Contro il
carcere, l'art. 41 bis, i reati associativi - Contro l'attacco alle
lotte sociali
A sostegno dei prigionieri rivoluzionari e delle lotte di tutti i
detenuti
Dossier preparatorio, interventi, contributi e saluti all'assemblea
del 14 dicembre 2002 presso la sala dell'USI - V.le Bligny, 22 (Mi)
A cura di compagni e compagne contro il carcere e la repressione
Indice
Presentazione
Parte prima: Dossier preparatorio
all'assemblea del 14.12.2002
Introduzione
Sugli artt. 41 bis e 4 bis dell'ordinamento
penitenziario
I GOM (Gruppo Operativo Mobile)
Le carceri turche e le celle di tipo "F"
La carcerazione speciale in Spagna (i moduli
FIES)
Dall'art. 90 alle carceri speciali, al 41 bis
Il carcere come rapporto sociale
Lettera di una compagna detenuta in un
braccio morto del carcere speciale in Germania
Parte seconda: Interventi, contributi e saluti all'assemblea del
14.12.2002
Avv. Ugo Gianangeli
Un compagno anarchico sui moduli FIES
Una compagna dell'AFAPP
Avv. Sandro Clementi
Lettera del compagno Marcello Ghiringhelli
Un compagno dell'UDAP sui prigionieri
arabo-palestinesi
Compagni del Revoluzionärer Aufbau Shweiz
Un compagno della Panetteria Occupata di
Milano
Un compagno anarchico promotore di Milano
Una compagna del foglio Rivoluzione
Una compagna degli AFRP
Un saluto dei compagni Pietro Guido Felice e
Giorgio Colla
Alcuni compagni francesi sulla proposta di
azione contro le nuove carceri in Francia
Una compagna del Gruppo di Lavoro Contro la
Repressione
Un compagno di Senza Freni
Un compagno del CPO Gramigna di Padova
Un compagno promotore
Un compagno della Nave dei Folli di Rovereto
Lettera inviata ai compagni prigionieri
Elenco dei carceri con sezione sottoposta ad
articolo 41bis O.P.
Contatti:
Fonte:
pubblicato sul sito
http://www.autprol.org
***
Presentazione
Sabato 14 Dicembre 2002 si è svolta a Milano presso i locali dell'USI in
via Bligny una assemblea "contro il carcere, l'art. 41bis e i reati
associativi, contro l'attacco alle lotte sociali, a sostegno dei
prigionieri rivoluzionari e delle lotte di tutti i detenuti". Tale
iniziativa, in preparazione da alcuni mesi, è stata promossa da compagni
con impostazioni, metodologie di lavoro, esperienze differenti,
accomunati dalla necessità di far maturare, dentro il panorama di lotte
politiche e sociali, un agire collettivo contro il potere e i suoi
strumenti di prevenzione, controllo e repressione dello scontro di
classe. Gli incontri settimanali che hanno preceduto questo momento di
discussione pubblica e l'attività di ricerca e di elaborazione
pregressa, anche e soprattutto frutto dell'impegno dei singoli compagni,
hanno portato alla pubblicazione di un dossier in una serie limitata di
copie, come occasione di contro-informazione e di socializzazione del
lavoro svolto, che preparasse il terreno per un primo tentativo di
sensibilizzazione e confronto. L'interesse riscosso per l'iniziativa, il
dibattito formale e informale, gli scambi e gli incontri avvenuti, hanno
rafforzato la convinzione di andare sempre più a fondo alle questioni
sollevate.
Abbiamo sottolineato il dato positivo della partecipazione, anche se
alcuni tra di noi hanno rilevato che la strutturazione dell'assemblea -
in particolare le lunghe relazioni per lo più scritte che riprendevano
largamente i contenuti del dossier - abbia minato la possibilità di un
dibattito più vivace.
Vista la sostanziale novità dell'appuntamento, la particolarità dei temi
trattati e i vari orientamenti politici dei partecipanti, si pensa che
alcune rigidità dell'incontro non potevano essere smussate più di tanto
e che comunque sia servita anche per rompere il ghiaccio.
Non sono mancate proposte differenti e, implicitamente, l'invito a
confrontarle e a renderle operative, partendo dalla constatazione comune
che il controllo e la repressione sono un fatto quotidiano di ampie
fette del proletariato, delle minoranze agenti all'interno della classe,
specificamente dei militanti rivoluzionari. Si è scelto di aprire un
confronto fuori da logiche per così dire "emergenzialiste" e
"individualiste", che ci pongono sempre sul terreno della semplice
reazione, quando si viene colpiti dalla repressione, e che mobilitano i
diretti interessati soltanto nell'impellente necessità di auto-difesa
giuridica, si tratti di singoli compagni, gruppi o organizzazioni, come
di aree politiche.
Controllo sociale e repressione sono aspetti inerenti allo scontro di
classe con cui fare i conti attraverso una progettualità di ampio
respiro, che abbia come proprio orizzonte la trasformazione radicale
degli attuali rapporti sociali e la distruzione di ogni sistema di
dominio e delle sue articolazioni.
Fare contro-informazione, sviluppare iniziativa, lavorare concretamente
sulla complessità carceraria, cercando di stabilire quel rapporto di
interazione reciproca dentro/ fuori dal carcere e quella comunità
d'intenti contro le istituzioni totali, è una necessità imprescindibile
per chi non voglia avere sempre il fiato corto e stupirsi continuamente
delle pratiche repressive dello stato.
Solo i più criminali tra i mistificatori democratici vogliono occultare
la natura controrivoluzionaria dello stato, mitigando ogni spinta
tendente ad oltrepassare la timida reazione di indignazione
innocentista, respingendo con forza ogni pratica di azione diretta,
bollata, sempre e comunque, come criminale e destabilizzatrice
dell'ordine sociale di cui sono i "sinistri" custodi.
Mentre la macchina della detenzione offre ogni giorno prove della sua
produttività e la spirale della criminalizzazione e della
carcerizzazione aumenta, dovremmo forse rassegnarci ad una posizione di
subalterna richiesta di clemenza attraverso il ponte traballante delle
forze politiche istituzionali?
Nel delirio feticista della salvaguardia dell'ordine costituito, della
difesa dell'esistente e degli spazi d'azione sempre più ridotti in tutti
i terreni del conflitto di classe, dovremmo farci complici diretti o
indiretti di una pratica che non porta solo alla sconfitta ma al
martirio bello e buono e all'abdicazione di ogni ipotesi realmente
rivoluzionaria? Dovremmo infine trattare il carcere con il piglio
filantropico e umanitario che ci permetta di lavare la falsa coscienza
che questa società cristallizza, auspicando forme alternative di
controllo e repressione (lavoro coatto, terapeutici lavaggi del
cervello, carceri dal volto più umano, ecc.) oppure squarciare la
cortina di silenzio che lo circonda, insieme a chi ha lottato e lotta
dentro e fuori per la sua distruzione? La mole e la qualità del nostro
sostegno ai rivoluzionari prigionieri non deve semplicemente limitarsi
alla contro-informazione e alla raccolta di fondi, né tantomeno
nascondersi dietro la difesa umanitario-democratica delle vittime della
repressione, magari di "regimi dittatoriali" lontani, secondo una logica
opportunistica di proporzionalità tra solidarietà e distanza geografica.
Non bisogna unirsi a questo silenzio ipocrita e censorio che non fa che
rafforzare il potere stesso: il sostegno ai rivoluzionari prigionieri
deve svilupparsi all'interno di ogni ambito di intervento politico, come
elemento qualificante l'attività militante complessiva. Occorre far
conoscere la voce di tutti i compagni che sono e saranno incarcerati per
le loro pratiche, la loro scelta risoluta di non collaborare con la
Giustizia, che non rinnegano il proprio patrimonio di rivoluzionari, che
non si rendono complici delle strategie e delle tattiche che il potere
usa per indebolire il conflitto.
La percezione di questa moderna malattia sociale, il carcere, sta
cambiando perché l'evidenza dei fatti, là dove la crisi si manifesta più
apertamente (Argentina, Palestina, Algeria, Corea del Sud, ecc.) e il
compromesso sociale ha meno capacità di tenuta, rende cosciente a sempre
più proletari la natura di classe del carcere e la sua necessaria
distruzione.
Abbiamo prodotto questo nuovo dossier che comprende sia i contributi
portati in assemblea, sia le relazioni esposte dai compagni, che quelle
che sono state inviate per essere lette. Alcuni contributi sono stati
modificati personalmente da coloro che sono intervenuti affinché questi
fossero più intelligibili dai lettori. Abbiamo ritenuto importante
ripubblicare, insieme alla totalità degli interventi, il documento
introduttivo all'assemblea del 14 Dicembre perché ne erano state
stampate soltanto un numero limitato di copie, tra l'altro esauritesi in
breve tempo.
Gli interventi si sono così strutturati:
-
Avv. Ugo Gianangeli sul 41 bis
e dintorni, l'attuale dibattito sulla proposta di legge alternativa
e le sue reazioni politiche, la continuità di questa norma nel corso
degli ultimi 25 anni.
- Un
compagno anarchico che ha
parlato della lotta contro il FIES in Spagna.
- Una
compagna dell'AFAP che ha
inviato il suo contributo rispetto agli arresti e alla condizione
detentiva in Spagna e in Francia di alcuni compagni comunisti del
PCE-r e della campagna di criminalizzazione del sostegno ai
rivoluzionari prigionieri.
-
Avv. Sandro Clementi, legale
di alcuni compagni detenuti delle BR-PCC, sulla natura borghese del
diritto e sulla qualità della nostra iniziativa come rivoluzionari.
- Una lettera
del compagno
Marcello Ghiringhelli detenuto
a San Vittore.
- Un
compagno dell'UDAP sulla
condizione carceraria in Palestina e in Israele e sulla condizione
di alcuni compagni palestinesi che lo stato Italiano vuole
espellere, reclusi nei centri di detenzione temporanea nel più
sinistro silenzio e nel parziale disinteresse delle Autorità
Palestinesi.
- Una lettera di
alcuni
compagni del Soccorso Rosso del
Revoluzionärer Aufbau Shweiz, impegnati in un presidio in
solidarietà con Marco Camenisch, sulle leggi di guerra nel fronte
interno europeo e statunitense (liste nere, criminalizzazione delle
organizzazioni, ecc).
- Le relazioni
dei compagni promotori dell'iniziativa, che alleghiamo, tra cui: un
compagno della Panetteria Occupata di
Milano, un
compagno anarchico di Milano,
una
compagna del foglio Rivoluzione
e una
Compagna degli amici e familiari dei
prigionieri rivoluzionari, intervallati da un saluto dei
compagni
Pietro Guido Felice e Giorgio Colla
detenuti nel carcere di Biella e una
proposta d'azione contro le nuove carceri
e la nuova legislazione del controllo sociale in Francia.
Nel dibattito sono
intervenuti una
compagna del gruppo di lavoro contro la
repressione, ribadendo l'importanza di dotarsi di strumenti
di auto-difesa legale militante e di un bagaglio di conoscenze, come
pure di una rete di relazioni adeguate; un
compagno di Senza Freni
sull'esperienza dell'occupazione della comunità terapeutica Primo Maggio
a Parma e sul ruolo della cooperazione sociale nel circuito delle
istituzioni totali in Emilia; un
compagno del CSOA Gramigna di Padova
sulla loro esperienza militante di iniziative contro la repressione; un
compagno che ha promosso l'iniziativa
che ha parlato a titolo personale muovendo alcune critiche
all'insufficienza e alla scarsa rilevanza delle iniziative intraprese
fino ad ora e sulla incapacità dell'assemblea di esprimersi su alcuni
punti e di coinvolgere ex-detenuti "comuni". Infine un
compagno della Nave dei Folli di Rovereto
ha ribadito la necessità di una critica radicale del presente che colga
tutti gli aspetti del controllo sociale e si appronti a una pratica
conseguente, senza che venga data centralità ad un campo od a una
questione particolare.
A fine assemblea è stato redatto e letto un
breve saluto per i compagni in carcere
che qui alleghiamo.
***
Parte prima
Dossier preparatorio all'assemblea del 14.12.2002
Quello che segue è un lavoro "a più mani", espressione di punti di
vista e esperienze di lotta differenti.
Pur conservando queste "diversità", ciò che accomuna i compagni che
hanno raccolto e prodotto il materiale di controinformazione è il
sentire comune della necessità di far maturare, dentro il panorama di
lotte politiche e sociali, un agire collettivo contro il potere e i suoi
strumenti di prevenzione, controllo e repressione dello scontro di
classe.
***
Introduzione
In vista, o agli albori, dell'applicazione dell'articolo 41bis in via
definitiva, e della sua messa in pratica non solo ai cosiddetti
"mafiosi" e a chi "traffica in esseri umani" ma anche ai rivoluzionari
prigionieri, riteniamo indispensabile stimolare un dibattito sia tra le
diverse realtà del movimento rivoluzionario, sia tra i detenuti e i loro
familiari. Ci rendiamo conto dell'enorme ritardo con cui ci approcciamo
a questo dibattito, considerato che l'articolo 41bis è in vigore dal
1991, ma questo ci è di maggiore stimolo per mettere a punto una
discussione che sappia socializzare le diverse esperienze di lotta,
confrontando le proposte che ne emergeranno per poter meglio affrontare
le lotte che questa ennesima manovra repressiva potrà far scaturire
all'interno e all'esterno del carcere. Tale dibattito è indispensabile
per non ritrovarsi ancora una volta impreparati di fronte al nascere di
una protesta, o rivolta, all'interno delle prigioni e per poter meglio
valutare le possibilità esistenti per uno sviluppo ulteriore delle
proteste, magari con metodi differenti da quelli fino ad ora usati.
Inoltre per riflettere e trovare soluzioni sulle modalità delle
possibili lotte fuori dalle galere in sintonia con quanto da dentro si
porta avanti. Le prigioni sono lo specchio del sociale, l'appendice di
un ordine imposto da quanti pretendono di dividere per sempre l'umanità
in ricchi e poveri, dove i poveri dovrebbero accontentarsi di
elemosinare briciole al banchetto dello Stato-Capitale. Parlare di
galera significa parlare di punizione, parlare di punizione significa
parlare di trasgressione delle regole, e di conseguenza, delle regole
stesse. Chi impone queste ultime conoscerà sempre chi, per desiderio o
necessità, cercherà di infrangerle; finché ci saranno ricchezza e
povertà, ci sarà il furto; finché ci sarà il danaro, non ce ne sarà mai
abbastanza per tutti; finché esisterà il potere, nasceranno i suoi
fuorilegge. È proprio nel tentativo di eliminare ogni fermento sociale
che possa fomentare rivolte contro l'ordine costituito, che i paesi
europei - adeguandosi al modello statunitense - si applicano nel
dimostrare di saper tenere in pugno la situazione sociale interna e
nell'appianare i contrasti perfezionando il controllo sociale e
reprimendo il dissenso (dalle manifestazioni di piazza alle lotte dei
lavoratori, dall'occupazione di case ai sabotaggi diffusi contro tutte
le nocività).
Ciò avviene anche attraverso un rapido processo d'integrazione,
legislativo, giudiziario, militare (coordinamento delle polizie locali e
dei servizi segreti, mandato d'arresto europeo e internazionale, "liste
nere" delle organizzazioni rivoluzionarie, di liberazione nazionale o
islamiche, applicazione del reato di "terrorismo internazionale" a
chiunque ne appoggi o ne condivida la prassi o l'ideologia). Si rende
necessario per il potere, Stato per Stato, di rifunzionalizzare gli
apparati repressivi adeguando il controllo sociale allo scontro di
classe in corso e alle contraddizioni che questa fase apre.
Assistiamo quotidianamente al suo funzionamento con l'aumento del
fenomeno d'irruzione nelle case dei compagni, delle perquisizioni nei
centri sociali, nella continua applicazione dei reati associativi, nel
monitoraggio costante e nel rastrellamento d'interi quartieri popolari
per l'«emergenza criminalità», all'aumento dei posti di blocco, ai fermi
arbitrari, alla detenzione nei lager - detti centri di accoglienza
temporanea - con conseguente espulsione degli immigrati senza permesso
di soggiorno. Lo spettro della carcerazione serve per prolungare il
controllo sociale così come ogni forma di repressione serve per
prolungare il consenso forzato. Allo stesso modo le carceri "speciali" e
la legislazione che le legittima (in passato l'articolo 90 e oggi il
41bis) sono studiate per favorire il massimo controllo e la massima
efficienza repressiva e rispondono, per essere legittimate dall'opinione
pubblica, ad esigenze considerate "emergenziali" diventando, di fatto,
strumenti integranti e di perfezionamento del sistema di coercizione
generale.
La lotta contro il carcere comprende molte differenze ed ha bisogno di
confronto, esclude però coloro che hanno a che fare con il potere e con
ogni sua istituzione, con tutti i suoi fiancheggiatori sociali. Chi dice
carcere, infatti, dice giudice, poliziotto, secondino, assistente
sociale, giornalista, politico (di governo o all'opposizione),
costruttore, impresario, appaltatore, psicologo, prete... responsabili
diretti di tutte le angherie, soprusi, torture, privazioni e sofferenze,
di chi si trova ostaggio dello Stato. Essendo il carcere uno degli
strumenti che lo Stato si è dato per esercitare il proprio potere non
dobbiamo farci trovare né impreparati, né passivi, né divisi sul terreno
dello scontro contro ogni forma di dominio economico e politico del
capitale. Costruiamo una rete di controinformazione e mobilitazione che,
a partire dallo "specifico carcerario del 41bis" sostenga la difesa
dell'integrità psicofisica dei rivoluzionari prigionieri, la loro
identità politica la loro storia, una mobilitazione che sappia
indirizzarsi contro l'istituzione-carcere e i suoi sostenitori, per la
libertà di tutti. Ricostruiamo un terreno di solidarietà di classe
anticapitalista e antimperialista, con l'intento di individuare i modi
più opportuni per riuscire a sostenere concretamente le lotte
individuali e collettive dei prigionieri, cioè agire direttamente contro
il potere e i suoi aguzzini.
***
Sugli articoli 41
bis e 4 bis dell'Ordinamento penitenziario
L'articolo 41bis dell'ordinamento penitenziario, la cui applicazione è
stata recentemente prolungata per tutta la legislatura ed estesa ai
cosiddetti reati di "terrorismo" è, insieme all'articolo 4 bis del
medesimo ordinamento, il risvolto carcerario dell'apparato repressivo
che lo stato ha dispiegato nell'emergenza criminalità organizzata a
partire dalla fine degli anni 80.
Il carcere duro, previsto dal 41 bis, ricalca modelli detentivi già
sperimentati con le carceri speciali istituite nel 1977 e l'applicazione
dell'allora articolo 90 per la madre di tutte le emergenze: la lotta
armata. 41 bis e 4 bis si inseriscono storicamente in un contesto
penitenziario segnato dalla approvazione della legge Gozzini (1986) e
delle leggi sulla dissociazione e il pentitismo.
Il carcere è diventato il luogo del reinserimento premiale. Quale
ulteriore elemento di differenziazione, gli articoli 41 bis e 4 bis
inseriscono il mancato accesso ai benefici premiali in base alla
condanna. L'unico modo per potervi accedere consiste nella
collaborazione alle indagini e nell'accertamento di cessato collegamento
con l'«organizzazione» esterna. Il 4 bis impedisce l'accesso ai benefici
di legge (lavoro all'esterno, permessi, licenze, detenzione domiciliare,
semilibertà, affidamento ai servizi sociali o ai programmi terapeutici);
il 41 bis, oltre ad escludere i benefici, istituisce il carcere duro
in cui sono sospese le normali regole di trattamento penitenziario. Con
lo scopo di mantenere un condizionamento premiale anche per le persone
sottoposte a 4 bis e 41 bis la liberazione anticipata è condizionata
alla buona condotta interna al carcere: essa viene conteggiata sulla
base delle relazioni semestrali di buona condotta formulate dal carcere,
in maniera analoga alle altre persone detenute.
La nascita
Gli articoli 4 bis e 41 bis dell'ordinamento penitenziario sono
provvedimenti emergenziali introdotti a partire dall'inizio degli anni
'90 (entrano in vigore nella loro forma definitiva nel 1992).
Il decennio precedente era iniziato con le uccisioni di La Torre e Dalla
Chiesa, di quell'epoca sono il pool antimafia di Palermo guidato da
Falcone, i maxiprocessi e il ricorso al pentitismo. I primi
provvedimenti di questa stagione dell'emergenza "mafia" risalgono al
1982, subito dopo i due omicidi, quando è istituito l'alto commissariato
antimafia e viene approvata la legge Rognoni - La Torre. Il codice
penale contempla la nuova formulazione del reato associativo di tipo
mafioso definendo con l'articolo 416 bis l'associazione di tipo mafioso
"[...] quando
coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del
vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà
che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o
indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di
concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per
realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al
fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di
procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.
[...]"
Insieme all'articolo 416 bis l'altro
reato che più riguarda l'applicazione di 4 bis e 41 bis è il sequestro
di persona a scopo di rapina o di estorsione definito dall'art. 630 del
Codice Penale quando si "[...] sequestra una persona allo scopo di
conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della
liberazione [...]".
A partire dagli anni '80 in nome della lotta alla "mafia" si estende
l'uso arbitrario di arresti e custodia cautelare, pentitismo,
certificazione antimafia obbligatoria, militarizzazione del territorio.
Nel 1986 viene approvata la legge Gozzini e tre anni dopo entra in
vigore il nuovo codice di procedura penale.
La premialità genera una prima differenziazione tra chi accede ai
benefici e chi no, oltre a creare circuiti premiali differenziati per il
reinserimento lavorativo, terapeutico o frutto della dissociazione e
rivelazione di elementi utili alle indagini. Come ulteriore grado di
differenziazione e desolidarizzazione il 4 bis e il 41 bis introducono,
in base al reato, l'impossibilità di accedere ai benefici a chi non si
dissocia e fa i nomi dell'organizzazione criminale ed eversiva. Dal 1992
la loro applicazione, la cui validità è temporanea (semestrale), è stata
sempre rinnovata, fino a diventare nei fatti - e ora anche formalmente -
regime penitenziario permanente.
Il 4 bis e il 41 bis sono il risvolto penitenziario di un apparato
emergenziale consolidatosi in Italia negli ultimi decenni contro la
criminalità organizzata e i reati considerati di "terrorismo": comitati
provinciali per l'ordine e la sicurezza pubblica, procura nazionale
antimafia e procure distrettuali, direzione investigativa antimafia,
pool giudiziari, maxiprocessi, pentitismo, reparti speciali delle forze
armate e di polizia, militarizzazione del territorio.
L'utilizzazione
Negli anni il 41 bis, non solo è stato regolarmente rinnovato, ma la sua
applicazione si è via via estesa a nuove categorie di reato e forme di
criminalità organizzata. Analogamente l'articolo 4 bis è abbondantemente
applicato quale punizione aggiuntiva per le persone detenute nelle
sezioni comuni, che in questo modo devono scontare, per intero, in
carcere la condanna. Già da qualche anno rientrano nell'applicazione del
41 bis le persone condannate per appartenenza ad organizzazioni
criminali straniere, così come la recente disposizione del governo
estende l'uso del 41 bis all'emergenza "terrorismo" e ne prolunga la
durata per i prossimi quattro anni. Grazie alla loro formulazione gli
articoli 4 bis e 41 bis sono utilizzati in maniera diffusa. Essi
comprendono qualsiasi tipo di "delitto" teso ad agevolare l'attività
delle organizzazioni e qualsiasi persona indicata dalla procura
nazionale antimafia. Nella criminalità organizzata e per i reati
considerati di "terrorismo" possono essere inclusi numerosi fenomeni
associativi, così come ampio è il ricorso alle condanne per sequestro di
persona. La loro introduzione ha avuto una ricaduta negativa sulla
concessione complessiva dei benefici, orientando tribunali e
magistratura di sorveglianza in senso restrittivo anche al di là dei
casi interessati dagli articoli 4 bis e 41 bis. L'applicazione
dell'articolo 41 bis (il regime di carcere duro) è cresciuta negli anni
e riguarda circa 650 persone detenute; il 4 bis, che prevede
l'esclusione dai benefici e la detenzione in istituti e sezioni
carcerarie comuni, è applicato a migliaia di persone detenute.
Circuiti differenziati
Come nel 1977 era stato per l'istituzione delle carceri speciali e
dell'articolo 90, così con il 41 bis il circuito penitenziario si
diversifica con propri regimi detentivi, istituti, sezioni, personale e
strutture di riferimento esterne. Le persone detenute in 41 bis sono
sorvegliate da agenti di polizia penitenziaria che non entrano in
contatto con le sezioni comuni delle carceri. I GOM (gruppo operativo
mobile), quei massacratori che "pare" siano stati scoperti per la prima
volta durante il G8 di Genova, sono agenti speciali della polizia
penitenziaria, alle dirette dipendenze del ministero, incaricati di
effettuare ispezioni, trasferimenti e attività di intelligence
carceraria relativamente alle persone in 41 bis. Gli articoli 41 bis e 4
bis contengono anche una differenziazione al proprio interno basata
sulla creazione di tre fasce di pericolosità dei reati cui corrispondono
diversi gradi di possibilità di accesso ai benefici.
Reati di prima fascia: 416 bis CP (associazione mafiosa), al fine
di agevolare l'attività delle associazioni del 416 bis CP, delitti art
630 CP (sequestro di persona), art 74 decreto del Pres. della Repubblica
9 ottobre 1990 n. 309 (traffico stupefacenti). Rientrano in questa
fascia le recenti formulazioni di reato di terrorismo (2002).
Reati di seconda fascia: come la prima fascia con circostanze
attenuanti art. 62 numero 6, art. 114 CP, art. 116 secondo comma.
Reati di terza fascia: delitti commessi per finalità di
terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale, art. 575, 628
terzo comma, 629 secondo comma, art. 73 nelle ipotesi aggravate ai sensi
dell'art. 80 comma 2 del decreto del Pres. della Repubblica 9 ottobre
1990 n. 309.
Il procuratore nazionale antimafia e il procuratore distrettuale, su
segnalazione del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza, hanno
inoltre la facoltà di stabilire l'applicazione degli articoli 4 bis e 41
bis a qualsiasi persona detenuta ritenuta in collegamento con la
criminalità organizzata, al di là dei reati per cui essa è condannata.
Per i reati di prima fascia l'unica alternativa al carcere duro è
la collaborazione con l'autorità giudiziaria che porti benefici concreti
all'azione repressiva. Tale forma di collaborazione sulla base di una
propria disciplina specifica dà accesso a benefici e programmi di
protezione.
Per i reati di seconda fascia occorre una collaborazione anche
senza effetti pratici sulle indagini e l'accertamento dell'esclusione di
collegamenti con la criminalità organizzata. Rispetto ai reati di
terza fascia la revoca è condizionata dall'esclusione di qualsiasi
collegamento con l'«organizzazione» esterna.
La differenziazione si ripercuote anche nei regimi detentivi di
sicurezza del 41 bis. Un regime iniziale di massima sicurezza
estremamente duro, della durata di almeno un anno e un regime ordinario
di sicurezza speciale. Il primo viene applicato con lo scopo di creare
un isolamento completo e favorire la confessione.
Limitazioni della difesa
La discrezionalità che l'articolo 41 bis prevede per gli apparati
preposti a verificarne la legittimità rende vano qualsiasi tentativo di
ricorso contro la sua applicazione, anche prima della sentenza di
condanna definitiva. Per revocare 41 bis e 4 bis, fuori dai casi di
collaborazione, si deve escludere qualsiasi collegamento con
l'«organizzazione»esterna secondo le informazioni fornite dall'apparato
investigativo (sia giudiziario sia di polizia). I collegamenti
comprendono qualsivoglia rapporto o relazione con ambienti o persone
appartenenti alla criminalità organizzata, anche se non condannate a tal
riguardo. Rispetto ai collegamenti con le organizzazioni esterne vige
una presunzione di colpevolezza dettata dalla sentenza di condanna che
ne stabilisce l'esistenza al momento della commissione del delitto.
Per la revoca del 4 bis e 41 bis occorre una prova negativa che
dimostri la scomparsa di tali collegamenti e a fornirla devono essere
gli apparati giudiziari e di polizia. I colloqui con l'avvocato dentro
il carcere si svolgono con vetro divisorio e citofono o interfono.
Nell'applicazione del 41 bis sono previsti anche i processi in
video-conferenza con la lontananza della persona imputata dall'aula del
dibattimento e il collegamento telefonico con la difesa.
Limitazioni dei contatti esterni
I contatti tra la persona detenuta e l'esterno sono volutamente
limitati, anche per quanto riguarda il nucleo familiare che è
considerato dall'istituzione un potenziale tramite con l'organizzazione
esterna. Le persone sottoposte a 41 bis sono detenute in carceri
speciali, o sezioni speciali di istituti, in città distanti da quelle di
provenienza; i colloqui sono limitati nel tempo (più di quanto imposto
alle altre persone detenute) e nelle forme (vetri divisori e controlli).
Il regime 41 bis di massima sicurezza prevede un unico colloquio
al mese, quello di speciale sicurezza ne prevede da due a quattro
che si svolgono in un locale molto piccolo, una sorta di acquario col
vetro divisorio fino al soffitto, telecamera e citofoni per parlare con
i parenti; a volte questi "locali" sono di 1 metro per 1 metro e i
familiari devono fare i turni per parlare al citofono.
Le restrizioni riguardano anche i colloqui telefonici che non possono
essere effettuati verso le abitazioni di residenza della famiglia né ad
apparecchi mobili. I famigliari, su appuntamento, si devono recare
presso il carcere cittadino e da lì ricevere le telefonate per una
durata inferiore di quella concessa con la detenzione ordinaria. Sono
penalizzati anche i pacchi dall'esterno e la posta. C'è il visto di
controllo sulla corrispondenza in arrivo e in partenza: le lettere in
arrivo vengono aperte e controllate, quelle in partenza devono essere
consegnate aperte.
Limitazioni della vivibilità interna
Le sezioni del 41bis sono sempre in una palazzina separata dal resto del
carcere e 6 di queste hanno una cosiddetta "Area Riservata" per i
detenuti definiti "eccellenti". Solitamente sono al piano terra della
sezione, quella meno areata e illuminata del carcere, con il cesso nella
cella posto dietro un muretto. Il "passeggio" di quei detenuti più
"speciali" degli altri è una sorta di gabbia in cemento armato di due,
tre metri per cinque e alta tre metri, chiusa in cima da una pesante
rete metallica a maglie molto strette, il tutto video sorvegliato. In
queste aree possono finirci anche detenuti che non hanno commesso grossi
reati o che sono prossimi al fine pena.
Le sezioni "normali" del 41bis hanno un bagno separato.
In alcune sezioni (Cuneo, L'Aquila, Viterbo) ci sono fino a tre
sbarramenti alle finestre delle celle: il primo di sbarre vere e
proprie, il secondo di una rete abbastanza fitta, il terzo fatto da una
serie di fasce di ferro o di vetro anti-scasso attaccate una sopra
l'altra a formare una specie di tapparella ("gelosia" in gergo
penitenziario) leggermente inclinata verso l'esterno, dalla quale filtra
poca aria e poca luce, con conseguente abbassamento della vista. Il 41
bis prevede poche ore d'aria e durante queste limita le possibilità
d'incontro tra le persone detenute a piccoli gruppi (da due a otto
persone) o in solitudine. Non si ha accesso alle strutture sportive e ai
luoghi di socialità comune. Il passeggio è confinato a vasche di
cemento.
La lista di beni alimentari acquistabili con la spesa è limitata, non si
possono cucinare le pietanze, né si ha accesso alla commissione di
controllo in cucina. Le numerose restrizioni riguardano gli oggetti
consentiti in cella, comprese le fotografie, le musicassette e le
bottiglie. Le persone sottoposte a regime 41 bis sono escluse dai
programmi didattici e dalla frequentazione di scuole e corsi interni al
carcere. È limitato l'accesso alle biblioteche e i contatti con il
volontariato, così come la scelta di giornali e riviste. Si può tenere
in cella un numero ridotto di libri, fascicoli, quaderni e penne. Sono
vietate le pubblicazioni con copertina rigida.
E ancora...
Oltre a tutto ciò che il 41 bis prevede per legge e nelle circolari di
applicazione, c'è un settore sommerso di diversi comportamenti extra
legali che ha luogo nelle diverse carceri e sezioni. Notizie di
maltrattamenti, pestaggi, torture, soprusi e vere e proprie esecuzioni
sono emerse da dietro le mura. In ogni istituto o sezione 41 bis
esistono particolari tipi di vessazione imposti dagli agenti
penitenziari, dalla direzione o dalla magistratura e tribunali di
sorveglianza.
Conclusioni
Sino a qui, ciò che è stato e ciò che è a tutt'oggi.
Con le nuove leggi europee si allargano le possibilità repressive che
gli Stati si sono dati per controllare e reprimere il dissenso.
Difatti, in materia di legislazione europea, si arriva a prevedere il
fine terrorista anche per i reati di "occupazione abusiva o
danneggiamento di infrastrutture statali e pubbliche, mezzi di trasporto
pubblico, luoghi e beni pubblici (...) cui potrebbero rientrare gli atti
di guerriglia urbana".
Qualsiasi forma di dissenso politico che travalichi o minacci la
legalità è terrorismo, quindi anche qui è possibile che venga applicato
l'art. 41bis a chi verrà imputato di tali azioni.
Appare subito evidente che se non iniziamo ad opporci concretamente,
presto ci ritroveremo di fronte ad enormi difficoltà di movimento.
La storia ci ha insegnato che è sempre nei momenti di abbassamento del
livello di scontro che il potere trova il tempo e i modi per
razionalizzarsi e approntare i propri mezzi di difesa e attacco contro
gli sfruttati e chi si ribella. E non credano, coloro che sono abituati
a dialogare con le Autorità, o che pensano (ragionando in termini di
slogan) che "fare la tal cosa non è reato", di essere esenti dalle
attenzioni repressive.
Le ultime incriminazioni per il reato di associazione sovversiva sono
state costruite partendo dalla contestazione di reati di entità
notevolmente differente, come l'attentato, la rapina, il danneggiamento,
la propaganda, il furto di un auto e, da ultimo - per le nuove
disposizioni europee - anche gli incidenti durante le manifestazioni e
l'interruzione di pubblico servizio.
Qualsiasi reato potrà essere contestato con l'aggravante "terrorismo",
di conseguenza chiunque potrà finire nei circuiti del 41bis.
È una cosa che riguarda tutti, ladri, ribelli, rivoluzionari e
antagonisti, chiunque violi, per scelta o necessità, il Codice Penale.
Carceri con sezioni del 41bis |
Cuneo;
L'Aquila; Marino del Tronto (AP); Novara; Parma; Pisa
(centro diagnostico terapeutico); Roma Rebibbia (femminile e
maschile); Secondigliano (NA); Spoleto; Terni; Tolmezzo (UD)
Viterbo |
Detenuti in 41bis
al 27.07.02 |
645 di
cui 17 nell'area riservata |
Posizione giuridica |
421
definitivi; 55 ricorrenti; 81 appellanti; 79 in attesa di
primo giudizio; 9 non classificati |
***
I GOM (Gruppo
Operativo Mobile)
È un gruppo scelto di agenti di Polizia Penitenziaria che opera alle
dipendenze dirette del Direttore del Dipartimento dell'Amministrazione
Penitenziaria presso il Ministero di Giustizia. Questo corpo speciale
nasce da un decreto interno al Dipartimento dell'Amministrazione
Penitenziaria nel 1997, sulla base di indicazioni già contenute in un
decreto del 1994, dopo che era scoppiato lo scandalo dei pestaggi nel
carcere di Napoli Secondigliano - vedi il dossier del Comitato
Liberiamoci dal carcere di Napoli "Da Sassari a Poggioreale" del 2000 (http://www.ecn.org/ska/carcer/dossier.html)
-. Tra le finalità ufficiali di questa struttura vengono indicate il
mantenimento dell'ordine e della disciplina negli istituti penitenziari,
con priorità a interventi in occasione di "gravi situazioni di
turbamento"; inoltre i Gom sono impegnati nel garantire la sicurezza
delle traduzioni e piantonamento relativi a detenuti ed internati
definiti ad altissimo indice di pericolosità e con particolare posizione
processuale (collaboratori di giustizia e altri), che possono essere
effettuati, per motivi di sicurezza e riservatezza, in deroga alle
vigenti disposizioni amministrative in materia, con particolari modalità
operative. Il GOM provvede, sia in via esclusiva che di concorso,
secondo specifiche disposizioni impartite dal Direttore Generale, al
servizio di custodia dei detenuti sottoposti al regime di cui all'art.
41 bis dell'Ordinamento Penitenziario (carcere duro), laddove esista
l'opportunità di ulteriori misure di sicurezza, e dei "collaboratori di
giustizia" in stato di detenzione, ritenuti maggiormente esposti al
rischio di aggressioni. Infine al GOM competono i servizi di tutela e
scorta del personale in servizio presso l'Amministrazione penitenziaria
esposto a particolari situazioni di rischio personale (effettuati dal
Nucleo Tutela e Scorte costituito da circa 50 unità), la traduzione di
tutti i detenuti "collaboratori di giustizia", ad altissimo rischio, la
gestione del servizio di multivideocomunicazione (processi in
videoconferenza) e gli interventi disposti dal Direttore Generale nei
casi di emergenza previsti dall'art. 41 bis (irruzioni nelle celle,
intercettazioni).
Il GOM, diretto dal Generale Alfonso Mattiello, è costituito da circa
600 uomini alle dirette dipendenze della Direzione del Dipartimento
dell'Amministrazione Penitenziaria. Ufficialmente ha compiti di
sorveglianza e protezione dei detenuti di massima pericolosità.
Come già scritto, il GOM nasce nel 1997, dalle ceneri dello Scop
(Servizio coordinamento operativo), un corpo composto da 500 uomini
sparsi in tutta Italia e pronti a correre da un carcere all'altro in
caso di rivolte o di particolari necessità.. Lo Scop infatti, oltre a
sedare le proteste ha avuto la funzione, poi ereditata dal Gom, di
acquisire informazioni. Il corpo speciale del GOM è il fiore
all'occhiello del corpo di Polizia Penitenziaria - si veda il sito
http://www.poliziapenitenziaria.it
- e gode di cospicui finanziamenti. In realtà l'operato degli agenti GOM
si contraddistingue dalla particolare brutalità nelle ispezioni che
regolarmente si trasformano in devastazioni delle celle, degli oggetti
personali delle persone recluse, nonché maltrattamenti e soprusi nei
loro confronti. Proprio per questo si era pensato a un coinvolgimento
dei GOM nel pestaggio del carcere di Sassari dell'aprile 2000, sebbene
sia poi emerso che la presenza di agenti GOM fosse limitata a poche
unità. I GOM sono coperti dalla più totale impunità in quanto non
rispondono delle loro azioni né alla Direzione né al Comando delle
guardie dell'Istituto penitenziario in cui intervengono e godono
dell'autorizzazione a intervenire direttamente dal Ministero. Vengono
anche utilizzati in modo mirato per colpire i traffici che vedono il
coinvolgimento di agenti penitenziari locali. Durante gli anni '90
furono aperte due grandi inchieste per maltrattamenti avvenuti nelle
carceri di Secondigliano e Pianosa. Vennero rinviati a giudizio 65
agenti dello Scop diretti dal generale Enrico Ragosa, poi passato al
Sisde e adesso alla direzione dell'UGAP (Ufficio Garanzie Penitenziarie)
che dirige l'attività dei GOM (http://www.giustizia.it/guidagiustizia/dap_ugap.htm).
Il carcere di Pianosa venne in seguito chiuso per intervento dell'ex
direttore del Dap, Alessandro Margara, all'epoca magistrato di
sorveglianza a Firenze. Oggi il ministro della Giustizia Castelli chiede
la riapertura del carcere di Pianosa, insieme a quella di altri istituti
dismessi. Lo Scop fu poi disciolto ma il suo posto fu preso dal GOM,
dove confluirono gli stessi agenti. Nel 1998, 15 agenti GOM entrano nel
carcere milanese di Opera per effettuare una perquisizione
straordinaria. Anche in quell'occasione si utilizzò il paragone cileno:
"Detenuti spogliati, qualcuno anche tre volte, costretti a ripetuti
piegamenti, pure i cardiopatici e gli anziani; quindi raggruppati nel
cortile, al freddo dalle 9.30 alle 13.30, chi in accappatoio, chi
scalzo, mentre le celle venivano perquisite". "Alcuni agenti di Opera
erano sconcertati, ed hanno raccontato di aver rischiato di arrivare
alle mani con i loro colleghi del Gom". Le richieste di scioglimento dei
GOM in quell'occasione non portarono a nessun risultato, anche se, come
in passato per gli scandali riguardanti lo Scop, nacque l'esigenza di
cambiare la sigla del corpo, o confonderla in quella di un ufficio di
coordinamento. Nel 1999 Diliberto, ministro della Giustizia del governo
D'Alema, dopo aver posto ai vertici dell'Amministrazione Penitenziaria
Giancarlo Caselli in sostituzione di Margara, fa nascere l'UGAP (Ufficio
Garanzie Penitenziarie) che attualmente dirige l'attività dei GOM. A
capo dell'UGAP viene messo il generale Enrico Ragosa, già degli Scop e
del SISDE, che guiderà anche la spedizione di funzionari del ministero
di giustizia italiano in Kossovo per procedere alla ricostruzione e
riorganizzazione post-bellica del sistema penitenziario Kosovaro. Nel
febbraio del 2000 il GOM ottiene un distintivo di appartenenza, nel
marzo 2000 agenti dei GOM intercettano, in palese violazione della
legislazione vigente, le comunicazioni tra un imputato e il suo avvocato
durante un processo per associazione camorristica. Il Gruppo Operativo
Mobile dispone di automezzi e autovetture, anche protette. Il perfetto
stato di efficienza dei mezzi, per l'immediato impiego, è garantito dal
Centro Servizi, ove opera personale di polizia penitenziaria con
specifica esperienza nel settore (circa 15 unità), per il quale
l'aumento delle esigenze operative, unitamente al potenziamento della
dotazione di veicoli, ha comportato un incremento notevole delle
attività. Il GOM ha operato ed opera presso le Case Circondariali di
Roma "Rebibbia Nuovo Complesso", Roma "Regina Coeli", Velletri, Viterbo,
L'Aquila, Ascoli Piceno, Pisa, Cuneo, Napoli "Secondigliano", Catanzaro,
Agrigento, Palermo "Ucciardone", Palermo "Pagliarelli", Trapani, Novara,
Tolmezzo, Alessandria, nonché presso le Case di Reclusione di Spoleto,
Sulmona e Parma.
***
Le carceri turche e
le celle tipo "F"
La carcerazione speciale in Turchia necessita un discorso differente dal
resto dei regimi di detenzione europei. Essa deve la sua metamorfosi ad
un percorso d'integrazione al modello occidentale dei sistemi di contro
rivoluzione preventiva intrapreso dallo Stato turco.
La Turchia, dal punto di vista strategico militare, riveste un ruolo
particolarmente importante tra occidente e medio oriente, è quindi una
base strategica fondamentale per il guerrafondismo capitalista
americano/occidentale - vedi Iraq e Afghanistan. Lo Stato turco, come
membro della Nato, fedele alleato con le forze statunitensi nella nuova
"guerra infinita al terrorismo" e prossimo all'ingresso nell'Unione
Europea, deve adeguare la propria immagine di Paese dalle maniere
repressive "primitive" ad una più consona di Stato democratico, questo
anche a riguardo alle patrie galere. Esso deve rimodellare le sue
carceri introducendo l'isolamento, prendendo a modello le celle come
quelle americane e spagnole, pur non disdegnando la vecchia ma sempre
praticata tortura e guadagnandosi il rispetto a suon d'asservimento agli
U.S.A., i quali contraccambiano regalando al regime di Ankara armi ed
elicotteri di propria fabbricazione.
Nel 1996 viene introdotta la prima cella di tipo "F" (F type).
Questa "innovazione" in campo carcerario persegue l'obiettivo d'isolare
i prigionieri politici dai detenuti comuni. L'applicazione
dell'isolamento nelle attuali condizioni delle carceri turche, peraltro,
è di difficile attuazione dato l'ammassamento dei prigionieri nelle
celle comuni. Questa prima cella tipo "F" fu accolta dai detenuti con
uno sciopero della fame che vide coinvolte 69 persone, tra le quali
aderirono prigionieri comuni islamici. Morirono 12 persone, riuscendo
col loro gesto a far chiudere il carcere in questione, non rendendo vana
la loro lotta.
L'obiettivo delle celle di tipo "F" oltre che a voler dividere i
detenuti, è anche quello di distruggere l'identità rivoluzionaria dei
prigionieri politici, oltre che spingere al pentitismo, alla delazione o
alla dissociazione.
Numerose furono le rivolte, represse brutalmente dai secondini congiunti
alla Cevik Kuvvetleri (forze di azione rapida) e squadre
anti-sommossa che usarono largamente armi da fuoco e liquidi
infiammabili. Clamorosi furono i casi delle sanguinose sommosse negli
anni '95, '96 e '99, costate la vita a molti detenuti, e il ferimento di
altre centinaia, che furono mutilati, stuprati, torturati, resi
irriconoscibili. I prigionieri di fronte a simili barbarie, hanno sempre
fronteggiato dignitosamente le istituzioni carcerarie e la mafia interna
(utilizzata per vere e proprie esecuzioni specialmente per i detenuti in
sciopero della fame) resistendo anche fino alla morte. Strumento
importante, per le lotte contro il carcere, utilizzato dai detenuti in
Turchia è lo sciopero della fame. Tra gli ultimi nell'Ottobre del 2000,
819 prigionieri politici in 18 carceri differenti iniziano uno sciopero
della fame ad oltranza. In seguito, in 13 carceri, 203 prigionieri
politici trasformarono la loro resistenza in uno sciopero della fame
sino alla morte: 50 donne, 153 uomini.
Nel Dicembre 2000 questa lotta fu repressa brutalmente dallo Stato col
fuoco e le pallottole.
Ci sono state manifestazioni di protesta di massa in Turchia, con la
partecipazione di decine di organizzazioni, sindacati ed associazioni
per i diritti umani: tutti quelli che hanno protestato sono stati
colpiti dalla repressione, con diversi arresti e la chiusura di varie
associazioni (tra cui quella delle famiglie dei prigionieri, Tayad),
giornali censurati, avvocati minacciati. Lo Stato non è comunque
riuscito, attraverso i massacri, a fermare la campagna di scioperi della
fame, nemmeno minacciando i dottori e continuando la tortura attraverso
l'alimentazione forzata e l'incatenamento dei prigionieri ai letti.
Il 28 maggio 2002 i detenuti sanciscono la cessazione dello sciopero
della fame ad oltranza, ma questo non segnerà la fine delle lotte contro
le celle di tipo "F" promosse e appoggiate dai militanti rivoluzionari e
da molti detenuti comuni. La lotta cambierà le modalità ma non perderà
la sua forza nonostante la repressione tuttora in atto.
I prigionieri, quindi, continueranno a rivendicare: l'abolizione delle
celle di tipo "F"; la fine delle torture, sia fisiche sia psicologiche,
e dell'isolamento; l'introduzione periodica di controlli alle prigioni
da parte di avvocati addetti a questo compito, medici selezionati dai
prigionieri, delegati di organizzazioni che appoggiano i detenuti,
O.N.G. per i diritti umani e il sindacato della Magistratura; controlli
non arbitrari e tutelati dalla legge; l'abolizione della legge
antiterrorismo n° 3713; la cancellazione del protocollo tripartito (del
Ministero della Giustizia, degli Affari Interni e della Salute) che
abolisce la difesa e legittima il trattamento coatto dei malati e la
tortura; l'abolizione del DGM (Corti di Sicurezza Statali) risalenti al
periodo della giunta; che siano processati i responsabili delle morti e
dei feriti causati dagli attacchi a diversi carceri; il rilascio dei
malati e dei feriti.
Tratto da "Solidaridad, por un
Socorro Rojo international" N. 5 ottobre 2002
Lo sciopero della fame più lungo di tutta la storia continua a
verificarsi nelle carceri turche di sterminio. I dati affermano che i
nostri prigionieri, quelli del TKEP/L, continuano la protesta ad
oltranza. In maggio molte organizzazioni decisero di porre fine allo
sciopero ad oltranza fino alla morte, per ragioni che non condividiamo
fino in fondo, ma che sono da rispettare, soprattutto quando continuano
a dimostrare che la loro resistenza continua nelle carceri di sterminio.
Gli scioperi della fame, comunque, continuano e fino ad oggi i morti
rivoluzionari arrivano a 92. Anche le azioni di solidarietà, gli
incontri, le proiezioni di video e le iniziative contro la situazione
turca nel resto d'Europa stanno continuando apportando un grosso
contributo d'appoggio ai prigionieri in lotta. In risposta a queste
rivolte ed espressioni di resistenza e lotta, il DHKP/C è stato incluso
nella lista delle organizzazioni terroriste.
***
La carcerazione
speciale in Spagna (i moduli FIES)
Durante gli anni '70 e '80 in molte carceri della Spagna vi furono
diverse sommosse caratterizzate da vere e proprie rivolte, scioperi
della fame e dei laboratori di lavoro e parecchi morti e feriti tra i
prigionieri e tra i carcerieri. Alla fine di Gennaio del 1977 esce
pubblicamente il "Manifesto dei prigionieri sociali di Carabanchel", che
è il risultato dello studio delle cause della loro situazione e la sua
possibile soluzione.
Si forma il coordinamento dei prigionieri in lotta (COPEL) che rivendica
miglioramenti concreti nelle carceri, un'amnistia totale, e
l'abbattimento delle leggi e delle strutture ereditate dal franchismo. A
questa situazione lo Stato rispose con una forte repressione, che
comportò l'indebolimento e la successiva scomparsa del COPEL. Nel 1991,
mentre in Italia veniva istituito il 41bis, in Spagna vengono instaurati
i regimi speciali per i prigionieri F.I.E.S. (archivio di interni in
speciale osservazione), su richiesta dell'esponente del partito
socialista spagnolo (P.S.O.E.), Antoni Ansuncion.
Nel 1994 il Tribunale Costituzionale accordò di sospendere questo regime
FIES fino a quando si trasmise a questo Tribunale il ricorso di tutela
di diritti presentato da alcuni detenuti.
Dopo la promulgazione del nuovo regolamento penitenziario, la filosofia
della circolare del 2/8/91 che regola il regime al quale sono sottoposti
i prigionieri FIES, continua ad esistere.
Questo regime, la cui durata è a tempo indeterminato, prevede un
isolamento pressoché totale; i piccoli cortili per l'ora d'aria sono
coperti da reti metalliche; vengono effettuate perquisizioni integrali;
esposizioni arbitrarie ai raggi X; torture fisiche; trattamenti
farmacologici con psicofarmaci e letti di contenzione.
I moduli sono progettati e suddivisi in cinque sezioni e vi sono
rinchiusi individui catalogati in base alla loro pericolosità sociale:
- FIES I -
rinchiude individui protagonisti di rivolte, azioni contro il
sistema e le autorità, tentativi di evasione.
- FIES II -
racchiude indiziati per traffico di droga e riciclaggio.
- FIES III -
racchiude presunti appartenenti ad organizzazioni rivoluzionarie.
- FIES IV -
raggruppa appartenenti alle forze di sicurezza dello Stato per
proteggerne l'integrità.
- FIES V - vi
sono collocati gli antimilitaristi e coloro che destano allarme
sociale.
Dal '94 in poi le
lotte contro le condizioni carcerarie e il carcere stesso continuarono
dentro e fuori, nonostante l'istituzione del regime speciale. Di
particolare rilievo fu un episodio del 1997, quando diverse persone e
collettivi si rinchiusero nella cattedrale dell'Almudena per protestare
ed esigere la chiusura dei moduli FIES.
Dal 1999 ad oggi i prigionieri FIES continuano la lotta che si manifesta
con continui scioperi della fame, rifiuto dell'ora d'aria, di effettuare
le pulizie, spesso si scontrano con le guardie, devastano le celle e
rendono inagibili le sezioni. All'esterno vi sono state varie
manifestazioni di solidarietà che sono spaziate dai cortei ai presidi
sotto le carceri, dalla controinformazione alle azioni dirette contro
strutture legate all'istituzione carcere, contro giornalisti e banche.
Solidarietà che si è espressa sia in Spagna sia in altri paesi europei,
Italia compresa.
Attualmente i prigionieri nei moduli F.I.E.S. esigono:
- la
scarcerazione dei detenuti con malattie terminali;
- la cessazione
della dispersione dei detenuti;
- la cessazione
dell'isolamento e l'abolizione dell'archivio F.I.E.S.
Testimonianza tratta da una
lettera di Claudio Lavazza, arrestato nel '96 e da allora rinchiuso in
un modulo F.I.E.S.
(...) "La proposta seria di lotta l'abbiamo pure lanciata ai quattro
venti ed è pubblicata nella rivista Senza Censura n°5 (giugno
2001, pag. 47) che, riassumendo, diceva: 'se ci costringete a vivere
nella merda, che nella merda ci vivano anche quelli che ci sorvegliano'.
Si trattava di otturare i cessi per far si che la tubatura scoppiasse in
tutto il modulo FIES, ed è quello che successe nel carcere di Picassent,
a Valencia. Dopo una settimana impiegata ad otturare i W.C. con stracci,
borse di plastica, ecc ... le tubature saltarono inondando di merda
anche i locali normalmente frequentati (per il loro lavoro) dai
secondini, obbligandoli a chiudere immediatamente l'intero modulo per il
grave pericolo di infezioni, e anche perché non avevano il coraggio di
lavorare con mezzo metro di merda nel pavimento. A me, noi non ce ne
frega niente di rimanere mesi con la merda nelle celle... però ai
secondini sì che gli dà fastidio... eccome! Quante volte abbiamo chiesto
la chiusura dei Bracci FIES con i nostri scioperi della fame? Però è
bastato riempirli di merda per chiuderli momentaneamente... Vi
immaginate se tutti i Bracci FIES fossero riempiti di escrementi? Al
potere gli interessa solo l'economia, e l'esistenza sicura dei suoi
servi, a questi non basta un buon salario, chiedono anche buone
condizioni nel posto di lavoro... e con la merda non si scherza. Nessuno
ci vuole avere a che fare. Questa grande proposta l'abbiamo fatta
circolare un po' dappertutto, assieme ad altre di sabotaggi continui e
ripetuti alle strutture di vigilanza e controllo, camere, metal
detector ecc., però non c'è stata risposta, se non in poche
situazioni. Il trucco, se così lo possiamo chiamare, è di rompere e
sabotare senza essere visti, senza che i cani possano accusarti di aver
fatto... Anche perché, per un vetro rotto ti possono aumentare la
condanna di due anni. (...) C'è chi si lamenta che le cose non sono più
come erano anni fa quando c'erano i compagni/e. Tenete presente che
quando circa 400 prigionieri hanno iniziato lo sciopero della fame solo
il 10% sarebbe stato d'accordo ad una lotta di bassa intensità
(sabotaggi); quella ad alta intensità (senza armi) non possiamo
dichiararla, anche perché queste strutture sono concepite in modo che la
custodia ti possa bloccare da solo con 15 o 20 secondini armati di tutto
punto (anti-sommossa). Però una cosa è chiara e deve esserlo per tutti
quelli che soffrono le torture e le ingiustizie, e cioè che niente deve
essere dimenticato e alla prima occasione, quando tu lo decidi e non
loro, abbiamo il dovere di vendicarci del torturatore. Ad es., a Jaen,
nel carcere dove stavo prima, se un compagno veniva torturato o
insultato, quel giorno stesso e quella notte si picchiavano le porte
(non dormiva nessuno perché il rumore si poteva sentire fino a parecchi
Km di distanza), e poi insulti al direttore dalle finestre, senza poi
dimenticare la guerra di bassa intensità. Ci costava, però quasi sempre
ottenevamo quanto richiesto, vale a dire l'allontanamento dei secondini
torturatori, e ciò era sempre festeggiato da noi come una vittoria. Di
idee ce ne sono un mucchio, tanto scritte quanto dette, noi le abbiamo
anche messe in pratica e hanno funzionato. Se non si fa è perché non si
vuole o perché c'è molto da perdere. Chiaramente se ci fosse un buon
appoggio dal movimento esterno forse sarebbe diverso. (...) A Cordoba si
sente come maltrattano un prigioniero, però nessuno protestava, cosa del
tutto impensabile in un Modulo dove ci sono solo i più ribelli con o
senza preparazione politica. Questa mancanza di solidarietà è dovuta
alle differenze che creano i benefici penitenziari. Come nella società
libera chi ha di più è meno interessato alla situazione di chi ha nulla.
Un prigioniero FIES ha niente, per lui il carcere è un inferno; uno in
2° grado ha quasi tutto, questo fa la differenza e, credetemi, la
distanza tra una realtà e l'altra la si può calcolare in anni luce.
(...)".
Maggio 2002
***
Dall'art. 90 alle
carceri speciali al 41 bis
Il carcere imperialista e il suo funzionamento sono una delle più alte
espressioni del domino coercitivo imposto nella società divisa in classi
come quella in cui viviamo. Proprio per questo esso può rappresentare
un'illuminante chiave di lettura per comprendere i codici che regolano
la società attuale, la lotta di classe e i rapporti di forza in campo.
Non a caso si sente spesso ripetere: "Il carcere è lo specchio della
società". Analizzando le trasformazioni avvenute nel suo ordinamento
negli ultimi decenni ci accorgiamo infatti che esse portano con sé parte
importante della lotta di classe e della lotta rivoluzionaria nel nostro
paese e indicano le idee guida che ha seguito la borghesia non solo per
rimodellare il sistema carcerario ma anche per imporre il suo sistema di
dominio in tutta la società. Ci accorgiamo anche che ogni trasformazione
non è transitoria e atta a far fronte a qualche emergenza ma è già
inscritta nella natura stessa del carcere e del dominio di classe che
esso tutela. Si tratta di modifiche che registrano lo stato del rapporto
di forza tra le classi e mettono in luce la funzione non solo repressiva
(del castigo) ma anche quella preventiva (di deterrenza) sia per i
comportamenti sociali che escono dalle regole prestabilite della
cosiddetta "convivenza civile" sia per i comportamenti politici
rivoluzionari che coscientemente mettono in discussione il potere. Il
carcere è quindi uno degli strumenti della controrivoluzione preventiva,
attività costante e strutturata di ogni stato "democratico" imperialista
che fonda il suo potere sull'oppressione di una classe sull'altra.
Queste riflessioni trovano verifica se andiamo a vedere il percorso che
porta dall'art. 90 all'art. 41 bis. Ripercorrendo questo itinerario
siamo in un'ottima posizione per studiare la realtà perché la guardiamo
da uno dei punti più alti dell'apparato repressivo: il carcere nel suo
primo girone, quello di massima sicurezza. Questa istituzione totale è
infatti organizzata come i gironi dell'inferno dantesco regolati dal
codice della premialità, questi gironi trasbordano fin fuori dalle mura
attraverso le misure alternative alla detenzione. Proviamo ora a vedere
i passaggi della modifica del sistema detentivo negli ultimi decenni.
L'art. 90 fa parte della legge sull'ordinamento penitenziario del luglio
'75, comunemente conosciuta come riforma carceraria, ma esso non viene
immediatamente applicato. Esso dice: "Quando ricorrono gravi ed
eccezionali motivi di ordine e sicurezza, il Ministro per la Grazia e
Giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l'applicazione
in uno o più stabilimenti penitenziari, per un periodo determinato,
strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti
previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto
con le esigenze di ordine e di sicurezza". Con questo fatto lo stato si
arroga la possibilità che il suo esecutivo possa, a suo piacimento,
sospendere una legge e definire che a una parte di cittadini vengano
sospesi dei diritti.
La riforma carceraria, di cui fa parte questo articolo, è stata la
risposta a un grosso ciclo di lotte dei detenuti e il codice che la
informa è la premialità e la pena a seconda del comportamento dei
prigionieri. Si fa strada il tentativo borghese, sperimentato nel
carcere ma applicato a tutta la società, di costruire un enorme setaccio
con cui dividere, a secondo delle compatibilità con il sistema
capitalistico, i buoni dai cattivi, quelli che si possono "recuperare" e
quelli che si devono annientare. Anche nella fabbrica, nel mondo del
lavoro e nel territorio viene applicato lo stesso sistema attraverso una
modulazione di interventi e misure repressive con la logica
dell'integrazione o dell'esclusione. Il fine è quello di far fronte e
fermare le lotte operaie e proletarie e la ribellione sociale
espressione delle contraddizioni di un sistema che, dall'inizio del
decennio, è entrato in una crisi che poi si verificherà come
strutturale. Ed è anche quello di assestare un colpo alle organizzazioni
combattenti che hanno visto, lungo tutto il decennio precedente, un
rigoglioso sviluppo.
Ma anche dopo l'approvazione della legge, le lotte dei prigionieri non
si fermano e si collegano con il movimento rivoluzionario all'esterno,
per lo stato le carceri diventano ingovernabili. Si verificano rivolte e
proteste di massa con la particolarità italiana dell'unione nella lotta
fra detenuti politici e comuni. Per questa unità le basi erano state
gettate dai Nuclei Armati Proletari (NAP) che avevano teorizzato e
praticato l'unione tra i proletari prigionieri, i prigionieri politici e
il proletariato extralegale. Le Organizzazioni Combattenti promuovono
nelle carceri organismi di massa, i Comitati di Lotta in dialettica con
la loro iniziativa esterna sul fronte delle carceri.
La risposta dello Stato è, nel 1977, l'istituzione delle carceri
speciali sorvegliate dai carabinieri. L'art. 90 viene applicato a
partire dal 1980. Questo passo avviene gradualmente con l'istituzione
dei cosiddetti "braccetti" cioè sezioni di massimo isolamento con la
riduzione o l'interruzione dei contatti con l'esterno. L'attuazione di
questi passaggi nelle carceri è contemporanea alla modifica del codice
penale con l'approvazione del 270 bis (associazione sovversiva con
finalità di terrorismo) e quella delle leggi su pentitismo e
dissociazione (la famigerata legge Cossiga).
Contro l'art. 90, dalle carceri all'esterno, prende corpo un vasto
movimento. L'art. 90 non viene più rinnovato dall'ottobre del 1984 ma
viene di fatto incorporato nella istituzionalizzazione del regime
differenziato dove i carceri speciali sono disciplinati per legge
attraverso la proposta degli art. 14 bis, ter e quater che stabiliscono
le norme che regolano il raggruppamento, l'assegnazione e le categorie
dei detenuti nelle sezioni di massima sicurezza. Viene applicato anche
l'art. 4 che esclude alcune categorie di detenuti dall'ammissione a
forme alternative di detenzione. Si arriva quindi a rendere permanente
l'art. 90 anche se sotto altro nome.
Tutte queste norme trovano vita e vengono applicate lungo tutti gli anni
80 parallelamente alla campagna orchestrata dal potere sulla fine del
comunismo e sulla sconfitta del "terrorismo". Questa campagna è la
premessa e l'altra faccia di quello che sarà l'inizio dispiegato
dell'attacco alle conquiste della classe operaia e delle masse popolari.
Essa verrà attuata cercando di isolare e annientare ogni identità
politica rivoluzionaria attraverso la dissociazione e la
differenziazione, con la vessazione dei prigionieri politici sottoposti
alla tortura dell'isolamento e alla tortura vera e propria. Il fine è
quello di diffondere la cultura della desolidarizzazione e di dichiarare
sconfitta e fuori dal tempo ogni prospettiva di cambiamento radicale
della società. E anche quella di sotterrare la memoria storica del
proletariato e del movimento comunista. Ma, l'illusione del potere di
mettere una pietra sopra definitivamente alla formidabile forza che il
movimento rivoluzionario aveva espresso in Italia si scontra con la
realtà della crisi del suo sistema che produce incessantemente
contraddizioni sempre più acute che fanno rigenerare la lotta di classe.
Esso deve continuamente mettere mano all'ordinamento penitenziario per
perfezionare le norme che regolano la differenziazione dei regimi
detentivi.
Nei primi anni 90 vengono approvati gli art. 41 bis e 4 bis che, come
ulteriore elemento di differenziazione dentro al carcere, inseriscono il
mancato accesso ai benefici premiali (previsti dalla legge Gozzini del
1986) in base alla condanna. Il 41 bis inoltre prevede il "carcere duro"
in cui vengono sospesi i normali diritti dei detenuti. Il trattamento
duro non riguarda più solo intere aree di prigionieri che vengono per
questo raggruppati nelle sezioni speciali ma diventa "ad personam".
Questo trattamento attraversa la struttura carceraria sia verticalmente
(nelle strutture) che orizzontalmente (nelle persone), è l'asse portante
del funzionamento della deterrenza e della premialità. Si tratta in
pratica di una riedizione allargata del vecchio art. 90.
Questi articoli vengono resi esecutivi dopo l'uccisione di Falcone e
Borsellino, hanno natura transitoria e devono essere rinnovati
individualmente in base a criteri di "pericolosità". Già dalla loro
approvazione prevedevano una divisione in fasce per la loro
applicazione, la prima e la seconda riguardante delitti di mafia, la
terza i reati commessi per finalità di "terrorismo" o di eversione
dell'ordinamento costituzionale. La revoca dell'applicazione del
trattamento duro è subordinata alla collaborazione con la giustizia e,
in particolare, per la terza fascia, cioè per i prigionieri politici,
all'esclusione di ogni collegamento con organizzazioni esterne. Di fatto
viene richiesta la dissociazione. Arriviamo ai giorni nostri perché
venga richiesta l'estensione dell'applicazione del 41 bis ai
rivoluzionari prigionieri e ne venga chiesta la validità permanente.
Così il cerchio si chiude, la differenziazione e il carcere duro vengono
definitivamente istituzionalizzati. Lo stato democratico prevede che la
sospensione dei "diritti" è legale, che la tortura dell'isolamento e
ogni procedura che può avvenire in assenza di "diritti" sono
praticabili. Queste misure che lo stato prende fanno parte della
necessità che la classe dominate ha di salvaguardare il suo potere e
vanno analizzate e fatte conoscere non solo per denunciare la natura
fascista del suo dominio ma soprattutto perché mostrano la sua debolezza
e la paura che il suo potere venga messo in discussione.
L'approfondimento e l'allargamento della detenzione accentuata sono in
stretta dialettica con la crisi e con lo sviluppo delle contraddizioni
sociali. Non è infatti un caso che i momenti in cui le misure sono state
promosse sono principalmente quello a ridosso dell'avanzata del
movimento rivoluzionario (fine anni '70, primi anni '80) e, oggi, quello
del possibile riaffacciarsi di prospettive di cambiamento. Oggi, a
fronte della crisi e della tendenza alla guerra, al rinvigorirsi della
lotta di classe e antimperialista, al ribollire del malcontento delle
masse e al manifestarsi di comportamenti di ribellione vengono attuate
nel nostro paese queste misure preventive.
Vengono attuate all'interno di una situazione internazionale
incandescente seguendo i dettami dell'imperialismo USA e delle
legislazioni di guerra che ha varato. A questo proposito è un fatto
rilevante che in Italia esistano oltre un centinaio di prigionieri
islamici sulle cui condizioni vige il più assoluto silenzio.
Le attua anche nei confronti dei rivoluzionari prigionieri che hanno
mantenuto la loro identità politica perché essi, pur non rappresentando
un pericolo emergente come quantità, turbano ancora il sonno del potere.
Lo Stato, nel corso di più di due decenni, dopo averle tentate tutte per
annientarli ha ancora paura di loro, della prospettiva politica
rivoluzionaria che incarnano e si pone il problema di limitarne
l'influenza e la capacità d'azione.
***
Il carcere come
rapporto sociale
Introduzione
Le carceri sono una polveriera che accumula le contraddizioni prodotte
dalla crisi economica e sociale. I movimenti sociali fuori hanno scosso
e scuotono in profondità le galere, compenetrandosi e saldandosi con le
istanze e le lotte portate avanti dentro le istituzioni totali stesse.
Questo è avvenuto, e tuttora avviene, per la natura di classe di queste
istituzioni.
Nelle carceri:
- possono avvenire rivolte spontanee: bambule, come le chiamavano le
ragazze degli istituti di rieducazione femminili in Germania;
- possono verificarsi timidi tentativi di denuncia della propria
condizione e lotte per parziali miglioramenti;
- può prendere piede un movimento in grado di comunicare con i soggetti
e le esperienze politiche fuori dal carcere, e viceversa, grazie alla
sedimentazione di precedenti esperienze di lotta e alla specifica
struttura e composizione sociale delle carceri, nonché alla presenza
all'interno di militanti rivoluzionari o di ribelli sociali permeabili
ad una sensibilità antagonista.
Oggi risentono del clima di rinnovato fermento sociale e di
mobilitazioni, anche se, tranne alcuni casi isolati, non è emersa una
reazione soggettiva dentro, in grado di far precipitare le sue
contraddizioni e di confrontarsi, almeno parzialmente, con lo scontro in
atto.
Il carcere è un sismografo che registra i cambiamenti più profondi della
società nel suo complesso, si riorganizza continuamente in funzione del
ciclo di lotte precedenti, e del ruolo affidatogli di volta in volta dal
potere. Si differenzia la durata e la condizione detentiva, come il suo
affidamento e la sua amministrazione, sia a seconda delle esigenze
pragmatiche del potere politico, sia rispetto alle necessità dovute al
governo interno dell'istituzione: se da un lato si può arrogare il
diritto di concedere, dall'altro si riserva la possibilità di reprimere;
se da un lato cerca di "rieducare", dall'altra reprime e basta. Essendo
parte integrante dell'organizzazione sociale, ha ispirato e ispira, con
il suo modello, ogni serio paradigma del controllo ed ogni codificazione
comportamentale; rimane un ganglio vitale del sistema di riproduzione
dei rapporti sociali, e insieme alle articolazioni militari e
poliziesche rappresenta il baluardo delle ragioni di stato e della loro
volontà di potenza.
Rimane così una palestra di disciplina, di introiezione dei valori
capitalistici magari assunti per il tramite dei vari racket, della
cultura, della sopravvivenza individuale e dell'affiliazione ad un
gruppo, della subordinazione all'arbitrio di un beneficio concesso o
negato, dell'autolesionismo suicida.
La prassi detentiva incorpora e sperimenta le tecniche di controllo più
avanzate come le più arcaiche; utilizza sia le millenarie discipline e
dottrine del controllo sociale come le religioni, sia le più attuali
come la psichiatria, la medicina, la farmacologia, la psicologia
sociale; usa sia la forma più estrema di alienazione dalla comunità
umana come l'isolamento tout-court - istituzionalizzata dal
carcere speciale -, sia la più moderna forma di ri-socializzazione
correttiva e trattamentale attraverso il lavoro esterno e la premialità
della regolare condotta, giudicata da quella specie di tribunale
permanente costituito dagli organi della Magistratura di Sorveglianza e
dalle varie figure addette al giudizio-recupero del detenuto. In
sintesi, il carcere come rapporto sociale è l'esempio, insieme alla
guerra, del pressoché assoluto monopolio della violenza da parte dello
stato. Che entrambi questi fenomeni riguardino fasce sempre più ampie di
proletari, non fa che rinvigorire la necessità della distruzione di
questo edificio sociale, che passa anche attraverso l'abbattimento di
tutte le istituzioni totali.
Col sangue agli occhi: il movimento dei comuni contro il carcere
('60-'70)
Nel secondo dopoguerra, terminato il periodo cosiddetto della
"Ricostruzione", la necessità di manodopera, per lo sviluppo
dell'economia italiana nel triangolo industriale, fece affluire braccia
dalla campagna delle zone contigue alle aree metropolitane e poi
dall'esercito industriale di riserva del meridione, delle isole e delle
zone settentrionali di tradizionale emigrazione, come il Veneto e il
Friuli.
Questo fiume di persone che si riversò nelle città si barcamenava tra
occupazioni dell'economia informale, una situazione abitativa precaria,
senza trovare una comunità e un canale, che non fosse quello della
parentela e del paese d'origine. Negli anni sessanta la composizione
sociale delle carceri mutava e faceva il suo ingresso nelle galere quel
proletariato marginale, di cui la provenienza geografica, la condizione
di precarietà lavorativa, la collocazione urbana, la sensibilità
sociale, erano proprie del proletariato metropolitano in formazione e
della moderne classe pericolose per l'ordine capitalista. Furono proprio
le carceri delle realtà urbane più significative, soprattutto del nord,
che incominciarono a ribollire e in cui cominciarono a formarsi le prime
avanguardie di lotta forma e a sedimentarsi livelli di organizzazione.
Venne messa in discussione la gerarchia e i Kapò che servivano da
strumento di governo interno al carcere. Per esempio, con i pestaggi dei
fascisti, vennero messi in discussione gli atteggiamenti di implicita
collaborazione con i secondini e il qualunquismo opportunista teso ad
accattivarsi le simpatie dei propri carcerieri; soprattutto, prese forma
una critica della propria condizione da un punto di vista classista, e
non "innocentista", che venne collocata all'interno di un meccanismo
sociale, che bisognava contribuire a distruggere.
Tra questi, i rapinatori saranno l'avanguardia del movimento carcerario
di fine anni sessanta e di inizio anni settanta; il grado di
cooperazione sociale maturata, le capacità organizzative, la cultura
antistatuale, la lontananza dalle tradizionali organizzazioni aventi la
funzione di pacificatori sociali, erano tutte caratteristiche acquisite
in conseguenza della propria attività, che li accomunavano ai proletari
più combattivi formatisi nelle lotte di fabbrica e di quartiere.
Si crea una struttura di solidarietà con il proletariato in lotta, anche
nelle carceri, in cui alcune figure professionali tradizionalmente
legate alla classe dominante - come avvocati, medici, e altri profili di
intellettuali della classe media - fanno propria la prospettiva
dell'emancipazione del proletariato, con una precisa e organica scelta
di campo. Questa presa di posizione che si sostanzierà con l'impegno
continuo di questi compagni, li renderà non solo soggetti alla
delegittimazione professionale, ma anche all'azione repressiva vera e
propria.
Il Soccorso Rosso che si formerà in quegli anni, sarà una sponda
importante del proletariato prigioniero, gli avvocati che ne fecero
parte ruppero quel legame di connivenza con le strutture del potere
giudiziario, citando un documento del Soccorso Rosso di Milano
del settembre del '71: "tutto ciò comporta, per gli intellettuali che
devono fornire questi servizi secondo le esigenze della classe operaia,
un nuovo stile di lavoro ben diverso dalla professionalità tradizionale.
È anche necessaria una mentalità completamente nuova e una disponibilità
generosa che niente ha da spartire con la diligenza mercenaria del
professionista. I concetti di legalità, diritto, salute, funzionalità,
produttività devono essere capovolti da coloro che si pongono dal punto
di vista del proletariato". Formazioni politiche della sinistra
extra-parlamentare, come Lotta Continua, costituirono una
"Commissione Carcere" apposita, ospitando nel giornale, dalla primavera
del '71, lettere di detenuti e notizie sulle rivolte carcerarie in
Italia e nel mondo: "A noi i detenuti interessano non perché «fanno
pena», ma per il contributo che possono dare alla lotta di classe e alla
rivoluzione. È per questo motivo che ci interessano le caserme e magari
i manicomi, come i proletari in divisa e i cosiddetti «malati mentali»",
scrivevano i Dannati della Terra in Liberare tutti di LC.
Altre formazioni della sinistra radicale, provenienti dal marxismo e
dall'anarchismo, dando una carica eversiva ai comportamenti del
proletariato metropolitano che si muoveva ai margini della legalità,
interpretavano la lotta criminale come la fonte più genuina di carica
eversiva per il sovvertimento della società e, nella prassi illegale, il
terreno prioritario della pratica rivoluzionaria, approccio che si
tradusse nello slogan: contro lo stato e il capitale, lotta criminale.
L'influenza delle rivolte urbane che dalla metà degli anni sessanta
costellarono l'universo metropolitano statunitense e le lotte dei
prigionieri afro-americani dal carcere, che trovarono la loro sponda
politica nelle Black Panthers, diventarono patrimonio comune di
una generazione di proletari prigionieri, che col sangue agli occhi,
ribaltarono il ruolo in cui la società li aveva relegati.
L'influenza degli scritti di Franz Fanon sul ruolo del
sotto-proletariato metropolitano nel processo di liberazione coloniale,
- filtrata attraverso l'utilizzo che ne fecero le punte più avanzate del
movimento afro-americano, come dell'esperienza algerina -, darà una
spallata alla vetusta interpretazione del marxismo tradizionale che
vedeva nel Lumpen solo una massa di sradicati, da cui l'apparato
repressivo poteva sempre attingere per reclutare i suoi sgherri.
Nel secondo numero di "Nuova Resistenza", del maggio '71, le BR in un
articolo dal titolo perentorio Bruciare le carceri è giusto,
spiegarono la posizione del giornale sulla criminalità e sulla funzione
rivoluzionaria del sottoproletariato: "La rivoluzione moderna non è più
la rivoluzione pulita [...] accumula i suoi elementi pescando nel
torbido, avanza per vie traverse e si trova degli alleati in tutti
coloro che non hanno nessun potere sulla propria vita e lo sanno [...].
In attesa della festa rivoluzionaria in cui tutti gli espropriatori
saranno espropriati, il gesto «criminale» isolato, il furto,
l'espropriazione individuale, il saccheggio di un supermercato non sono
che un assaggio e un accenno del futuro assalto della ricchezza sociale,
il criminale rompe la monotonia a la sicurezza quotidiana, banale della
vita borghese (K. Marx). Per il fatto stesso di esistere egli pone in
crisi l'ideologia della società capitalistica: si appropria realmente di
ciò che la borghesia gli mostra come astrattamente disponibile".
I Nuclei Armati Proletari raccolgono l'eredità politica del
lavoro svolto da LC, che imboccò ben presto la lunga marcia verso le
istituzioni in una deriva riformista che coinvolgerà anche la sua
impostazione sulle lotte dei prigionieri, compiendo il suo distacco
dall'azione politica armata, già dalle prime azioni significative delle
BR, criticando più l'immagine distorta fornita dai media che la
strategia d'azione maturata da questi compagni. Le avanguardie delle
lotte dei comuni danno vita ad un organizzazione e ad una pratica in
grado di raccogliere le aspettative del proletariato prigioniero e di
reggere il livello di scontro di quegli anni, che avrà come punto di
svolta la strage di Alessandria. Nel Maggio del '74 in seguito a una
rivolta nel carcere di Alessandria, in cui tre detenuti avevano
sequestrato 21 persone, barricandosi in infermeria, il comandante dei
carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, futuro responsabile dei reparti
speciali anti-terrorismo, e il procuratore generale di Torino Reviglio
della Venaria, decidono per un'azione di forza che si concluse con un
bagno di sangue.
I NAP nell'ottobre del '74, davanti ai cancelli delle carceri di Napoli,
Milano e Roma, trasmettono un messaggio rivolto a tutti i detenuti che
annuncia la loro piattaforma sul carcere.
Questa piattaforma ha come referenti sia le avanguardie detenute, alle
quali si lancia lo slogan: "rivolta generale nelle carceri e lotta
armata dei nuclei all'esterno", sia la massa dei detenuti, non ancora
pervenuta alla coscienza critica del proprio ruolo, a cui i NAP indicano
gli obiettivi immediati della lotta contro i codici fascisti, per la
democratizzazione delle carceri, per l'abolizione dei manicomi
carcerari, ecc.
Ad un anno circa dai fatti di Alessandria, i NAP rapiscono Giuseppe di
Gennaro, direttore dell'Ufficio studi del Ministero, in appoggio a
un'azione nata nel carcere di Viterbo a opera di tre detenuti che hanno
tentato un'evasione. Anche se l'azione, concertata tra il nucleo interno
e quello esterno, non raggiunge l'obbiettivo di liberare i tre rivoltosi
ottiene, comunque, una risoluzione positiva: nessun intervento delle
forze di polizia esterne, nessuna rappresaglia sui tre protagonisti
della tentata evasione e il loro trasferimento in carceri non punitive.
In cambio, i compagni, liberano il Giudice De Gennaro.
Con la riforma del sistema penitenziario e l'incarcerazione di massa di
militanti politici, la struttura, l'organizzazione e la composizione del
carcere muta nuovamente.
I detenuti comuni, la Riforma
carceraria del '75 e la Legge Gozzini del '86
Vennero istituiti ufficialmente tre circuiti penitenziari differenziali,
in cui la vasta area della criminalità comune è soggetta a nuove forme
di controllo premiale: territorializzazione dell'esecuzione, non più
esclusivamente tra le mura carcerarie; scambio pena-comportamento, con
l'istituzione di una micro-magistratura che ha il compito di giudicare
in continuazione, in combutta con tutta una serie di nuove figure del
disciplinamento democratico, la buona condotta del detenuto e di
decidere le forme e i tempi in cui deve scontare la propria pena.
Senza dilungarci sul trapasso da un modello segregativo ad un modello
correzionale, attraverso un approccio trattamentale e non più solamente
punitivo, che si sostanzia con l'uso di disposizioni disciplinari in un
regime di premialità, ci interessa sottolineare come il detenuto comune
viene e venga tuttora individualizzato.
Se qualcuno può decidere i tempi e i modi della pena, se qualcuno
detiene l'arbitrio assoluto per soddisfare ogni qualsiasi richiesta
inoltrata, attraverso la pratica della Domandina, allora il potere di
ricatto delle gerarchie carcerarie aumenta e diminuisce la possibilità
dei "comuni" di riconoscere in coloro che decidono di un beneficio
nient'altro che le articolazioni terminali dell'organizzazione del
potere contro cui combattere. Lo stato interviene modificando la
configurazione dei rapporti di forza all'interno delle carceri,
attraverso questa ristrutturazione, per isolare dal resto della
popolazione carceraria, i compagni più combattivi. I meno risoluti ad
iniziare una qualsiasi mediazione con il potere si differenziano da
quelli che, a seconda della loro pericolosità sociale, possono
incominciare a vedere schiudersi la possibilità della semi-libertà, di
uno sconto di pena, disposti a sottoporsi ad un approccio trattamentale
che verifica la costante volontà di piegarsi ai dettami, la reale
volontà di riscatto attraverso il lavoro, la famiglia e la fede.
Con la riforma del '75 rimangono esclusi dai benefici sopraindicati i
detenuti a medio indice di pericolosità, sospesi tra il circuito del
carcere riformato e l'inferno degli speciali. Coloro che sono accusati o
condannati per reati di rapina, sequestro di persona, estorsione e
dall'82, anche per associazione mafiosa, vengono esclusi. Erano state
figure chiave, come quella del rapinatore, nella crescita del movimento
carcerario del passato e allora, a metà anni settanta, erano le fasce
della nuova criminalità metropolitana più permeabili al progetto
politico di movimento, nonché quelle ritenute responsabili del nuovo
allarme sociale: bisogna quindi impedirne la politicizzazione, mostrando
quale condizione sarebbe riservata a loro nel caso volessero fare una
precisa scelta di campo e, allo stesso tempo, dare all'opinione pubblica
l'immagine di una rinnovata sensibilità per la questione dell'ordine
pubblico, usando il polso duro e facendo scontare il dovuto alla
delinquenza sociale che più preoccupava il belpaese. In questo modo alla
tradizionale prassi coercitiva si univa il rinnovato potere di
deterrenza degli speciali, anche nel senso opposto: passare da uno
speciale ad una sezione di questo circuito significava rompere
l'isolamento dagli altri reclusi, attraversare i vetri divisori,
incontrare più spesso la famiglia, poter telefonare e ricevere giornali
e libri, entrare, cioè, in un regime disciplinare quasi ordinario.
Più di dieci anni dopo, con la Legge Gozzini, vengono liberalizzati gli
accessi ai benefici, universalizzando il modello del governo premiale e
viene introdotta la possibilità per i condannati, che hanno tenuto
regolare condotta e che non risultano di particolare pericolosità
sociale, di poter godere di permessi premio di 15 giorni.
La Carcerazione sociale oggi
Partiamo da una fotografia della realtà.
La popolazione carceraria sfiora le 56.000 unità, di cui più del 40%
detenuta in attesa di giudizio, di questa particolare condizione di
imputato - specialità Italica nel campo del diritto penale - ne fanno le
spese quasi il 60% degli immigrati nelle prigioni. Circa un quarto dei
detenuti viene accusato, o è stato condannato, per reati che violano le
norme contro il patrimonio, circa un quinto per la violazione delle
norme del testo unico sulle sostanze stupefacenti, circa un sesto per
norme a tutela dell'ordine pubblico, poco di meno per reati contro la
persona, tra cui alcuni reati micro-criminali che poco tempo prima erano
considerati contro il patrimonio e che ora, bontà del centrosinistra,
sono da considerarsi atti criminosi contro la persona.
Ricordiamo che nella penultima categoria vanno collocati anche i
detenuti per "reati di immigrazione", quali il non avere osservato un
ordine di espulsione o l'aver dato generalità false, reati che a metà
degli anni '90 riguardavano il 43% di quelli attribuiti dalla polizia
agli immigrati, reati per cui una legge del '93 ha introdotto una
condanna dai 6 mesi ai due anni!
Se pensiamo che la nuova ondata di carcerazioni nel corso degli anni
novanta è diretta conseguenza di un inasprimento legislativo e di una
maggiore produttività del sistema repressivo, che colpisce
sistematicamente il sotto-proletariato metropolitano giovanile, non ci
può sorprendere che la stragrande maggioranza dei detenuti non ha
assolto l'obbligo formativo o è in possesso solo della licenza
media-inferiore e quasi i 4/5 di coloro che svolgevano una qualsiasi
professione, prima di essere sbattuti in cella, facevano l'operaio.
Il tasso di detenzione e il numero di coloro che sono sottoposti ad una
qualsiasi misura di restrizione della libertà aumentano, nonostante non
vi sia un aumento dei crimini commessi, perché si aumenta la fascia di
comportamenti ritenuti criminali, o meglio dei profili sociali giudicati
come tali. Le varie guerre combattute dallo Stato contro le fasce più
basse del proletariato, mascherate contemporaneamente da guerra alla
droga, guerra all'immigrazione, guerra alle organizzazioni mafiose e
guerre contro la micro-criminalità, hanno cambiato la composizione
sociale dei detenuti degli ultimi vent'anni. Fanno parte dell'arcipelago
carcerario le comunità terapeutiche istituite nella seconda metà degli
anni ottanta, i centri di detenzione temporanea istituiti a fine anni
novanta, le varie articolazioni del controllo sociale per coloro che
possono godere di un regime premiale, di cui beneficiano, si fa per
dire, circa 20.000 persone, oltre ai rinascenti "vecchi" manicomi e ai
sempre verdi istituti minorili. Andiamo con ordine:
Poco meno di un terzo dei detenuti è costituita da immigrati di origine
extra-Unione Europea, prevalentemente concentrati al centro-nord e nelle
aree metropolitane, dove costituiscono talvolta circa la metà della
popolazione carceraria, mentre quasi la metà delle donne detenute è di
origine extra-UE.
Su di loro pesa un inasprimento della custodia cautelare, più alta in
percentuale rispetto agli italiani, oggettive difficoltà di difesa
legale, una minore possibilità di accesso alle misure alternative alla
detenzione, difficoltà maggiori per i colloqui con le proprie famiglie,
tra cui l'impossibilità di avere colloqui telefonici fuori dall'Italia.
Il processo di criminalizzazione della condizione di immigrato,
particolarmente accelerato e intenso in Italia, rispetto alle nazioni
dell'UE, è dovuto a due specificità, una storica e l'altra geografica,
del sistema-paese: il tramutarsi dell'Italia da paese di emigrazione
estera e immigrazione interna a paese di immigrazione interna ed estera,
e dalla sua posizione di confine e di transito di differenti flussi
immigratori verso l'area della Unione Europea dei paesi firmatari del
Patto di Schengen. La Legge Martelli a inizio anni novanta, la Legge
Turco-Napolitano del marzo '98, fino alla recente Legge Bossi-Fini,
insieme agli altri provvedimenti legislativi, hanno progressivamente
criminalizzato la condizione di immigrato, facilitando progressivamente
la possibilità di espulsione, istituendo i centri di detenzione
temporanea con il governo di centro-sinistra, rendendo la vita di questi
proletari un vero e proprio inferno, in cui le varie sanatorie che si
sono susseguite sono state più uno strumento di cristallizzazione della
precarietà della propria condizione, che altro. I centri di detenzione
temporanea vennero allestiti in gran silenzio in Puglia, in Sicilia e a
Trieste e in altre località ritenute "critiche". Il grande pubblico
scopre la loro esistenza, e la loro natura tutt'altro che assistenziale,
nell'estate del '98, quando ad Agrigento e a Caltanisetta alcune decine
di immigrati si ribellano alle condizioni inumane in cui sono costretti,
incendiando questi lager. Senza aver commesso nessun reato, sono tenuti
a pane e acqua per diverse settimane in edifici fatiscenti sorvegliati a
vista dalla polizia che interviene con violenza al minimo segno di
protesta. L'altra componente che dalla metà degli anni ottanta e
soprattutto dopo la Legge n. 161 del 1990 ha subito un'accentuata
criminalizzazione, è quella che ha il profilo, nella stigmatizzazione
socio-mediatica, del tossicodipendente consumatore e spacciatore.
L'articolo 47bis della Legge Gozzini prevede la possibilità di
affidamento ai servizi sociali per tossicodipendenti, cioè più
prosaicamente l'auto-reclusione volontaria in una comunità terapeutica
per chi deve scontare una pena detentiva inferiore ai tre anni. Questo
micro-cosmo carcerario su cui non è dato indagare, da cui nessuna
notizia sulle regole che lo governano può trapelare, e a cui è stata
delegata una funzione terapeutica normalizzante, applica tutti i mezzi
che ritiene necessari per ottenere i fini sublimi della introiezione
della colpa e della sua espiazione attraverso la vita comunitaria
incentrata sul lavoro gratuito.
Queste oasi del sequestro dal sociale sono proliferate, aumentando in
numero e in capacità di accoglienza, e hanno catalizzato su di sé le
aspettative illusorie di chi pensa che la permanenza in uno di questi
lager sia garanzia di un certificato di guarigione almeno dall'infame
marchio sociale di tossicomane, di soggetto a rischio, di
micro-delinquente, ecc. Hanno spostato il discorso del disagio sociale,
non sulle cause di questo, ma sulle conseguenze e sono stati uno dei
primi esperimenti di privatizzazione del welfare con operazioni
mirate alla cattura di consenso e benestare della pubblica opinione. Un
buon trampolino di lancio per santoni nostrani, pretazzi con la
vocazione del sociale, uomini forti che offrivano l'immagine
dell'impresa famigliare vincente, cooperative e tutto il carrozzone
variopinto dell'impresa sociale. Il carcere cura poi la
tossicodipendenza con gli psicofarmaci, che costituiscono i farmaci
maggiormente somministrati negli istituti di pena, provocando una
dipendenza di ancora più difficile rimozione!
L'ultima fascia protagonista suo malgrado del grande internamento degli
anni novanta riguarda la manovalanza della criminalità organizzata, in
parte compresa nelle componenti precedenti e delle fasce della
micro-criminalità che non ha bisogno di grandi mezzi per svolgere la
propria attività illegale: ladri di macchine, topi d'appartamento,
scippatori, ecc.
Gli appartenenti al crimine organizzato in carcere sono circa settemila.
L'operato dello stato ha prodotto un notevole numero di collaboratori di
giustizia. Questo lo si deve sia alla costante instabilità delle
gerarchie dei gruppi criminali e il ricambio continuo delle elitès,
sia al trattamento differenziato riservato ai collaboratori di
giustizia, comprese le garanzie di protezione assicurate ai familiari.
***
Lettera di una
compagna detenuta in un braccio morto del carcere speciale in Germania
(dal 16 giugno 1972 al 9 febbraio
1973)
... La sensazione che ti esploda la testa (la sensazione che il cranio
possa esserti asportato via, esplodendo),
la sensazione che il midollo spinale ti si comprima tutto nel cervello,
la sensazione che il cervello ti si raggrinzisca,
la sensazione di trovarsi sotto una corrente, continua, impercettibile
che ti trascina lontano
la sensazione che ti si spappolino le capacità sociative
la sensazione che l'anima ti pisci via dal corpo, come quando non si
riesce a trattenere l'urina
la sensazione che la cella si muova. Ci si sveglia, si aprono gli occhi,
la cella viaggia;
al pomeriggio quando entra la luce del sole, la cella, di colpo, si
immobilizza.
Non riesce a respirare la sensazione di movimento, di viaggio.
Non si riesce a capire perché si tremi, si geli.
Riuscire a parlare con un tono di voce normale, fatica come se si
dovesse parlare forte, come se si dovesse urlare.
La sensazione di diventare muti.
Non si può identificare il significato delle parole, si riesce solo ad
indovinare.
L'uso delle sibilanti - come s, sch, tz, z - è assolutamente
insopportabile. Secondini, visite, cortile, sembrano un film
Mal di testa
Flashes
Incontrollabile la costruzione delle frasi, la grammatica, la sintassi.
Si scrive: due righe.
Alla fine della seconda riga non si ricorda più l'inizio della prima.
La sensazione di andare in cenere dentro.
La sensazione che se tu riuscissi a dire cosa sta accadendo, tutto ti
verrebbe fuori come un getto di acqua bollente, che bolle per tutta la
vita.
Furiosa aggressività che non trova sfogo.
Questa è la prova peggiore.
La chiara coscienza di non avere più alcuna possibilità di
sopravvivenza. Totale senso di impotenza nel tentativo di opporsi a
questa convinzione: le visite lasciano dietro di sé il vuoto.
Un ora dopo una visita riesci solo a ricostruire meccanicamente se la
visita è stata oggi o la settimana scorsa.
Una volta la settimana invece il bagno ha questo significato: di
scioglierti un attimo, di riprenderti - questo anche per un paio d'ore.
La sensazione che il tempo e lo spazio si incastrino l'uno nell'altro.
La sensazione di trovarsi nello spazio di uno specchio deformato -
vacillamento -, poi; spaventosa euforia quando si sente qualcosa - la
differenza sonora tra il giorno e la notte.
La sensazione che ora il tempo scorra, che il cervello nuovamente si
rilassi, che il midollo torni al suo posto, per settimane.
La sensazione che ti abbiano strappato la pelle.
Seconda volta (dal 21 dicembre al 3 gennaio 1974)
Turbinio nelle orecchie. Risveglio, come se si stesse per essere
picchiati.
La sensazione di muoversi a rallentatore.
La sensazione di trovarsi sospesi nel vuoto, come se si fosse fatti di
piombo.
Poi: shock. Come se ti fosse caduta in testa una lastra di acciaio.
Confronti e concetti che ti vengono in mente: sbranamento - lacerazioni
fisiche - il lupo mannaro - la colonia penale di Kafka - l'uomo sul
letto di chiodi - ottovolante che non ferma mai.
La radio: si creano tensioni minime come se il ritmo calasse da 240 a
190.
Che tutto ciò accada in una cella che esteriormente non si differenzia
dalle altre - radio, mobili, giornali, libri - significa un inasprimento
della situazione: impossibilità di comunicazioni, tra persone che non
sanno cosa significhi l'isolamento acustico e il prigioniero.
Disorienta anche il prigioniero. (Sia chiaro si tratta di celle da
lazzaretto, il terrore viene acuito dal silenzio, chi ne è cosciente
dipinge, dipinge i muri). È chiaro che là dentro si preferirebbe essere
morti.
Peter Milberg, che si è trovato in questa situazione nel Preungesheim
di Francoforte ("Sezione malati da rieducare") ha accusato il suo
giudice di averlo voluto sopprimere ed è vero, poiché si tratta in
realtà di una "esecuzione".
Cioè ha luogo un processo di disfacimento - come di sostanze che vengono
corrose dall'acido, il processo lo si può ritardare, concentrandosi, ma
non si può eliminarlo.
Perfida è pure la personalizzazione totale. Nessuno, se non tu stesso,
si trova in questa situazione totalmente abnorme. Come mezzo/metodo
simile a quelli usati con i tupamaros, inchiodati in situazioni
di esasperazione e di strazio totale, uso del pentotal -
conseguenza: improvviso rilassamento, poi euforia. Il prigioniero, così
ci si attende, perde il suo autocontrollo. Balle!...
Apparsa su "Solidarietà militante" ed
in "Contro-informazione" n. 3-4, 1974
***
Parte seconda
Interventi, contributi e saluti all'assemblea del 14.12.2002
***
Avv. Ugo Gianangeli
A me è stato assegnato l'ingrato compito di un intervento tecnico sul 41
bis, con tutti i limiti tipici degli interventi tecnici; vedrò di
ridurre il più possibile questo limite. Vorrei ricordare innanzi tutto
il recente 9° congresso dell'Unione delle Camere Penali che si è svolto
a Sirmione.
L'Unione delle Camere Penali è un organismo che raggruppa tutti i
penalisti italiani; in questo congresso ha prevalso la lista per il
rinnovo del direttivo che ha fatto dell'abolizione del 41 bis il proprio
cavallo di battaglia elettorale; ciò è di rilevante importanza. La
Camera Penale di Milano, che raggruppa i penalisti di questa città, ha
appoggiato questa lista; possiamo quindi dire che è passata la nostra
mozione a favore dell'abolizione del 41 bis.
La nostra Camera Penale si è espressa, al termine dell'incontro che
abbiamo avuto a Milano in vista del congresso di Sirmione, in modo molto
chiaro sul 41 bis; queste alcune righe del nostro documento approvato
all'unanimità:
"Si tratta di un
regime di detenzione intollerabile, caratterizzato da un inaccettabile
grado d'afflizione privo di qualsiasi utilità circa l'effettivo distacco
del detenuto dall'organizzazione criminale d'appartenenza, applicato
anche nei confronti di chi si trova detenuto in regime di custodia
cautelare fuori da un effettivo controllo giurisdizionale, affidato
com'è ad organi ministeriali; l'impegno incondizionato dell'Unione non
può che essere rivolta all'abrogazione di tale regime. Impegno uguale
dovrà essere profuso allo scopo di abrogare la pena dell'ergastolo".
Questo era parte
del nostro programma che è stato fatto proprio dal nuovo direttivo.
Possono essere, le nostre, considerazioni scontate; so che qui sono
riunite realtà che toccano con mano, tramite parenti e amici di compagni
detenuti, situazioni assimilabili al 41 bis, però detto da organismi di
avvocati non è un fatto così pacifico. Nei confronti dei penalisti c'è
sempre il sospetto che parlino più per interesse di corporazione, se non
addirittura per collusione con ambiti criminali, che per reale adesione
a valori e a principi di civiltà non solo giuridica.
Non solo noi corriamo questo rischio; ricorderete probabilmente anni fa
quando ci fu quella polemica con Sciascia, accusato addirittura, per
alcuni suoi articoli sul Corriere della Sera, di connivenza con
la mafia, solamente perché aveva ribadito in varie occasioni la
necessità di non abdicare mai ai principi dello stato di diritto. A meno
che qualcuno, più acuto di me, non voglia vedere dietro a certe prese di
posizione alcune possibili spiegazioni, forse con uno sforzo di
dietrologia eccessivo, credo che si stiano creando contraddizioni
all'interno di settori che potremmo definire borghesi e liberali
illuminati.
Mi ha colpito leggere nei giorni scorsi la risposta di Paolo Mieli ad un
lettore (stiamo quindi parlando del Corriere della Sera)
contenente alcune affermazioni sul 41 bis che credo meritino di essere
lette.
Dice Mieli:
"Ho letto il libro
bianco preparato dai penalisti di Roma per denunciare le conseguenze di
quella norma 'Barriere di vetro'; mi sono sentito male, non ho trovato
un solo docente di diritto, tranne quelli coinvolti nell'operazione, che
a quattr'occhi non mi abbia spiegato che questo nuovo 41 bis è
incostituzionale. Sono giunto alla conclusione che rendere permanente
una norma del genere equivale a istituzionalizzare un sistema di
tortura, sì, di tortura".
E va avanti con
altre considerazioni, anche sulla scarsa efficacia di questo strumento
rispetto al fine, non dichiarato, di favorire la collaborazione
processuale. Dallo stesso articolo ricavo alcuni dati provenienti
dall'associazione Antigone; si parla di 11 collaborazioni
processuali ottenute nel 1992 a fronte di 498 detenuti sottoposti a 41
bis, e di 7 collaborazioni avviate nel 2002 a fronte di 678 detenuti in
41 bis. L'errore in cui incorre Mieli, come anche poco fa chi ha
introdotto il tema dell'assemblea, è frequente, "Un domani sarà previsto
anche per i reati di terrorismo". La possibilità di applicare il 41 bis
anche ai detenuti politici in realtà c'è sempre stata, sin da quando è
entrata in vigore questa norma.
È un errore in cui sono caduti in molti, anche tra noi addetti ai
lavori; ma partiamo dal principio: il 41 bis 2° comma è entrato in
vigore nel 1992 con il decreto Scotti-Martelli, in coincidenza con
alcuni particolari eventi, ossia gli assassini di Falcone e Borsellino.
Il 1° comma del 41 bis altro non è che una riproposizione dell'articolo
90, di antica memoria, che formalmente è stato abolito nel 1986 con
l'entrata in vigore della legge Gozzini, ma che il 1° comma dell'attuale
41 bis non fa altro che riprodurre testualmente. Il 2° comma del 41 bis
prevede le restrizioni e il trattamento carcerario che ben conosciamo e
sui quali non ci soffermiamo per tutti i reati di cui all'art. 4 bis
dell'Ordinamento Penitenziario.
L'articolo 4 bis è stato introdotto nel 1991, un anno prima del 41 bis e
la sua applicazione è prevista sia per il reato di associazione mafiosa
e il sequestro di persona a scopo di estorsione ma anche altri reati
come rapina, spaccio, estorsione ed anche delitti con finalità di
terrorismo o eversione.
Poiché l'articolo 41 bis fa espresso riferimento all'articolo 4 bis, è
evidente che anche i reati commessi per finalità di terrorismo o di
eversione sono suscettibili di applicazione delle restrizioni del 41
bis; questo sin dall'entrata in vigore della normativa e quindi sin dal
1992.
È vero che non è stato applicato, salva una applicazione "di fatto" del
41 bis in determinati carceri o in determinate sezioni di carcere, con
restrizioni di spazi di libertà e di diritti, ma questo è un altro
discorso; adesso parliamo dell'applicazione istituzionale e formale del
41bis.
E allora, la differenza tra il reato associativo di mafia (associazione
mafiosa) e il sequestro a scopo di estorsione da tutti gli altri reati,
tra cui quelli che ci interessano maggiormente cioè quelli cosiddetti
commessi per finalità di terrorismo o di eversione, sta solamente in
questo: che per beneficiare di determinati benefici della legge
penitenziaria per i primi reati (quindi associazione mafiosa e sequestro
a scopo di estorsione) occorre la collaborazione processuale; per gli
altri reati, invece, è sufficiente che non vi siano collegamenti con la
criminalità organizzata o eversiva. Il dato importante, lo vedremo tra
poco, è che proprio su questo aspetto è intervenuta la nuova
formulazione del 41 bis nel disegno di legge che è attualmente in
discussione alla commissione, alla Camera.
L'errore in cui tantissimi sono incorsi (anch'io fino a non molto tempo
fa, lo confesso) deriva probabilmente dal fatto che l'articolo di cui
stiamo discutendo è stato introdotto con il decreto contro la
criminalità mafiosa e quindi questo può aver agevolato l'errore per cui
si è ritenuto correntemente che effettivamente fosse applicabile
solamente a quelle categorie di reati.
Quali novità ha portato il disegno di legge che è in discussione e in
corso di approvazione in tempi particolarmente rapidi, visto che entro
la fine di questo anno deve essere approvato altrimenti decade?
Intanto, non c'è la proroga, sappiamo che non si parla più di proroga ma
ormai di approvazione con caratteristiche di permanenza.
Il disegno di legge originario prevedeva una proroga del 41bis per
quattro anni; su pressioni in particolare della commissione Antimafia e
dell'Ulivo in Senato è stato abolito il termine; ora il 41 bis diventa
una misura permanente. Ricorderò tra poco vari interventi della Corte
Costituzionale che hanno cercato di salvare la costituzionalità della
norma, facendo spesso riferimento anche al suo carattere di
eccezionalità; evidentemente ora viene meno questo tipo di
argomentazione.
Poi il disegno di legge in discussione ha modificato il 41 bis sotto due
aspetti, sostanzialmente: è stato introdotto il "terrorismo
internazionale" e si è previsto che per i detenuti politici (loro usano
normalmente il termine "autori di reati commessi con finalità di
terrorismo ed eversione") necessita il requisito della collaborazione: è
richiesta ora la collaborazione per potere accedere ai benefici
penitenziari e questo è il dato nuovo particolarmente grave.
L'altro non è un dato nuovo: la possibilità di applicare il 41 bis,
l'abbiamo chiarito, preesisteva.
Questo disegno prevede anche che, per i detenuti in attesa di giudizio,
è ammesso il ricorso al Tribunale della Libertà e non al Tribunale di
Sorveglianza che è riservato solamente ai definitivi; è questo un
aspetto processuale che però è significativo perché in pratica
l'Esecutivo, cioè il Ministro che applica con il proprio decreto il
trattamento deteriore, uscirà (in una sorta di corsa, una sorta di
inseguimento) sempre primo rispetto all'autorità giurisdizionale; sia
che sia, come è attualmente il Tribunale di Sorveglianza a decidere sul
ricorso, sia, come si prospetta in questo disegno di legge, che sia il
Tribunale della Libertà. Si accelerano solo un po' i tempi, perché
dinanzi al Tribunale della Libertà è possibile accedere con un rito più
veloce, ma poi comunque ci si scontra sempre con i tempi lunghi della
Corte di Cassazione, perché le proroghe del 41 bis sono previste di sei
mesi in sei mesi; è altamente probabile, se non anche certo, che nei sei
mesi sicuramente non si farà in tempo a giungere innanzi la Corte di
Cassazione. In ogni caso, quando sarà intervenuto il provvedimento
giurisdizionale - è estremamente improbabile che sia favorevole, ma
ipotizziamo anche che lo sia - sarà anche intervenuto il nuovo decreto
che rinnova il 41 bis e quindi resterà priva di qualsiasi efficacia
pratica l'eventuale vittoria a livello giurisdizionale. Questo il
disegno di legge; i punti essenziali sono questi; è passato, ricordava
prima il compagno, praticamente all'unanimità; c'è stata solo qualche
posizione dissidente a livello personale.
Adesso alla Camera, sia nell'ambito della Commissione sia poi nel
dibattito che dovrebbe seguire in aula, si prevede una minore uniformità
di opinione. I tempi, ricordavo prima, sono strettissimi, e quindi io
personalmente ho grande perplessità che sia consentito un reale
dibattito, ma sono anche pessimista sul fatto che un dibattito potrebbe
portare a qualcosa di utile.
A questo punto sono tornati di attualità i penalisti, che una volta
tanto fanno una figura decorosa in questa vicenda perché, coerentemente
con quello che è stato il documento che ricordavo prima dell'Unione
delle Camere Penali, hanno elaborato un proprio disegno di legge che sta
circolando (è cosa di questi giorni) presso la Commissione Giustizia e
sembra che debba essere fatto proprio da Rifondazione e dai Verdi.
Questo disegno lo cito semplicemente per evidenziare, cito i punti
essenziali molto velocemente, che se veramente gli intenti del 41bis, e
comunque di un trattamento carcerario deteriore, fossero quelli di
combattere le associazioni mafiose attraverso l'ostacolo ai rapporti,
eccetera, ci sarebbero gli strumenti senza andare a ledere esigenze e
diritti minimali dei detenuti; noi invece sappiamo che altre sono le
ragioni che inducono a questo tipo di normativa e quindi, diciamo così,
sveliamo apertamente quello che c'è dietro.
L'articolo 1 di questo disegno proposto dai penalisti è molto semplice,
dice: "È abrogato l'articolo 41 bis".
L'articolo 2 non fa altro che modificare l'articolo 4 bis, che è quello
che stabilisce il campo di applicazione del 41 bis, e prevede, questo
nuovo disegno, limitazioni ai benefici solo per il reato di associazione
mafiosa.
Si tende a tutelare anche coloro che sono inquisiti, perché
ricordiamoci, ed anche questo è spesso dimenticato, che possono essere
sottoposti a 41 bis non solamente i detenuti definitivi ma anche coloro
che sono ancora sottoposti a giudizio.
L'articolo 2 vuol tutelare in modo particolare coloro che sono ancora
sottoposti a giudizio: applicando la presunzione di non colpevolezza.
Si può applicare a quei soggetti scelti individualmente e non per
categoria di reato, e cioè solo perché indagati per 416 bis, in caso di
comprovata permanenza di rapporti con l'esterno.
Sono esclusi tutti gli altri reati ed è esclusa quella vergognosa
figura, che conosciamo da tantissimi anni nel nostro ordinamento, della
collaborazione che scompare completamente.
L'articolo 3 di questo disegno modifica l'articolo 14 bis, che è quello
del regime di sorveglianza particolare, che prende in buona sostanza il
posto del 41 bis; qualcosa evidentemente bisogna concedere a coloro che
sono allarmati dalla criminalità organizzata, però è prevista una serie
di garanzie sicuramente considerevole perché dice l'articolo: "I
presupposti di applicazione del regime differenziato devono essere
validamente provati", non come adesso che si va per presunzione,
basandosi esclusivamente sul tipo di reato; inoltre, questo è
interessante, la sorveglianza particolare è applicata dal Magistrato di
Sorveglianza: per lo meno si cerca di uscire dalle maglie
dell'applicazione ministeriale, si cerca di tornare nelle mani della
magistratura. Sarebbe un discorso lungo ma forse qualche garanzia in più
rispetto agli organi amministrativi e esecutivi la magistratura dovrebbe
offrire. L'articolo 4 prevede il ricorso al Tribunale di Sorveglianza e
il ricorso in Cassazione ma con un'interessantissima novità: sono
previsti tempi strettissimi; la Cassazione deve pronunciarsi entro
trenta giorni, se non lo fa il decreto decade; quindi, automaticamente,
con la non decisione della Cassazione nel termine previsto e qualificato
espressamente come perentorio, il decreto decade.
Ultimo articolo, e concludo questa parte, l'articolo 5. Limita un grande
numero di restrizioni nell'applicazione del 41 bis, in particolare
espressamente esclude che possa essere effettuata una restrizione sul
vitto, sul vestiario, sui colloqui, su tutto ciò che, all'evidenza di
tutti, non ha nessuna attinenza con le esigenze di tutela della
collettività; e questo è detto espressamente. È sicuramente un ottimo
testo, non c'è nessuna speranza che passi, ma minimamente serve
quantomeno per tentare di conquistare qualcosa in quei compromessi che
sicuramente saranno realizzati all'interno della discussione. Tenete
presente che mi è giunta voce, proprio qualche giorno fa, da uno degli
estensori materiali di questo disegno di legge, che la commissione
Affari Costituzionali, proprio ai primi di questo mese, ha denunciato
l'incostituzionalità del disegno di legge in discussione.
In pratica ha detto anticipatamente: state attenti ad approvarlo così
com'è, è pacificamente anticostituzionale, quindi sicuramente dovete
intervenire in qualche modo, in qualche misura, per cercare di
correggere la rotta.
Gli aspetti tecnici sono questi, o almeno questi sono più importanti.
Qualche considerazione finale, magari non proprio tecnica. Il 41 bis può
essere applicato, questo lo abbiamo appurato, ai detenuti politici
attuali e ai detenuti politici futuri; è prevista la collaborazione per
accedere a determinati benefici penitenziari e questo, lo ricordavo
prima, è forse il dato di maggior rilievo, la novità assoluta.
Le due norme sono complementari tra loro: intanto si applica il 41 bis,
il carcere duro, una serie di restrizioni che per quelli in attesa di
giudizio comportano anche una restrizione degli spazi del diritto alla
difesa, in quanto, comunque, si vuole ottenere un determinato
atteggiamento, un atteggiamento collaborativo. C'è da chiedersi, e qui
le mie opinioni valgono per quel che sono, cioè opinioni del tutto
personali, cosa può aver spinto a questo tipo di modifica? È facile
pensare al vuoto investigativo dopo l'omicidio D'Antona e dopo
l'omicidio Biagi, all'incapacità manifesta di giungere a qualche
conclusione sul piano investigativo attraverso gli abituali strumenti
investigativi senza passare attraverso la collaborazione di qualche
collaborante di turno.
È stata quindi avvertita la necessità di spingere alla collaborazione i
vecchi detenuti, nell'ipotesi di un coinvolgimento dei detenuti di
vecchia data in questi fatti relativamente recenti, perché ormai il
primo è di oltre tre anni fa; non a caso, sapete bene, sono state fatte
perquisizioni nel carcere di Trani; rispetto ai nuovi, coloro che
esprimono oggi antagonismo nelle varie forme, sappiano - è questo il
messaggio che viene lanciato - che li aspetta un carcere duro.
Fin quando saranno sottoposti a giudizio questo carcere andrà anche a
limitare il diritto alla difesa; sicuramente si troveranno di fronte un
carcere con un livello di afflittività estremamente alto.
Se un giorno dovessero essere interessati a benefici penitenziari,
sappiano che potranno ottenere questi benefici solo ed esclusivamente
attraverso la collaborazione; quindi, come dire, è un chiaro messaggio,
ben preciso, lanciato in via preventiva. E questo è un aspetto, una
possibile chiave di lettura, una possibile spiegazione. L'altro è la
ripresa delle lotte, dei conflitti sociali, delle manifestazioni grandi
di base; si sta di pari passo, come sapete tutti, sviluppando la
creatività di molti magistrati. Vediamo quelli di Cosenza, che sono
andati a rispolverare articoli di codice assolutamente desueti, salvo
poi essere ben aggiornati nella collocazione carceraria: sapete che i
compagni arrestati sono stati ristretti in carceri significativi per la
presenza di determinati soggetti e per una lunga tradizione, Trani e
Latina. Non stiamo a ricordare il vecchio articolo 90, penso ne siate al
corrente tutti di quello che fu la funzione dell'articolo 90.
Fu creato, lo ricordate, un circuito speciale differenziato da cui sono
transitati circa seicento detenuti politici.
Ricordate quello che è successo all'Asinara nel 1977; ricordate bene
quel fenomeno, che è tuttora attuale, delle truppe speciali preposte al
controllo nelle sezioni speciali e nelle carceri speciali.
Adesso si chiamano GOM, Gruppi Operativi Mobili, e sono gli agenti di
polizia penitenziaria, preposti proprio al 41 bis e che notoriamente si
sono resi responsabili in molte occasioni di pestaggi e, almeno in
un'esperienza professionale diretta del sottoscritto a Reggio Calabria,
anche di omicidio.
Quindi si ripristinano antichi strumenti per le finalità di sempre. Un
ultimo argomento di riflessione che vi sottopongo, e poi concludo,
perché mi è stato detto "aspetti di un intervento tecnico e dintorni":
ecco questi sono alcuni dintorni. È l'atteggiamento della sinistra, di
una parte della sinistra e di alcuni giuristi su cui è opportuno
riflettere.
Ho letto questa mattina un intervento che mi ha colpito perché è di un
giurista che scrive su Liberazione, Albero Burgio: "41bis la
vera ratio della riforma". È di pochi giorni fa l'articolo, l'ho
letto stamattina in vista dell'incontro di oggi e ho trovato una parte,
che non vi leggo perché sarebbe troppo lunga, duramente critica nei
confronti della presa di posizione dell'Unione della Camere Penali,
quella che vi ho ricordato poco fa.
Evidentemente qualcuno crede realmente, io voglio attribuire buona fede
a questo giurista, che il 41 bis possa svolgere una funzione utile nella
lotta alla mafia; sennonché dopo, lo stesso giurista, entra in
contraddizione con se stesso perché si rende conto che appare per lo
meno strano che un governo come l'attuale, la cui collusione con ambiti
mafiosi, partendo dal vertice e scendendo mano a mano nei suoi
collaboratori, è sotto gli occhi di tutti, anche prima delle recenti
dichiarazioni del signor Giuffrè, sta promuovendo, addirittura con
carattere di permanenza, il 41 bis. Si fanno delle interessanti ipotesi,
come quella che ci sia in atto una lotta all'interno delle mafie per cui
si voglia seppellire una certa realtà troppo compromessa con le stragi
per favorire una realtà mafiosa nuova, meno compromessa con questo
passato. È un'ipotesi possibile, altre se ne potrebbero fare, ma tutti
protesi a discutere di questi argomenti, sicuramente importanti, si
dimentica l'altro aspetto molto importante che è quello
dell'utilizzabilità del 41 bis per reprimere dissenso e lotte sociali.
***
Un compagno
anarchico sui moduli FIES
Ringrazio i compagni e le compagne che hanno dato la disponibilità per
questa sala e per questa iniziativa.
Ni FIES ni dispersion, ni enferm@s en prision.
Esiste un fronte di lotta estremamente minoritario e marginale rispetto
alla situazione totale, generale, nelle carceri spagnole che, da
moltissimi anni, stanno portando avanti una lotta per la libertà e la
dignità. Questa lotta negli ultimi tre anni quattro anni ha focalizzato
l'attenzione su quattro punti fondamentali.
Il primo punto rivendicativo che queste persone stanno portando avanti è
l'abolizione del FIES e di tutti i tipi di isolamento. Il secondo punto
rivendicativo è la fine della dispersione, ovvero trasferimenti coatti,
allontanamento dai familiari e dal contesto sociale in cui si trovavano
a vivere, eccetera eccetera.
Il terzo punto rivendicativo è la scarcerazione dei malati, libertà
immediata per i malati gravi e/o terminali.
Il quarto punto rivendicativo, questa è una cosa un po' più tecnica, c'è
una legge, pare, in Spagna dove le persone non devono scontare più di 20
anni di carcere, non c'è l'ergastolo in Spagna anche se esiste, di
fatto, e questo è il quarto punto rivendicativo. [Per la verità per i
reati più gravi la pena massima è oggi di 30 anni, grazie al Codice
Penale del 1995 legiferato dal governo PSOE, adesso il governo Aznar per
i reati di banda armata vuole portare il limite massimo a 40 anni, con
l'appoggio del PSOE ovviamente] Ci sono stati degli scioperi
individuali, degli scioperi collettivi, non di tante persone si parla di
un centinaio di persone, quasi tutti rinchiusi nel primo grado FIES -
Controllo Diretto - e poi di varie iniziative individuali, alcune tra
l'altro fatte in solidarietà ai prigionieri politici turchi che sono in
sciopero della fame a tomba aperta, oppure rispetto a vari attacchi
repressivi che ci sono stati in Spagna contro il movimento anarchico e
libertario (ultima la montatura di Valencia dove tre giovani anarchici
sono in carcere nel FIES 3 [banda armata] accusati di associazione
illecita a fini di "terrorismo"). Questo è quanto.
Che cos'è il FIES? È un archivio, creato nel '91, dove sono schedati i
detenuti "più pericolosi". Praticamente una sezione speciale all'interno
delle quattro carceri spagnole, dove vengono rinchiuse le persone, dove
vengono suddivise, c'è tutto un lavoro di psicologi, medici, che poi
sono dei boia - quello di Puerto I (Cadiz) lo chiamano Mengele per darvi
un'idea della sua concezione del giuramento d'Ippocrate.
Il FIES è la reazione alla combattività dei detenuti, alle rivolte, alle
evasioni alle rivendicazioni, all'autorganizzazione che in Spagna ha
contraddistinto la vita carceraria negli anni 70-80. Questa lotta ogni
tanto riesce a varcare il velo del silenzio, della complicità rispetto a
questi fatti, rispetto a tutto quello che succede dentro le carceri e
così torna all'attenzione per poi ripiombare subito nel silenzio
generale. Adesso è tutto da verificare quale percorso possano fare
queste persone, verificare con chi con quali persone, con quali soggetti
cooperare, pianificare quello che si può fare in futuro, sia rispetto ai
detenuti che sono rinchiusi dentro i moduli FIES, sia chi ne è al di
fuori perché comunque siamo solidali anche coi detenuti comuni, che
anche se magari non partecipano alle lotte, ci sono comunque delle
sensibilità all'interno delle sezioni comuni rispetto a queste tematiche
specifiche, particolari. Non lo so è tutto da vedere. Io concluderei
qua, oggi preferisco più ascoltare che parlare.
***
Una compagna
dell'Associazione Famigliari e Amici dei Prigionieri Politici
Ancora una volta, cause di forza maggiore mi costringono mio malgrado a
non partecipare a eventi come questo... Voglio però far giungere a tutti
i presenti e agli organizzatori di questa giornata il saluto solidale
dei compagni spagnoli incarcerati in Francia e in Spagna. Non si tratta
di un saluto formale e vorrei veramente essere in mezzo a voi, per
abbracciarvi ad uno ad uno, per dirvi, per ripetervi, quanto è
importante la vostra solidarietà e quanto vi si senta vicini: i muri, le
sbarre, l'isolamento, non impediscono alle vostre voci solidali di
giungere a ciascuno dei compagni...
Il 25 novembre 2002, giusto due settimane fa, su ordine del giudice
Garzón sono stati arrestati altri 8 compagni spagnoli; cinque di loro,
erano già stati in carcere, chi per 14, chi per 16, chi durante 20
anni... Il loro "reato" attuale è quello di essere stati in galera per
tanto tempo senza pentirsi... A tutt'oggi nulla si sa di questi
compagni, né degli altri tre giovani membri delle Afapp-per un
Socorro Rojo Internacional, che sono stati arrestati nello stesso
pomeriggio con l'accusa di appartenenza a banda armata... Da sempre, è
vero, diciamo che "la solidarietà è un'arma"... ma proprio non
immaginavamo che Garzón ci avrebbe preso in parola...
E questa del novembre scorso è la terza ondata repressiva che colpisce
il PCE(r) - Partito Comunista di Spagna (ricostituito), il movimento di
solidarietà (Afapp-per un SRI) e i Grapo (Gruppi di Resistenza
Antifascista Primo di Ottobre) negli ultimi due anni. L'11 novembre del
2000 sono stati arrestati a Parigi 5 militanti del PCE(r), tra cui il
Segretario Generale del Partito, e due militanti dei Grapo. Si è
trattato di un'operazione congiunta, realizzata dallo Stato fascista
spagnolo e dallo Stato francese. I 7 continuano in isolamento e a
tutt'oggi non sono ancora stati processati. Tra il 18 e il 22 luglio del
2002 si è avuta una nuova ondata repressiva, che si è scatenata
contemporaneamente in Francia, in Spagna e in Italia. In Francia la DNAT
(polizia politica francese) ha fatto irruzione negli appartamenti
accompagnata da membri della Guardia Civile spagnola. Otto compagni sono
stati arrestati a Parigi ed altri 8 in Spagna. Tra gli arrestati di
Parigi, un compagno che certamente qualcuno di voi ricorderà perché
viveva in Italia: si era fatto oltre 20 anni di galera in Spagna e, a
fine pena, aveva raggiunto la sua famiglia in Italia. Era in Francia per
organizzare la solidarietà nei confronti dei sette arrestati nel
novembre 2000. Altri, magari, li avete "conosciuti" di nome, forse,
chissà, avrete scritto a qualcuno di loro quando era in galera... eh
già... degli 8 arrestati di luglio, quattro avevano già scontato lunghe
pene nel loro paese. Quanto agli altri, si tratta di giovanissimi (tra i
20 e i 33 anni). Il giudice Garzón e il governo spagnolo cercano di
condannare, attraverso queste persone, il Partito Comunista di Spagna
(ricostituito) perché l'esistenza di questo Partito è un pericolo per il
regime spagnolo. Per raggiungere i loro obiettivi, il Governo spagnolo e
i suoi burattini cercano di dimostrare che il PCE(r) e i Grapo sono la
stessa cosa, quando sanno perfettamente che si tratta di due
organizzazioni distinte. Il PCE(r), infatti, è un partito di classe, il
partito del proletariato spagnolo; un partito marxista-leninista, il cui
funzionamento si basa sul centralismo democratico. L'attività dei
militanti del PCE(r) è un lavoro esclusivamente politico che si attua
attraverso l'agitazione, la propaganda e l'organizzazione politica. Il
PCE(r) certamente - e come dovrebbe fare chiunque si dica realmente
democratico - appoggia politicamente e moralmente la lotta di resistenza
antifascista in atto in Spagna dagli anni '40. Il giudice Garzón ed il
suo omologo francese Brugière si stanno adoperando per condannare il
PCE(r) con l'accusa di essere "la stessa cosa" che il movimento di
guerriglia. Sulla situazione nelle carceri in Spagna sono anni che
parliamo: in Spagna si muore di carcere, in Spagna esiste ancora la
tortura...
Nessuno immaginava che la situazione nelle galere francesi fosse così
pesantemente tragica... I compagni spagnoli stanno tutti in isolamento,
tanto quelli arrestati nel novembre 2000 che quelli arrestati nel luglio
2002. Non possono avere rapporti tra loro, neppure epistolari; nessun
rapporto con gli altri prigionieri; 22 ore di cella e due ore d'aria al
giorno, da soli. I mezzi di comunicazione sono, in pratica, proibiti:
"affittare" la televisione costa infatti 10 euro a settimana. Nessuna
telefonata, neppure al proprio avvocato. Nessun pacco, ad eccezione che
in questi giorni, perché, bontà di lor signori, si avvicina il Natale.
Nelle carceri francesi si deve acquistare tutto e tutto costa il triplo
rispetto a "fuori". La corrispondenza subisce due censure: arriva in
carcere e da qui viene trasmessa al giudice istruttore che, dopo aver
fatto tradurre, legge e poi rimanda in carcere le lettere, che però
devono passare attraverso una ulteriore censura, quella del carcere.
Questo significa che una lettera può tardare anche mesi. Nei confronti
del Segretario Generale del PCE(r) bisogna dire che le guardie si
accaniscono in particolar modo...
Potrei continuare per ore, raccontandovi ciò che accade, i soprusi di
cui ciascuno dei compagni è vittima... Ma non voglio occupare troppo
tempo... Prima di concludere, tuttavia, voglio porvi una domanda: perché
proprio ora tanta repressione contro i comunisti spagnoli? È necessario
chiederselo perché il fascismo spagnolo è, oggi come ieri, l'avanguardia
dell'ascesa del fascismo in Europa.
Come nel 1939, in Spagna i fascisti stanno mettendo a tacere ogni forma
di dissidenza politica, sociale o sindacale, ma non vogliono farlo da
soli e, esattamente come allora, cercano di coinvolgere un altro Stato
sovrano, la Francia, che di fatto potrà diventare una sorta di colonia
spagnola. E usano questi collaborazionisti che, come ai tempi di Vichy,
tengono in galera i comunisti spagnoli, senza prove e con accuse false.
Ora tocca ai comunisti spagnoli...
E in Italia cosa sta accadendo, compagni? E in Germania, in Gran
Bretagna...? La situazione, ovunque, è drammatica... neppure ai tempi
dell'Impero romano, neppure un Caligola che pure ha vestito il suo
cavallo da senatore, si sono mostrate in modo così chiaro le rovine di
un sistema totalmente putrefatto! Ma nessuno come loro stessi sta
mostrando ai popoli della Terra cosa è veramente l'imperialismo, cosa
sono il fascismo, la tirannia, l'oppressione, la miseria e la
schiavitù... E prima o poi, più prima che poi, i lavoratori, i
contadini, i disoccupati, gli studenti, le casalinghe, i giardinieri e
chissà persino le suore di clausura ne avranno fin sopra i capelli e
diranno basta... In Europa, evidentemente, confidano nel fatto che, per
mancanza di organizzazione e di direzione politica, il movimento finisca
per auto distruggersi nella propria impotenza...
È quindi più necessario che mai unirsi e non rinunciare alla pratica
rivoluzionaria... questo, compagni, è il messaggio dei compagni spagnoli
in carcere in Spagna e in Francia.
***
Avv. Sandro
Clementi
Sono l'avvocato di alcuni prigionieri delle Brigate Rosse-Partito
Comunista Combattente.
Vi ruberò pochissimi minuti unicamente per esprimere il saluto dei
compagni che assisto e per invitarvi ad una semplice riflessione.
Sul 41 bis op abbiamo ascoltato un'esposizione che ovviamente, oltre a
condividere, ritengo articolata e scrupolosa.
Non vorrei, tuttavia, che determinasse un equivoco in chi ascolta.
Ovvero l'equivoco che l'approvazione della modificazione, in via
permanente, dell'art. 41 bis determini una differenza sostanziale delle
condizioni di prigionia alle quali sono sottoposti i prigionieri
rivoluzionari in Italia e che una mancata approvazione della stessa
norma, ossia dell'art. 41 bis e quindi la conferma delle attuali
condizioni carcerarie, siano la conferma di condizioni carcerarie
accettabili.
I prigionieri rivoluzionari, che resistono da decenni nelle carceri
italiane, subiscono un trattamento carcerario che non può certo
definirsi morbido, in contrapposizione con la durezza del 41 bis OP.
Lo Stato ed il Governo, in alcune sue articolazioni, hanno sempre avuto
ed hanno tutt'oggi, e avranno comunque, gli strumenti di intervento
repressivo e oppressivo sui prigionieri rivoluzionari. Strumenti che
sfuggono a norme legislative più o meno efficaci e pressanti.
L'Elevato Indice di Vigilanza che viene riservato, da decenni, ai
compagni rivoluzionari in carcere, è un cugino molto stretto del 41 bis
op, questo va detto. È un po' un sacco vuoto che viene riempito a
seconda delle occasioni dal DAP, Dipartimento Amministrazione
Penitenziaria, con formule di repressione e di restrizione dei normali
diritti dei detenuti a seconda delle esigenze politiche del momento. I
compagni che assisto, i compagni detenuti a Biella, vivono questa
condizione da sempre attraverso la censura della corrispondenza, la
negazione dei colloqui, le perquisizioni nelle celle. Prima il collega,
il compagno che mi ha preceduto, faceva riferimento alle perquisizioni
intervenute nel carcere di Trani, altrettante ne sono state realizzate
in quel periodo, mi riferisco a quello dell'uccisione di D'Antona e
successivamente del collega Biagi (collega di D'Antona ovviamente) nel
carcere di Biella.
Questi episodi hanno determinato perquisizioni e pestaggi e non solo
nelle carceri soggette ad Elevato Indice di Vigilanza ma anche ad
Opera rispetto a compagni ivi detenuti e che si riconoscono comunque nel
movimento rivoluzionario. Un trattamento, quello attualmente riservato
ai prigionieri rivoluzionari, che può essere peggiorato
dall'approvazione del 41 bis e dalla sua estensione anche ai prigionieri
rivoluzionari con l'effetto di registrare unicamente un indurimento
della repressione già esistente a carico dei prigionieri.
Altro aspetto, in materia di approvazione del 41 bis, come diceva
giustamente il collega è quella di una estensione quasi a livello
sociale di un trattamento repressivo nelle carceri sottoposte al 41 bis.
La riforma in atto in materia di trattamento carcerario pone le basi per
una restrizione delle residue libertà dei detenuti senza limite anche
per i soggetti detenuti e diversi dai prigionieri rivoluzionari. Le
restrizioni saranno, ovviamente, calibrate dalle scelte politiche e
sociali del momento, dal conflitto, dalla resistenza rispetto ai
percorsi della borghesia. Quell'equivoco che dicevo all'inizio del mio
discorso dovrebbe essere evitato comprendendo che il diritto, italiano
ed internazionale, non consente di operare "miglioramenti" per i
prigionieri rivoluzionari. Il diritto borghese esprime una funzione
anti-rivoluzionaria.
Ringrazio chi ci ha ospitato, chi ci ha consentito di tenere questo
incontro, chi è intervenuto pur leggendo questo momento come
un'occasione perché si riprenda il dibattito e soprattutto le iniziative
di solidarietà con i prigionieri rivoluzionari secondo il sentire di
ciascuno di noi. Ci sarà chi ritiene di fare azioni dirette a
modificare, in qualche misura, l'ordinamento giuridico vigente o di
combattere in ogni forma il 41 bis; questo è del tutto legittimo. Vi
sarà anche chi ritiene che la solidarietà con i prigionieri
rivoluzionari vada ben oltre una modificazione legislativa che, di
fatto, nulla potrebbe cambiare rispetto alla condizione della detenzione
politica. Vi saluto e vi ringrazio tutti.
***
Un saluto del
compagno Marcello Ghiringhelli
Carissimi compagni/e, ciao.
Ho ricevuto con molto piacere il vostro opuscolo a sostegno delle lotte
sociali e nelle galere.
Mi complimento per la serietà dell'impegno che svolgete in favore dei
meno garantiti.
Purtroppo mala tempora currunt!
Credo che se siamo arrivati a questi livelli, non è tanto perché il
capitale sia forte e invincibile, ma piuttosto perché noi, i proletari
con i rivoluzionari, non si abbia sufficiente memoria.
Nel contempo siamo troppo frammentati e divisi da centomila parrocchie,
già proprio così!
Nella storia ogni qualvolta il capitale si è sentito attaccato,
nonostante la sua indole caotica, ha fatto quadrato contro gli
attaccanti cioè la classe e/o i rivoluzionari. Mentre per contro quando
veniamo attaccati dal capitale, noi ci frantumiamo di fronte alle
minacce e/o lusinghe, dando così spazio all'opposizione di renderci
malleabili come crea....
In una delle ultime lettere che mi aveva scritto la compagna della RAF
Ulrike Meinhof, avevamo già riscontrato questo dilemma molto serio, ma
le sue critiche in tal senso sono state soppresse nel carcere speciale
di Stammhaim. E le mie si sono perse nel magma ribollente degli anni
70/80. Ed oggi, la situazione non è molto rosea. Tuttavia non dobbiamo
mai dimenticare che noi i proletari e rivoluzionari abbiamo la forza
della ragione!
La dobbiamo usare per batterci contro chi oggi inalbera la ragione della
forza. Il capitale con tutti i suoi clichès!
Non arrendetevi, ma imparate a combattere.
Io ho fatto 20 anni il 1.12.2002 di cui 18 in carcere speciale a Novara,
senza mai arrendermi.
Anche se oggi non nego che mi sento stanco. Ma ho fatto 34 anni di
carcere, quindi vi abbraccio tutte/i con affetto.
Buon lavoro, un caloroso saluto comunista.
Marcello Ghiringhelli
carcere di San Vittore
Milano, 9 dicembre 2002
***
Un compagno
dell'UDAP sui prigionieri arabo-palestinesi
È doveroso oggi esprimere solidarietà con tutti i prigionieri
rivoluzionari in tutto il mondo, ribadendo la loro totale internità ai
processi rivoluzionari nelle aree di cui fanno parte.
Cari compagni, in Palestina, da anni si parla di movimento dei
prigionieri semplicemente per il fatto che sono numerosi. Allo stato
attuale il numero dei prigionieri ammonta a 8.300, di tutte le età , dai
14 anni in su. I nostri prigionieri versano in condizioni disumane da
tutti i punti di vista: cibo, visite dei familiari, salute ed accesso
alle informazioni esterne. Dal 1967 in poi, abbiamo registrato 122
decessi a causa delle torture in carcere, numerosissimi sono i detenuti
malati che non ricevono cure adeguate. Nelle carceri sioniste sono
passati 450.000 palestinesi nell'arco di trent'anni, potete immaginare
per una popolazione di 3.500.000 di persone, quanto sia alta la
percentuale. L'entità sionista ha inventato forme di accuse e di
detenzione diversificate per giustificare la propria azione
nazi-fascista.
Oggi, in Palestina, la detenzione si divide in tre parti fondamentali:
- Campi di
concentramento collettivi, inclusa la chiusura completa di villaggi
e centri urbani con coprifuoco che può durare delle settimane
- Detenzione
amministrativa: senza alcuna accusa si arrestano le persone e il
fermo viene prolungato di sei mesi in sei mesi e può durare degli
anni.
- Detenzione
ordinaria con accuse specifiche con condanne che a volte arrivano a
quattrocentocinquant'anni.
In Palestina c'è da
aggiungere alla repressione dell'occupante anche quella dell'Autorità
nazionale Palestinese dalle cui carceri sono passati tanti compagni e
combattenti palestinesi.
Vi ricordiamo che la forma carceraria imperialista nuova di Guantanamo è
stata introdotta anche in Palestina. Oggi nel carcere ANP di Gerico ci
sono quattro compagni (quelli che hanno giustiziato il ministro fascista
Zevi) ed il segretario del fronte Popolare per la Liberazione della
Palestina. Questi compagni sono controllati a vista da carcerieri
americani e inglesi.
In quest'occasione vogliamo ribadire la nostra piena solidarietà con
tutti i compagni prigionieri e rivendicare il loro impegno a non cedere
al nemico di qualsiasi natura esso sia, forze d'occupazione o nemico di
classe.
Noi pensiamo che la migliore solidarietà con i compagni detenuti sia il
proseguimento della lotta, motivo per il quale subiscono la prigionia.
Viva la lotta dei prigionieri rivoluzionari
A fianco della lotta dei popoli repressi
Per un mondo giusto e umano
***
Compagni del
Soccorso rosso del Revolutionärer Aufbau Schweiz
Care compagne, cari compagni, in primo luogo, grazie per l'invito alla
vostra iniziativa del 14.12. Anche noi oggi siamo impegnati in una
iniziativa di solidarietà con i prigionieri politici: una manifestazione
davanti al carcere dì massima sicurezza dove, nel braccio speciale, è in
isolamento Marco Camenisch, il compagno anarchico che ha passato più di
dieci anni nelle galere italiane. Per questo vi mandiamo queste righe in
segno di solidarietà e di internazionalismo proletario.
"La guerra contro il terrorismo è una lotta contro un male invisibile
che agisce ovunque". Queste le parole di Bush che ricordiamo tutti. La
borghesia imperialista cerca di uscire dalla profonda crisi
capitalistica portando la guerra imperialista all'ordine del giorno
della loro politica. Nessuno allora si meraviglia che questo famoso
"male" si trovi soprattutto nelle regioni che hanno un'importanza
strategica o ricche di materie prime. Ed è là che, con le bombe,
prendono il potere o il controllo sulla distribuzione delle materie
prime. Una repressione feroce si scaglia contro tutte le forze che si
oppongono o alla loro presa di potere o al modo di produzione
capitalista e al suo ordine sociale. I movimenti di liberazione, le
organizzazioni rivoluzionarie e combattenti finiscono nelle famigerate
liste nere, le cosiddette "liste antiterroristiche" e con questo
diventano perseguibili in tutto il mondo.
La controrivoluzione dello stato spagnolo è, per il momento, in Europa,
il punto più alto della controrivoluzione che non attacca soltanto le
organizzazioni rivoluzionarie e combattenti (come PCE-r, GRAPO o ETA) in
Spagna, Paesi Baschi o in Francia. No, vengono messi nella famigerata
lista, quasi giornalmente, nuovi nomi di compagni, collettivi giovanili
rivoluzionari (come Haika o Segi) o organismi di massa,
sindacali o quelli in sostegno e in solidarietà con i compagni
prigionieri (Gestorias). Divieti, blocchi di conti bancari,
arresti di massa e torture fino ad oggi non sono riusciti a schiacciare
i movimenti di liberazione, la lotta di classe, la militanza
rivoluzionaria. La controrivoluzione spagnola non agisce soltanto in
Europa, ma si ricorda del suo ruolo storico, come potere coloniale, e
appoggia la controrivoluzione colombiana nella loro lotta contro le
FARC.
Appoggiando Sharon nella sua sporca guerra contro il popolo palestinese
e il suo movimento di resistenza, gli USA e gli europei, allungano la
lista nera mettendoci anche il FPLP, un'organizzazione socialista con
una tradizione di lotta rivoluzionaria molto ricca e importante. Con ciò
si apre la caccia ai suoi dirigenti come "terroristi" in tutto il mondo.
Questi attacchi mirano, tra l'altro, anche ad eliminare le basi e le
rappresentanze estere e, con questo, i legami internazionali. Proprio
l'altro giorno due compagni del DHKP-C sono stati arrestati a Londra, la
loro sede perquisita. La "lista antiterroristica" è alla base di questa
operazione sbirresca. Era ovvio che la Turchia approfittasse di questo
strumento della controrivoluzione internazionale, per mettere a tacere
tutto ciò che si oppone in modo radicale al loro regime. Anche la
Germania si è attrezzata con un nuovo articolo del codice penale, il
129b, che permetterà di perseguire i compagni di organizzazioni
straniere come se fossero militanti di organizzazioni rivoluzionarie
tedesche.
Il ruolo della controrivoluzione in Italia lo conoscete voi meglio di
noi e siamo interessati a conoscere le vostre analisi, valutazioni e
proposte di lavoro anche a livello internazionale. Siamo profondamente
convinti che, in questa fase dell'imperialismo, non solo la parola
d'ordine "o socialismo o barbarie" ma anche l'internazionalismo
proletario, sia più attuale che mai.
La borghesia imperialista fa bene a temere la rabbia dei popoli
oppressi, la lotta di classe, la resistenza rivoluzionaria e le lotte di
liberazione. Un'occhiata nelle varie regioni colpite, come ad esempio la
Palestina o i Paesi Baschi, fa vedere che né la guerra né la repressione
intensificata, raggiunge il loro obiettivo. Non meraviglia affatto che,
"creare fiducia", sia la parola d'ordine del World Economic Forum
di Davos quest'anno. A gennaio, come tutti gli anni, la crème de la
crème della borghesia imperialista, governatori, specialisti
economici, intellettuali, scienziati e naturalmente un mare di
specialisti antiterrorismo, servizi segreti, per citarne soltanto un
paio, si riuniscono sulla montagna bianca con aria pulita. Gli strateghi
delle guerre, dello sfruttamento e dell'oppressione, vorrebbero
sviluppare in "santa pace", strategie e tattiche da intraprendere contro
la grave crisi capitalistica. Per lo stato svizzero è di fondamentale
importanza, così come ha dichiarato il capo dell'esercito, che questo
"avvenimento più importante per la piazza della finanza svizzera" si
svolga senza "immagini di guerra".
Ogni lotta di classe, resistenza rivoluzionaria o lotta di liberazione,
a livello nazionale o internazionale trova lassù in montagna i "suoi"
nemici di classe, gli imperialisti e potenti della politica, cultura e
scienza. "Creare fiducia" nelle nostre possibilità di mobilitarci contro
un nemico comune, essere visibili e ovunque portando con noi anche la
lotta dei prigionieri politici, è il nostro invito a voi tutti, affinché
si riesca a salire, insieme, lassù in montagna.
Buon lavoro, compagne e compagni
Soccorso Rosso del Revolutionärer
Aufbau Schweiz
membro della commissione per un soccorso rosso internazionale
Zurigo, il 13.12.02
***
Un compagno della
Panetteria Occupata di Milano
Un saluto a tutti, crediamo sia importante oggi fare questa iniziativa
come momento di informazione sulla strategia repressiva che lo stato sta
portando avanti a partire da una riflessione sull'attualità
dell'applicazione del regime di detenzione speciale che rientra nelle
norme contenute nell'articolo 41bis dell'Ordinamento Penitenziario.
Vuole anche essere un primo momento di crescita, come necessità di
comprendere la situazione carceraria e repressiva che esiste oggi
collegandola ed inserendola in un piano generale, piano di attacco alle
condizioni del proletariato metropolitano in genere e di conseguenza
anche di quello prigioniero. Una riflessione sul carcere rientra così
necessariamente su quelli che sono oggi i rapporti fra le classi, i
rapporti di forza, e su quello che è oggi il livello di espansione
raggiunto dal modo di produzione e riproduzione capitalistico.
Avviare un dibattito a 360 gradi, iniziando un lavoro di informazione,
sviluppando rapporti e reti di collegamento, costruendo un terreno di
solidarietà attiva.
Gli elementi su cui si è fermata la nostra attenzione sono:
- la
comprensione di una strategia che vive all'interno delle prigioni di
annientamento e di differenziazione del proletariato prigioniero e
in particolare dei prigionieri rivoluzionari;
- la solidarietà
ai prigionieri rivoluzionari, solidarietà totale sia attorno a
bisogni concreti, alle esigenze dei compagni prigionieri, che al
riconoscimento del loro ruolo storico e della loro partecipazione
allo scontro di classe in atto, non solo come testimonianza ma in
perfetta dialettica con il dibattito e con l'azione del movimento
rivoluzionario;
- la necessità
di ricostruire un rapporto organico con il proletariato prigioniero
che sappia raccogliere i segnali di insofferenza che esprime e le
sue tensioni di "fuga", un proletariato prigioniero che è il
medesimo specchio dell'attuale composizione di classe, in cui si
ritrova in sempre maggior numero la presenza di una popolazione
migrante ed in particolar modo di soggetti frutto del processo di
precarizzazione e di estromissione dai processi produttivi di grosse
fasce sociali.
- Il ruolo della
controrivoluzione preventiva come strumento permanente ed in
perfetta continuità con il passato di controllo e gestione della
crisi e come strategia mirata all'impedimento dello sviluppo di
forme di organizzazione e lotta rivoluzionaria indipendente del
proletariato.
Se possiamo
schematizzare si tratta di valorizzare un piano di informazione, di
apporto di contributi utili e necessari allo sviluppo di un dibattito e
confronto come base per una critica radicale al sistema di dominio
imperialista di cui il carcere ne è parte.
Se a livello internazionale siamo in una fase segnata da processi di
radicale ridefinizione dei ruoli egemonici e del controllo economico e
politico del mondo da parte delle forze imperialiste che trova come
soluzione la guerra sia essa "umanitaria" o "preventiva" nei singoli
paesi si inaspriscono ovunque gli attacchi alle condizioni di vita del
proletariato attraverso l'espulsione dal mercato del lavoro,
l'approfondimento delle condizioni di sfruttamento e l'aumento della
miseria sociale. Il rilancio del processo di accumulazione a livello
globale non deve incontrare resistenze e deve spegnere con ogni mezzo
necessario i focolai di resistenza ancora accesi e che si oppongono alla
penetrazione imperialista (citiamo a proposito i Paesi Baschi - da
Batasuna a ETA; la Colombia - Farc; il medio oriente ed in particolar
modo la Palestina e le sue Organizzazioni). Un attacco che viene portato
non solo alle esperienze rivoluzionarie ma anche alle borghesie locali
che esprimono interessi differenti. Ciò avviene anche attraverso un
processo di integrazione legislativo, giudiziario e militare sempre più
transnazionale. Rientrano in questo ambito il coordinamento delle
polizie locali e dei servizi segreti; il mandato di arresto europeo e
internazionale; le liste "nere" delle organizzazioni rivoluzionarie, di
liberazione nazionale o islamiche; l'applicazione del reato di
"terrorismo internazionale" a chiunque ne appoggi o ne condivida la
prassi o l'ideologia. Si rende necessario per il potere borghese, Stato
per Stato, rifunzionalizzare gli apparati repressivi, implementando una
maggiore integrazione e identità di comando nella macchina incaricata al
controllo sociale, in relazione allo scontro di classe in corso e alle
contraddizioni che questa fase apre. Giorno dopo giorno assistiamo al
suo funzionamento con l'aumento del fenomeno di irruzione nelle case dei
compagni, delle perquisizioni indiscriminate nelle sedi politiche e nei
centri sociali, nel monitoraggio costante e nel rastrellamento di interi
quartieri popolari, all'aumento dei posti di blocco, ai fermi arbitrari,
alla detenzione nei lager (Centri di permanenza temporanea) con
conseguente espulsione degli immigrati senza permesso di soggiorno. È in
questo quadro che si inserisce la volontà di applicazione dell'art.
41bis ai prigionieri rivoluzionari: un ulteriore e illusorio tentativo
per renderli sempre più estranei alla lotta di classe, per annientarli
nella loro identità politica, per sottoporli ad ogni arbitrio e ricatto
nel tentativo di portarli all'abiura della pratica rivoluzionaria.
Questa riedizione della "segregazione" dei compagni rivoluzionari nelle
carceri o nei bracci di "massima sicurezza" vuole essere un monito e il
deterrente per impedire che la loro scelta rivoluzionaria, sostenuta e
rivendicata nel corso di questi anni, si leghi e dialoghi con l'insieme
delle pratiche di classe.
Obiettivo del 41bis sono oggi quei compagni che perlopiù hanno già
scontato 20 anni e oltre nelle "carceri speciali", sottoposti a forme di
censura e controllo e ai quali viene già ostacolato ogni elemento di
contatto e relazione con l'esterno. Con l'applicazione del nuovo disegno
di legge che modifica l'art. 41bis dell'Ordinamento Penitenziario
l'isolamento diventa pressoché totale, con drastica limitazione della
socialità anche attraverso la contrazione dei colloqui con familiari e
amici, la riduzione delle ore d'aria, le telecamere fisse per la
sorveglianza, i vetri divisori ed i citofoni durante i colloqui, la
limitazione nella corrispondenza con l'esterno, le video-conferenze a
sostituzione della presenza ai processi: tutto un armamentario
"collaudato" che vorrebbe portare alla distruzione fisica e psicologica
dei prigionieri rivoluzionari. Un regime speciale che sarà applicato a
chi appartiene ad organizzazioni rivoluzionarie ma potrà essere
utilizzato contro chiunque si organizza su un terreno antagonista e
questo sin da subito avrà un funzione deterrente e da monito.
Le carceri "speciali" e la legislazione che le legittima (in passato è
stato l'art. 90 e oggi il 41bis) sono studiate per favorire il massimo
controllo e la massima efficienza repressiva e rispondono per essere
legittimate dall'opinione pubblica ad esigenze considerate
"emergenziali", diventando di fatto poi strumenti integranti e di
perfezionamento del sistema di coercizione generale. Questo collaudato
sistema di ricatto, pressione e violenza istituzionale si articola in
forma calibrata a seconda del soggetto prigioniero avendo come elementi
costituenti la differenziazione e l'individualizzazione del trattamento
penitenziario. Una ruota nella quale il "trattamento differenziato" del
41bis rappresenta l'ingranaggio principale e lo strumento massimo di
repressione contro chi si ribella, si organizza e lotta. Applicato ormai
da 10 anni dapprima ai cosiddetti "reati di mafia" viene ora esteso ai
compagni delle organizzazioni combattenti ed ai sospetti di appartenenza
alle organizzazioni islamiche, costituendo di fatto un ulteriore
elemento di persuasione, nella dialettica pacificazione-distruzione,
sull'intera popolazione prigioniera che già vive in condizioni
accentuate di degradazione e prevaricazione (mancanza di cure sanitarie
in generale ed in particolare assenza pressoché totale di assistenza ai
malati di Aids, aumento del numero dei suicidi, pestaggi e vessazioni di
ogni tipo). E contro queste condizione si sono sviluppate negli ultimi
anni un ondata di lotte del proletariato prigioniero, da Sassari a San
Sebastiano (dove lo stato ha risposto con un massacro dei detenuti),
alle rivolte a Marassi, sino all'ultimo ciclo di proteste in tutte le
carceri italiane. Ma la prevenzione e la distruzione di ogni elemento di
coscienza e di lotta contro il capitale non si ferma al recinto dei
lager di stato, siano essi "normali" o "speciali", ma vive
principalmente all'esterno, applicata senza distinguo a tutte le
tensioni, anche parziali, e ad ogni momento di rifiuto che la classe
oppone ai meccanismi di sfruttamento. Mentre si aprono contraddizioni
dentro il blocco dominante in merito alla gestione della crisi (patto
sociale, legge finanziaria, partecipazione alla guerra, opzioni
divergenti sulla ristrutturazione del sistema industriale italiano) e le
lotte sembrano riprendere corpo e sostanza, lo stesso schieramento
borghese si ricompatta, unito come non mai, nel cercare di dividere e
isolare la classe.
Dove non arriva la burocrazia sindacale per prevenire la
radicalizzazione dello scontro si "criminalizzano" le lotte che si
sviluppano in modo autonomo e differenziato e le avanguardie che le
dirigono: si passa dalla schedatura di massa degli attivisti sindacali
alle 130 denunce ai lavoratori delle pulizie Trenitalia per aver
occupato i binari come strumento di lotta a difesa del posto di lavoro.
Per meglio controllare i gruppi politici del movimento antagonista si
allargano le maglie dei reati associativi e dei provvedimenti che
colpiscono i singoli compagni (divieto di partecipare alle
manifestazioni, 270 e 271 bis/ter/quater, inchieste su Genova e Napoli,
arresto di militanti del movimento prima a Cosenza ed ora in tutta
Italia).
Soluzioni adeguate alle circostanze per imbottigliare e differenziare le
diverse componenti della classe una dalle altre, per mantenere come
realtà "separate" le pratiche e le opzioni del movimento antagonista e
dei lavoratori dalla prospettiva rivoluzionaria, per rendere ancor più
"invisibili" i prigionieri rivoluzionari alla classe e farli separare
dalle istanze di liberazione dallo sfruttamento e per la rivoluzione
sociale. Se il carcere è uno degli strumenti che la borghesia si è dato
per esercitare il suo potere non dobbiamo farci trovare né impreparati,
né passivi, né divisi sul terreno dello scontro contro ogni forma di
dominio economico e politico del capitale. Costruiamo una rete di
controinformazione e mobilitazione che, a partire dallo "specifico
carcerario del 41bis", sostenga la difesa dell'integrità psicofisica dei
rivoluzionari prigionieri, la loro identità politica, la loro storia.
Sosteniamo e stabiliamo relazioni con le lotte dei proletari detenuti
come percorso di ricomposizione politica del proletariato metropolitano.
Costruiamo un terreno di solidarietà di classe, per il comunismo.
***
Un compagno
anarchico promotore dell'assemblea
Innanzi tutto vogliamo salutare i familiari dei detenuti comuni
incontrati durante i volantinaggi davanti ad alcune carceri, e che forse
sono presenti oggi.
Che cosa ci aspettiamo da questa assemblea e cosa non vorremmo.
Non vorremmo che l'assemblea si trasformasse in un'autocelebrazione, con
degli interventi, orali o scritti, che "pubblicizzino" la propria
organizzazione o gruppo. Gli interventi che seguiranno - o che ci hanno
preceduto - riguardanti particolari situazioni estere, sono per noi un
bagaglio importante e ci sono di stimolo per affrontare meglio una
discussione che, a nostro parere, dovrebbe però indirizzarsi oggi sullo
specifico nazionale.
Ciò che ci aspettiamo, è un confronto di analisi, di metodologie basate
sull'esperienza, un confronto su proposte di lotta concreta per poter
meglio affrontare - come dicevamo nell'introduzione dell'opuscolo - le
lotte che potrebbero svilupparsi all'interno e all'esterno del carcere.
Lotte che potranno essere determinate da detenuti comuni, o da
sottoposti a 41bis (e qui vorrei aprire una parentesi per sgombrare il
campo da facili prese di distanza riguardo i cosiddetti "mafiosi".
Innanzi tutto il termine "mafioso" è un appellativo che dà lo Stato a
chi è imputato di appartenere ad una grossa associazione criminale. Allo
stesso modo in cui pone l'appellativo "terrorista" a chi lotta contro
l'esistente. Poi c'è da dire che non tutti i detenuti che soffrono il
41bis sono appartenenti ad organizzazioni criminali. A regime 41bis c'è
stato anche un compagno per 10 anni, Matteo Boe; ci sono passati
proletari che, pur non avendo una coscienza di classe, non hanno mai
ceduto alle lusinghe dei Magistrati e che hanno vissuto, o vivono, la
loro carcerazione in modo dignitoso, scontrandosi con i carcerieri e la
Magistratura di Sorveglianza. In ogni modo, è senz'altro un falso
problema per un rivoluzionario che si pone come obiettivo la distruzione
della società divisa in classi e di tutte le istituzioni totali), lotte
quindi - dicevamo - che oltre a poter essere determinate da detenuti
comuni o sottoposti a 41bis, possono vedere coinvolti anche i
prigionieri rivoluzionari, è una possibilità.
Ovviamente, non è che ci si possa aspettare che dall'interno del carcere
la lotta possa nascere subito in modo conflittuale.
Una lotta dall'interno, generalmente inizia come lotta intermedia (cioè
che non si pone immediatamente obiettivi rivoluzionari, ma si presenta
come lotta rivendicativa, in carcere così come in qualsiasi settore
della vita sociale), non dimentichiamoci che ogni individuo detenuto è
un ostaggio nelle mani dello Stato e che, quindi, deve muoversi con
cautela avendo anche a disposizione quanta più documentazione possibile,
in modo particolare su quello che accade in altre carceri: dalle
condizioni estreme di repressione alle iniziative di resistenza, di
contrapposizione vera e propria. Una lotta intermedia può andare dal
rifiuto dell'aria al rifiuto dei colloqui, dei pacchi familiari, della
socialità e di tutte le altre attività. Si possono anche sviluppare
forme più complesse come il rifiuto del vitto dell'Amministrazione, del
lavoro in carcere, lo sciopero della fame, la fermata all'aria con
rifiuto di rientrare nelle celle, il sequestro di una guardia.
Nessuno può prevedere come possa evolversi una lotta che parta da una
rivendicazione di migliorie, ma tutti quanti possiamo dare ampio risalto
all'esterno di ciò che accade dentro quelle mura, ed adeguare alla lotta
i nostri metodi e strumenti d'intervento. Tuttavia una lotta contro il
carcere potremmo determinarla anche noi altri, dall'esterno, insieme ad
amici e familiari dei detenuti, perché è anche con chi si vive in prima
persona le conseguenze di una carcerazione che bisogna confrontarsi e
creare dei punti di contatto da cui far partire delle mobilitazioni,
auto-organizzate, che sappiano tenere a distanza gli avvoltoi della
Politica.
Nonostante riteniamo che la migliore soluzione possibile per quel che
riguarda il carcere è la sua completa distruzione, spesso abbiamo
solidarizzato con le proteste dei detenuti, tenendo ben presente che non
è con il rivendicare "diritti" a coloro che sono i diretti responsabili
della barbarie-carcere che ci si possa avvicinare alla liberazione ma, a
nostro avviso, con una lotta autogestita in prima persona che sappia
mettere in crisi i meccanismi dell'Amministrazione Penitenziaria ed
indurla ad accogliere le istanze di lotta. Perché è vero che negli
ultimi anni le lotte dei detenuti sono state a carattere rivendicativo
(e non totali contro l'esistente), generalmente pacifiche e di dialogo
con le istituzioni, ma è altrettanto vero che non hanno portato ad una
miglioria concreta, relegate ad un attendismo di volta in volta
suggerito da un politico, un ex-carcerato famoso, un Ministro, un Papa.
Secondo noi la lotta, per avere maggior incisività, deve svolgersi su
due fronti. Quello interno, composto dai prigionieri, e quello esterno
composto da tutte quelle realtà, singoli individui, amici e familiari
che intendono essere vicini ai detenuti in lotta, in modo non
strumentale e non solo assistenzialista.
Una lotta che ponga delle discriminanti nel metodo d'intervento:
l'attacco, cioè nessuna mediazione con il potere; l'azione diretta, cioè
mettere in pratica ciò che dichiariamo di fare, senza delegare ad
alcuno, o aspettare che altri lo facciano al nostro posto; l'autonomia
totale della lotta, cioè il rifiuto di intermediari, strumentalizzatori,
partiti, ecc. Denunciare, sbugiardare, attaccare, boicottare, presidiare
le strutture che compongono il sistema repressivo, i sindacati che hanno
tra i loro iscritti delle guardie carcerarie, le ditte fornitrici e
costruttrici di carceri, le aziende che sfruttano il lavoro dei detenuti
(significativa la proposta della Lega che intende dimezzare la pena ai
detenuti che lavoreranno gratis), organizzazioni e associazioni complici
e sfruttatrici. Il potere mira a clandestinizzarci, espellerci dai
contesti sociali, separarci dagli esclusi del sistema, perché tra essi
rappresentiamo lo stimolo perenne alla insurrezione generalizzata, alla
possibilità di riprenderci la vita.
La proposta che lanciamo a questa assemblea è un progetto di lotta, un
intervento continuativo che in prospettiva coinvolga chi soffre la
galera, ma anche chi la sente estendersi sempre più al complesso della
propria vita, nelle proprie case, nel proprio tempo, pur non trovandosi
dietro le sbarre di un penitenziario. Un progetto, quindi, che si fa
forza del nostro agire rivoluzionario del passato e che si pone in
continuità operativa col nostro agire quotidiano, nella interdipendenza
tra analisi ed azione, in modo coerente e dignitoso. Senza secondi fini,
se non la lotta stessa.
Gli anarchici promotori
***
Una compagna del
foglio Rivoluzione
Innanzitutto un caloroso saluto a tutti coloro che partecipano a questa
assemblea che "Rivoluzione" ha contribuito a promuovere e costruire come
un momento di dibattito per il rilancio della cultura e della pratica
della solidarietà di classe. È questo un momento importante perché,
accomunando in un unico fronte contro la repressione borghese diverse
realtà, dà un segnale nuovo dopo il lungo silenzio in questo campo,
silenzio frutto della cultura della desolidarizzazione e della
dissociazione che per mano della borghesia ha contaminato il movimento
di classe e il movimento rivoluzionario nel nostro paese al fine di
distoglierlo dalla via rivoluzionaria. Silenzio rotto solo dal lavoro
minoritario di pochi collettivi di compagni che hanno resistito in
questi anni e hanno continuato a portare avanti la battaglia a fianco
dei Rivoluzionari Prigionieri (RP).
Un saluto e un ringraziamento in particolare agli organismi di
solidarietà e di lotta contro la repressione che oggi sono presenti e
che con la loro lotta e la loro esperienza possono portare in questa
assemblea un contributo positivo, carico di insegnamenti. Con questo
intervento non vogliamo entrare nel merito dell'analisi della situazione
carceraria oggi, delle modifiche nell'ordinamento penitenziario e in
quello penale frutto dell'attuale situazione di crisi del sistema
capitalistico, della tendenza alla guerra e del conseguente acuirsi
della lotta di classe nei paesi imperialisti e delle lotte di
liberazione e guerre popolari dei popoli oppressi. Molti interventi, e i
materiali proposti per questa assemblea affronteranno questi temi.
Vogliamo invece rispondere per punti a delle domande che secondo noi
servono a dare un orientamento collettivo al lavoro e alla militanza
concreta sul terreno della repressione e della controrivoluzione.
Innanzitutto: "Perché è fondamentale lottare sempre contro la
controrivoluzione?" Molti compagni, "aree" di movimento, "gruppi
politici" hanno sostenuto e sostengono che questo terreno di lavoro non
è centrale, distoglie dal legame con le masse, provoca isolamento, va
considerato solo quando si viene colpiti direttamente o nei momenti in
cui la repressione diventa visibile, per forza ed estensione, a livello
di massa. A queste affermazioni dobbiamo contrapporre con la forza
dell'analisi scientifica delle leggi che regolano il mondo e con la
tenacia della pratica che, per chi si pone onestamente e senza
opportunismo sulla strada del cambiamento rivoluzionario della società,
la lotta contro la controrivoluzione e la repressione non è un settore
particolare da considerare quando comoda e a seconda dei periodi ma,
essa è parte integrante e indissolubile del lavoro per far avanzare la
classe operaia e il proletariato verso la propria emancipazione.
Rivoluzione e controrivoluzione è una contraddizione, essa è un'unità di
opposti: è la contraddizione che nel suo sviluppo porta o a un
avanzamento di un polo o a quello dell'altro. Un polo non esiste senza
il suo opposto, nella politica rivoluzionaria questi due aspetti vanno
trattati sempre e sono l'uno il complemento dell'altro. La
controrivoluzione preventiva, strumento della borghesia, è nata e si è
sviluppata solo dopo l'affermazione della prima rivoluzione proletaria e
da allora avanza e si perfeziona per contrastare ogni possibile avanzata
di processi rivoluzionari, in tutto il mondo. Per Marx ed Engels fin
dall'inizio e, per i partiti comunisti maoisti di oggi, qualsiasi
processo rivoluzionario potrà avanzare solo se si eleva sulla
controrivoluzione, cioè solo se la rivoluzione riesce a divenire polo
principale della contraddizione. Questo significa, nella pratica, che
questo terreno di lavoro è fondamentale in ogni momento e va studiata
sempre la situazione concreta per trovare il modo corretto per
affrontarlo.
Una seconda domanda: "Perché quando si affronta la questione carcere
bisogna partire dal punto più alto di segregazione, in questo caso dal
circuito di Massima Sicurezza? E perché quando si parla di prigionieri
partire dai R.P.?"
Molti compagni pensano che devono analizzare la situazione a partire dai
soggetti più numerosi che vengono incarcerati e che il loro lavoro deve
partire da lì, oppure che la realtà di controllo e coercizione va vista
a partire dall'estensione delle misure applicate in tutta la società.
Noi pensiamo, al contrario, che per comprendere bene qualsiasi cosa essa
vada guardata dall'alto perché così si vede per intero e si capisce il
posto che occupano i singoli aspetti di quella cosa. Quindi, per capire
come funziona il sistema carcerario è fondamentale partire dal suo
livello più alto raggiunto perché esprime la sintesi della capacità
repressiva del potere borghese e racchiude i codici che regolano tutta
l'istituzione totale che traboccano e informano l'intera società. E,
quando parliamo di prigionieri, parliamo in primo luogo dei RP perché
noi guardiamo il carcere dal punto di vista del proletariato e della
lotta di classe e, in questa concezione, la loro condizione rappresenta
uno dei punti più alti della lotta dello stato contro chi ha osato
organizzarsi per mettere in discussione il suo potere. Se andiamo a
ritroso e guardiamo la storia del carcere negli ultimi decenni a partire
dalla condizione dei RP vediamo che essa porta con sé un importante
spaccato della lotta di classe e rivoluzionaria nel nostro paese. Questo
aspetto è affrontato nell'opuscolo preparato per l'assemblea nel pezzo
intitolato "dall'art 90 al 41 bis". Con questa impostazione guardiamo
alla costruzione di un legame e di un'unità nella lotta con tutto il
corpo prigioniero.
"Che tipo di solidarietà vogliamo promuovere e raccogliere?" La
solidarietà che vogliamo promuovere e raccogliere non è umanitaria e
nemmeno un piagnisteo sulle carenze della "democrazia" borghese
indirizzato al suo possibile miglioramento. Non è una solidarietà
rivolta solo ai prigionieri che in altre parti del mondo lottano
all'interno delle carceri imperialiste. È prima di tutto solidarietà
qui, alla lotta che i RP hanno sostenuto e non hanno svenduto: la loro
resistenza rafforza la nostra lotta e la nostra solidarietà concreta
rafforza la loro resistenza. I RP sono la testimonianza del percorso
rivoluzionario nel nostro paese e dei passi avanti fatti contro il
revisionismo. Nonostante non siano più le migliaia di fine anni '70
continuano a essere estremamente scomodi e vengono continuamente presi
di mira come ora con il 41 bis. Questo perché essi sono un esempio di
coerenza e mostrano con la loro esistenza che oggi vive una prospettiva
rivoluzionaria. È di questo che lo stato ha paura. La solidarietà che
vogliamo promuovere deve servire a sviluppare questa prospettiva con la
consapevolezza che essa è un contenuto indispensabile per raggiungere
l'obiettivo della ricostruzione del partito comunista nel nostro paese.
"Che metodo di lavoro dobbiamo applicare per dare impulso e sviluppare
la solidarietà?"
Contro il gruppismo, la solidarietà di parrocchia, la differenziazione,
dobbiamo costruire un fronte ampio contro il carcere, la
controrivoluzione preventiva, la repressione e a sostegno dei RP che
abbia come discriminante il riconoscimento del nemico comune e la scelta
di campo rivoluzionaria. Dobbiamo intervenire a partire dal particolare
della situazione della lotta di classe attuale. Guardare le cose da un
punto elevato non significa non analizzare sempre tutti i singoli
aspetti delle cose e la situazione concreta in cui si manifestano.
Possiamo staccarci a guardare la realtà per elaborare dei criteri
generali di comprensione che siano utili ad intervenire su di essa solo
se prima siamo pienamente immersi in essa e ne conosciamo i nessi
interni. Dobbiamo applicare la linea di massa, saper vedere e
valorizzare in ogni occasione gli aspetti positivi della lotta di classe
per contrastare quelli negativi. Per fare questo è necessario unirsi
nella lotta attuale contro il carcere, non snobbare quello che avviene
in risposta a ogni episodio di repressione solo perché è manipolato o
diretto dai revisionisti. È importante anche saper vedere e utilizzare
le contraddizioni, che oggi sono acute, in campo nemico. Lo stato non è
un mostro onnipresente, cattivo per natura e con strumentazione
repressiva imbattibile, come, più in generale non lo è l'imperialismo.
Se attua misure sempre più fasciste questo non è certo un segno della
sua forza ma della sua debolezza.
Concludiamo con l'augurio che questo incontro sia proficuo nel dare
elementi e strumenti per capire la realtà della repressione e della
controrivoluzione che possano dare impulso e guidare un rilancio della
pratica della solidarietà di classe. Siamo convinti che nella situazione
attuale in cui la lotta di classe coinvolge ampi strati di operai,
lavoratori, giovani e donne, lo spazio politico per il nostro lavoro
diventa sempre più ampio. Quindi, con entusiasmo rivoluzionario, diamoci
dentro!
Un saluto a tutti i compagni prigionieri e a tutti i detenuti che
lottano, in Italia e nel mondo.
A fianco della mobilitazione dei compagni contro gli arresti di Genova.
Redazione di "Rivoluzione"
***
Una compagna degli
Amici e Familiari dei Rivoluzionari Prigionieri
Le carceri speciali, in Italia, nascono nel '77 dalla necessità dello
stato di isolare i prigionieri politici. Questo perché, con l'arrivo
nelle carceri dei compagni, dal '68 in poi, la situazione diventa sempre
più esplosiva: crescono le rivolte, si pretendono condizioni di vita
dignitose ma soprattutto, i detenuti per cause comuni, prendono
coscienza dell'origine sociale e politica della loro condizione, si
sentono parte del proletariato, si crea un forte legame tra proletariato
fuori dalle carceri e proletariato detenuto. In seguito, con la nascita
delle organizzazioni combattenti, anche il proletariato extra-legale si
organizza nei N.A.P. (Nuclei Armati Proletari). Lo stato deve tentare di
arginare la situazione, vara quindi la riforma carceraria, che entrerà
in vigore nel '76. Questa si muove in due direzioni che, da quel momento
in poi, saranno sempre presenti negli schemi delle leggi successive sul
carcere: da una parte, la concessione di benefici, condizioni carcerarie
migliori, permessi subordinati alla buona condotta e, dall'altra, il
trattamento speciale per i prigionieri politici e per quei detenuti che
si espongono nelle lotte.
Ad occuparsi del circuito delle carceri speciali, sono chiamati i
carabinieri, il cui comandante è il Generale C. A. Dalla Chiesa.
All'inizio si creano sezioni speciali all'interno delle carceri normali,
contemporaneamente sono costruite nuove carceri, concepite già come
speciali, con caratteristiche, anche architettoniche, tali da permettere
il massimo controllo. Queste, nel corso degli anni, si andranno sempre
più perfezionando con il corollario di congegni elettronici e
tecnologici.
Le carceri speciali non se le sono inventate qui, l'Italia ha un modello
da seguire, la Germania occidentale.
L'Italia e la Germania occidentale, in quegli anni, sono paesi centrali
per la strategia USA, sia come paesi di frontiera con l'area dell'Urss,
sia nella strategia americana contro le lotte di liberazione del Terzo
Mondo.
In Germania, in particolare nelle basi militari, esistono centri d'intelligence
da dove sono gestite le operazioni, più o meno segrete, di propaganda,
d'informazione e anche militari, americane. A differenza dell'Italia,
dove esisteva un forte partito comunista, seppure revisionista, la
Germania del dopoguerra, ha cercato di estirpare, nel modo più radicale,
ogni tipo d'opposizione politica, infatti il partito comunista era
fuorilegge, dichiarato anticostituzionale fin dal '56. Dopo l'esplosione
del movimento del '68, lo stato tedesco reagisce varando,
immediatamente, leggi speciali d'emergenza. All'inizio degli anni '70
emergono due organizzazioni di guerriglia: gli anarchici del "2 giugno",
che nascono dall'esperienza delle comuni, in particolare nel quartiere
di Kreuzberg, a Berlino e la R.A.F. che, analizzando il ruolo strategico
della Germania ovest nei piani dell' imperialismo USA, si pone
principalmente su un piano di lotta anti-imperialista. Una delle loro
prime azioni, sarà proprio l'attacco, nel '72, al quartier generale USA
di Heidelberg da dove erano coordinate le campagne di sterminio in
Vietnam. Questa e altre azioni contro le istituzioni americane, hanno
rappresentato un aiuto concreto al popolo vietnamita in lotta, tanto
che, ad Hanoi erano affissi manifesti con la notizia degli attentati e,
dopo la liberazione di Saigon sarà intitolata una strada ad Ulrike
Meinhof per ricordare i compagni tedeschi. Un altro punto importante è
la solidarietà (come vedremo ricambiata), con la lotta del popolo
palestinese. Dopo il massacro, ricordato come "Settembre nero", in
Giordania, i compagni palestinesi decidono di portare la lotta qui, nel
cuore dell'Europa. Nel '72, con il sequestro della squadra israeliana
che partecipa alle Olimpiadi di Monaco e le azioni successive, la lotta
di liberazione palestinese esce dall'ambito regionale in cui era
confinata e viene conosciuta in tutto il mondo. Si prende coscienza del
ruolo che Israele svolge in quella regione, che va ben al di là di
quello che appare, e che la lotta palestinese non è solo la lotta di
liberazione di un popolo ma un nodo centrale della lotta antimperialista
mondiale, ruolo che conserva ancora oggi.
Per stroncare la guerriglia lo stato tedesco attuerà, contro i compagni,
una repressione durissima. Saranno rinchiusi, per anni, in carceri super
tecnologiche dove vige l'isolamento in celle singole insonorizzate, dove
i compagni verranno sottoposti a torture di tipo psicologico e
farmacologico, secondo tecniche, studiate fin dagli anni '50 in America,
capaci di provocare gravi problemi fisici e psichici, con lo scopo di
annullarne la resistenza e annientarli. Lo stato tedesco non riuscirà a
piegare i compagni: resisteranno e lotteranno strenuamente con scioperi
della fame che porteranno alla morte del compagno Holger Meins nel '74.
E non ci riuscirà nemmeno con l'assassinio in carcere, nel '76, di
Ulrike Meinhof.
Non ci riuscirà nel '77, quando la R.A.F. rapirà il presidente della
Confindustria Schleyer, che era stato attivo nazista nelle SS, e
chiederà la liberazione di 11 compagni. Un commando palestinese
appoggerà le richieste della R.A.F. sequestrando un Boeing 737 della
Lufthansa che atterrerà a Mogadiscio. Un commando dei corpi speciali
tedeschi darà l'assalto all'aereo della Lufthansa liberando i passeggeri
e uccidendo i componenti del commando palestinese. Questo è il primo
intervento della Repubblica Federale Tedesca su suolo straniero dal '45.
Infine, verranno assassinati, nelle loro celle, i compagni Andreas
Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe. La versione ufficiale del
governo sarà, ed è ancora oggi, "suicidio", come già era avvenuto per
Ulrike Meinhof. L'uccisione dei compagni susciterà un'ondata di proteste
e ci saranno azioni contro obiettivi tedeschi in tutto il mondo. Le B.R.
la definiranno "la prima offensiva unitaria sul terreno della guerra di
classe". Il tentativo di fermare la guerriglia assassinando i compagni
andrà a vuoto. La guerriglia continuerà a combattere fino agli anni '90.
Le tecniche d'annientamento nelle carceri speciali tedesche, saranno il
modello che verrà esportato un po' ovunque, dall'Italia all'Irlanda,
alla Spagna. Non è un caso che la Turchia, che chiede di entrare in
Europa, si adegui a questo modello con la costruzione dei blocchi, detti
di tipo "F", a cui i compagni turchi stanno resistendo con uno sciopero
della fame che ha già prodotto più di cento morti.
Questo il modello dunque, ma le cose, nell'Italia di quegli anni, che
come abbiamo visto non rappresenta un caso isolato, sono rese difficili
dall'alto numero dei prigionieri e dal livello delle lotte che si sono
sviluppate ovunque, nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri e
intorno al problema del carcere.
I compagni prigionieri vengono trasferiti continuamente per impedire che
una situazione stabile possa permettere di organizzarsi e per rendere
più difficoltoso il contatto con l'esterno, essenzialmente con i
familiari (se non si è in qualche modo familiari, non vengono dati
colloqui), i quali sono costretti ad attraversare tutta l'Italia senza
mai sapere se il loro compagno è ancora lì.
Ma nonostante "gli speciali", la lotta non si ferma e raggiunge il suo
culmine con la rivolta dell'Asinara nel '79.
I detenuti chiedono la chiusura del carcere per le condizioni di vita
impossibili. Le B.R., fuori, rafforzano la richiesta dei prigionieri con
il rapimento del direttore generale delle carceri, il magistrato D'Urso.
Alla fine, il carcere dell'Asinara, semidistrutto dalla rivolta, viene
chiuso e D'Urso liberato.
Siamo alla fine degli anni '70... la borghesia ha bisogno di portare
avanti una ristrutturazione sia a livello politico che a livello
produttivo; ristrutturazione che è già in atto negli altri paesi, ma che
in Italia è bloccata da più di dieci anni di durissima lotta di classe e
dalla presenza di avanguardie armate. È necessario, per lo stato
borghese, usare ogni mezzo per stroncare queste lotte. Attacca quindi su
tutti i fronti, innanzitutto le fabbriche: emblematica la sconfitta
della Fiat con migliaia di cassaintegrati e i 61 arrestati per
"terrorismo"; il movimento, con teoremi come quello del 7 aprile, che
porteranno centinaia di compagni in carcere e/o all'estero; cerca di
fare terra bruciata intorno ai prigionieri con arresti e intimidazioni a
familiari ed amici e a tutti quei settori di movimento che si occupano
di carcerario; arriva anche ad arrestare gli stessi avvocati difensori,
accusandoli di favoreggiamento nei confronti dei loro clienti (già
successo, anni prima in Germania).
Per fermare a tutti i costi la guerriglia, verrà poi applicata la
tortura a chi viene arrestato, non la tortura psicologica, ma quella più
spiccia, la corrente nei coglioni per intenderci. Viene applicato anche
l'art. 90, che è, in pratica, l'attuale 41 bis: colloqui con i vetri,
isolamento, riduzione delle ore d'aria, ecc.
Ma a questo inferno c'è una via di uscita ed è la delazione, il
pentimento, il tradimento che porterà centinaia di compagni in carcere.
Ma non basta, Peci, l'infame tra gli infami, consegnerà le chiavi di un
appartamento, in Via Fracchia, a Genova: quattro compagni verranno
uccisi. La situazione è durissima per tutti, ma ancora c'è la volontà di
lottare contro l'art. 90 e le torture.
Il movimento si mobilita e manifestazioni e scontri si svolgono davanti
alle carceri speciali come Cuneo e Voghera. L'art. 90 verrà infine
abolito. Seguirà poi la stagione delle abiure, la legge sulla
dissociazione, i convegni, i dibattiti e, alla fine, come si conviene
alla società dello spettacolo, tutto finisce in tv, ex-fascisti ed
ex-comunisti, le stesse facce contrite in un cono di luce, ci spiegano
che tutto è finito. Ma la repressione continua. Vengono, di nuovo,
arrestati decine e decine di anarchici; Laudi, nota avanguardia
dell'anti-terrorismo monta a Torino il caso "squatter" contro i compagni
che lottano contro il T.A.V. che porterà al suicidio-assassinio di due
compagni, Sole e Baleno. Intanto, i compagni che non accettano
compromessi, che continuano a resistere, restano nelle carceri speciali
rigorosamente isolati. Ed è principalmente a questi compagni che oggi
vogliono applicare l'art. 41 bis. E allora ci chiediamo: perché proprio
adesso? Perché questo rigore verso dei compagni che sono già nelle
carceri speciali da moltissimi anni, alcuni 20, addirittura 28?
Accanimento gratuito? Non lo crediamo.
E allora guardiamoci intorno. La classe sta subendo, ancora una volta,
un attacco durissimo; gli stabilimenti chiudono, migliaia di operai
perdono il posto di lavoro, nel contempo lo stato sociale viene
smantellato, si susseguono gli attacchi in tutte le direzioni (scuola,
pensioni, sanità, ecc.) la crisi economica porta il capitale alla
dislocazione produttiva, in paesi dove lo sfruttamento e quindi il
profitto sono maggiori; cresce il capitale finanziario. Tutto questo fa
sì che non ci sia più spazio per ipotesi riformiste. Lo stato perde
quindi, sempre di più, il ruolo di mediatore dei conflitti, poiché c'è
sempre meno da mediare, per assumere la veste repressiva e di controllo.
Le emergenze si susseguono. All'emergenza permanente, lo stato da
risposte che assomigliano, sempre di più, al carcere vero e proprio:
aumentano i contenitori per merce umana, i centri di detenzione per gli
immigrati con il corollario della legge Bossi-Fini, le comunità di
recupero; si parla di abolire la 180 e di riaprire i manicomi, fino alle
casette chiuse per regolarizzare la schiavitù della merce donna. Lo
stato non ha dimenticato gli anni '70. La classe certo è sotto
pressione, costretta sulla difensiva, sempre più smembrata dal nuovo,
anche se in realtà vecchio, modo di produzione con i lavori atipici, a
termine, part-time, a chiamata, chi più ne ha più ne metta! A
quale livello dunque, può, in questo contesto, avvenire la
ricomposizione di classe se non su un terreno politico?
Fermare le avanguardie che potrebbero operare questa ricomposizione è
essenziale: questa è la vera emergenza.
Per questo lo Stato attua una contro-rivoluzione preventiva contro
tutti: i lavoratori, che si mobilitano contro il Libro Bianco e l'art.
18 (da notare la rapida riconversione della CGIL a
interprete-incanalatore delle lotte); il movimento (i fatti di Napoli e
di Genova che porteranno alla morte di Carlo Giuliani, non sono
casuali); la ripresa dell'attività combattente, preparando gli strumenti
di cui, l'art. 41 bis è uno di questi. Ma la repressione, per essere
efficace, deve essere generalizzata. Ogni compagno deve sapere di essere
a rischio carcere.
Lo Stato, per questo, non si limita mai a colpire solo "i responsabili",
ma deve creare un clima di intimidazione, arrestando e inquisendo: i 20
arrestati a Caserta lo dimostrano, non c'è bisogno di prove per il 270
bis.
La repressione e l'inasprimento del carcere servono, da un lato, a
ri-punire chi non si è arreso e rivendica la propria identità politica
dando una continuità storica alle lotte e, dall'altro, a
desolidarizzare, a spingere alla resa. Il solito vecchio gioco. Tutto
questo nulla ha a che vedere con il governo di centro-destra, anzi,
basti dire che, di fronte alla proposta di applicare l'art. 41 bis per
la durata della legislatura, il centro-sinistra ha chiesto, e
naturalmente ottenuto, che l'applicazione del 41 bis sia a tempo
indeterminato!
L'intensità della repressione e del controllo sociale non dipendono dal
tipo di governo, è lo stato borghese, nel suo insieme, che non può
permettersi un 'intensificazione della lotta di classe, che ha bisogno
del controllo sociale all'interno, per svolgere al meglio le sue
funzioni di Stato imperialista, per poter affrontare al meglio
l'intensificazione della contesa internazionale. Uno scontro che è
vitale per l'imperialismo; uno scontro, sempre più complesso, che si
svolge a tutti i livelli: commerciale, politico e sempre di più
militare, che vede coinvolti tutti, dagli Usa all'Europa in via di
costruzione, alla Russia, alla Cina. Uno scontro che, in prospettiva,
sarà guerra aperta. Lo stato imperialista deve, dunque, tenere sotto
controllo la situazione interna per massacrare, in pace, i popoli
oppressi.
I due piani, interno e internazionale, sono le due facce dello stesso
problema. La stessa parola d'ordine: annientare chi resiste.
Chi non è con noi è contro di noi. Inutile cercare qualche eco di
Voltaire in questa frase. Il dominio borghese, nel procedere del suo
cammino storico, ha perso quei valori che, per secoli, ci ha propinato
per camuffare la sua vera essenza, ha perso ogni volontà di mediazione,
ogni progetto di sviluppo, quello che vediamo oggi è l'imperialismo
ridotto all'osso, quello che i popoli coloniali conoscevano già. Chi non
è con noi è contro di noi. Non ci sono diritti, nemmeno la farsa dei
diritti umani, pensiamo a Guantanamo, alla Palestina, all'auto colpita
da un missile nello Yemen. Israele ha aperto la strada alle esecuzioni
mirate, adesso ci provano gli Usa: silenzio assoluto, diventerà la
norma. Compilano liste dove si trovano le più svariate organizzazioni di
lotta, non ci sono ragioni legittime per opporsi, non c'è diritto alla
resistenza.
Chi non è con noi è contro di noi. La guerra non è più episodica per
uscire da uno stato di crisi irrisolvibile altrimenti. La crisi è
permanente, la guerra diventa strutturale, infinita, duratura. Guerra
preventiva, non più missioni di peacekeeping o guerra umanitaria,
è la guerra e basta.
Chi non è con noi è contro di noi, estrema sintesi, il nocciolo duro del
dominio borghese.
Un livello di scontro altissimo. Non siamo nel '17, oggi l'imperialismo
è giunto a un tale livello di compenetrazione tra le varie aree del
pianeta che non sopravvivrebbe a una rivoluzione russa, il suo bisogno
di risorse è tale che non può permettersi di perdere nessuna area del
pianeta. Deve controllare tutto. Controllare, non governare. Non si
piega nemmeno, e non potrebbe, alle richieste legittime di borghesie
nazionali che non vogliono certo cambiare il sistema ma, più
semplicemente, ritagliarsi un piccolo spazio, gestire in proprio le loro
risorse. Non è più tollerabile questo. Pensiamo al tentato golpe in
Venezuela, l'attacco all'Irak, quello che c'è stato e quello che ci
sarà, la Somalia, la Jugoslavia, l'Afganistan e poi l'Islam, il male
assoluto che si annida ovunque, lo cercano anche qui.
L'art. 41 bis sarà applicato anche ai prigionieri islamici che si
trovano nelle carceri italiane (sono più di un centinaio); si
susseguono, infatti, gli arresti di presunti "terroristi" islamici,
spesso è palese che si tratta, semplicemente, di lavoratori di origini
arabe arrestati a scopo propagandistico. Pensiamo alla fantomatica nave
carica di uranio radioattivo o all'arresto di tre pescatori egiziani
nella cui casa, alla seconda perquisizione (non alla prima), avvenuta
una settimana dopo l'arresto, sarebbe stata trovata una cintura
esplosiva, fino a rasentare il ridicolo, con gli arresti nella chiesa di
S. Petronio a Bologna. Spesso, per questi arrestati, la situazione
risulta particolarmente dura, specie se difesi soltanto da avvocati
d'ufficio, che non si occupano certo delle condizioni di detenzione.
Sia che siano vittime della propaganda che tende a dipingere gli arabi
come "terroristi", sia che appartengano effettivamente ad organizzazioni
islamiche, li consideriamo detenuti politici. Naturalmente, è ovvio che
non siamo interessati al fine politico della loro lotta, il nostro fine
è inconciliabile con la Sharia; ma ci siamo interrogati sulle
ragioni che spingono, in alcune situazioni, i popoli arabi a cercare un
punto di riferimento nell'Islam. Sicuramente, la caduta dell'Urss non
permette più, ai paesi del Terzo mondo, di trovare una via per uscire
dal sottosviluppo entrando a far parte della sfera sovietica; il
neoliberismo ha aggravato la situazione di questi paesi come del resto
in tutte le altre parti del mondo, dall'Europa dell'Est, all' America
Latina, all'Africa, lasciandoli senza vie d'uscita, sempre più poveri e
sempre più legati e sottomessi al volere imperialista. Le contraddizioni
sono diventate enormi. In questo contesto si inserisce l' Islam che, pur
non essendo un fenomeno unitario, in alcune situazioni, può esprimere un
forte carattere anti-imperialista. L'esempio forse più esplicativo di
questa parabola lo vediamo in Palestina dove, in un popolo
sostanzialmente laico che ha avuto per anni la sinistra all'avanguardia
nella lotta di liberazione, cresce il fenomeno islamico. Davvero c'è un
risveglio religioso? Non crediamo sia questo il punto. Piuttosto, la
sinistra è in crisi e non solo lì. Le rappresentanze borghesi si sono
messe o, per meglio dire, hanno provato a mettersi, sulla via delle
trattative, mentre gli islamici, favoriti all'inizio proprio in funzione
anti-sinistra, sono sfuggiti al controllo, hanno continuato la lotta
(questo conta, in un paese sotto un'occupazione durissima come quella
israeliana ), hanno utilizzato i fondi che venivano dai paesi islamici
per sviluppare servizi sociali, asili, scuole, presidi sanitari, ecc.,
tutte cose che contano per chi vive in un campo profughi. Stessa
politica portata avanti, nel sud del Libano, dagli Hezbollah,
occupando, quindi, uno spazio lasciato vuoto dalle forze laiche e di
sinistra.
Non si tratta, dunque, di arretramento culturale ma, piuttosto, la
manifestazione del bisogno che hanno i popoli arabi di opporsi
all'occidente imperialista e al sionismo, comunque. Da comunisti,
sappiamo che anche in una fase di debolezza, possiamo interagire con la
realtà, pena l'isolamento. E allora, così come i compagni in Palestina,
in nome dell'unità nazionale, lottano insieme agli islamici contro
Israele pur portando avanti una lotta specifica, così noi qui, in un
altro contesto, non possiamo ignorare che l'Islam è un collante
culturale importante per gli immigrati arabi nel nostro paese e non
possiamo non confrontarci con loro, che sono poi con noi, nelle
fabbriche e anche nelle carceri, con i nostri stessi problemi.
Non uniamoci alla campagna contro il cosiddetto "terrorismo islamico" e
alla guerra scatenata dall'imperialismo. Proprio perché sappiamo che non
c'è scontro di civiltà, ma uno scontro di classe, tutto dipenderà dalla
nostra capacità, come sinistra internazionale, di costruire delle
alternative credibili, una prospettiva storica e di farlo non solo a
parole, ma lottando concretamente a fianco dei popoli arabi. L'Islam o
Saddam, non sono il nostro nemico principale oggi.
Abbiamo cercato di inserire il discorso carcere in un ambito più
generale perché, al di là della nostra condizione soggettiva, molti di
noi seguono da anni compagni in carcere, non vogliamo specializzarci nel
carcerario, non avrebbe senso. Vogliamo, piuttosto, cercare di fare in
modo che la lotta contro il carcere e l'art. 41 bis, entrino a far parte
delle altre lotte. Non possiamo fare un discorso separato dal contesto
generale perché i compagni prigionieri sono parte integrante di una
lotta internazionale. I compagni prigionieri rivoluzionari rappresentano
un percorso storico che è impossibile ignorare se vogliamo andare avanti
e, se vogliamo andare avanti, i nostri compagni ce li dobbiamo
rivendicare, questo non significa necessariamente condividere la loro
proposta strategica di lotta, ma fare in modo che la loro resistenza
diventi anche la nostra.
***
Un saluto dei
compagni Pietro Guido Felice e Giorgio Colla
Cari compagni, ho ricevuto l'opuscolo che mi avete spedito. A fronte
dell'attacco e repressione che stanno portando avanti governo e capitale
contro la classe operaia e movimenti proletari, iniziative come queste
sono necessarie. Contro il rincoglionimento da tubo catodico che ci
vorrebbe gregge demente e remissivo, 10 100 1000 iniziative che fanno
vivere e veicolano la memoria rivoluzionaria.
Saluti comunisti
Biella, 09.12.2002
***
Alcuni compagni
francesi sulla proposta di azione contro le nuove carceri in Francia
Contro le nuove carceri, occupiamo i cantieri.
Appello per una riunione di preparazione.
Dopo la libera circolazione delle merci e la moneta unica, il processo
di costruzione della potenza economica e militare europea si avvia alla
tappa dell'unificazione giudiziaria e poliziesca. La manifesta volontà
di giungere a un codice penale europeo è legata al fiorire in ciascuno
dei paesi dell'Unione europea di una moltitudine di nuove leggi e misure
ultra repressive, che sono il frutto del comune lavoro dei ministri
dell'interno e della Giustizia incontratisi durante i vertici
dell'Unione europea a Tempere (Finlandia), Nizza, Barcellona. Questi
vertici hanno prodotto una comune politica contro i lavoratori precari
immigrati, una nuova definizione del concetto di "terrorismo" inglobante
tutti i movimenti sociali radicali, la costituzione dell'EuroPol
(una polizia europea allo stato embrionale) e del sistema di
informazione di Schengen (SIS, un sistema informatico che raggruppa
tutte le schedature effettuate dagli apparati polizieschi dei vari paesi
membri). Ma, nei fatti, l'instaurarsi di un vero spazio giudiziario
europeo si avrà il primo gennaio del 2004 quando entrerà in vigore il
mandato di arresto europeo. A partire da questa data, su richiesta di
giudice o di un procuratore, le leggi in vigore in ciascuno dei paesi
dell' Unione saranno applicate a tutti coloro che vivono in uno dei 24
paesi membri. Tale volontà si manifesta chiaramente in un atteggiamento
ultra repressivo verso i movimenti "sovversivi" (uso delle armi a
Goteborg e Genova, messa al bando delle organizzazioni di esiliati
turchi, colombiani, iraniani e kurdi, messa fuori legge di Batasuna in
Spagna, incarcerazione di alcuni sindacalisti in Francia e retate contro
gli anarchici piuttosto che contro i no-global in Italia), e
tende ad andare oltre giacché mira ad una politica di terrore contro
tutta la società civile. Tale situazione è particolarmente evidente in
Francia dove lo stato ha lanciato un programma per la costruzione di
13.200 nuovi posti in carcere a coronamento di una politica ultra
repressiva trasversale (propria della destra come della sinistra di
governo) che ha designato quale nemico da abbattere la gioventù delle
periferie:
- delle vere e
proprie retate sono organizzate dalla polizia nei quartieri popolari
dove la polizia si comporta come una forza di occupazione;
- l'età minima
di responsabilità penale è stata abbassata a 10 anni e ormai si può
incarcerare a 13 anni;
- è vietato
riunirsi negli androni delle case;
- nei quartieri
sono stati costituiti dei tribunali locali per applicare una
giustizia più sbrigativa;
- si impone la
schedatura penale nella scuola dell'obbligo richiedendo agli
insegnanti di collaborare come assistenti sociali.
Tra le altre
categorie prese esplicitamente di mira figurano in particolare gli
zingari, gli squatters, i ravers, i senza fissa dimora, le prostitute,
sebbene ciò a cui si tenda è l'instaurarsi di un terrore generalizzato.
- d'ora in
avanti chi non paga i biglietti dei mezzi pubblici può essere
rinchiuso in galera;
- le guardie
sono dotati di armi da guerra e pistole con pallottole di gomma;
- guardie e
vigili hanno ormai il diritto di perquisire chi gli aggrada;
- il piano
Vigipirate ha instaurato la suddivisione a scacchiera dei luoghi
pubblici per scopi polizieschi e l'entrata in vigore di leggi
speciali permanenti. Non si tratta di misure specifiche atte a
"rimediare" ad un problema specifico, bensì di una politica di
gestione sociale di stampo autoritario applicata dal governo
francese nel contesto europeo.
Ognuna di queste
misure ha suscitato una reazione non trascurabile, ma mancando di uno
spazio comune non si è ancora giunti alla realizzazione di un vasto
movimento. A tal fine diversi collettivi francesi e svizzeri, impegnati
nella lotta contro carcere e repressione, si sono uniti in un unico
coordinamento. Abbiamo lanciato una campagna tesa a impedire la
costruzione delle nuove prigioni per ostacolare concretamente la logica
della sicurezza totale, giacché l'aumento delle strutture penitenziarie
è la misura che contiene tutte le altre. Infatti, 13.200 celle
supplementari rappresentano la possibilità di incarcerare 25.000 persone
in più (attualmente il tasso di sovrappopolazione carceraria è del
200%), ma ciò significa che, allo stesso modo, altri 75.000 saranno
sottoposti a misure restrittive della libertà individuale: braccialetti
elettronici, libertà vigilata, libertà condizionale, trattamenti
terapeutici o psichiatrici con la minaccia diretta della carcerazione al
minimo passo falso (da 15 anni, in Francia come in numerosi paesi
"moderni" la proporzione è costante: 3 persone sotto indagine per ogni
detenuto). La prigione, ultimo anello della catena repressiva, è la
minaccia che permette tutte le altre, è la spada di Damocle sospesa
sulla testa di ciascuno. Proponiamo di occupare in massa il cantiere di
una prigione in costruzione (ne sono in programma 28) alla fine
dell'estate 2003, questa occupazione, le cui modalità dovranno essere
decise collettivamente, durerà almeno una settimana. Riappropriandoci di
uno spazio di lotta e di discussione faremo avanzare concretamente la
realizzazione di una rete di coordinamento delle lotte in Europa contro
l'elaborazione di una macchina repressiva su scala europea. Le riunioni
preparatorie che si svolgeranno per circa due mesi saranno certamente
delle importanti occasioni d'incontro, per condividere le nostre
riflessioni e le nostre esperienze e per costruire insieme questo
progetto. Il primo incontro preparatorio si svolgerà a Parigi nei giorni
18 e 19 Gennaio 2003.
***
Una compagna del
Gruppo di Lavoro Contro la Repressione
Sono una compagna del Gruppo di Lavoro Contro la Repressione, un
organismo che raccoglie compagni e compagne di varie città e che da anni
sta lavorando concretamente sul terreno della repressione con la
coscienza di doverlo fare sempre, non solo quando essa si esprime nella
sua forma più evidente.
Siamo felici di partecipare a questa assemblea oggi; avevamo promosso la
partecipazione 3 anni fa a un presidio sotto il carcere speciale di
Trani, avevamo riproposto la mobilitazione in sostegno ai Rivoluzionari
Prigionieri (RP) davanti al carcere di Biella per due anni consecutivi,
sempre in occasione della Giornata Internazionale del Rivoluzionario
Prigioniero. Questo ha sortito una partecipazione abbastanza
numerosa dei compagni/e che avevano capito che la solidarietà nei
confronti dei R.P. e il lavoro contro la repressione deve avere una
caratteristica militante, che bisogna esporsi, partecipare in prima
persona davanti alle carceri e urlare in mille modi diversi la nostra
solidarietà.
Parto da una domanda: qual è il motivo principale per cui la
repressione, nei suoi vari livelli, sta assumendo dei connotati sempre
più forti e pesanti? Non certo perché i padroni e la magistratura serva
dei loro interessi siano più "cattivi" del solito, ma perché, come hanno
sottolineato altri compagni, c'è una crisi irreversibile del sistema di
produzione capitalistico e, contemporaneamente, a fianco delle lotte di
liberazione dei popoli oppressi, c'è una ripresa e un'avanzare della
lotta di classe nei paesi imperialisti.
L'imperialismo ha bisogno di fare delle guerre sempre più ravvicinate
per tentare di uscire dalla sua crisi. Questo produce morte e
distruzione sul fronte esterno e delle contraddizioni sempre più feroci
sul fronte interno.
L'appesantirsi della repressione, in questo senso, non è un esempio di
forza della borghesia, ma un esempio della sua debolezza, cioè della sua
incapacità di risolvere pacificamente le contraddizioni che il suo
sistema produce con la classe operaia, il proletariato e le masse
popolari.
In Italia, l'attuale uso massiccio dei reati associativi, che non sono
certo riapparsi con l'ultima inchiesta della procura di Cosenza, ma che
vengono utilizzati da anni contro i comunisti e gli anarchici, è uno
strumento di lotta preventiva contro chi si organizza autonomamente
dalla borghesia e che vuole indirizzare le energie positive che la lotta
di classe nel nostro paese sta esprimendo verso la via rivoluzionaria.
In questo senso abbiamo portato la nostra solidarietà nei confronti di
tutti coloro che sono stati colpiti dai reati associativi, ma nello
stesso tempo abbiamo rimarcato delle questioni importanti, con
l'obiettivo di denunciare da una parte la natura fascista di questo
stato che non è riformabile, ma che si può solo distruggere e,
dall'altra, chi continua ad illudere le masse popolari dicendo che si
può migliorare. Quindi unità con chi viene colpito dalla repressione, ma
contemporaneamente lotta ideologica contro le idee sbagliate che
imperversano nel movimento. Prima due compagni sottolineavano
giustamente che il livello, il confine di legalità non lo definiamo noi,
ma la borghesia: tutti coloro che gestiscono ad es. quello che è
avvenuto alla questura di Genova qualche giorno fa come un complotto
contro il movimento, come un atto compiuto da servizi deviati o come,
peggio ancora, fatto da provocatori, assassini ecc, di fatto negano nel
nostro paese qualsiasi ipotesi di esperienza rivoluzionaria, di
organizzazioni che si pongono l'obiettivo della rottura rivoluzionaria.
In questo senso è pericolosa quest'idea che l'arco revisionista, dal PRC
ai Disobbedenti, sta seminando nel movimento.
Un'altra cosa importante che abbiamo cercato di denunciare è la linea di
difesa sbagliata, su cui abbiamo anche scritto un allegato all'opuscolo
"Reati associativi. Imparare a difendersi" intitolato "Non un passo
indietro", in merito alle varie inchieste aperte in questi mesi. Essa
rigetta i reati associativi, ma ammette che la magistratura lavori sui
reati specifici, non capendo che i primi vengono costruiti proprio
sull'esistenza dei secondi, che i secondi avallano l'esistenza dei
primi. Questa gestione crea non solo confusione e una linea difensiva
debole, oltre che dare fiducia a magistrati servi dei padroni, ma anche
una divisione nel movimento tra chi viene inquisito per gli uni o per
gli altri. Forse, ai signori revisionisti, i compagni incarcerati a
Genova per "devastazione, saccheggio e resistenza a pubblico ufficiale"
sono indagati meritatamente!
Il compagno Ghiringhelli prima diceva nel suo saluto che noi dobbiamo
uscire dalle nostre parrocchie.
Dobbiamo avere la capacità di comunicare, soprattutto ai giovani e ai
giovanissimi, quella che è l'esperienza del carcere, della repressione,
ribadendo che sotto i suoi colpi ci si può rafforzare, facendolo in
tutti i luoghi e i momenti utili; non solo nelle nostre iniziative, ma
anche in quelle dirette da altri, anche dai revisionisti. Dobbiamo avere
il coraggio, la forza e la determinazione di portare i nostri contenuti
ovunque, così come ci insegnano le AFAPP, le Tayad e tutte le
associazioni di solidarietà internazionale che stanno portando avanti la
loro lotta nonostante tutti gli attacchi cui sono sottoposte.
Finisco dicendo che la solidarietà è una cosa molto concreta e dobbiamo
portarla in mille forme, attraverso mostre, presidi in piazza e davanti
alle carceri, la partecipazione ai processi che avvengono in altri
paesi, come quello di un mese fa a Parigi per l'estradizione di otto
compagni spagnoli. Anche questi sono momenti importanti per aprire e
consolidare rapporti con altri organismi di solidarietà, con l'obiettivo
di partecipare all'importante progetto di un Soccorso Rosso
Internazionale che sarà uno degli strumenti di difesa politica e pratica
di cui i compagni si dovranno dotare, per il rilancio della solidarietà
di classe e per la difesa di tutti i Rivoluzionari Prigionieri, delle
loro idee e delle loro condizioni di vita.
***
Un compagno di
Senza freni
Con questo articolo vorremmo mettere in evidenza alcune probabili
tendenze della politica penitenziaria in Emilia Romagna, non per fornire
un quadro "localistico" ma piuttosto per analizzare un aspetto, quello
della repressione, in un'area che presenta caratteristiche omogenee
rispetto al sistema produttivo, alla gestione e all'organizzazione del
lavoro e della vita sociale. Più che ad una regione geografica, facciamo
riferimento ad un'area metropolitana che si snoda lungo la via Emilia
tra nuclei abitativi e grandi aree industriali.
Storicamente, l'Emilia Romagna è caratterizzata dall'esistenza di
tessuti produttivi diffusi, una notevole sinergia tra grandi e
piccole/medie imprese che ne costituiscono l'indotto, da un rapporto
molto stretto sia tra industria e artigianato che tra industria e
agricoltura. Data la struttura produttiva, quest'area è sempre stata
suscettibile a facili ristrutturazioni e mutamenti, senza però pesanti
ricadute sul livello occupazionale ed anzi potendo contare su un "certo"
benessere dei lavoratori (il tasso di disoccupazione in Emilia Romagna è
stato del 4,6% nel 1999, del 4% nel 2000 e del 3,7% nel 2001, a fronte
di una media italiana del 10-12%).
Tuttavia, è necessario anche un elevato livello di pace sociale per la
riuscita di ristrutturazioni che comunque incidono pesantemente sulle
condizioni di vita dei proletari e sulla composizione di classe (aumento
della flessibilità e della precarietà, presenza crescente di
forza-lavoro extraeuropea). Le giunte rosse emiliane, per anni hanno
garantito poche resistenze alle iniziative di uscita/ripresa dai periodi
di crisi, non tanto a causa di un reale consenso, quanto per il fatto
che la borghesia, attraverso il PCI, poi DS, è riuscita a mantenere una
vasta rete di rapporti di controllo e direzione all'interno della
classe, egemonizzando pesantemente sia le organizzazioni sindacali, sia
le svariate forme culturali, di movimento e di aggregazione esterne ai
partiti. In sintesi, la particolare elasticità della struttura
produttiva rende possibile il mantenimento in Emilia Romagna di una
certa stabilità sociale che può avvalersi della possibilità del
riassorbimento della forza-lavoro espulsa nel circuito produttivo e/o
del recupero delle avanguardie di classe all'interno del mastodontico
apparato burocratico-sindacale della CGIL o del PCI-DS.
Anche sul piano repressivo, una struttura produttiva e politica di
questo tipo, ha condotto alla formazione di tendenze riformistiche,
finalizzate formalmente alla progressiva riduzione del ricorso alla pena
detentiva e, comunque, al miglioramento delle condizioni di esecuzione
della pena.
È nostro preciso obiettivo fare piazza pulita della favoletta del
carcere più umano, della riabilitazione e del recupero attraverso il
lavoro, mostrando come tale ipotesi riformista sia possibile solo in
ristretti contesti produttivi, capaci di assorbire la forza-lavoro
eccedente ma, soprattutto, come sia perfettamente funzionale al sistema
repressivo nel suo complesso. Credere di poter sostituire
progressivamente il carcere con forme di custodia attenuata, alternative
alla reclusione e fondate sul lavoro, significa non voler fare i conti
con le contraddizioni più macroscopiche di questo sistema sociale. Il
capitalismo porta porzioni di proletariato a entrare a far parte
dell'esercito industriale di riserva (disoccupati). Questo meccanismo si
acuisce nei momenti di crisi economica. Queste porzioni sociali vivono
grazie ad attività extra-legali. L'illusione di poter umanizzare il
carcere sembra così nascere in contrapposizione e in alternativa ad una
visione autoritaria di "destra" ma, nei fatti, ne costituisce un
elemento indispensabile e complementare. Le cosiddette misure
alternative alla reclusione carceraria tramite affidamento in prova,
semilibertà, lavoro esterno, comunità di recupero ecc, costituiscono un
essenziale strumento materiale delle moderne politiche repressive poiché
è soltanto attraverso un percorso premiale che il singolo detenuto può
accedere ai benefici concessi dallo Stato. La differenziazione della
pena applicata mediante il trattamento individualizzato, le meschine
privazioni e il ricatto del "premio" per chi dimostra arrendevolezza
collaborando, operano nella direzione di una sistematica
desolidarizzazione del proletariato imprigionato e della frammentazione
preventiva della sua forza potenziale come classe. L'«alternativa»si
concretizza praticamente nello sviluppo, dove possibile, di sinergie tra
istituzioni statali, datori privati di lavoro sottopagato, cooperative
sociali (a Parma, il Consorzio di Solidarietà Sociale, la
Sirio, la Cabiria) e associazioni di volontariato nel ruolo
di intermediari di forza-lavoro. È così che a Parma, ad esempio, c'è una
ricchezza di progetti per la formazione e il reinserimento dei detenuti
e si sprecano gli appelli accorati per creare e promuovere "ponti tra
fuori e dentro", come le strutture di accoglienza e gli stages
lavorativi finanziati dalla regione nei penitenziari di Parma, Forlì e
Piacenza. Così pure si sprecano le tavole rotonde di esperti, mirate a
sviluppare risorse e opportunità per detenuti ed ex-detenuti durante il
reinserimento e a facilitare il rapporto tra luoghi di esecuzione della
pena e territorio. Di fronte alla miseria dei risultati raggiunti
dall'enorme apparato riformista in Emilia Romagna sul versante della
de-carcerizzazione, stanno gli alti livelli di repressione e di
controllo sociale diffuso garantiti dalla sua funzione "umanitaria".
Allora, per sgomberare il campo dalle illusioni riformiste di
un'alternativa capitalistica al carcere e alla reclusione, sarà meglio
far coincidere le ipotesi di umanizzazione del carcere - queste sì,
realmente utopiche poiché implicitamente paventano un capitalismo dal
volto umano - con le politiche di diffusione e differenziazione del
controllo sociale, cui sottendono le attuali "politiche della
sicurezza".
In questi ultimi anni stiamo assistendo al rapido decentramento e alla
diffusione territoriale del carcere, attraverso meccanismi alternativi
di internamento e di controllo e la creazione di nuove strutture
para-carcerarie. Una sorta di carcere metropolitano, differenziato sia
in orizzontale, in relazione alla collocazione sociale del soggetto
"criminale" (Centri di Permanenza Temporanea per il proletariato
extraeuropeo, comunità per tossicodipendenti, manicomi per i "malati"
psichici) e sia in verticale, in relazione al grado di controllo
connesso alla "pericolosità sociale". In quest'ottica, l'applicazione in
forma estesa del 41bis, la detenzione nelle carceri dure, l'isolamento
protratto, l'annientamento psico-fisico non sono che l'altra faccia
dell'accesso individualizzato e premiale alle forme di custodia
attenuata; una riedizione in chiave moderna della logica del bastone e
della carota.
Dinamiche simili possono ravvisarsi per quanto riguarda le politiche di
gestione dei flussi migratori dal Sud e dai paesi più poveri dell'area
mediterranea. L'alto grado di sfruttamento e l'elevata ricattabilità
costringono milioni di proletari in una situazione di illegalità
permanente, determinante il sovraffollamento e la nuova composizione
sociale nelle carceri: al 31 maggio 2001 si hanno 1.930 detenuti
italiani e 1.400 stranieri rinchiusi nelle carceri emiliane; dai dati
nazionali risulta che sono solo 670 i detenuti nati in Emilia Romagna.
La critica ai C.P.T., sul piano antirazzista e umanitario, non fa che
rafforzare l'opzione riformista di una gestione alternativa di queste
nuove strutture carcerarie e, con essa, le "politiche della sicurezza"
nella loro totalità e, nello specifico, il decongestionamento delle
carceri mediante la diffusione di nuove strutture di reclusione. Gli
appelli all'integrazione del proletariato extraeuropeo nascondono le
caratteristiche generali di queste nuove trasformazioni sociali in cui
si fa sempre più labile il confine fra proletariato e sottoproletariato.
Anche nella repressione dei comportamenti cosiddetti "devianti",
assistiamo all'estensione dell'uso della reclusione; anche quando
suddetti comportamenti non costituirebbero un danno immediato per la
società, vengono comunque considerati "pericolosi" o una minaccia per la
tranquillità sociale. È il caso, tra i tanti, di tutti coloro che
vengono definiti "malati psichici".
La recente occupazione del centro psichiatrico "1° Maggio" di Colorno,
in provincia di Parma, ha costituito il riemergere vivo di queste
tematiche; non ci soffermiamo adesso sulla cronaca o i particolari di
questa lotta che saranno ripresi a margine. Ci interessa evidenziare
come alcuni settori della sinistra istituzionale parmigiana si siano
prodigati nel tacciare questa lotta, che è stata portata avanti insieme
ai "malati" e ai loro familiari, come lotta conservatrice, difensiva
della logica manicomiale. Come per il carcere, sembra che l'intera
questione possa essere risolta attraverso una psichiatria innovativa e
democratica, che sostituisce ai manicomi gli appartamenti, agli
infermieri professionali gli operatori sociali, all'elettroshock e ai
letti di contenzione, bombe di psicofarmaci. Il "manicomio che si
libera" , come venne definito in un libro di F. O. Basaglia ("Manicomio,
perché?" - 1982), fa parte ed è il capostipite di tutta quella "cultura
alternativa" alla cosiddetta devianza, male curabile frazionando il
grande cubo, brutto, logoro e vistoso, in tanti piccoli cubetti più
accettabili moralmente, ed esteriormente più discreti.
Su queste tematiche, il dibattito è stato spesso ridotto alla
contrapposizione tra sostenitori del privato e sostenitori del pubblico,
tra liberisti e statalisti. Ma c'è anche chi ha pensato di poter fare di
necessità virtù, proponendo il modello del privatosociale, del sociale
che si fa impresa. Questa scelta si colloca a metà strada tra pubblico e
privato, poiché associa ad una gestione privatistica dei servizi, il
ricorso ai finanziamenti statali, regionali, europei (pubblici), oltre
all'accettazione del principio aziendale, in primis, quello della
competitività. Le motivazioni ideologiche che vengono portate a sostegno
del privato-sociale, coincidono con una visione della società molto
superficiale: si critica il servizio pubblico ma senza mettere in
discussione la logica aziendale/mercantile riprodotta nelle cooperative,
anzi in esse accentuata dal carattere mistificante del "lavorare senza
un padrone". Oltretutto, il passaggio della psichiatria, della sanità in
genere, dal pubblico al privato, se pur in forma ibrida (appalti e
finanziamenti nel pubblico, investimenti e sgravi fiscali nel privato),
garantisce notevoli fette di torta da accaparrare all'universo delle
associazioni, cooperative sociali, enti ed imprenditori di questa
promettente new-economy della sofferenza. Con questo, non
vogliamo certo ergerci a strenui difensori del pubblico poiché, oltre a
non aver mai rappresentato una risposta agli interessi proletari, è
servito e serve tuttora come strumento di controllo e repressione di
quegli stessi interessi. La tendenza a livello nazionale, tramite la
proposta di legge Burani-Procaccini, è quella di inasprire ulteriormente
le condizioni già precarie dei "malati psichici", attraverso ad esempio
la riesumazione della pericolosità sociale e l'estensione del ricovero
coatto, tendendo a far diventare l'intero circuito dell'assistenza
psichiatrica, un diffuso Ospedale Psichiatrico Giudiziario governato da
operatori, cui è attribuita la responsabilità piena, anche legale, del
comportamento e delle scelte di un individuo ridotto a malato.
La psichiatria non è professata solo dagli psichiatri, ma di fatto, da
tutti quelli che pensano che certi comportamenti siano automaticamente
sintomi di pazzia, psicosi, schizofrenia, delirio paranoide, ecc. La
classificazione tra normale e anormale, tra sano e malato di mente, è
uno degli schemi più usati nel linguaggio comune e nel giudizio verso
gli altri. L'intervento del controllo sociale della devianza, della
malattia psichica, del comportamento anomalo, che nella pratica riveste
forme di sovvenzione, assistenzialismo, soluzione dei bisogni, ha nella
realtà il fine, appunto, di controllare, prevenire, annientare o
recuperare alla norma del dominio e del modo di produzione
capitalistico.
In generale, è il business il motore che permette in Emilia Romagna
buone prospettive di razionalizzare al meglio il sistema repressivo. A
fronte di un 33% di detenuti tossicodipendenti e 30% di stranieri, le
soluzioni per il sovraffollamento, sono strutture detentive
differenziate per i tossicodipendenti e il rimpatrio, previo soggiorno
nei già citati C.P.T., per gli immigrati.
La detenzione dei tossicodipendenti, si traduce di fatto in una vera e
propria privatizzazione delle carceri, già paventata negli scorsi anni,
oggi diventata realtà. È il caso di Castelfranco, in provincia di
Bologna, che potrebbe rappresentare l'apripista alla penetrazione
dell'interesse privato nel settore dell'esecuzione penale. Il modello è
quello anglosassone.
L'ex casa di lavoro di Castelfranco in Emilia (per la cui
ristrutturazione, lo stato ha speso 15 miliardi di lire), affidata in
gestione alla comunità dei Muccioli (San Patrignano), sarà il primo
esperimento di carcere privato in Italia. Questa struttura è costituita
da un'azienda agricola di 23 ettari con stalle, frutteti, vigne, serre,
alveari e macchine agricole e, in attivazione di un protocollo d'intesa
tra ministero della giustizia e regione Emilia Romagna, sarà destinata a
casa di lavoro a custodia "attenuata" (un carcere "soft") per i
tossicodipendenti e potrà "ospitare" fino a 150 persone. L'operazione è
iniziata a metà luglio del 2001, in ballo c'è l'assegnazione di un
finanziamento della comunità europea (progetto Equal). Il
provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria dell'Emilia
Romagna, firma un'intesa di partnership con la comunità di
Muccioli. Il 26 agosto, data di scadenza del bando europeo, viene
presentato un progetto che appalta al privato l'esecuzione della pena e
nel contempo impedisce il controllo da parte dell'amministrazione
penitenziaria. È chiaro che con l'intervento dei capitali privati, il
giro d'affari crescerà non solo intorno alle mere strutture (aree di
costruzione, edificazione, forniture di vario genere), ma anche intorno
alla gestione stessa dell'esercizio della penalità: insomma, più gente
andrà in carcere, più ci si potrà guadagnare. Alle società private può
essere data in gestione la sorveglianza interna (o parte della
sorveglianza) dei detenuti o l'esecuzione della pena.
È ormai appurato che un sistema produttivo in fase recessiva abbia la
necessità di "ottimizzare i costi", contraendo il più possibile gli
investimenti improduttivi, ma senza per questo prescindere dal
potenziamento delle strutture repressive e di controllo che, proprio in
relazione alla fase recessiva in atto, tendono ad essere sempre più
diffuse ed affollate.
Di fronte alla necessità inderogabile di ridurre la spesa pubblica - che
ha già portato a drastici tagli alla sanità, alla scuola, all'assistenza
e alle pensioni, e a processi di privatizzazione - anche quella parte di
spesa destinata alle "politiche della sicurezza" e, in particolare, al
mantenimento del sistema penitenziario, deve essere razionalizzata.
L'esperimento di Castelfranco in Emilia si colloca in questo scenario e
non è un caso, infatti, che sulla questione l'ex direttore del
Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, Alessandro Margara,
parla di "espropriazione dei ruoli" e di "violazione delle regole",
facendosi interprete degli interessi corporativi di tutto l'apparato
penitenziario. La riduzione di questa parte della spesa pubblica non
potrà che passare per l'esternalizzazione/privatizzazione di parte delle
funzioni di custodia e di reinserimento, quantomeno per quei detenuti
che esprimono un basso grado di "pericolosità sociale".
È chiaro che una simile tendenza entra immediatamente in rotta di
collisione con gli interessi materiali dell'apparato penitenziario che
in questo modo vedrebbe ridimensionato il proprio ruolo sia in termini
economici che politici.
Negli ultimi anni l'apparato politico-militare penitenziario ha
rafforzato ulteriormente il proprio potere. Gli svariati benefici
ottenuti dalla Polizia Penitenziaria, per il "difficile compito che
svolge", svelano come dietro al pestaggio nel carcere di San Sebastiano
(SS) nell'aprile del 2000, premessa delle successive manifestazioni
sindacali della PP solidali con i "colleghi" colpiti da ordine di
custodia cautelare, vi siano in realtà forti interessi e tendenze
corporative. Il potenziamento e l'autonomia ottenuti attraverso i
provvedimenti legislativi degli ultimi 10 anni, pongono il corpo di
Polizia Penitenziaria come l'unico soggetto a cui delegare la gestione
del carcere e il controllo sui detenuti e le detenute. Rispetto alle
lotte dei detenuti il messaggio è stato chiaro: far temere che la
situazione nelle carceri precipitasse per poi presentarsi come gli unici
in grado di gestire la situazione militarmente.
L'occupazione della comunità
psichiatrica 1°Maggio a Colorno (PR)
Cronologia
1999: con un repentino trasferimento dei pazienti, a seguito della
chiusura dell'ospedale psichiatrico "Monti" di Colorno, nasce la
comunità riabilitativa 1°Maggio; la struttura, situata all'interno del
parco del palazzo Ducale, al centro della città, è composta da due corpi
separati, una residenza e alcuni appartamentini. I pazienti possono
uscire liberamente durante il giorno e raggiungere facilmente il centro
cittadino. Per molti anni la ristrutturazione e la cura dell'edificio
viene abbandonata, non vengono fatti lavori di manutenzione, viene
diminuito il personale.
2002 giugno: data la necessaria ristrutturazione della struttura, il
direttore dell'AUSL di Parma, Marino Pinelli, decide la chiusura della
comunità e il trasferimento "provvisorio" dei pazienti nel Centro
anziani San Mauro Abate di Colorno, situato in prossimità della strada
provinciale Asolana (i cui costi di gestione sono aumentati e
l'amministrazione non riesce ad ammortizzarli). Luogo che, tra l'altro,
dato l'elevato traffico, non consentirebbe il passeggio quotidiano a cui
sono abituati i "malati". La direzione dell'AUSL si avvale della
sperimentazione di una delibera, la 713, che si propone di chiudere
tutti i servizi residenziali psichiatrici territoriali, di trasferire
gli "ammalati" in appartamenti gestiti dalle cooperative sociali e dopo
2 anni di riabilitazione, dichiararne guariti-riabilitati il 70%, mentre
il restante 30% viene dichiarato guarito dopo un massimo di altri 2
anni: entro 4 anni il 100% degli ammalati, residente negli appartamenti,
verrà espulso dalla sanità e affidato a quella che la delibera chiama
"welfare municipale" e "welfare familiare", cioè i malati vengono
dichiarati guariti per via meramente burocratica e scaricati dalla
sanità alla assistenza sociale e sulle famiglie. In pratica ciò
costituisce un risparmio nel bilancio dell'AUSL. E visto che come in
tutti i processi di privatizzazione non si tratta che di un freddo
calcolo economico, è chiaro che la "riabilitazione" verrebbe effettuata
in appartamenti con turni soppressi, personale insufficiente e non
qualificato dal punto di vista sanitario, aumento dei ritmi di lavoro e,
conseguentemente, l'abbassamento della qualità del servizio.
6 novembre: i familiari effettuano un picchettaggio ad oltranza per
impedire il trasferimento coatto dei pazienti. L'unica psichiatra
presente nella struttura, contraria al trasferimento, viene trasferita e
sostituita pochi giorni dopo.
10 novembre: i familiari occupano il 1°Maggio; sospendono l'occupazione
in attesa di un incontro con il direttore dell'AUSL.
19 novembre: falliti gli incontri con il megadirettore, viene nuovamente
occupato il centro psichiatrico
22 novembre: vengono occupati per due giorni gli uffici della Direzione
Generale dell'AUSL e indetta un'assemblea cittadina; nella notte viene
redatto dagli occupanti un opuscolo di critica alla psichiatria.
Continua l'occupazione al centro 1°Maggio e viene fatto girare un foglio
anonimo e intimidatorio di raccolta firme tra gli operatori contro
l'occupazione. Inizia una serie di incontri tra i familiari e il
direttore dell'AUSL, Pinelli, in cui si cerca di trovare un accordo per
modificare l'attuazione della delibera 713.
3 dicembre: rottura delle trattative con la direzione generale
dell'AUSL, che propone l'attuazione di una delibera (la 614) per
risolvere la vertenza ma tale delibera è stata abrogata in passato e
dunque inapplicabile; una presa in giro.
7 dicembre: al risveglio, Pinelli, nota con stupore che proprio sotto
casa sua, in un paesino in culo ai lupi, sono comparsi manifesti recanti
la sua faccia e scritte di solidarietà con l'occupazione del 1° Maggio a
firma del Comitato Spontaneo per la Liberazione del Proletariato dal
Business Psichiatrico (C.S.L.P.B.P.)
10 dicembre: la direzione minaccia di sospendere pasti e servizi alla
comunità 1°Maggio, con l'obiettivo di intralciare l'occupazione e di
attuare il trasferimento. Nel pomeriggio, viene contestata una tavola
rotonda che si tiene proprio nel Palazzo Ducale a Colorno (che vede la
presenza di Pinelli, del sindaco di Colorno, il segretario provinciale
CGIL, della CISL, l'assessore alla sanità e servizi sociali
amministrazione provinciale di Parma e dirigenti delle cooperative
sociali e del dipartimento salute mentale), al seguito della quale la
direzione farà molti passi indietro, sospendendo l'attuazione del
trasferimento.
21 dicembre: dopo 33 giorni di occupazione, viene pubblicamente
sconfessata la delibera 713, viene concordata coi familiari la ricerca
di una sede definitiva e più idonea per il trasferimento, in cui i
pazienti verranno seguiti dallo stesso personale che li segue da anni, e
viene creato un osservatorio per la valutazione della "qualità" dei
servizi sia pubblici che privati che potrà essere effettuata dai
familiari.
***
Un compagno del
C.P.O. Gramigna di Padova
Sono un compagno del Centro Popolare Occupato Gramigna di Padova che, da
quando è nato nel 1989, ha sempre fatto i conti con la repressione,
fatta di continui sgomberi, processi, intimidazioni di ogni tipo per
chiudere una realtà politica a Padova scomoda a tutte le giunte di
destra o di "sinistra". In questo percorso di resistenza ci siamo
rafforzati e il lavoro contro la repressione è stato veicolo di
aggregazione di nuovi giovani che ora sono l'anima del centro.
L'estate scorsa, in occasione della GIRP 2002, siamo riusciti a
coinvolgere un buon numero di persone sia nelle iniziative di
preparazione che nella trasferta a Biella per far sentire ai compagni
prigionieri il nostro appoggio. Anche qualche settimana fa, a Padova,
durante un presidio in solidarietà agli arrestati di Cosenza, molti
giovani si sono avvicinati e hanno partecipato alla nostra iniziativa.
Fatti come questi dimostrano che in un momento come questo, in cui la
repressione colpisce non più solo le avanguardie ma anche le persone più
giovani e meno "esperte" politicamente, parlare di repressione, di
carcere, ma soprattutto di solidarietà nei confronti di chi viene
colpito e incarcerato per la sua identità politica, avvicina i giovani
che hanno ideali di libertà e che, in modi diversi, vogliono manifestare
la loro rabbia e opposizione a questa schifosa società.
***
Un compagno
promotore
Visto che non ci sono altri interventi vorrei dire qualche cosa che mi
sembra necessaria e mi scuso a priori se non sono percepibile nelle cose
che dirò ma ho una limitazione rispetto alla lingua allora secondo me a
questa assemblea c'erano diversi punti di vista e credo siano presenti
compagni dei quali io non ho sentito la loro posizione perché se noi
riteniamo che è importante avere una lotta di massa nel discorso del
carcere che rappresenta una fonte fondamentale nel nostro malessere
bisogna cogliere tutti questi diversi punti di vista e trasformarli in
un comune momento di lotta. Parlo come un compagno che appartiene ad uno
dei gruppi promotori di questa assemblea ma che parla in questo caso per
conto suo senza avere un atteggiamento ostile ma un atteggiamento
critico. Vorrei dire che bisogna rivalutare alcune cose se vogliamo
andare avanti con questo discorso. In questo caso la compagna che ha
parlato all'inizio si è espressa rispetto ad alcune cose, però io ho
individuato una cosa specifica rispetto alla quale non sono d'accordo.
Lei parlando rispetto ai presidi davanti ai carceri ha detto che avevano
un'alta partecipazione e avendo conoscenza del presidio a Biella la
scorsa estate direi che cento persone per me non è un grande numero di
partecipazione quindi individuerei in questo caso un problema di
sincerità da discutere prima di tutto con noi stessi e cercare di
trovare modi per risolverlo. Dopo c'è il fatto che non è uscita una
proposta di intervento a livello pubblico e a livello pubblico intendo
intervento a livello di tessuto sociale cioè oltre ai soliti gruppi e
strutture di compagni. Questo è un problema perché sembra che
l'assemblea e le persone che sono presenti qui delegano a noi e a
chiunque altro che si occupi del discorso del carcere e della
repressione i modi in cui lotteremo per il suo abbattimento e comunque
che ne so di cos'altro. Ritengo che sia problematico anche il fatto che
nessun detenuto comune, e comune è generale perché spesso sono di una
certa appartenenza e per appartenenza intendo della classe proletaria,
non è intervenuto raccontando dei suoi momenti di lotta contro il
carcere o di come lui percepisce il carcere e il meccanismo che lo porta
al carcere che io ritengo molto importante. Questo perché se noi
pensiamo alla rivoluzione come una società senza carcere penso che una
rivoluzione deve essere fatta con la presenza dei proletari o anche dei
proletari e visto che i proletari sono un pezzo significativo della
popolazione carceraria devono avere una parola un punto di vista
rispetto a questo discorso qui e io oggi non l'ho visto e non so per
quale motivo non è successo. Dopo di che non ho altre cose da dire o
meglio ho altro da dire ma ritengo che non sono importanti per questo
momento perché comunque ritengo che ci saranno altri momenti nel futuro
che potremmo continuare il dibattito. Per finire penso che sarà molto
importante per la prossima volta che ci sarà una prossima assemblea di
pensare ad un altro modo di portare avanti l'assemblea cioè di
intervenire e di esprimere la propria idea perché non debba esistere e
dobbiamo abbattere un meccanismo di delegazione di intervento e di
azione rispetto non solo al carcere ma rispetto al da farsi per il
futuro.
***
Un compagno della
Nave dei Folli di Rovereto
Con questo mio intervento vorrei sollevare un paio di questioni legate
alla lotta contro il carcere e più in generale contro la repressione.
Visto che si tratta di un concetto che ritorna continuamente, comincio
con qualche considerazione preliminare a proposito della solidarietà.
Per comodità prendo come esempio gli arresti per le giornate contro il
G8 a Genova. Senza enfatizzare troppo, si può dire che quei giorni e il
loro seguito hanno rappresentato e rappresentano un buon laboratorio da
entrambi i lati della barricata sociale. All'esperimento poliziesco di
blindatura di un'intera città per misurare il tasso di sopportazione dei
suoi abitanti, alla repressione di piazza, si aggiunge una grande
rappresentazione mediatica. Alla contestazione negoziata, all'opera
costante di mediazione e di controllo, spinta fino alla delazione, da
parte delle forze riformiste, si aggiunge un massiccio investimento
statale sull'ideologia pacifista della collaborazione, sempre più
funzionale alla guerra interna e internazionale contro il "terrorismo".
Cosa significa, in tale contesto, solidarietà? Non basta ricordare la
repressione brutale, i pestaggi, le torture e la loro deliberata
pianificazione. Nell'esprimere solidarietà nei confronti dei compagni
arrestati, contro questa ennesima mossa repressiva, va soprattutto
affermato il senso di quei giorni. Quella che è avvenuta a Genova è
stata una frattura fra la protesta concordata con governo e polizia e
l'opposizione reale, fuori da ogni mediazione istituzionale. Una
frattura tra chi chiede sovvenzioni allo Stato, cerca la
rappresentazione mediatica, si allea con partiti e sindacati, e chi
invece fa dell'autorganizzazione il fine e il mezzo del proprio agire.
In troppi hanno cercato di ricucire quella frattura, con le posizioni
più ambigue e l'opportunismo più sfacciato. Ora è quanto mai necessario
essere chiari. Se la repressione va attaccata, indipendentemente dagli
individui o dai gruppi su cui s'abbatte, per farlo fino in fondo bisogna
affermare la propria prospettiva. Al di là delle accuse contro i singoli
compagni, al di là delle loro posizioni, al di là di quello che possono
fare sul piano difensivo, è il senso dell'azione diretta esplosa in quei
giorni che va rivendicato forte e chiaro. L'attacco generalizzato alle
strutture del capitalismo (banche, sedi di multinazionali,
concessionarie, agenzie interinali), lo scontro con gli assassini in
divisa, la fine di ogni contestazione concordata. E soprattutto i
rapporti che simili pratiche, sia pure in modo embrionale, hanno
liberato, in un uso diverso dello spazio urbano, in una festosa
sospensione del tempo storico, in una rinata socialità.
Fuori da tutto questo, privata di ogni passione progettuale, la
solidarietà diventa un impotente lamento, oppure la difesa
personalizzata del singolo compagno (con i relativi dolori di pancia
quando qualcosa, tra chi è dentro e chi è fuori, s'incrina). Non bisogna
allora confondere la solidarietà contro la repressione con una
solidarietà più generale nelle lotte, qualcosa che si potrebbe definire
complicità. Diffido degli appelli all'unità delle forze contro la
repressione, che spesso nascondono richieste di cauzione rispetto a
determinati progetti politici. Non si tratta semplicemente di coordinare
le forze attuali, quanto di trasformare qualitativamente i dibattiti e i
metodi di lotta, perché i dispositivi repressivi si rafforzano e si
moltiplicano ben al di là dell'ambito rivoluzionario, colpendo sempre
più fasce di sfruttati. In tal senso, penso che sarebbe un errore porre
l'accento esclusivamente sulle forme speciali di carcerazione, col
rischio di trascurare quelle ordinarie, sempre più esplosive. Trovo
pericolosa la mentalità di chi è alla ricerca dei presunti punti deboli
del sistema statale e capitalista (secondo la logica: dove c'è più
repressione, la contraddizione è più acuta). Mi sembra che ne escano
spesso letture semplificatrici e d'uno strano trionfalismo al contrario
(più ci reprimono, più siamo pericolosi). Bisogna imparare a leggere la
repressione, soprattutto nei suoi legami con la normalizzazione sociale,
con la diffusa collaborazione e con l'isolamento delle pratiche di
rivolta. D'altronde, quelle letture sono il risultato di una visione
determinista continuamente smentita. Le situazioni insurrezionali che si
sono prodotte negli ultimi anni a livello internazionale (dall'Albania
all'Argentina, dall'Algeria alla Corea del sud) dovrebbero rendere più
cauti sui nessi causali di necessità fra un certo sviluppo del capitale
e crisi sociale. I rivoluzionari sono non di rado gli ultimi a rendersi
conto che le condizioni sono gonfie di rivolta, salvo poi teorizzare
post festum. E lo stesso ragionamento si può fare per contesti più
piccoli. Che legame c'è, ad esempio, fra un semplice sciopero del
carrello da parte dei detenuti e una situazione di rivolta più aperta
contro il carcere? Molto spesso la banalità delle loro cause immediate,
diceva Marx, è il biglietto da visita delle rivolte nella storia. Se non
si sa seguire, anche criticamente, ma con attenzione, quello sciopero
del carrello - guardando più ai rapporti reali di solidarietà che al
formalismo delle rivendicazioni -, ben difficilmente si riuscirà a dare
il proprio contributo a quella successiva rivolta. I detenuti hanno un
certo fiuto per i ritardatari del recupero politico. Si tratta, ripeto,
di distinguere la solidarietà nella propria prospettiva dallo sposare
acriticamente le cause altrui. Ora, si possono tracciare le proprie
prospettive senza costruirvi - tanto meno con pretese scientifiche -
delle certezze su dove avverrà la crisi, su quale è il punto di tensione
massima delle contraddizioni del capitale, ecc., giacché l'ultima cosa
di cui abbiamo bisogno è alimentare di nuovo le funeste illusioni
deterministe. Sia detto di sfuggita che il concetto stesso di crisi
avrebbe bisogno di un approfondimento perché non va affatto da sé. Ma,
lasciando perdere questi che sono problemi piuttosto ampi, scendiamo nel
concreto delle lotte contro il carcere oggi. Vorrei sottoporre alcuni
interrogativi all'attenzione dei compagni.
Se da una parte è importante e necessario che ci sia un'attività
continuativa sulla questione del carcere, delle lotte dei detenuti in
generale, e nel sostegno dei compagni, dei rivoluzionari prigionieri in
particolare, è altrettanto importante, a mio avviso, comprendere che
quello che conta, soprattutto nei momenti in cui lo scontro non è
particolarmente generalizzato e i rapporti di forza non sono per così
dire entusiasmanti, è soprattutto riuscire a portare il problema del
carcere (che è anche il problema della repressione, che è anche il
problema del controllo sociale, dell'organizzazione capitalistica delle
città, dell'urbanistica, dei ghetti, della sorveglianza, degli sbirri
nei quartieri) all'interno delle lotte in cui noi siamo già direttamente
attivi o di cui dovremmo essere partecipi e promotori in futuro. Spesso,
infatti, le iniziative specifiche contro il carcere - che sono, ripeto,
importanti e necessarie - si limitano (salvo nei periodi di protesta
dentro) ad un ambito che a grandi linee potrei definire militante e che
riescono poco a legarsi con le altre lotte in corso. Faccio un esempio:
ho trovato interessante che in un volantino che ho letto in questi
giorni proprio rispetto a questa iniziativa si legasse il 41bis alle
lotte attuali degli operai della Fiat e ad altre forme di
autorganizzazione di classe che stanno maturando. Non si tratta, ben
inteso, di limitarsi a giustapporre problemi e contesti diversi, ma di
vedere quali sono i nessi reali, senza autorappresentazione né retorica.
Se è importantissimo porre il problema del carcere in modo diretto, è
altrettanto importante porlo in modo indiretto, portandolo ovunque è
possibile lottare in modo autonomo, lontano da partiti e sindacati,
contro ogni collaborazione di classe e ogni mediazione con lo Stato. Si
tratta di un problema ampio che ovviamente sto semplificando: tutto
questo per dire che molto spesso la nostra capacità di attaccare la
repressione è limitata perché la repressione non riusciamo a leggerla in
tutti i suoi aspetti, che non sono soltanto quelli più concentrati e
visibili - in cui qualcuno immagina di vedere la massima espressione
della crisi della borghesia o che so io - ma anche quelli più diffusi,
penetranti e capillari.
Altra questione che butto sul tappeto: c'è un rapporto sempre più
stretto fra l'attività della magistratura, quale corpo armato dello
Stato insieme a carabinieri, polizia ed esercito, e l'emergenza creata
di volta in volta dai mass-media. Questo rapporto è talmente stretto che
molto spesso determinati provvedimenti di tipo legislativo o anche
immediatamente poliziesco sono realizzati proprio per dover dare
risposte ad un'emergenza mediatica precedentemente e preventivamente
costruita. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che, quando si parla di
repressione, quando si parla di controllo sociale e di carcere, se è
importante vedere come strutture da attaccare la polizia, la
magistratura, i carabinieri ecc., è altrettanto importante porre la
questione dell'attacco antirepressivo nel senso dell'attacco ai
mass-media. Può sembrare una banalità, ma l'aspetto repressivo e quello
del controllo sociale, anche nella forma della collaborazione di classe,
passano attraverso costruzioni mediatiche non apparentemente repressive,
nel senso che a volte fa più danni, per dirla con una battuta, una
trasmissione come il Grande Fratello (e la realtà di cui è una
degna rappresentazione) che non la polizia nei quartieri. Il vero
problema è vedere in che modo la polizia e il Grande Fratello
sono legati. La questione dei mass-media è fondamentale non solo in una
prospettiva sovversiva generale, ma anche in termini immediatamente
pratici. Mantenere un'aperta ostilità nei confronti dei mass-media,
infatti, significa non farsi parlare dalle parole del nemico, non
accettare la rappresentazione e la spettacolarizzazione che il nemico ci
impone, e allo stesso tempo sottrarre da sotto i piedi il terreno a
tutti gli aspiranti dirigenti e a tutti gli aspiranti collaboratori di
Stato. Pensiamo alla situazione italiana, a tutti i Casarini, gli
Agnoletto e gli altri poliziotti sociali più o meno in tuta bianca:
senza i mass-media, che sono in tal senso delle fabbriche di leader,
costoro non sarebbero nessuno. Movimenti di lotta realmente
autorganizzati e orizzontali, lontani dalla merda politica e sindacale,
devono rifiutare in modo metodologico - quindi non occasionale, magari
in seguito ad una campagna mediatica particolarmente infame - la
presenza dei mass-media e il dialogo con i giornalisti. Si tratta di
alcune armi per non riprodurre al proprio interno i rapporti di dominio
che si rifiutano. In senso più ambizioso, si può sottolineare
l'importanza dell'attacco a questo aspetto fondamentale del capitale e
dello Stato, in genere trascurato. La nozione di spettacolo andrebbe
intesa anche in senso stretto, non solo in senso generale (cioè come
rapporto sociale mediato dalle immagini). Avevano visto bene quei
rivoluzionari che in epoca non sospetta (fine anni Sessanta, inizio anni
Settanta) distruggevano furgoni e stazioni della televisione come parte
integrante della guerra sociale.
Quindi: solidarietà contro la repressione, indipendentemente dai gruppi
o dagli individui su cui questa si abbatte, ma nella chiarezza della
propria prospettiva, al di là di opportunismi e tentativi di ricucire
fratture che sono sia di pratica rivoluzionaria sia sociali e di classe.
La complicità - di idee, di progetti, di metodi - è altra cosa. Essa si
crea e si scopre nelle lotte, nei tentativi, anche parziali, anche
contraddittori (perché la ricetta scientifica non ce l'ha nessuno) per
distruggere l'esistente con tutte le sue carceri.
Distruggere le galere per non costruirne mai più: ecco la prospettiva da
cui emergeranno le complicità. Mi sembra, ad esempio, quanto meno
curioso - ma forse ho capito male - che quando il compagno parlava della
situazione in Israele, fra tutte le carcere nominate non siano state
menzionate quelle di Arafat, dove quotidianamente vengono torturati i
ribelli palestinesi.
Per la distruzione di tutte le carceri, quale che sia il loro colore o
la bandiera che vi sventola sopra. Anche nelle lotte più piccole, quello
che facciamo deve essere all'altezza di questa splendida utopia.
***
Lettera inviata ai
rivoluzionari prigionieri
L'assemblea tenutasi a Milano
Contro il carcere, il 41bis, contro l'attacco alle lotte sociali
A sostegno dei prigionieri rivoluzionari e delle lotte di tutti i
detenuti
Ha visto una numerosa presenza di compagni e una importante
partecipazione di organismi di lotta contro il carcere e la repressione
e di solidarietà e appoggio ai prigionieri rivoluzionari.
Invia un abbraccio solidale e un sostegno politico ai prigionieri
politici rivoluzionari e a tutti i proletari detenuti in lotta rinchiusi
nelle carceri imperialiste. Rilancia con forza l'appello per la
mobilitazione contro il carcere a partire da quella contro il 41 bis e
per l'unità nella lotta a fianco dei detenuti politici e di tutti i
prigionieri. Questa lotta è parte integrante di quella di tutti coloro
che oggi insorgono contro il sistema di dominio e di sfruttamento della
società divisa in classi.
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