parigi presso l’Assemblea Nazionale. In tale occasione il portavoce della Commissione per i Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, Gaspar Biro, ha puntualizzato il fatto che le vittime principali delle violazioni dei diritti dell’uomo sono costituite dalle minoranze razziali e religiose, i gruppi e le comunità che vivono nel Sudan meridionale. “Nel Sudan - ha precisato il funzionario delle Nazioni Unite - tutta la gamma dei diritti dell’uomo universalmente riconosciuti è stata violata: esecuzioni sommarie, arresti arbitrari, detenzioni senza processo, torture sistematiche, schiavismo e traffico di schiavi, violazioni dei diritti dei bambini e delle donne, persecuzioni religiose e conversioni forzate all’islam”. Tra le pratiche più odiose vi è quella delle violenze sui bambini e sulle donne: a Khartum e nelle altre città del Nord la Polizia e le Forze di Sicurezza effettuano periodicamente delle retate per catturare bambini e adolescenti che vivono nei campi profughi (circa il 95 per cento di costoro appartiene alle etnie meridionali). Le donne sono utilizzate come concubine, a volte scelte come spose, spesso costrette a lavorare nelle case degli ufficiali.
La scuola cristiana di Dorusnab, un centro per rifugiati situato alla periferia di Khartum Nord, è stata mezza distrutta su ordine del governo. I fatti si sono svolti il 7 dicembre 1996. Numerosi rappresentanti del Comitato per la pianificazione si sono presentati davanti gli edifici della scuola, accompagnati da bulldozer e uomini armati dell’esercito e della polizia. Senza presentare alcun mandato hanno proceduto alla distruzione del muro di cinta, della sala professori e del magazzino.
Un gruppo di 64 bambini, secondo l’organizzazione per i diritti dell’uomo SOHR, è stato rapito dai villaggi del sud-Sudan dai soldati dell’esercito sudanese. Molti di loro, informa la KNA di gennaio-febbraio 1997, sono stati dati come regalo agli arabi e agli afgani. L’inviato speciale della UNO-Sonder in Sudan, Gaspar Biro, è stato bandito dal Paese dopo un breve soggiorno. I motivi sono sconosciuti. Il generale Ibrahim, che ha incontrato a Khartum, aveva detto di non poter garantire per la sua sicurezza. Secondo le notizie provenienti dalla regione di Kordofa, sono circa 3.000 i civili rapiti e ridotti in schiavitù. “Fides”, dell’8 maggio 1998, rende noto che oltre mille bambini sono stati ridotti in schiavitù dalle milizie mujahidin, considerati come bottino di guerra insieme al bestiame razziato nei villaggi del Sud, dove tali milizie sono impiegate nella lotta contro i ribelli. Il destino di questi bambini, in maggioranza sotto i dodici anni, è quello di essere venduti nei mercati arabi o medio-orientali. La notizia proviene da fonti delle regioni centrali del Sudan, che hanno osservato il gruppo di soldati e schiavi bambini proveniente da Abyei.
“Fides” del 21 marzo 1997 informa che in Sudan continuano le discriminazioni contro i cristiani: non vengono infatti concesse autorizzazioni per le riunioni di preghiera e sono sistematicamente negati i permessi per i luoghi di culto. Le autorità locali hanno ordinato la distruzione di capanne di paglia utilizzate dai cristiani per la preghiera domenicale tra i baraccati di Abu Zabad, Rokab, Abu Ajura e Abu Sallala. Le autorità continuano a proibire i raduni di preghiera, sia nei luoghi di proprietà della Chiesa, pur approvati per le attività sociali, che nelle case private. Nell’ultimo anno i catechisti di Fula, Dallami e Um Dureim sono stati arrestati varie volte per aver organizzato la preghiera domenicale. Nei cosiddetti “campi della pace” (veri e propri campi di concentramento) per gli sfollati del Sud Dar Fur, ai cristiani è stato proibito di radunarsi in preghiera e i catechisti che organizzavano i raduni sono stati imprigionati.
Davanti alle demolizioni sistematiche delle chiese, dei luoghi di preghiera e delle scuole cattoliche nei sobborghi di Khartum, dove sono ospitati rifugiati cristiani del Sud del Paese, l’Arcivescovo di Khartum Gabriel Zubeir Wako e il suo ausiliare Daniel Adwork nell’aprile del 1997 hanno inviato al governo sudanese una lettera cortese, ma estremamente ferma, per protestare contro tali atti contrari agli accordi stabiliti, soprattutto in occasione della visita di Papa Giovanni Paolo II, e ribaditi dalle autorità in diverse occasioni pubbliche. Nella lettera in questione si denunciavano questi fatti:
Il 31 marzo 1997, giorno in cui cadeva il lunedì di Pasqua, un bulldozer accompagnato da poliziotti armati ha distrutto il Centro Polivalente e di Preghiera di Tereya (Kalakla). Il giorno successivo, la stessa squadra di demolizione prendeva di mira il Centro cattolico di Kalakla Gubba e Wad’Amara. Solo l’iniziativa delle comunità cristiane dei due centri ne ha impedito la distruzione: i membri delle comunità hanno infatti anticipato la demolizione, provvedendo all’occupazione delle zone e bloccando la via ai bulldozer.
Il 7 aprile, il giornale “AlWan” riferiva ciò che era accaduto a Tereya come la “distruzione di Chiese non pianificate” allo scopo di giustificare la demolizione. In realtà ciò che era stato distrutto era un Centro Polivalente, dove i cristiani pregavano e svolgevano le loro attività religiose e di istruzione. Già il 7 e il 29 Dicembre 1996 era accaduto che il Centro cattolico di Dorusha’ab (Khartum Nord) venisse raso al suolo con la forza. Il 19 luglio 1997, non tenendo in alcun conto le richieste provenienti dai cristiani, per ordine del governo si è provveduto a distruggere una scuola cattolica a Jebel Awlia, a 50 km dalla capitale. La scuola sorgeva in un campo di profughi, su un terreno di proprietà del vescovo di Khartum ed era entrata in funzione con l’approvazione e sotto il controllo del Ministero dell’Educazione del Sudan. Dal 1994 tra 75 e 100 sono stati i centri polivalenti distrutti nella periferia della città, sotto il pretesto della “pianificazione urbanistica”, mentre sono stati negati tutti i permessi per la loro ricostruzione. Questi centri, costituiti da capanne di rami furono installati a partire dal 1985 per ospitare i rifugiati della guerra civile: erano utilizzati durante il giorno come giardini di infanzia e scuole per giovani dai 5 ai 15 anni, mentre alla sera ospitavano corsi di alfabetizzazione e di apprendistato per gli adulti. La domenica diventavano centri di preghiera. “Kathpress” del 9 ottobre 1997 riporta le proteste dell’organizzazione per i diritti dell’uomo “Solidarietà Cristiana” contro la distruzione attuata tramite i bulldozer di un’altra Chiesa cattolica nella regione di Khartum. La scuola, “Zagalona 2” a Omdurmann era stata sistemata dalla Chiesa cattolica per accogliere i bambini profughi del Sud ed era frequentata da 413 bambini come asilo e scuola.
Fin dall’inizio del secolo i Nuba erano stati considerati musulmani, ma con l’indipendenza del Sudan le cose cambiarono. Padre Renato Kizito Sesana, ne dà questo resoconto nell’ottobre del 1997 a “CSI”, poiché: “la gente era sempre poca perché una tattica del regime di Khartum era quella di prendersi tutte le persone in grado di lavorare, i comboniani decisero di andare a lavorare presso altre parrocchie dove poteva esserci più seguito. All’inizio degli anni 80 il regime cominciò a soffocare i Nuba sempre di più, e proibì qualsiasi presenza straniera. I missionari andavano raramente nelle montagne dei Nuba, alla fine degli anni 70 c’erano circa 200 cattolici. Ma fra di loro c’era qualcuno che aveva le qualità del capo e che ha portato avanti il nostro credo, soprattutto negli anni della guerra. Quando tornai nel 95 c’erano centinaia di cristiani, i più battezzati e con nuovi catechisti. La tolleranza fa parte della cultura e delle tradizioni dei Nuba. Mi sentii commosso quando l’imam del luogo mi venne a salutare e quando gli dissi che stavo andando a celebrare una Messa nel villaggio mi rispose: “conosco il nostro Dio e verrei volentieri a pregare insieme ai miei amici cattolici”. Suor Doreen, religiosa irlandese, lavora da sei anni in Sudan, di cui quattro a servizio dei rifugiati “in un campo situato nella giungla e circondato da montagne che fungono da protezione contro gli attacchi aerei”. Suor Doreen è testimone, in un’intervista ad “Africa St.Patrick’s Missions” (luglio-agosto 1997), degli effetti terribili della guerra sui giovanissimi: questi bambini, la maggior parte dei quali ha da tre a sei anni, hanno alle spalle delle storie terribili, delle esperienze spaventose. “Moltissimi - ha sottolineato suor Doreen - hanno assistito al massacro dei loro genitori, dei membri delle loro famiglie o di altri rifugiati”. La situazione è tale che spesso questi bambini vengono forzatamente arruolati da una delle fazioni ribelli, sottratti alla scuola e al recupero di una vita normale.
“Fides” del 9 gennaio e 13 febbraio 1998 rende noto che il governo sudanese ha confiscato il club cattolico di Khartum con un’azione di forza che ha visto impiegati soldati dell’esercito e uomini della sicurezza in assetto antisommossa. Secondo la “Comboni Press” la confisca del club, che era il punto di riferimento delle famiglie e dei giovani cattolici, è solo l’ultimo atto di una escalation di violenze contro il centro, cominciate già nel 1992.
Agli inizi del mese di febbraio 1998, informa l’agenzia “Fides”, in seguito ai violenti scontri avvenuti attorno a Wau, nei quali entrambe le fazioni si sono macchiate di efferatezze, gruppi di Mujahidin e Fertit (milizie musulmane filo-governative) si sono resi responsabili dell’uccisione indiscriminata di numerosi civili, donne e bambini; diverse testimonianze sono giunte a proposito del massacro di circa 600 persone nel villaggio di Marialbay.
La “CNS” riferisce che l’arcivescovo di Khartum Wako, in seguito a una lunga vicenda giudiziaria, viene arrestato il 1° maggio 1998 e tenuto in cella per alcune ore dopo che un tribunale aveva stabilito che la sua arcidiocesi era debitrice nei confronti di un mercante, tal Nasr Ed-Din, di una somma pari a più di 650.000 dollari. L’arcivescovo è stato arrestato e alcune persone nella sua residenza sono state prese in custodia alle 8.30 del mattino. Il rilascio di monsignor Wako è avvenuto alle ore 13.00, dopo la visita in prigione dell’arcivescovo Marco Brogi, Nunzio della Santa Sede. Il processo contro monsignor Wako è scaturito dall’accusa del mercante Nasr Ed-Din, presso il quale erano state acquistate dall’Arcidiocesi provviste (per una somma di circa 30.000 dollari) per le attività umanitarie in favore dei rifugiati. Il mercante, senza portare alcuna prova delle sue affermazioni, ha sostenuto di aver fornito merci per una somma molto più grande e di non essere stato pagato. La sentenza emessa dal tribunale civile ha stabilito che monsignor Wako avrebbe dovuto pagare una somma pari a 650mila dollari o andare in prigione.
“Christian Solidarity International-Suisse” informa che dal 1° al 10 giugno 1998 le forze armate del Fronte islamico Nazionale hanno lanciato diversi attacchi contro le popolazioni (in maggioranza cristiane) del distretto di Twic, a nord di Bahr El Ghazal. In tale circostanza, il 3 giugno, nel villaggio di Ayen le milizie islamiste hanno ucciso il diacono della Chiesa episcopale Abraham Yac Deng e ridotto in schiavitù Elizabeth Ading Deng e Abuk Goch, due fedeli della chiesa episcopale; due dei figli di Abuk Goch si trovano fra i 25 membri della comunità che sono stati portati via come schiavi. I miliziani del Fronte islamico hanno saccheggiato la chiesa episcopale di Ayen: il parroco e un altro diacono sono scampati di poco alla morte. Altri attacchi, con uccisioni sommarie, distruzione di chiese e riduzione in schiavitù di donne e bambini, sono avvenute nei villaggi di Turalei e di Maper.
Padre Lino Sebit (30 anni, parroco di Hilla Mayo), padre Hillary Boma (56 anni Cancelliere arcidiocesano) e padre William Nilo, che è stato rilasciato dopo poche ore, sono stati arrestati dalle forze di sicurezza di Khartum il 28 luglio ed il 1° agosto 1998, con l’accusa di essere implicati negli attentati dinamitardi verificatesi il 30 giugno nella capitale. Secondo fonti della “Misna” l’accusa mossa ai sacerdoti va inserita nella campagna diffamatoria messa in atto da elementi vicini al fondamentalismo islamico del governo sudanese. Le pessime condizioni fisiche di padre Boma (l’unico a poter essere visitato in carcere), insieme ad altri dati raccolti, farebbero pensare che i sacerdoti arrestati siano stati sottoposti a misure di coercizione molto dure, se non a vere e proprie torture. Il Vescovo Ausiliario Mons. Adwok che ha visitato padre Boma mercoledì 9 settembre, ha dichiarato che il sacerdote sembra molto sofferente per la pressione alta e ha perso circa 20 chili; padre Boma ha riferito di aver visto l’altro sacerdote imprigionato solo una volta e di averlo trovato in cattivo stato, forse a causa di torture. Nessuna visita o colloquio è stato finora concesso a padre Sebit. L’arcivescovo di Khartum, mons. Wako e mons. Adwok hanno ribadito la loro convinzione sull’innocenza dei due sacerdoti e dunque sulla estraneità ai fatti loro imputati. Intanto nei confronti dei due accusati e di altre diciotto persone si sta svolgendo un processo.
Notizie dell’agenzia di stampa “Misna” rendono noto dell’evacuazione di una missione cattolica nell’Equatoria occidentale (Sud Sudan). Tre missionarie comboniane e un comboniano sono, infatti, stati trasferiti il 3 novembre, in aereo, dalla missione di Nzara (diocesi di Tombura-Yambio) alla base delle Nazioni Unite di Lokichogio nel Kenya settentrionale. Suor Maddalena Vergis (italiana), suor Maria Eugenia Valle (italiana) e suor Ruiz Ana Maria Aguilar (messicana) e padre Alberto Eisman Torres Jesús (spagnolo) sono in buone condizioni. La loro evacuazione è avvenuta a seguito delle scorribande di gruppi armati lungo la linea di confine che separa il Sudan dalla Repubblica Democratica del Congo; in particolare, risulta essere estremamente insicura la zona limitrofa alla missione.
Verso la metà di novembre 1998, il leader storico dell’Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese, è scampato, insieme alla sua famiglia, a un attentato compiuto a Nairobi, in Kenya, a opera di un’altra fazione di ribelli del Sud Sudan che fa capo a Cherubino Quanyen, primo fondatore dell’SPLA. L’episodio è avvenuto il 14 novembre, ma è stato riportato il giorno 17 dall’agenzia di stampa egiziana “Mena”, che dà conto anche di notizie diffuse dalla stampa del Kenya, secondo le quali dodici uomini avevano attaccato l’abitazione di Garang, ma erano stati respinti dal servizio di sicurezza e dalla polizia locale. Quanyen, fatto arrestare da Garang nel 1987 e disposto, secondo molte fonti, a riallacciare relazioni con il regime sudanese, potrebbe aver partecipato all’attentato e avrebbe successivamente chiesto asilo, insieme a tre dei suoi uomini, nell’ambasciata dello Zambia, dove avrebbe chiesto di abbandonare il Paese raggiungendo l’aeroporto di Kenyatta. La richiesta sarebbe però stata respinta e la polizia avrebbe arrestato molte persone. Come responsabili dell’accaduto, gli oppositori del regime sudanese riuniti sotto la sigla dell’Alleanza Nazionale Democratica (NDA) accusano, in un comunicato diffuso al Cairo dal loro portavoce Faruk Abu Issa, gli uomini del Fronte Islamico Nazionale (NIF), che sostiene il governo di Khartum. Nella dichiarazione del NDA si afferma che Garang è un simbolo che incarna l’unità del Sudan e l’aspirazione dei sudanesi alla pace, alla democrazia e al rispetto dei diritti umani e che l’attentato di cui è stato vittima risponde alla mentalità del regime di Khartum.
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