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2002.07.17 Repubblica Continua la battaglia di perizie





La Repubblica 17 luglio 2002

Continua la battaglia di perizie intorno alla morte del giovane

Per i consulenti di parte Placanica sparò addosso al ragazzo Giuliani, l'altra verità
"Il proiettile non fu deviato"
Respinta la tesi del calcinaccio che sposta la traiettoria
"Lo dimostra lo stesso filmato della Digos"
di CARLO BONINI e MASSIMO CALANDRI

GENOVA - La verità di Piazza Alimonda è in un doppio battito di palpebre. Due secondi e 24 centesimi. Cinquantasei fotogrammi. In questo spazio che separa la vita e la morte di Carlo Giuliani, una Beretta 92 Sb semiautomatica, un calcinaccio, una jeep, due proiettili calibro 9 parabellum, un sordo e impastato rumore di fondo lacerato dai picchi sonori di due esplosioni. Un soffio di violenza che imprigiona il dramma di due ragazzi e su cui un pubblico ministero, Silvio Franz, va cercando una parola conclusiva capace di determinare il destino del sopravvissuto di quella giornata di sangue, il carabiniere ausiliario Mario Placanica. Innocente trasformato dal capriccio del caso in assassino per necessità. O, al contrario, omicida per inescusabile colpa, per eccesso di legittima difesa.

I quattro periti del pm (Carlo Torre, Paolo Romanini, Nello Balossino, Pietro Benedetti) una parola conclusiva l'avevano promessa per la fine di luglio e in 32 punti, cinque settimane or sono, ne avevano anticipato la sostanza. Placanicà sparò - avevano scritto - perché costretto dalla necessità di doversi difendere da un'aggressione furiosa e ormai prossima al bersaglio. Ma in aria. Dove la sfortunata quanto incredibile carambola con un calcinaccio aveva trasformato un proiettile innocuo in un colpo di grazia. La scienza balistica e delle immagini - avevano promesso - avrebbe sostenuto la conclusione, al di là di ogni ragionevole dubbio.

Bene, quella parola definitiva per la fine di luglio non ci sarà. I 32 punti di conclusioni provvisorie sono state ricacciate nel limbo dell'ipotetico. Su richiesta degli stessi periti della Procura, tornano ad essere lettera morta o, quantomeno, sospesa, per la cui verifica si è ottenuto un supplemento di indagine fino al 18 settembre. Cosa è dunque davvero accaduto in quei due secondi e 24 centesimi? Repubblica ha avuto accesso ai documenti, ai referti, alla complessa scansione di immagini e suoni che nei sei mesi appena trascorsi sono andati raccogliendo e organizzando i quattro periti di parte (Claudio Gentile, Giorgio Accardo, Roberto Ciabattoni, Ferdinando Provera) incaricati dalla famiglia Giuliani e dal suo legale Giuliano Pisapia di rendere forse meno insensato il dolore. Anticipandone la "discovery", li restituiamo al giudizio di ciascuno per quel che sono. Nudi fatti. Nulla di più. Nulla di meno.

Luna Rossa e il Vhs Digos - Per poter capire, in quell'affollato pomeriggio del 20 luglio 2001 è importante fare pulizia. Del prima, del dopo, del durante superfluo. Conta fermare la moviola al cuore dei 1300 fotogrammi girati in piazza Alimonda dagli operatori della cooperativa "Luna Rossa" e acquistati da Rai e Mediaset. Cerchiare in rosso i "frame" decisivi e ad oggi inediti restituiti all'indagine nelle ultime settimane da un nastro "Vhs" annotato agli atti della Procura come "Filmato B estrapolato dalla videocassetta catalogata con il numero 21 e acquisita dalla Polizia scientifica".

Montati tra loro, i filmati costruiscono un'ordinata sequenza in grado di osservare la scena di Piazza Alimonda da più angolazioni. Dal retro del defender dei Carabinieri, dal suo fianco sinistro, dove la telecamera della polizia riprende medesimi eventi da una diversa prospettiva. Immaginando un ordine crescente, in cui ogni "frame" ha un numero, conviene sincronizzare la scena e le immagini che la fissano al fotogramma numero 180.

Sono le 17 e 27 minuti del 20 luglio. Mario Placanica arma la sua Beretta. A Carlo Giuliani restano due secondi e 24 centesimi di vita. La scena della piazza è fissa nell'attimo che precede il dramma. Il defender dei carabinieri con a bordo gli ausiliari Mario Placanica, Dario Raffone e Filippo Cavataio (l'autista), ha il muso incastrato in un cassonetto che chiude la più naturale delle vie di fuga. E' circondato, fatto bersaglio di un primo assalto a colpi di trave, bersagliato dal lancio di un estintore che, rimbalzando sulla ruota posteriore della jeep è ora sull'asfalto.

Fotogramma 189. Sono passati 36 centesimi di secondo da quando Placanica ha retratto il carrello della sua Beretta innescandola. Il suo braccio si tende, Carlo Giuliani è chino nell'atto di raccogliere l'estintore sull'asfalto. I fotogrammi di "Luna Rossa" e quelli della Digos lo collocano nella medesima postura e posizione. E' di profilo a tre metri e 0,6 centimetri dal retro del defender (mandate a mente questo dato). Diviso ora dalla morte da un solo secondo e 68 centesimi.

Lo sguardo e la volontà - Spostiamoci dentro il defender. Abbiamo detto del braccio teso di Placanica. Della sua Beretta ormai armata. Ma è davvero il braccio di Placanica quello teso? Scrivono i periti dell'accusa nelle loro conclusioni provvisorie: "Le mani che impugnano l'arma sono altamente attribuibili al Placanica". "Altamente attribuibili". L'espressione tradisce un giudizio probabilistico che non regala dunque certezze. A sormontare il corpo di chi impugna l'arma è infatti un altro carabiniere che, rivolto verso il posto di guida del defender, copre il lato sinistro del proprio volto con una mano.

Chi è quel carabiniere? Se è Placanica che spara, non può che essere Raffone. Ma se è Raffone, vuol dire allora che Placanica ha mentito alla Procura o, quantomeno, ricorda male. Nell'immediatezza dei fatti, Placanica racconterà infatti a verbale di aver esploso quei colpi in una posizione innaturale, mentre con il corpo proteggeva Raffone. E' un dettaglio non secondario che fa a pugni con le immagini e lascia sospesa una domanda cui ripetuti esami antropometrici di comparazione fotografica non hanno saputo dare risposta definitiva. I profili di Raffone e Placanica appaiono infatti identici. Stesso taglio di capelli, simile ovale. Mani di medesima complessione.

Con certezza non se ne verrà mai a capo. Come con certezza non si è ancora venuti a capo della curiosa doppia manomissione rintracciata sulla spina conica che sorregge l'affusto della Beretta di Placanica e con lui il dente che in ogni arma dà l'imprinting ai bossoli che espelle. "Manutenzione di fabbrica di un anno prima", ha spiegato l'Arma. Ma tant'è. Placanica dice di aver sparato, dunque Placanica spara. Lo fa al fotogramma 231. Poco più di un secondo dopo aver armato la Beretta.

Quando esplode il primo proiettile, il calibro 9 parabellum che raggiunge Carlo Giuliani allo zigomo sinistro martoriandone il cervello. Cosa ha catturato lo sguardo di Placanica in quell'attimo? Cosa può la volontà di un uomo in un secondo? Che Placanica abbia già spinto il colpo in canna prima ancora che Carlo Giuliani raccolga l'estintore lo dice lui stesso, lo conferma la sequenza delle immagini. Ma ha armato la sua Beretta per uccidere?

Minaccia e deviazione - I periti della Procura, sulla scorta dell'ormai celebre foto Reuters, definiscono l'ultimo secondo di vita di Carlo Giuliani con una meccanica corporea che lo condanna. Il ragazzo raccoglie l'estintore, lo carica sollevandolo al disopra delle spalle, compie ancora un passo che dimezza la sua distanza da 3 metri e 0,6 a un metro e cinquanta dal Defender. Si trasforma da minaccia ipotetica, in pericolo attuale e immediato. Il colpo che lo uccide è esploso da chi, all'interno del defender, improvvisamente vede comparire nel proprio ristretto campo visivo la minaccia che lo perderà. Di più. Il colpo che lo uccide - azzardano i periti della Procura - non è neppure indirizzato alla sua vittima. Ma in aria, dove incrocia il volo di un calcinaccio che ne devia il percorso, ne crepa la camicia di piombo, ne rallenta la corsa spingendolo ad una carambola che conclude la sua corsa nello zigomo sinistro di Carlo Giuliani.

E' così? Torniamo al fotogramma 231. E' un'immagine nitida, non sospetta di interessate manipolazioni perché estrapolata dal nastro Vhs prodotto dalla polizia scientifica. Carlo Giuliani ha l'estintore sospeso sopra le spalle, un fiotto di sangue che zampilla dallo zigomo sinistro. I suoi piedi sono paralleli. E' dunque questo l'istante in cui viene colpito. Dal momento in cui ha raccolto l'estintore è trascorso un secondo e 68 centesimi. Esattamente il tempo di girarsi in direzione del defender e cominciare la fase di carico dell'estintore che ne precede il lancio. Ora, se è vero che nel momento in cui Giuliani raccoglie l'estintore la sua distanza dal defender è pacificamente collocata a tre metri e 06 e che un secondo e 68 centesimi dopo le sue gambe, nell'immagine della polizia, appaiono parallele, con il corpo arcuato nell'atto del lancio, è evidente che la sua distanza da Placanica non possa che essere rimasta sostanzialmente quella che lo divideva dal bersaglio al momento della raccolta dell'estintore. Tre metri e 0,6. Sostenere il contrario, significherebbe immaginare che Giuliani abbia in quel secondo e mezzo fatto quello che forse un decatleta nello slancio di una competizione riuscirebbe a fare. Coprire un metro e mezzo dopo aver raccolto e caricato sopra le proprie spalle un peso di qualche chilo.

Si dirà: d'accordo, ma se pure Giuliani era a tre metri di distanza resta la deviazione del calcinaccio che dimostrerebbe l'intenzione di Placanica di sparare in aria. Ad una velocità di immagine normale non sembrano esserci dubbi. Giuliani si avvicina al defender quando, contemporaneamente al rumore dello sparo, nel campo visivo appare un calcinaccio sbriciolarsi nel suo volo verso la parte posteriore del tetto del defender. E' un inganno che il più attento esame delle immagini smaschera come tale.

Il calcinaccio - Basterebbe ricordare che la velocità della luce è superiore a quella del suono per concludere che il rumore dello sparo e lo sbriciolarsi del calcinaccio raccontano eventi non contemporanei. Che lo sparo (il cui rumore viaggia alla velocità del suono) necessariamente precede lo sbriciolarsi del calcinaccio (la cui immagine corre con luce). Ma per averne la prova è sufficiente tornare alla moviola. Fotogramma 231, Giuliani è stato colpito, il calibro 9 di Placanica ha già raggiunto il bersaglio. Nessun calcinaccio, in questo istante, appare nel campo visivo.

Fotogramma 235. Eccolo il calcinaccio. Sono passati 16 centesimi di secondo dall'esplosione ed è ancora perfettamente integro, visibile nella sua curva impressa da chi lo ha lanciato, mentre si piega in velocità sulla parte posteriore del defender per poi sbriciolarsi, un "frame" dopo (4 centesimi di secondo), sullo spigolo del tetto, all'altezza della seconda "i" della scritta "carabinieri", dove lascerà una visibile rientranza nella carrozzeria.

E' semplice. Chiaro. Il proiettile che uccide Giuliani non viene deviato. O, quantomeno, non dal calcinaccio. Non viene dunque esploso in aria, ma ad altezza d'uomo (un metro e 70 circa), come del resto il secondo che andrà a conficcarsi a 23 metri di distanza e 5 metri e 20 di altezza, seguendo un'angolo di tiro di 10 gradi, che certo tutto suggerisce meno una canna della Beretta rivolta verso l'alto. E' tutto. Né pare aggiungere alcunché, e tantomeno poter ribaltare le conclusioni, il dettaglio delle microtracce "di elementi di frequente osservazione nei materiali per l'edilizia e le vernici" trovate su frammenti della camicia del proiettile esploso da Placanica e trattenuti dal passamontagna di Giuliani. La circostanza nulla dice se non che quelle tracce ben potevano essere presenti sullo zigomo e il passamontagna di Giuliani prima che venisse raggiunto dal proiettile (aveva maneggiato calcinacci prima di morire e nulla impedisce che con le mani si fosse strofinato gli occhi urticati dai lacrimogeni).

Questo dunque accadde nei due secondi e 24 centesimi che hanno cancellato una vita e cambiato il corso di un movimento.









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Pubblicato su: 2005-07-05 (1015 letture)

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