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2002.08.23 Repubblica Placanica intervistato





Mario Placanica, il carabiniere che uccise il manifestante no global: "Vorrei essere ricevuto per potermi spiegare"
"Papà Giuliani incontriamoci io non sono un assassino"

"Gli direi che sono un ragazzo perbene finito in un incubo.
Avevo preso un colpo in testa. Pensavo: Qui mi fanno fuori"
di Pantaleone Sergi

CATANZARO - Venerdì 20 luglio 2001, Genova... E' passato poco più di un anno e il carabiniere Mario Placanica racconta del sangue, di quei due colpi di pistola sparati, di Carlo Giuliani ucciso. Fa un appello: "Vorrei incontrare il padre di quel ragazzo per dirgli che non sono un assassino. Posso guardarlo negli occhi, posso parlargli. Ho sparato due volte, è vero, ma sicuramente non volevo uccidere, non ho sparato per ammazzare. Se il signor Giuliani accetterà di vedermi capirà che sono un ragazzo per bene, catapultato in un incubo che non sembra avere fine. Ero frastornato e non vorrei che qualcuno oltre a me abbia sparato. Vorrei dirgli che non mi sento colpevole, che in una situazione di quel tipo poteva accadere di tutto, che come a suo figlio una sorte tragica poteva toccare anche a me". E' agitato il giovane carabiniere. Il suo nuovo avvocato, Vittorio Colosimo, lo rincuora.
Se il signor Giuliani accettasse di incontrarla lei gli direbbe insomma che non è stata colpa sua?
"Proprio così. Queste cose ho da dirgli, pensando al suo e al mio dolore. L'incontro con il signor Giuliani mi darebbe la forza per andare avanti. Vorrei che comprendesse quel che mi sta accadendo, come io comprendo il dolore di un padre. Sono angosciato per la morte di un ragazzo come me. Io entro in crisi quando sento dire che sono l'assassino di quel ragazzo".
Resta il fatto che Carlo Giuliani è morto. E per molti lei è poco meno che un nazista.
"Mi dispiace che alcuni mi considerino una camicia bruna. Non sono un nazista, a me fa orrore il sangue. Vengo da una famiglia di onesti lavoratori democratici, mio padre è iscritto alla Cgil. La famiglia mi ha insegnato ad avere rispetto per tutti. Sono vittima di una accusa grave e ingiusta. Voglio tornare a vivere, cerco serenità, comprensione da parte di tutti, anche dal signor Giuliani".

Che cosa accadde quel giorno? Vuole ricordarlo?
"Genova quel luglio di un anno fa era calda in tutti i sensi. Il mio reparto era arrivato in città tre giorni prima. Tutti ragazzi, tutti in tensione palpabile. Ci alloggiarono in Fiera, uscivamo solo per servizio. Quel giorno siamo andati a letto tardi, dopo l'una, ci siamo svegliati alle sei, già mezzi stanchi, e ci siamo messi a scherzare tra di noi per alleggerire la tensione. Ci hanno dato l'attrezzatura, scudi, tanfe, lacrimogeni. Ne ho sparato quattro in aria prima che mi prendessero il fucile perché non sapevo sparare. Era il mio primo servizio vero. Avevo fatto ordine pubblico in Sicilia, allo stadio. Ero al Celeste di Messina, vicino a quel ragazzo colpito da un petardo e morto".
Quando siete entrati in azione?
"Il reparto rimase tre ore davanti alla Fiera. Qualcuno perquisiva i manifestanti in arrivo, altri stavano a guardare nervosi. I primi scontri li abbiamo avuti davanti al palco nel campo dei no-global. Lanciavano molotov, pietre - una mi ha colpito a uno stinco - oggetti metallici. Non li abbiamo attaccati, ci siamo solo difesi. E non nego che in tanti avevamo paura. Poi, dopo le 14 e con due panini nello stomaco, ci siamo trovati nel posto in cui è stato bruciato il blindato dei carabinieri. Siamo arrivati a piedi e siamo entrati subito in azione".
Le cronache ricordano un inferno di fuoco e fumo. Com'era la situazione dal suo punto di vista?
"C'era da impazzire. Mi sono sentito male per i gas lacrimogeni. Vomitavo, e come ho visto il Defender sono salito a bordo per chiedere al carabiniere Filippo Cavataio, che ho trovato lì, qualche rimedio per gli occhi. Tutto attorno, da quello che potevo vedere, c'era il caos e i miei colleghi tornavano indietro. Sul Defender salì anche un altro carabiniere, Dario Raffone, s'era sentito male anche lui".
Che cosa avete fatto?
"Da qui in poi i miei ricordi diventano sfuocati, tanto gli eventi sono stati convulsi. Ho preso una botta in testa da quella trave infilata nel Defender. Perdevo sangue, la mia faccia, le mie mani, la divisa, la pistola erano insanguinate. Pure Cavataio era imbrattato di sangue. Ho pensato: "Oggi mi cupano", oggi mi fanno fuori. Ho preso allora la pistola. Ho sparato. Nella posizione in cui mi trovavo, semidisteso nell'auto, potevo sparare solo verso l'alto. La mia mano con la pistola era al di dentro dell'auto, ne sono certo, e non fuori come appare in qualche strana immagine. Ho sparato due colpi in successione, uno sembra sia finito sul muro della chiesa, l'altro - dicono - avrebbe ucciso Carlo Giuliani. Ero sotto choc. Stai tranquillo, mi dicevano alcuni colleghi, che andiamo in ospedale. Mi hanno detto che abbiamo incontrato Agnoletto sulla strada per l'ospedale San Martino. Gli hanno chiesto se ci faceva passare. Pure Raffone perdeva sangue. Ma Agnoletto ce lo avrebbe impedito, costringendoci a un giro più lungo".

(23 agosto 2002)









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Pubblicato su: 2005-07-05 (677 letture)

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