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2001.08.19 Repubblica. I Giuliani raccontano Carlo





la Repubblica, 19 agosto 2001

"Vi raccontiamo Carlo e la sua vita spezzata".

I genitori: i suoi amici cenano ancora da noi
Nato nei giorni del sequestro Moro, scriveva "limerick" e detestava mettersi in posa: e così di lui sono rimaste pochissime foto di famiglia

di Fabrizio Ravelli

GeNOVA - «Carlo non voleva mai farsi fotografare. Spariva appena vedeva una macchina fotografica. Non gli piaceva mettersi in posa». La sua famiglia ha più foto di Carlo morto - steso sull'asfalto di piazza Alimonda, nel suo sangue - e di Carlo che stava per morire - lui che raccoglie un estintore, lo solleva, la pistola del carabiniere già puntata - di quante non ne abbia ritrovate negli album di casa. Elena, la sorella maggiore di sette anni, li va a prendere questi album, e li sfoglia a fatica. Giuliano Giuliani e sua moglie Heidi, qui nel giardino di casa, hanno gli occhi lucidi.
Domani è il giorno del ricordo, la prima pesante ricorrenza, un mese da quel venerdì 20 luglio. Vorrebbero tenersi stretto il ricordo del loro ragazzo, e insieme condividerlo con chi vuole solo ricordare. Ma non farselo strappare, non lasciare che diventi un'icona. «Ho letto che ci saranno commemorazioni in molte città d'Italia e del mondo - dice lui -. A Genova si porteranno dei mazzi di fiori in piazza Alimonda, come si fa da un mese: mi sembra una cosa molto bella. Sono invece disgustato che qualcuno voglia impossessarsi della sua memoria, magari abusarne per farneticanti rivendicazioni come quella della bomba di Venezia. Ricordiamo che Carlo ha subìto la più drammatica delle ingiustizie, ma era totalmente estraneo a qualunque forma di appartenenza». La cosa migliore, perché Carlo resti di tutti com'era e non diventi un simbolo di nessuno, è per i suoi genitori raccontarlo semplicemente. «Non è stato un figlio facile - dice la mamma -. Proprio per questo, è stato un figlio molto ricco di tante cose. Da un mese a questa parte riceviamo centinaia di messaggi su di lui. Suonano alla porta tanti suoi amici, che vengono a parlare. Tutte le sere metto su due pentole di pasta, perché c'è qualcuno a cena. Sono tanti, gli amici di Carlo». «Fra i tanti regali che ci ha fatto - dice il padre - c'è anche questo riannodare fili con persone che conoscevamo appena, e annodarne con chi non avevamo mai visto». Sul conto corrente per opere di solidarietà (17963/80, Carige agenzia 30) sono già arrivati più di 40 milioni.
«Aveva un senso della fratellanza e dell'amicizia così forte - continua - che riusciva ad essere amico di un frate cappuccino, come dei figli della borghesia di Albaro, come dei ragazzi di strada, o di quelli dei centri sociali dove andava ad ascoltare la musica. Proprio perché pensava che appartenere a un gruppo lo avrebbe escluso da altri». Sempre di corsa, irrequieto, veloce. Piccolino, magro, biondo, coi capelli corti. Nelle foto famigliari che la sorella Elena tiene in grembo viene sempre di sbieco, di spalle, un po' mosso, in disparte. In una ride caricandosi in spalla un amico alto il doppio di lui. In un'altra appoggia la testa sulla spalla di un amico senegalese, invitato a cena in casa. Anche lui grosso il doppio. Tutti erano più grossi di Carlo.
«Aveva orrore della guerra e della violenza in genere. Se vedeva due litigare, si metteva in messo a dividerli. In quindici anni di scuola, mai una volta che abbia fatto a botte con qualcuno. Odiava le sopraffazioni e le ingiustizie, piccole e grandi». Il padre alza gli occhi calmi, e aspetta la domanda inevitabile. Perché Carlo è morto su una scena violenta, mentre con altri assaltava una jeep dei carabinieri? «Ho timidezza a parlare di questo. Attendo che me lo dicano altri, i magistrati. La mia è solo l'opinione di un padre. Mi dicano come sono davvero andate le cose. Posso solo pensare che Carlo si sia reso conto che i carabinieri stavano facendo un'ingiustizia».
Carlo è morto poco dopo le cinque del pomeriggio. «Io l'ho sentito l'ultima volta al telefono intorno alle 3. Era in piazza Manin. Dove, ho saputo dopo, era successo questo: le forze dell'ordine davano libertà di azione a frange violente, e intervenivano pesantemente sulle persone pacifiche. Li ho visti, poi, lì in piazza: erano i pacifisti della Rete Lilliput, una follia considerarli violenti». Su «Diario» quattro persone (Max, Simona, Lucia e Vito) ricordano di avere incontrato vicino a piazza Manin questo signore con la barba: «Ci dice che è un sindacalista della Cgil, che ha girato l'Italia, Torino, Roma e poi Genova. Ci dice di evitare Brignole, ha sentito che lì ci sono scontri». Cercava suo figlio Carlo? Lui risponde solo: «Sono capitato lì. Avevo altri impegni. Altrimenti sarei andato alla manifestazione, anche se non ho mai pensato che il G8 fosse illegittimo».
Di manifestazioni i Giuliani ne hanno viste. Lui 28 anni nel sindacato, lei maestra, del Pci tutti e due. «Ero al corteo in difesa di Cuba, dopo la Baia dei Porci, quando venne ucciso Ardizzone», racconta lui. «A Milano - continua lei - durante una delle tante manifestazioni per il Vietnam, in mezzo ai lacrimogeni vidi uno della Ps che con una bandiera stava picchiando un tizio steso a terra. Gli ho chiesto: me la dà, quella bandiera? Me l'ha data». Però nessuno dei due ha mai visto cose tremende come quelle successe a Genova, quando Carlo è morto. Lui dice: «In nessun modo ci può essere giustificazione della violenza. Da nessuna parte». Lei dice: «Ma è più grave se viene dallo Stato. Io credo che Carlo, se fosse stato dall'altra parte, nei panni di quel carabiniere, non avrebbe sparato».
Giuliano Giuliani è molto netto: «Il mio rispetto per le istituzioni e per le forze dell'ordine attende di essere confermato da comportamenti che consentano alle persone pacifiche di manifestare il loro pensiero, e di isolare i violenti da qualunque parte vengano. In un paese democratico la violenza deve essere bandita. E' sbagliato anche tirare sassi se si viene aggrediti». La madre ha più rabbia dentro: «Qualcuno però ci si è trovato, a reagire». Lui insiste: «Non porta da nessuna parte. La violenza isola. La scelta di una possibile violenza riduce la possibilità di essere in tanti, di mettere insieme anziché dividere».
Carlo non era un violento, ripetono. Il padre ricorda: «Qualche anno fa io e Carlo siamo stati a Remagen, nella valle del Reno. C'è un bellissimo monumento alla pace, sul bastione del ponte che guarda a Ovest. C'è una parete dove ogni piastrella ricorda tutte le guerre scoppiate dopo il ‘45. Discutemmo molto, quella parete l'aveva colpito. Ogni volta che c'era una guerra nel mondo, lui pensava che la colpa fosse delle multinazionali e dei mercanti d'armi. Io gli dicevo che, a volte, le cose sono più complicate». Si è sempre discusso molto, in casa Giuliani. Elena, la sorella: «Mia mamma, la svizzerotedesca, vietava la televisione. Da piccoli ci raccontavamo storie, che erano l'Iliade e l'Odissea». «Si parlava di tutto, con Carlo. Del G8, dei McDonald's: lui non era né un consumatore di hamburger né un lanciatore di sassi». Da un anno Carlo abitava altrove: «Ma ci telefonava tutti i giorni, e ci vedevamo due volte alla settimana». Carlo nato il 14 marzo del ‘78: «Portai a mia moglie in ospedale la notizia del sequestro Moro». Carlo che scriveva «limerick», poesie con solo due consonanti, oppure monovocaliche, biglietti in rima alla mamma. «Ci ha insegnato a vedere che cosa c'è nelle persone, oltre le apparenze». Le sue foto di famiglia sono poche. Padre e madre guardano le altre: «Nella prima, presa dal basso, sembra Maciste. Nelle altre si vede piccolo com'era. Raccoglie quell'estintore. Gli puntano la pistola. Forse non voleva lanciarlo». Chi fosse Carlo, nelle fotografie non si è mai capito bene.









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Pubblicato su: 2005-07-05 (646 letture)

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