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L'amico frankista di Wojtyla
by mb Thursday, Sep. 07, 2006 at 5:44 PM mail:

Vi aspetto numerosi al primo incontro internazionale dei gruppi d'inchiesta sul 9/11 a Bologna.

L'amico frankista di Wojtyla
Maurizio Blondet
04/09/2006


Per creare una base ideologica e culturale comune, e quindi condivisa, con i nostri lettori, pubblichiamo alcuni capitoli, tra i più significativi, tratti dalle opere di Blondet; dopo il capitolo VII de «I fanatici dell’Apocalisse», intitolato «Il primo tentativo», pubblichiamo oggi il capitolo XV di quello che Blondet definisce il suo libro migliore e cioè «Cronache dell’Anticristo», Effedieffe, 2001.

«Per capire Giovanni Paolo II bisogna risalire alle sue radici polacche»: il luogo comune è stato ripetuto da molti molte volte.
Non per questo cessa di essere vero.
Tutti i grandi temi del Papato di Wojtyla risalgono agli eventi formativi della sua vita in Polonia.
Per chi polacco non è, è difficile comprendere a fondo la «polonicità» assoluta del Papa, segnata da eventi quasi profetici - o messianici, nell’accezione speciale del messianismo polacco.
Karol Wojtyla è nato il 18 maggio 1920: lo stesso giorno in cui il maresciallo Jozef Pilsudski sconfiggeva l’armata sovietica, occupava Kiev e restituiva l’indipendenza alla Polonia dopo due secoli di servaggio.
Karol è stato il giovane che ha amato intensamente il teatro (e abbiamo visto quale funzione, anche «politica», svolga in Polonia il teatro: le insurrezioni polacche spesso cominciano con gli applausi di qualche romantica rappresentazione). È stato il giovane che ha recitato esaltandosi le poesie di Mickiewicz (lo faceva spesso, dicono i biografi del Papa, con una sua amica ebrea, Ginka Beer); che ha mandato a memoria i versi del poeta Slovacki sul futuro «Papa slavo», il quale «non sfuggirà la spada come l’italiano /come Dio, affronterà valoroso la spada».

Ma ancor meno si capirebbe l’ideologia di Wojtyla, se non s’indagasse l’ambiente intellettuale di Cracovia di cui fece parte, e di cui continuò a circondarsi anche da vescovo e da cardinale.
E’ l’ambiente del settimanale «Tygodnik Powszechny», la più vivace, libera e tuttavia autorevole rivista culturale del Paese nel cinquantennio comunista.
Lo spirito di questa rivista, cui il giovane prete collaborò come saggista e poeta, ha influito, anzi «formato» Wojtyla
più di qualunque altra circostanza.
Nel luogo comune, «Tygodnik Powszechny» è definita invariabilmente «Il settimanale cattolico di Cracovia» e la sua testata (che significa «settimanale universale», e «universale» può valere «cattolico») pare confermarlo.
In realtà, il settimanale non è mai stato la tipica rivista clericale polacca.
I direttori dei seminari ecclesiastici ne vietavano la lettura agli alunni: troppo «aperta»; troppo progressista, troppo curiosa del mondo contemporaneo, con i suoi articoli (clamorosi allora) su Marilyn Monroe e su Picasso.
Allo stesso modo del resto era considerato il cardinale di Cracovia.

Perché - per quanto strano appaia oggi a noi, abituati a leggere continue lagnanze sul «conservatorismo» del Papa polacco - il cardinal Wojtyla era guardato in Polonia come la bandiera di un cattolicesimo molto progressista e quasi anti-tradizionale, il contrario del cardinal Wyszynski di Varsavia.
Un prelato aitante, sportivo, libero anche nei costumi; che si mostrava in pantaloni corti, abbronzato, in gite nei boschi fra ragazzi e ragazze con la chitarra; che recitava nel suo amato «Teatro Rapsodico», e scriveva poesie; che si circondava di attori e intellettuali bohèmiens.
Molti di questi intellettuali, collaboratori regolari della «cattolica» «Tygodnik Powszechny», erano tutto fuorché tipi da sacrestia.
Tra di loro, varrà la pena di nominare Leopold Tyrmand (1920-1985) per il suo stile di vita: figura colorita di «play-boy all’americana» negli anni del più cupo stalinismo, critico musicale promotore di concerti jazz e rock nel grigiore della Polonia sovietizzata, appassionato di cultura pop statunitense, riuscì a condurre anche negli anni più bui una sorta di sua scandalosa «dolce vita» in Polonia.
D’origine ebraica ma convertito al cattolicesimo, Tyrmand era sopravvissuto all’olocausto fuggendo - per quanto strano sia - in Germania, dove riuscì (nonostante gli evidenti tratti razziali) a mimetizzarsi più che felicemente, se è vero quanto racconta nei suoi libri, dove dipinge il suo periodo tedesco come un seguito di successi erotici con donne germaniche.


Leopold Tyrman (1920-1985)

Negli anni ‘50, ormai maturo, Tyrmand, il collaboratore della «rivista cattolica», si lega e convive con una ragazzina di quattordici anni.
Nel 1956 è lui a reintrodurre in Polonia la sovversiva cultura occidentalizzante: jazz, rock, consumismo, la moda dei romanzi polizieschi.
Come sia riuscito, nonostante tutto, ad evitare i fulmini delle autorità comuniste, anzi a costringerle ad aprire le porte a quelle mode pericolose, è un mistero.
Che forse può essere un poco illuminato dal fatto che Tyrmand era un cordialissimo amico di Krzysztof Teodor Toeplitz, il guru e «controllore» della cultura per conto del regime, ed inoltre abilissimo nelle pubbliche relazioni.
Non è il solo mistero in una vita straordinaria, del resto.
Negli anni ‘60 Leopold Tyrmand se ne va negli Stati Uniti, dove immediatamente ottiene una colonna di opinionista sul New York Times (il maggior quotidiano dell’establishment ebraico e «liberal») e, poco dopo, un proprio istituto di ricerche culturali, dono di un miliardario misterioso: il Rokiord Institute.
Si tratta di una fondazione politico-culturale dell’estrema destra americana, di tono «sudista», moralisticamente conservatrice.
Il libertino degli anni ‘50 della Polonia stalinista diventa, negli Stati Uniti, un super-conservatore.
Se questa metamorfosi si debba a vera convinzione, o alle straordinarie doti mimetiche di Tyrmand, o a una sua elasticità ideologica di tradizione frankista, lasceremo al lettore giudicare.

Un altro collaboratore di «Tygodnik Powszechny» è notevole per la sua eterogeneità al mondo cattolico.
Si rievochi qui la figura del poeta (nonché pubblicista satirico, critico teatrale, editore, commediografo, romanziere) Antoni Slonimski (1895-1976).
Questo personaggio, in gioventù, partecipò al movimento «Giovane Polonia»; a fianco di Boy-Zelenski (l’amante di Jadwiga Mrozowska, poi moglie di Giuseppe Toeplitz in Italia) gareggiava con lui in satire libertine contro la Chiesa e il cattolicesimo polacco.
Durante la guerra ripara a Londra, risparmiandosi le sofferenze dell’occupazione nazista, e vi fonda una rivista, Nowa Polska, legata agli ambienti dell'estrema sinistra.
Difatti, alla fine del conflitto, torna nella Polonia comunista ostentando simpatie filo-sovietiche.
In ciò sembra seguire la strada di molti altri ebrei polacchi, tornati nella Polonia, dopo la vittoria di Stalin, per costruirvi l’utopia socialista.
Ma invece, forse, Slonimski obbedisce a più segreti ordini superiori: in Polonia fu infatti Gran Maestro di una loggia massonica, la Kopernik, fondata nel 1920 e «risvegliata» clandestinamente nel febbraio del 1961.
Come si è saputo solo in anni recenti, la loggia Kopernik, rigorosamente «coperta» (non ha mai contato più di venti membri) ha continuato ad operare durante tutto il periodo comunista: così in segreto, che per oltre trent’anni soltanto un’altra loggia, la gemella Kopernik di Parigi (una loggia polacca in Francia) ne ha conosciuto l’esistenza.
Le alte referenze muratorie di Slonimski, nonché il suo profilo, accuratamente coltivato, di «socialista umanitario» e pacifista, gli hanno procurato una carriera privilegiata in organismi internazionali: negli anni Quaranta e Cinquanta è stato uno dei dirigenti mondiali dell’Unesco; in patria fu eletto presidente dell’Associazione dei Letterati.
Poeta di buona notorietà, è considerato come un promotore del cauto «disgelo» della cultura polacca nel 1956.
Ebbene: da un certo punto in poi, questo massone d’alto rango, anticlericale e noto uomo di sinistra comincia a pubblicare sulla rivista cattolica «Tygodnik».
Come mai?

Forse non vi stupirà apprendere che anche da Slonimski emana una certa atmosfera di frankismo.
La sua famiglia, ebraica d’origine, si convertì al cattolicesimo nell’Ottocento; ciò non toglie che Slonimski abbia scritto poesie piene di nostalgia per l’ambiente ebraico, per lo shtetl e il ghetto, e che la sua fantasia identificasse i destini degli ebrei e dei polacchi, «i due popoli più tristi della terra».
Una doppia identificazione che è anche un’equidistanza, se Slonimski fu capace di scrivere parole come queste: «Conosco pochi ebrei che non siano convinti della superiorità della loro razza. Perciò questa nazione non perdona nemmeno il più piccolo sgarbo. Gli stessi ebrei che recriminano la scarsa tolleranza degli altri, sono i meno tolleranti». (1)
Nel ‘68 - quando la comunità israelita polacca decide di togliere il suo appoggio al regime comunista, che l’ha epurata - Antoni Slonimski entra a far parte del KOR (Comitato di Difesa Operaia) dell’intellettuale Jacek Kuron, che rappresenta l’opposizione comunista organizzata nei primi anni Settanta.
Organizzazione strettamente laica, guidata per lo più da israeliti (e almeno tre dirigenti del KOR, fra cui Slonimski, appartenevano a logge massoniche), che proprio in quegli anni si avvicina però alla rivista cattolica di Cracovia.

A «Tygodnik Powszechny», l’autore di una simile apertura senza limiti a personalità delle più varie ideologie è il fondatore e direttore della rivista, il cattolico Jerzy Turowicz (1912-1999).
«Un uomo di straordinaria autorità morale», «uomo di dialogo», e addirittura «il Nestore della Polonia»: così Turowicz è stato definito nei necrologi laudativi alla sua morte, avvenuta nel ‘99 a 87 anni.
«Per mezzo secolo il punto di riferimento stabile degli intellettuali indipendenti».
E’ lui che chiama a collaborare a «Tygodnik» autori illustri, dal poeta premio Nobel Czaslaw Milosz al filosofo Lezsek Kolakowski, da Ryszard Kapuscinski all’israeliano Amos Oz, da Tadeusz Mazowiecki (che sarà, nel 1989, il primo capo di un governo non comunista in Polonia) al giovane poeta e sacerdote Karol Wojtyla.
Turowicz fu progressista cattolico, molto ecumenico, ammiratore di Maritain, entusiasta delle riforme portate dal Concilio Vaticano II, per diffondere le quali animò e guidò un movimento cattolico dal nome significativo di «Odrodzenie» («Rinnovamento»).
Politicamente si situava a sinistra, con moderazione.
Avverso al nazionalismo polacco, seguiva - così ci viene descritto – «una via mediana» tra gli opposti estremismi, instancabile promotore del «dialogo» anche con il regime.
E infatti nel 1989, quando Solidarnosc e il Partito si affrontano in una prima cauta trattativa, a presiedere la «tavola rotonda» è lui, Turowicz.
A quel punto l’alleanza fra i laicisti del KOR e il sindacato cattolico di Walesa era saldissima.
«Turowicz ha avvicinato il cattolicesimo a persone cresciute nella tradizione della sinistra», ha detto Adam Michniz, il dissidente israelita, figlio di alti funzionari comunisti.
Era anche molto amico del futuro Papa.


Jerzy Turowicz (1912-1999)

Fu lui ad esempio a rivelare anni fa a Il Corriere della Sera un amore giovanile di Wojtyla per un’attrice.
La grande aspirazione di Turowicz fu la riconciliazione fra ebrei e cattolici.
Ne fu, dicono i necrologi laudativi, «il campione».
Il suo interesse, anzi il suo amore per il popolo e la cultura ebraiche fu notorio, esibito - e ricambiato.
Nel 1987 pubblicò sul suo settimanale un saggio, a firma Jan Blonski, dove si accusavano i polacchi di aver commesso, durante l’occupazione nazista, «peccato di omissione» verso gli israeliti.
«Noi polacchi avremmo potuto fare di più per salvarli», era la tesi.
L’articolo innescò un ampio, acceso dibattito.
Turowicz vi intervenne infine di persona, scrivendo che la tragedia degli ebrei durante l’occupazione nazista era «inconfrontabile» con le sofferenze dei polacchi.
I tre milioni di polacchi uccisi dai nazisti «rappresentano il 10 % della popolazione, ma i tre milioni di ebrei scomparsi sono il 95 % della comunità».
Inoltre, aggiungeva dopo questa contabilità dell’orrore, «la differenza è anche qualitativa».
E concludeva accusando i polacchi di aver sempre guardato alla minoranza israelita come «a cittadini di seconda classe».
Insomma, il tema wojtyliano della «richiesta di perdono agli ebrei» risiede già tutto, in anticipo, nei concetti di Turowicz.

Da giovane, Karol Wojtyla (al contrario, ad esempio, del beato Massimiliano Kolbe) non ha mai dato segno della minima sospettosità verso gli ebrei; anzi il suo più caro amico d’infanzia, Jerzy Kluger, era di ricca famiglia israelita.
Durante l’occupazione nazista fu testimone dell’uccisione di parecchi ebrei: ed erano persone che conosceva e a cui voleva bene.
In un caso, durante la guerra, portò sulle spalle una povera ragazzina sfuggita miracolosamente dal campo di Auschwitz, la mise su un treno e comprò per lei un poco di cibo.
Ma è anche vero che Wojtyla non ha mai fatto parte delle organizzazioni cattoliche polacche (che esistettero, con buona pace di Turowicz) i cui membri si mettevano in reale pericolo di vita per salvare degli ebrei.
L’idea di una storica, grandiosa «riconciliazione» con Israele, il Pontefice polacco l’ha tutta mutuata dal suo grande amico Jerzy Turowicz.
Un’idea nutrita da molto tempo, se il cardinal Wojtyla già andò a visitare la sinagoga di Cracovia nel 1968: gesto tanto più significativo perché avvenne nell’anno in cui il Partito scatenava la grande purga contro gli «agenti sionisti».
E tuttavia, è un’idea che pone delicati problemi dal punto di vista della teologia cristiana.


Il prete operaio

Nella memorabile Pasqua del 1998 in cui il Papa polacco chiese scusa agli ebrei col documento «Noi Ricordiamo», lasciò dire che il popolo israelita «è crocifisso da duemila anni».
Non tremila, ma duemila: dalla nascita del cristianesimo.
Si deve con ciò intendere che a «perseguitare» gli ebrei è il fatto stesso che il cristianesimo esista?
Proprio così l’hanno inteso le lobby ebraiche che hanno tenacemente trattato sul frasario delle scuse vaticane. (2)
Israele è «offesa» dalla pretesa che i cristiani siano subentrati agli ebrei in una Nuova Alleanza.
Ma questo è, ohimè, la credenza centrale della fede cristiana, ed è fondata sui Vangeli.
Il minimo dubbio su questo punto significa esporre al dubbio la fede, e il Papato polacco non ha certo sanato questa ambiguità, e pare persino non essersene reso conto.
Se gli ebrei hanno ragione, allora ebbe torto Gesù.
Se persiste l’Alleanza antica, che riguarda solo gli ebrei; se è valida la Promessa che fu fatta a loro, il dominio del mondo, allora Gesù non era il Messia.
Se la Chiesa è un errore durato «duemila anni» ed ora lo riconosce, si tratta di un errore residuale, destinato a sparire nei «tempi a venire» che saranno dominati da chi ha «il regno di questo mondo», gli ebrei.

Come si può essere cattolici e credere a questo?
Si può solo ad un patto: ammettendo l’influsso dell’ideologia frankista in Turowicz.
Sulle origini ebraiche del cattolicissimo direttore e fondatore di «Tygodnik» si preferisce sorvolare.
Si dice, al più, che queste origini sono «remote», il che significa che la conversione della famiglia al cattolicesimo deve essere avvenuta ben oltre un secolo fa.
Si fa notare inoltre che i Turowicz appartenevano alla piccola aristocrazia polacca (nessuna meraviglia: in Polonia, il 10 % della popolazione può fregiarsi di un titolo nobiliare) e che avevano possedimenti terrieri ereditari.
Ma per noi, che conosciamo qualcosa della conversione in massa dei frankisti nel 1760, e della loro nobilitazione collettiva, l’indizio segnala proprio il fatto che si vuol negare.
L’assegnazione di terre a neo-convertiti e nobilitati poteva avvenire solo prima del 1794, prima cioè che la Polonia perdesse l’indipendenza.
Dunque, non c’è per noi alcun dubbio: il cattolicissimo Jerzy Turowicz appartenne ad una delle famiglie frankiste cripto-giudee che si convertirono formalmente al cattolicesimo nel 1760, per ordine del loro Messia.
Se le cose stanno così, forse non fu per semplice sentimentalismo che Jerzy Turowicz volle che al suo funerale, nel 1999, fossero cantati canti popolari ebraici.
Forse fu la volontà di dichiarare un’appartenenza mai rinnegata.
Questi indizi fanno sorgere una domanda che esitiamo a porre.
La poniamo tuttavia, con timore e tremore: fino a che punto gli ambienti di Tygodnik hanno cercato di manipolare Karol Wojtyla?


Giovanni Paolo II riceve Turowicz

Si deve notare che fin dall’inizio, in Polonia, la figura di Wojtyla è stata costruita sapientemente (dalla stampa e dai media, su cui abbiamo visto chi vegliava) in contrapposizione al Primate di Varsavia, l’eroico cardinal Wyszynski, irriducibile anticomunista.
Veniva pubblicizzato, amplificato (e perciò in parte fomentato) un presunto conflitto fra i due.
Wyszynski era dipinto come superconservatore, conformista, vecchio-cattolico, «nemico delle minigonne» e in generale della libertà dei costumi moderna; Wojtyla come l’intellettuale aperto, che dialogava con i capi laici del Kor, che scherzava con gli attori e le ragazze, che girava in calzoni corti i laghi Masuri… insomma, un prelato liberale e progressista, si sottolineava, in fatto di costumi.
E di fatto Wojtyla è stato un prelato progressista.
Durante il Concilio, si segnalò come uno dei più accesi e attivi promotori delle innovazioni, dell’«aggiornamento».
Un cardinale dell’Est, ma finalmente (al contrario di Wyszynski e dell’ungherese Mindzensty), progressista.
E’ questa immagine «liberale» e «avanzata», sapientemente costruita dallo stesso promotore di Wojtyla, il saggio cardinale Sapieha (che gli fece trascorrere persino un certo periodo in Francia come «prete operaio»), ad aver portato alla sua elezione al soglio pontificio: il Conclave di allora non avrebbe mai eletto un riconosciuto conservatore, o ostile alle, chiamiamole così, «conquiste» conciliari.
E’ più probabile che su Karol Wojtyla si appuntassero molte speranze degli ambienti laici, progressisti ma ormai (dopo la purga degli ebrei nel ‘68) ostili al regime comunista.


Il cardinal Wyszynski

Si poteva credere che un Papa che era stato prete operaio e attore avrebbe trasformato la Chiesa, facendole accettare gli aspetti della rivoluzione dei costumi - essa stessa lanciata nel ‘68 - a cui gli ambienti laicisti dell’intero pianeta sembrano tanto tenere.
Papa Giovanni Paolo II s’è rivelato una persona diversa dal cardinal Wojtyla che laici, progressisti e massoni polacchi credevano di conoscere.
Forse non a caso, il Pontefice polacco è stato al centro di attacchi di stampa senza precedenti, per il suo presunto (ma poco verificato) conservatorismo: quasi che gli establishment laicisti si sentissero in diritto di rimproverargli promesse non mantenute.
Di tutte le promesse, una però ne ha mantenuta: la messa in stato d’accusa del cattolicesimo rispetto all’ebraismo.
La comunità israelitica ha potuto opporsi alla beatificazione di Isabella la cattolica, la santa regina di Castiglia del ‘400, colpevole però ai loro occhi di aver «cacciato gli ebrei» dalla Spagna (indizio che il «perdono» non è contemplato nella religiosità giudaica); ha provato ad opporsi alla beatificazione di Pio IX; insomma la comunità s’è di continuo intromessa in cose che non la riguardavano, nelle decisioni del Papa polacco, quasi avesse il diritto di farlo.
E’ un enigma, che la storia dovrà un giorno indagare.

Maurizio Blondet

Note
1) Citato in T. Piotrowski, «Poland’s Holocaust», McFarland & Co., 1998, pagina 39.
2) Queste lobby, scriveva Le Monde del 7 aprile 1998, hanno chiesto alla Chiesa di rettificare le sue posizioni tradizionali, «con emendamenti della predicazione e della catechesi, fino al riconoscimento del carattere ‘irrevocabile’ dell’Alleanza di Dio con il popolo ebraico».
Difatti, scriveva il giornale francese, ad offendere gli ebrei è il fatto che nella Chiesa «fino al Concilio Vaticano II la teoria della ‘sostituzione’ (dell’Antico col Nuovo Testamento, del giudaismo col cristianesimo) fosse sovrana, ed ancor oggi capiti alla Chiesa di presentarsi come il Nuovo e il Vero (verus) Israele».

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