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2002.02.16 Unità Scajola dissi di sparare





L’Unità , 16 febbraio 2002

Scajola: al G8 diedi l’ordine di sparare
di Oreste Pivetta

Sparare. Il ministro dell’Interno usa questa parola: sparare. Sei mesi e mezzo dopo Genova, tornando in volo dal vertice di Santiago di Compostela, Claudio Scajola comunica conversando con i giornalisti che l’ordine era di sparare: «Durante il G8, la notte del morto, fui costretto a dare ordine di sparare se avessero sfondato la zona rossa». Il “morto” era il povero Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso nel pomeriggio del venti luglio in piazza Alimonda, ore 17 e 27, colpito da un proiettile che lo trapassò dallo zigomo sinistro alla zona occipitale. Secondo le prime versioni, le prime testimonianze, secondo una fotografia ormai famosa, era stato un carabiniere di leva, dalla sua jeep, a far fuoco.
Scajola, come riferiscono le agenzie, spiega: l’ordine di sparare non era legato al pericolo che rappresentavano i manifestanti in sè e per sè, quanto probabilmente al pericolo di un attentato di matrice internazionale. «A Genova in quei giorni - dice il ministro - si giocava una partita seria. Dopo lo hanno capito tutti quanti. C’era Bush, c’erano i capi di stato stranieri, ma c’erano anche trentaseimila persone chiuse nella zona rossa». Ancora Scajola, sibillino: «Presto, forse, sapremo quali disposizioni qualcuno aveva avuto. Ricordiamo le polemiche sulle postazioni antimissile che c’erano a Genova. Mubarak ci aveva messo sull’avviso». Conclusione: «Poi c’è stato l’11 settembre, l’attentato alle torri gemelle».
Semplice la tesi: il terrorismo internazionale prima di New York aveva scelto Genova, per questo s’era organizzato un piano. Così adesso Vittorio Agnoletto, che era stato portavoce dei no global, può dedurre: «Non ci siamo trovati nè di fronte a un susseguirsi di fatti casuali nè ad episodi di legittima difesa, ma a un piano repressivo preparato in precedenza dal governo con settori dei servizi segreti e con i Carabinieri. Era dunque prevista anche la possibilità che qualcuno venisse ucciso».
Le voci, prima del G8, erano state infinite e confuse. Una condizione d’allarme terroristico s’era creata. Che cosa e quali informazioni l’avessero determinata nessuno ha mai dichiarato: sospetti, avvisi, rapporti, senza nessuna certezza. Adesso il ministro dell’Interno aggiunge qualcosa, alludendo a un ordine e a «qualcuno» destinatario o eventuale esecutore di quell’ordine. Aggiunge quasi in privato, dopo che la sua maggioranza di centro destra ha bocciato (solo una settimana fa) la commissione d’inchiesta sui fatti di Genova, proposta dall’Ulivo, con un argomento che a questo punto appare solo arrogante e beffardo: «Non vogliamo interferire con l’autorità giudiziaria...» (parole del forzista Gabriele Boscetto).
Scajola, indimenticabile regista di quei giorni, dall’assedio di Genova, alla morte di Carletto Giuliani, dall’assalto alla scuola Pertini ai pestaggi nella caserma di Bolzaneto, sembra giocare la carta della confusione e della provocazione, mettendo assieme misteriosi terroristi con semplici manifestanti, tute bianche, blac bloc, cattolici di Mani Tese, antiglobalisti di Attac o sindacalisti della Fiom. Non conta che nessuno di loro sia mai entrato nella zona rossa vietata, che solo qualcuno per un attimo abbia appena sfiorato le reti di recinzione, che la “terra” dei cosiddetti Grandi fosse difesa da reti, container, da un imponente schieramento di forze dell’ordine. Il ministro usa quell’espressione («fui costretto a dare ordine di sparare se avessero sfondato la zona rossa») e la minaccia terroristica per giustificare invece una violenza perfettamente orchestrata, che, come si vide e come raccontano centinaia di testimonianze, colpì i cortei e lasciò che alcune centinaia di teppisti, i blac bloc, perfettamente individuati, la cui presenza era stata denunciata da giorni (persino da autorevoli rappresentanti istituzionali, come il presidente della Provincia, Marta Vincenzi) colpissero come volessero. All’ombra della minaccia terroristica si può giustificare tutto, ad esempio che proprio il 20 luglio, per ore polizia e carabinieri attaccassero i cortei, alcuni dei quali palesemente inoffensivi, con violentissime cariche e un uso interminabile di lacrimogeni, dopo che per ore gruppi di blac bloc avevano appunto scorazzato bruciando e devastando. Quel giorno venne ucciso Carlo Giuliani.
Il giorno dopo, il giorno della manifestazione dei trecentomila, polizia, carabinieri, guardia di finanza, risalendo da piazzale Kennedy, aggredirono giovani inermi, dopo che, ancora una volta, poche decine di teppisti indisturbati avevano infranto vetrate di negozi e incendiato automobili.
La notte sarebbe stata quella delle scuole: una utilizzata dal Genoa Social Forum come sede dei propri uffici, di una sala stampa, di un centro legale, l’altra divenuta provvisorio dormitorio per i ragazzi sfollati dallo stadio Carlini pressoché allagato. Anche in quel caso, alla ricerca di terroristi evidentemente, la polizia aggredì, sfondando cancelli, pestando, trascinando per i capelli, sbattendo teste contro i muri. Chi, la mattina dopo, entrò nelle scuole, vide ancora i segni di quel macello: sangue sui muri e persino sui caloriferi, ciocche di capelli lungo le scale, ogni cosa (dai computer ai tubetti di dentifricio, dalle fette biscottate ai vasetti di marmellata) distrutta e dispersa. Il bottino di guerra della polizia furono, insieme con i ragazzi fermati, manciate di chiodi, martelli e assi di legno: una parte della scuola era in ristrutturazione ed era un cantiere aperto. L’epilogo fu a Bolzaneto: nella prigione provvisoria ancora pestaggi, insulti, cantando “faccetta nera”. Il bilancio di Genova fu di cinquecento sessanta feriti, trecento arrestati e fermati, presto quasi tutti rilasciati, e fu la morte di Carletto Giuliani, sepolto a Staglieno. Tutto questo, ammette Scajola, secondo un piano preordinato e per colpire i terroristi.
Con licenza di uccidere.









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Pubblicato su: 2005-07-05 (695 letture)

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