La crisi dell'Ast di Terni.......
Il gioco dell' oca
A fine febbraio 2004 l'Ast e il suo amministratore delegato, Bertone, convenivano con sindacato, governo e amministrazioni locali che il magnetico - su cui si era concentrata la lotta durante tutto il mese - non dovesse chiudere. A giugno si stabilisce un percorso in cui l'azienda avrebbe presentato un proprio piano industriale, e istituzioni, governo e sindacati un pacchetto di proposte, riguardante i fattori allocativi, atte a garantire la competitività dell'Acciaieria ternana. A novembre l'Ast rinvia gli incontri programmati e ripropone la chiusura del magnetico, rimettendo in' discussione gli accordi già siglati. Sembrava che si dovesse decidere entro il 22 dicembre, quando, nell'incontro del 17, grazie alla megiazione del sottòsegretario alla Presidenza del Consiglio, Letta, si è deciso di riaprire la trattativa e di spostare la data della decisione al 25 gennaio 2005. Intanto Bertone si è dimesso ed è stato sostituto da Michael Radmacher e da un management a forte presenza tedesca. Se il rinvio della decisione e la ripresa della trattativa sono un segnale distensivo da parte dell'azienda, pure non per questo le posizioni sono meno distanti. L'Ast ha sostenuto che la dismissione del magnetico è necessaria per rafforzare la produzione dell'inossidabile che costituirebbe l'affare di punta dell'impianto ternano. Si è affermato che dietro a ciò ci sarebbero accordi di cartello con altri produttori europei, divisioni del mercato, scelte del governo tedesco che, in una fase di crisi economica, avrebbe richiesto alle imprese di riportare in patria pezzi di lavorazioni decentrate all'estero. E' possibile. Nel settore siderurgico da sempre si fanno accordi sui prezzi e la Germania ha strumenti di politica industriale certamente più efficaci di quelli messi in atto in Italia, soprattutto dal centrodestra, non senza colpe del centrosinistra. Il punto centrale, però, non è questo. Le multinazionali puntano a specializzare i singoli stabilimenti su un prodotto specifico, indirizzando in questa direzione l'impianto e gli investimenti. In linea di massima se nell'immediato è in pericolo il magnetico, non si può escludere in prospettiva che si vada ad un'alienazione o alla chiusura della Titania, delle Fucine e del Tubificio. La questione in sé non è irragionevole se si ragiona nella logica della profittabilità e del mercato, fino ad ieri accettata da tutti i protagonisti della vicenda. Ciò spiega perché allettanti promesse sul piano dei trasporti, dell'energia, ecc. siano snobbate dall'Ast: rispetto ad un mercato tutto sommato marginale, come quello del magnetico, in pareggio se non in perdita, si preferisce quello più ricco e ampio dell'inossidabile, concentrando là produzione ed investimenti, razionalizzando il ciclo, contando - almeno questo sarebbe l'impegno espresso anche per lettera agli operai - di garantire il riassorbimento della manodopera impegnata nel magnetico. Ciò, peraltro, spiega la minor mobilitazione di questi giorni. Da parte del territorio però la scelta si presenta come pericolosa, per la ciclicità del mercato dell'inossidabile, ed è foriera di nuove perdite di posti di lavoro. D'altro canto la ricerca d'imprenditori italiani interessati al magnetico a cui la multinazionale dovrebbe vendere gli impianti di lavorazione appare problematica, come problematiche - se si deve contare su industriali nazionali - è la proposta di verticalizzare l'inossidabile, aggiungendo alla sua produzione lavorazioni finali. Se non ci s'inventa qualcosa di nuovo l'esito della trattativa è ampiamente scontato, sempre che non si ripetano i fatti dell'anno scorso: un'ampia mobilitazione della città, del territorio, dei parlamentari nazionali ed europei, che aveva obbligato il governo ad impegnarsi, e un' alleanza con i sindacati europei. Insomma, il successo della trattativa sta nella capacità di individuare linee di politica industriale a livello nazionale pensate per il medio periodo, di inchiodare il management della multinazionale agli impegni presi e di mantenere continuamente alto il livello di mobilitazione, rinnovando relazioni nazionali ed internazionali. E' soprattutto sul primo punto che non si può non essere scettici. Con una politica economica come quella del governo Berlusconi è difficile attendersi che la politica industriale sia più che una boutade, al limite una campagna d'opinione contro i plutocrati tedeschi, volta semmai a forzare la ricontrattazione del patto di stabilità.
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