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http://italy.indymedia.org/news/2006/01/961538.php Nascondi i commenti.

Testimonianze dal carcere [post dinamico]
by imc italy Saturday, Jan. 07, 2006 at 6:48 PM mail:

Post dinamico dedicato alle testimonianze da dentro il carcere

Testimonianze dal ca...
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I petsaggi a Novara nel '91
by da tmcrew Saturday, Jan. 07, 2006 at 11:20 PM mail:

Dal carcere di Novara Silvano ci riferisce i racconti dei suoi compagni di detenzione su pestaggi e torture varie relative il regime 41 BIS (Regime carcerario riservato a soggetti particolarmente pericolosi: terroristi, mafiosi, camorristi ecc...).



....Nessuno, qui dentro, si è dimenticato del pestaggio ad opera di 50 sbirri contro i compagni delle BR e PCC avvenuto nel 1991. Le vittime sono state una quindicina delle quali almeno sei gravemente ferite. Fù lo stesso personale medico a denunciare all'esterno l'accaduto. La gente è stata prima ben stordita con gli idranti a pressione poi finita a bastonate e sprangate. Usate, pare, anche catene con lucchetti alle estremità. Questi pestaggi selvaggi ed feroci fanno d'altronde parte della tradizione della polizia penitenziaria. Ogni anno almeno una decina di detenuti vengono uccisi in questa maniera non avviene mai nessun procedimento acarico di qualche agenteodirettore o comandante. I morti vengono sempre giustificati come o autolesionisti o morti in seguito a cadute acidentali o varie. .......

......Le nostre società dovrebbero solo parlare di stato di "vendetta" e di rappresaglia sadica. Di supplizi veri e propri di "guai ai vinti" come diceva Giulio Cesare all'epoca della conquista della Gallia.
Questo sentimento di "sadica vendetta" è proprio evidenziato nei racconti di alcuni ergastolani sottoposti al regime 41 BIS. Il 41 BIS è stato voluto dalle leggi Scotti-Martelli dell'89 o giù di lì. Al 41 BIS non vengono sottoposti solo mafiosi e camorristi ma anche i vari "mostri" come il giovane Maso o, quando sarà il loro momento, quelli dei sassi di Tortona. Gli episodi che mi raccontano risalgono soltanto all'anno 1991e sono accaduti sulle isole come Pianosa, Favignana, Asinara, Porto azzurro, Capraia e altre minori che ora non ricordo. Solo nel '91 ci sono stati 10 morti in seguito a pestaggi mirati a uccidere. Gente presa a scarponate nel fegato o nella nuca o nei reni in modo da provocarne la morte dopo lunga agonia aggravata dalla mancanza di cure mediche. Spesso i moribondi venivano abbandonati in luride celle di isolamento, torride in estate e gelide in inverno, abbandonati in mezzo al loro vomito, piscio, escrementi e sangue raggrumato. Senza acqua nè cure. La morte era poi giustificata con malattie croniche, autolesionismo o incidenti vari. Spesso dita e mani venivano schiacciate con gli scarponi e altre volte i calci miravano ai bulbi degli occhi in modo da farli scoppiare. Da notare che nel più dei casi le vittime erano ammanettate. Corrente era poi l'uso di bastoni, spranghe di ferro e catene con lucchetto all'estremità. Diffusa anche la pratica di legare i detenuti con le catene dietro una Jeep e poi trascinarli per i camminamenti interni del reclusorio.
Tanto nessuno vede nè sente. Le provocazioni normali sono poi gli insulti quotidiani, gli sputi delle guardie nel caffelatte e nella minestra. Occasionale è mettere nella minestra preservativi usati scarafaggi vermi di terra o lucertole morte. Nelle notti di estate, quando le finestre sono aperte, le guardie sparano raffiche di mitra dal basso verso l'alto nelle celle dei reclusi, dai camminamenti verso le finestre. Molti i feriti anche gravi. Nessuna commissione di inchiesta, nè operatori sociali, nè verdi nè radicali nè missionari legati alle associazioni di carità. I detenuti valgono meno delle bestie da soma. Altro non sono che oggetti a disposizione di ogni umore e capricci di esseri nemmeno degni di essere paragonati a degli sciacalli.
Capite compagni qual'è il vero volto della giustizia!! Chi sta crepando nei 41 BIS, mafioso o mostro che sia, è lì dentro per volontà di gente onesta e rispettata come : Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, Caselli, Laudi, Tatangelo Boccasile, Gherardi. E grazie all'opera e alla mano dei vari DIGOS, ROS, DIA....
Capite le vetrine piene di cose che nessuno si può comprare, le banche che si ingrassano sulle false necessità, i politici che mentono come respirano, i preti, gli Agnelli e i loro 10mila schiavi, l'informatica,il TAV,e tutto il resto della merda sono solo una brutta faccia di una umanita'in realta' ben piu' putrida di quello che riesce la nostra fantasia a immaginare!! Ci si indigna per il piccolo catanese reso cieco da ina pallottola vagante ci si indigna del mostro di Savona che ha gia' ucciso 7 o 8 volte con la pistola.Ci si indigna del mostro di Bruxel che uccideva violentava e forse seviziava le bambine.Ci si indigna dei bambini venduti e del traffico di organi e dei pedofili che adescano e magari violentano.Si fanno le marcie ,lì a san salvario e a porta palazzo contro gli extracomunitari che spacciano,rubano e a volte uccidono anche.Ma si sente ben poco di quello che realmente succede nei 41bis .Lì la tortura dura per decine di anni ed è anche molto difficile suicidarsi. Chi tenta il suicidio va a Montelupo o a Barcellona (in Sicilia, manicomi criminali) e poi ritorna sull'isola.
Morirà di lì a poco ma molto molto lentamente. Nei manicomi poi nessuno sa cosa succede anche perchè chi esce non lo racconta più di certo. Anche questi ergastolani raccontano mal volentieri gli episodi dei quali sono stati testimoni o partecipi. Pensate come stanno vivendo ora i vari Brusca e Riina. Certo sono mafiosi!! E allora tutto va bene......
Oggi i reati politici come i nostri non entrano nel quadro 41 Bis, ma un domani chissà? Il 41 Bis non comprende solo reati di omicidio ma anche tutti i favoreggiamenti. Il 41 Bis viene inoltre esteso anche agli indagati in attesa di giudizio.

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La morte di Baleno
by info Saturday, Jan. 07, 2006 at 11:21 PM mail:

http://www.tmcrew.org/detenuti/edo.htm

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La costituzione delle carceri speciali
by da tmcrew Saturday, Jan. 07, 2006 at 11:30 PM mail:

Nel '75 fu dunque varata la legge 354, la cosidetta "Riforma" al cui interno i detenuti non trovarono alcun contenuto delle rivendicazioni che avevano caratterizzato le lotte degli ultimi anni; contrariamente alle loro aspettative, la nuova legge conteneva una differenziazione molto accentuata laddove i detenuti avevano rivendicato trattamenti più egualitari (vedi una critica dettagliata nel dossier : storia 2° parte).
Oltre ad una valutazione del tutto negativa, è stato possibile però utilizzare -come abbiamo visto nel dossier precedente (storia 2° parte)- alcuni spazi di socialità che la "riforma" consentiva e, grazie ai livelli di organizzazione raggiunti in alcuni carceri, si sono potuti mettere in atto alcuni progetti di evasione.

Ma ogni battaglia, ogni lotta, quanto più è aspra e combattuta, tanto più fa crescere entrambe le parti in conflitto, ed anche il potere riuscì a capire che il "vero" problema delle carceri era l’esistenza dell’organizzazione dei detenuti. L’Amministrazione carceraria cercò quindi di mettere a punto un progetto che riuscisse a separare i detenuti più combattivi e più coscienti, le "avanguardie del proletariato prigioniero" dal resto dei detenuti. Questa fu la mossa successiva alla "riforma": l’istituzione dei Carceri Speciali; quasi un completamento della "riforma" stessa nello spirito che informava tutta la legge e che intendeva normalizzare il carcere attraverso la differenziazione accentuata.

L’esperienza aveva insegnato agli uffici studi del Ministero e dei Carabinieri che la scelta di sparpagliare i compagni imprigio-nati nelle varie carceri, per di-sperderli, in realtà era stato come mettere "il pesce nella propria acqua": tanto era forte lo spirito di ribellione e di riscatto che in quegli anni si respirava anche nelle carceri, soprattutto tra quei giovani extralegali che, da una parte volevano togliersi di dosso la gerarchia malavitosa, dall’altra si nutrivano anch’essi dell’atmosfera di ribellione che proveniva dalle strade e dalle piazze, al punto che la presenza anche di pochi compagni in carceri sperduti attirava l’interesse di molti e funzionava da catalizzatore delle tensioni.

Istituzione dei Carceri Speciali - Istituti di "Massima Sicurezza"

Con un semplice decreto ministeriale, il n.450 del maggio 1977, vengono istituite le carceri speciali per rispondere alle lotte che si erano sviluppate e continuavano a svilupparsi nel circuito carcerario e per cercare di ostacolare i livelli di aggregazione in continua crescita ed anche per tentare di frenare il movimento di evasioni sviluppatosi enormemente negli ultimi anni.

Questa operazione viene affidata per la sua attuazione all’Arma dei Carabinieri al comando del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sia per la scelta e la ristrutturazione degli edifici, sia per i compiti di sorveglianza esterna e di controllo e ispezione interna. Cosi la notte tra il 16 e il 17 luglio 1977, in grande segretezza e con ampio spiegamento di forze e mezzi, facendo anche largo uso di elicotteri, alcune centinaia di compagni e proletari detenuti vengono trasferiti nelle prime carceri speciali allestite.
I primi detenuti deportati negli "speciali" (in gergo verranno chiamati "campi di concentramento" o semplicemente ‘campi’) sono i compagni incarcerati e i proletari detenuti più combattivi che avevano organizzato opartecipato a rivolte, evasioni e lotte nel ciclo di lotte precedente, ed anche quelli che avevano rapporti con l’esterno soprattutto con compagni/e del movimento..
Con l'istituzione dei Carceri Speciali il sistema carcerario italiano viene a configurarsi come un sistema a due circuiti: uno "speciale" per le avanguardie del proletariato prigioniero, per i detenuti più combattivi e per i compagni ormai diventati molto numerosi. In codice venne chiamato "circuito dei camosci"; l'altro "normale" per la massa del proletariato prigioniero.

Nell'arco di tre anni entrano in funzione i seguenti Carceri Speciali: Asinara, Cuneo, Novara, Fossombrone, Trani, Favignana, Palmi, Badu e’ Carros, Termini Imerese, Ascoli Piceno; e per il femminile, Latina, Pisa e Messina, inoltre vengono allestite delle sezioni speciali in tutti i carceri giudiziari delle grandi città dove rinchiudere i carcerati provenienti dal circuito speciale che venivano trasferiti nelle città per processi o altro.

Alcuni operatori sanitari di Medicina Democratica dopo averli visitati, così li descrivono: "Contro ogni dettame costituzionale e in particolare ignorando quello in cui si afferma che tutti i cittadini sono uguali anche di fronte alle pene detentive, viene oggi, e sempre di più, portato avanti con ottusa violenza un progetto di discriminazione tra detenuto e detenuto, destinando il detenuto politico, o anche coloro sospettati di essere tali in quanto non più recuperabili alla logica del sistema, al carcere speciale, dove con specifiche disposizioni gabellate per motivi di sicurezza, ma che con questi non hanno nulla a che fare, si concretano tecniche raffinate di sperimentata efficacia di deprivazione sensoriale al fine di esasperare il detenuto, di disgregare la sua personalità, arrecando danni talvolta irreversibili per la sua salute fisica e mentale. Le misure messe in atto ... vanno dall'isolamento individuale o di piccoli gruppi 22 ore su 24, alle brusche interruzioni del ritmo sonno-veglia con perquisizioni notturne, alla eliminazione della naturale alternanza del giorno e della notte per mezzo di lampade sempre accese ...
... pressione psicologica ai colloqui tra il detenuto e i propri familiari molto dilazionati e realizzatisi in condizioni sub-umane ... per l'uso di strumenti aberranti come interposizioni di vetri insonorizzati e citofoni che alterano timbri di voce ...
Si tratta di un fenomeno in cui si evidenzia in modo inequivocabile una realtà di tortura psicologica particolarmente feroce e distruttiva dell'intera struttura psicofisica del detenuto in palese contraddizione con l'articolo 5 della "Convenzione dei diritti dell'uomo"...

C’era dunque da digerire la "riforma" su cui si sviluppò un grosso dibattito anche tra i detenuti;
Vediamo intanto in che situazione si trovano i compagni e i proletari nelle C.S.


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LE CONDIZIONI NELLE CARCERI SPECIALI
by da tmcrew Saturday, Jan. 07, 2006 at 11:35 PM mail:

ALL'ESTERNO


- Vengono eseguite opere murarie: innalzamento dei muri di cinta esterni e viene rafforzato il controllo delle guardie sul muro perimetrale; vengono aggiunti numerosi cancelli per separare le Sezioni Speciali dalle altre aree del carcere; vengono "blindate" le celle aggiungendo la doppia porta blindata.
- Viene istituito il controllo fisso dei carabinieri all’estreno dei carceri, con jeep blindate e successivamente con piccole ma armatissime autoblindo.

TRASFERIMENTI
Il detenuto viene svegliato alle 4 di mattina dalle guardie che lo avvertono di "prepararsi la roba" perchè è in partenza, non gli viene detto per dove e non gli è permesso di salutare i suoi compagni di carcere; spesso succedeva che i familiari di quel detenuto in viaggio o in procinto di partire per fare un colloquio, centinaia di chilometri in treno o in nave, una notte di viaggio disagiato e poi sentirsi dire alla portineria del carcere che il proprio familiare detenuto è stato trasferito dall’altra parte della penisola. I trasferimenti (in gergo "traduzioni") vengono effettuati con i "cellulari blindati" ossia dei furgoni nei quali sono ricavate due piccole cellette in ciascuna delle quali vi sono due sedili, i detenuti vi sono rinchiusi ammanettati (con gli "schiavettoni": una strumento che obbliga a tenere le mani una distante dall’altra), non vi è posto nemmeno per alzarsi in piedi e sgranchirsi le gambe durante il viaggio che spesso dura molte ore considerate le distanze tra carceri speciali.

COLLOQUI
I colloqui con i familiari sono di 4 ore al mese -un’ora a settimana- se i familiari risiedono molto distante può essere concesso, a discrezione della direzione, di suddividerre le 4 ore mensili in due colloqui da 2 ore da effettuare ogni 15 giorni. Per ogni richiamo che subisce il detenuto vengono sospesi i colloqui. I familiari sono anch’essi sottoposti a perquisizione personale, spesso costretti a spogliarsi del tutto. I colloqui sono effettuati con una lastra di vetro interposta tra i detenuto e familiari e con i citofoni per potersi parlare.

I COLLOQUI TELEFONICI vengono aboliti o concessi solo in casi eccezionali.

LA CORRISPONDENZA dei detenuti in arrivo e in partenza viene sottoposta a censura. Vengono addirittura sequestrati i giornali e documenti provenienti dal movimento.

ASCOLTO RADIO, è vietato l’ascolto delle F.M. per impedire di ascoltare le emittenti Radio del movimento.

DISTANZE, i detenuti destinati ai C.S. vengono trasferiti nei carceri più distanti dalla residenza della propria famiglia.




ALL'INTERNO


GUARDIE: aumenta il rapporto tra guardie e detenuti, ogni volta che il detenuto esce di cella viene accompagnato da tre guardie.

MOVIMENTI dalla cella: vengono ridotti al minimo gli spostamenti del detenuto dalla cella, : 4 ore d’aria al giorno e nessun’altra forma di socialità, successivamente le ore d’aria giornaliere verranno ridotte a 2 e poi a 1. Nei passeggi (aria) si può stare in numero limitato: inizialmente non più di 15 poi venne ridotto a 10 ed a 5.

PERQUISIZIONI PERSONALI: ad ogni spostamento dalla cella del detenuto, per andare all’aria, o per recarsi al colloquio con i familiari o con l’avvocato o magistrato, il carcerato viene sottoposto a perquisizione completa (spogliarello o strip-searches)

PERQUISIZIONI IN CELLA: in pratica ogni mattina, intorno alle 5,30 - 6,00, le guardie entrano nelle celle per la perquisizione. Come si svolge? Varia ovviamente da carcere a carcere, ma in genere le guardie si impegnano a buttare all’aria le poche cose che si hanno in cella; spesso vengono vuotati i contenitori dello zucchero e del sale e mescolati insieme, vengono sfogliati i libri in modo tale da rovinarli, vengono sparse sul pavimento le foto dei familiari o altri oggetti cari ....

LIMITAZIONE DEGLI OGGETTI DA TENERE IN CELLA: non si possono tenere più di 5 libri, un quaderno, due penne e due matite; per gli indumenti, una tuta, due maglioni, due pantaloni e un paio di cambi di biancheria, due paia di scarpe, un asciugamano e un accap-patoio; il materiale per radersi doveva essere tenuto in uno stipetto esterno alla cella e chiederlo quando lo si usava.

TESTIMONIANZE La nuova brutalità: Voghera (femminile) Non è consentito nessun tipo di attività, le detenute sono costrette a trascorrere 24 ore al giorno in isolamento nella più completa inattività

... E’ impedito l’ingresso dall’estreno di libri e riviste, ne è consentito l’acquisto tramite domandina il che significa oltre ad una spesa notevole, l’impossibilità ad acquistare alcuni libri e riviste che non siano quelle di larga tiratura. Nel caso di libri per lo studio, dopo aver dimostrato l’iscrizione ad un corso universitario, viene consentito l’ingresso di questi ma viene strappata via la copertina, rendendo così il libro inservibile...
La posta in arrivo e in partenza spesso sparisce nei cassetti o cestini dell’Ufficio Censura e non se ne ha più notizia... Vi è il divieto all’uso di un fornello per cucinare, così siamo costrette a cibarsi del vitto del carcere del tutto immangiabile e insufficiente oppure a ripiegare su generi acquistati tramite carcere... Nei locali docce è situata una telecamera e le visite mediche, anche quelle ginecologiche devono svolgersi in presenza di una guardiana...

E la vecchia brutalità. Pestaggi a Badu ‘e Carros (Nuoro). Durante una lotta per protestare contro le condizioni invivibili attuata per mezzo della battitura di oggetti sulle sbarre e del lancio di roba nel corridoio, le guardie ("squadrette" di picchiatori) sono entrate nelle celle, hanno prelevato a forza i detenuti, li hanno costretti a forza a raccogliere la roba nel corridoio e li hanno picchiati selvaggiamente e li hanno posti in isolamento. Molti detenuti hanno riportato ecchimosi in tutto il corpo per diversi giorni, fratture e gonfiori; per non farli vedere in queste condizioni ai parenti sono stati sospesi loro i colloqui con i familiari...

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LE CONSEGUENZE SUL MOVIMENTO DEI DETENUTI
by da tmcrew Saturday, Jan. 07, 2006 at 11:38 PM mail:

Con l’istituzione dei Carceri Speciali il movimento dei detenuti subì un colpo molto duro che richiese un lungo periodo di riflessione e di riorganizzazione silenzionsa; c’era il ricatto di essere trasferiti nei C.S., e questo rappresentava un deterrente.
Anche fuori, nel movimento esterno, il problema dei C.S. non viene capito immediatamente e non vengono messe in atto iniziative politiche adeguate. In questo momento di confusione un lavoro molto importante, addirittura decisivo, di puntuale e capillare controinformazione viene svolto dai familiari dei detenuti.
[i familiari dei detenuti politici verso la seconda metà degli anni ‘70 si sono organizzati in "comitato" per meglio portare avanti la denuncia della stretta repressiva che avveniva nelle carceri e per sostenere con maggior forza la lotta dei detenuti; inizialmente questa aggregazione era composta dai soli familiari dei prigionieri politici, ma successivamente anche da numerosi familiari di proletari detenuti. I familiari dei detenuti hanno avuto un ruolo importantissimo negli anni ‘70 e ‘80: costretti a girovagare per la penisola tra un carcere speciale e l’altro, ascoltavano dalla viva voce dei detenuti le terribili condizioni di vita cui erano sottoposti negli speciali ed anche loro subivano direttamente pesanti vessazioni e soprusi; la loro testimonianza è stata perciò, valido strumento di conoscenza e comunicazione. Per questa loro funzione di di impegno civile e democratico hanno subito una dura repressione in termini di denunce, arresti ed anni di carcere, allorquando lo stato in accordo con il sistema dei partiti ( con la connivenza anche dell’ opposizione ) ha deciso di attuare la rappresaglia di puro stile fascista contro familiari, avvocati e aree di sostegno alla lotta dei detenuti. L’importante funzione svolta dai familiari dei detenuti è stata un’ulteriore dimostrazione dei livelli di politicizzazione diffusi in moltissime aree sociali grazie alle lotte degli anni ‘70 che avevano contagiato ogni settore della società.]

Su questa situazione di disagio e di confusione si delineano varie proposte per reagire alla stertta repressiva. Anche in questo caso le proposte sono state molte, ma possono dividersi in due grossi blocchi:
- chi proponeva di investire le forze democratiche e portare la battaglia sulla "antidemocraticità" e anticostituzionalità del provvedimento che istituiva i C.S. (in realtà è una legge dichiaratamente contro la Costituzione italiana, ma non era la prima né la sola e non sarà l’ultima).
- chi invece riteneva che, ragionando sullo svolgersi dello scontro di classe più complessivo, valutando e prevedendo un inasprimento dello scontro e quindi un ulteriore innalzamento della repressione, bisognasse attrezzarsi ed affrontare la battaglia.

Le varie posizioni, come avviene spesso in questi frangenti, convissero ed operarono tutte nel movimento dei detenuti e di chi li appoggiava dall’esterno. In seguito trovarono maggior adesione quelle che erano più adeguate ad una situazione che realmente si muoveva verso un inasprimento dello scontro.

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L'ARTICOLO 90
by da tmcrew Saturday, Jan. 07, 2006 at 11:57 PM mail:

LA STRETTA REPRESSIVA
Questa ennesima stretta repressiva è stata spinta fino ad intaccare gli stessi livelli minimi necessari alla sopravvivenza fisica dei prigionieri politici ed ha tentato di creare nei prigionieri situazioni esasperate di ordine psichico. Questo ulteriore giro di vite veniva messo in cantiere giacché tutti i tentativi precedenti non avevano sortito alcun effetto rispetto all’obiettivo perseguito dallo stato: la distruzione dell’identità dei prigionieri politici al fine di far proclamre loro una condanna della lotta armata.
Il ragionamento dei cervelli del MGG partiva da una sopravvalutazione del ruolo dei prigionieri politici nei confronti della continuazione della lotta armata.
Questa convinzione faceva parte di una vecchia tesi cara a chi non voleva accettare l’idea che l’esistenza della lotta armata in Italia, in quegli anni- e la sua riproduzione nonostante i numerosi arresti, dipendesse da dinamiche sociali/politiche tutte comunque esterne. Per la sottocultura italiana era più riposante pensare che l’adesione di molti giovani alla lotta armata dipendesse dall’esistenza di personaggi mitici in galera, he funzionavano da modelli di comportamento, piuttosto che dai contrasti di classe presenti nella società.
Stavolta la repressione si muove su più terreni. Il tentativo è quello di stringere in una morsa i prigionieri politici, da una parte peggiorando le loro condizioni al limite della resistenza umana, dall’altra parte creare intorno a loro il deserto, criminalizzando tutti coloro i quali in qualche modo portano ai prigionieri politici la loro solidarietà e aiuti materiali: in primo luogo i familiari, vengono perseguitati e arrestati (alcuni di loro sono stati anche condannati ad anni di carcere con delle sentenze allucinanti), rei soltanto di essere stati vicini ai loro congiunti detenuti e di non averli rinnegati, poi gli avvocati, per le stesse ragioni e quei pochi gruppi di compagni che solidarizzavano. I "processi" di quegli anni, sia quelli contro i militanti o supposti tali arrestati, sia quelli contro familiari e avvocati ripercorrendoli oggi sono una chiara dimostrazione di quanto gli apparati dello stato (in questo caso la magistratura, poi vedremo le forze di polizia e tutti gli altri) in quegli anni, per cercare di sconfiggere la lotta armata, siano andati molto oltre il rispetto della legalità e del diritto.



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ISTITUZIONE DELL’ ARTICOLO 90
Decreto Ministeriale 22.12.1982

"Il Guardasigilli ritenuto che nelle sezioni a maggior indice di sicurezza, degli istituti penitenziari di Cuneo, Fossombrone, Trani, Palmi, Nuoro, Novara, Ascoli Piceno, Pianosa, Milano, Torino, Genova, Firenze, Roma-Rebibbia, Napoli, Messina (sezione femminile speciale) sono ristretti soggetti ad elevato indice di pericolosità in relazione alle imputazioni loro ascritte e alle condanne loro inflitte;
considerato pertanto che ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza .... decreta:
dal 1° gennaio 1983 e sino al 30 aprile 1983 è sospesa negli stabilimenti penitenziari di cui in premessa l’applicazione dei seguenti istituti e regole di trattamento:
- è sospeso il diritto dei detenuti di corrispondere con altre persone detenute, anche ove trattasi di congiunti. La corrispondenza indirizzata a persone non detenute o proveniente dall’esterno è sempre sottoposta a visto di controllo;
- è sospesa la partecipazione dei detenuti al controllo delle tabelle e della preparazione del vitto, alla gestione del servizio di biblioteca, alla organizzazione delle attività culturali, ricreative e sportive;
- è sospesa la corrispondenza telefonica dei detenuti con i propri familiari, conviventi e terzi;
- è sospeso il diritto dei detenuti a ricevere generi alimentari ed oggetti contenuti in pacchi -salvo quelli contenenti biancheria ed indumenti intimi- provenienti dall’esterno;
- è sospesa la possibilità in questi reparti di avere colloqui tra detenuti, familiari, conviventi e terzi fuori dei limiti e della durata stabilita nel 7° comma dell’art. 35 e nella prima parte del 9° comma dello stesso aarticolo (ossia non più di un’ora di colloquio ogni 15 giorni con i familiari stretti).

Roma, 22 dicembre 1982


Il 28 aprile 1983, due giorni prima che il decreto scadesse, il governo lo rinnova. Decreto Ministeriale 28.4.83

"... considerato che permangono tuttora i gravi ed eccezionali motivi di ordine e di sicurezza ... le disposizioni contenute nel summenzionato d.m. sono ulteriormente prorogate sino al 31 dicembre 1983"



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ISTITUZIONE DEI BRACCETTI DI MASSIMO ISOLAMENTO
(Braccetti della morte)
Decreto Ministeriale 22.12.82

Considerato che nelle case circondariali di Torino, Ariano Irpino e Foggia sono assegnati detenuti che hanno manifestato in ambiente carcerario un elevato indice di pericolosità per aver commesso gravi delitti contro la persona...
Ritenuto che per i succitati detenuti sono necessarie particolari attenzioni custodiali ...
Decreta: a decorrere dal 1° gennaio 1983 e sino al 30 aprile 1983 è sospesa nelle sezioni speciali dele case circondariali di Torino, Ariano Irpino e Foggia l’applicazione dei seguenti istituti e regole di trattamento ...

- è sospesa la possibilità per i detenuti di acquistare generi alimentari e di conforto, nonchè la partecipazione al controllo delle tabelle ed alla preparzione del vitto, alla gestione del servizio biblioteca, alla organizzazione delle attività culturali, ricreative e sportive;
- ai soggetti anzidetti è consentito di permanere all’aperto da soli per sei ore non consecutive a settimana;
- non potranno utilizzare le attrezzature di lavoro, di istruzione e di ricreazione, nonchè la biblioteca dell’istituto. E’ consentita la lettura, di un solo libro per volta, della biblioteca;
- non potranno avere colloqui telefonici, non potranno ricevere quotidiani, periodici, libri, non potranno avvalersi della televisione. E’ consentito un colloquio al mese con i familiari, nonchè l’acquisto di due quotidiani al giorno, un periodico a settimana e di un apparecchio radio senza modulazione di frequenza;
- non potranno ricevere oggetti contenuti in pacchi provenienti dall’esterno, con esclusione di biancheria e indumenti intimi.

Roma, 22 dicembre 1982


Anche questo provvedimento viene immancabilmente prorogato 2 giorni prima che scada:

Decreto Ministeriale 28.4.83

"Letto il d.m. 22 dic. 82 ... considerato che permangono tuttora i gravi ed eccezionali motivi di ordine e di sicurezza ... decreta: le disposizioni contenute nel d.m. 22 dicembre 82 sono ulteriormente prorogate sino al 31 dicembre 1983."



---->>> Come si vive in Art. 90

In concreto l’Art. 90 riduce drasticamente ai prigionieri i rapporti con l’esterno; i colloqui vengono svolti con i vetri divisori e sono della durata di un’ora ogni 15 giorni, nessun tipo di materiale, nè cibo, né altro può arrivare dall’esterno ad esclusione della biancheria intima; anche la socialità tra prigionieri viene ridotta pesantemente: dal divieto di corrispondenza epistolare tra detenuti alla riduzione di ogni socialità all’interno dello stesso carcere; in pratica significa stare chiusi in cella 23 ore su 24, avendo a disposizione pochissimo materiale anche per dedicarsi allo studio. E, ad ogni uscita dalla cella, si subiscono perquisizioni totali (spogliarello); l’aria o passeggio si riduce a fare quattro passi in un cortile di pochi metri quadrati circondato da gabbie di ferro e scambiare qualche parola con altri tre o quattro detenuti per circa un’ora.

Nei braccetti di lungo controllo (braccetti della morte) la situazione è ancora più pesante: le celle sono vuote di alcunchè e quell’ora d’aria giornaliera si è costretti a farla da soli. Non è consentito nemmeno avere del detersivo per cui si è costretti a pulire la gavetta con la mollica di pane.


Testimonianza:

"Appena arrivato sei costretto a spogliarti completamente ed a fare delle flessioni nudo; subito dopo ti chiama il direttore per dirti che puoi rimanere lì da un mese a tre anni, dipenderà dal tuo comportamento... poi vieni rinchiuso in una cella sprovvista di tutto, c’è solo un portalampada con la luce sempre accesa. Una doccia alla settimana e due ore d’aria alla settimana chiuso dentro una gabbia da solo...". Sono situazioni che il fisico umano e la sua psiche non sono in grado di reggere a lungo.

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LA TORTURA (1982)
by da tmcrew Sunday, Jan. 08, 2006 at 12:03 AM mail:

LA TORTURA (1982)...
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Il 1982 è caratterizzato da numerosi arresti di militanti dei gruppi armati ed anche di compagni/e che operano in aree della sinistra rivoluzionaria che gli inquirenti cercano di criminalizzare con l’accusa di essere "contigui" o "fiancheggiatori" della lotta armata. Una strategia per creare e diffondere un clima di terrore tra i compagni e indurli a prendere le distanze dalla lotta armata.
Gli arresti vengono compiuti im modo spettacolare con ampio uso della forza e mezzi militari; anche questo serve ad esplicitare il messaggio che "lo Stato è passato all’offensiva" e che non lascerà nulla di intentato per "battere il terrorismo". Perché il senso sia ancora più chiaro gli arrestati vengono un po’ strapazzati per aiutarli a denunciare i propri compagni ed a confessare.
Questi "strapazzamenti", da un certo periodo in poi, diventano vere e proprie torture. I casi sono così tanti e così ben distribuiti nel territorio nazionale che non si può pensare ad iniziative di singoli poliziotti o questure, come cercherà di far credere il governo quando non potrà più negare l’esistenza della tortura. Oltre le centinaia di denunce, fatte dai torturati, tutte ben circostanziate e corredate da testimonianze e segni sul corpo, ci sono stati perfino alcuni processi per tortura in cui sono stati condannati uomini della polizia di stato per aver praticato sevizie e torture. Dato il clima di quegli anni segnato da una massiccia "crociata contro il terrorismo" che pretendeva lo schieramento di tutti i settori dello stato (schieramento che a questo livello riusciva compatto) e della società (che invece non rispondeva per nulla compatta, ma spesso dimostrava fastidio), avere avuto dei magistrati che hanno condannato esponenti delle forze dell’ordine con l’accusa di tortura, è un chiaro indicatore dei numerosissimi casi di sevizie e torture che hanno caratterizzato quel periodo, le cui denunce quasi sempre trovavano magistrati compiacenti (o poco coraggiosi) pronti ad insabbiare tutto.

Alcune testimonianze di torture subite:
"... è stata malmenata, le sono state messe matite tra le mani e le sono state strette violentemente le mani per farla parlare; è stata portata in aperta campagna, attaccata ad un albero con le manette, spogliata nuda e colpita con getti d’acqua fredda.."

· "... incappucciato e legato, le mani dietro la schiena; picchiato in caserma; una pistola gli è stata puntata sulla tempia per due volte e per due volte è fatto scattare il grilletto per simulare l’uccisione; nella notte è stato preso e caricato su una macchina, portato in una casa fuori città, incappucciato, denudato, legato su un tavolo, costretto ad ingerire litri d’acqua salata... ha ricevuto quindi calci sui testicoli ..."

· .. Mi sono state praticate ripetutamente delle scariche elettriche ai genitali, al pene e in diversi punti del bacino... Mi sono state praticate ripetutamente bruciature simili a spegnimenti di sigarette... Mi sono state praticate ripetutamente percussioni alle piante dei piedi...

"... mi hanno introdotta in un pulmino, mi hanno comunicato di essere in uno stato di illegalità... mi hanno tolto gli indumenti lasciandomi a torso nudo ed hanno iniziato a darmi botte sui fianchi pugni allo stomaco e sulle cosce e tirarmi il seno e i capezzoli. ... La cosa che mi ha fatto impazzire di dolore è quando mi hanno iniettato in vagina e nell’ano delle sostanze calde accompagnate da calci in vagina...
· ... Il momento più doloroso è stato quando si sono accaniti sul capezzolo, stringendolo, stritolandomelo. Un dolore da impazzire ... nei giorni successivi buttava pus in continuazione..."

· "... percosso al volto, sul capo, la testa sbattuta al muro, percosso sulle gambe con bastoni, sulle ginocchia, sulle tibie, sulla pianta dei piedi. Pugni allo stomaco al ventre ... mentre gridavano che potevano anche uccidermi tanto eravamo in una situazione di illegalità. Legato braccia e gambe, con la testa penzoloni all’indietro è stato otturato il naso e versata acqua salata in bocca ..."

· " ... bendato, ammanettato con le mani dietro la schiena, caricato su un’autovettura ... infine introdotto in una cella illuminata artificialmente giorno e notte ... improvvisamente si udivano molti passi affrettati nel corridoio, una chiave veniva fatta girare rumorosamente nella toppa della serratura, improvvisamente si apriva lo spioncino e apparivano poliziotti incappucciati ... durante la notte si susseguono rumori violenti ... tutto ciò determinava un crollo psicologico e avendo trovato in cella un pezzo di vetro, tentava il suicidio tagliandosi le vene dei polsi ..."

· " ... messo in ginocchio, preso per i capelli e viene fatta roteare la testa per un tempo prolungato, picchiato con colpi rapidi e costanti alla nuca sempre nello stesso punto, vengo messo supino su un gradone, sulle manette strettissime pesa tutto il corpo e calci al basso ventre dall’alto in basso,... fatto roteare velocemente per un tempo prolungato con i pugni e calci..."



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In molti forse lo ignorano, ma quello che succede oggi nelle carceri irachene ai danni dei detenuti torturati e seviziati dall’occupante occidentale non si discosta molto da quello che successe in Italia nei primi mesi del 1982, quando nelle caserme e nelle stanze della polizia italiana venne messo in piedi e praticato un vero e proprio apparato di tortura inflitto ai brigatisti catturati in seguito al blitz che portò alla liberazione del generale James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate Rosse – Partito Comunista Combattente il 17 dicembre 1981 e liberato il 28 gennaio successivo dai reparti speciali dei Nocs guidati dal commissario Salvatore Genova.

A quell’evento è ricondotta da molti la fine delle Brigate Rosse e, con esse, dell’emergenza terroristica; gli arresti che vennero effettuati per tutto il mese di febbraio e oltre assestarono un colpo tremendo all’organizzazione tanto che ai superstiti del partito armato non rimase altro che dichiarare in quelle settimane l’inizio della cosiddetta “ritirata strategica”. Non solo; quegli arresti inaugurarono una serie ininterrotta di pentimenti tra le fila degli ex combattenti che determinò la morte dell’organizzazione anche da un punto di vista etico-morale: il patto solidaristico tra i compagni che era stato per la prima volta tradito da Patrizio Peci ma che aveva comunque retto negli anni successivi (nonostante qualche eccezione) ora si sfalda miseramente, provocando traumi ben superiori all’arresto della maggioranza dei militanti ancora in libertà.

Questi risultati vennero ottenuti dalle forze dell’ordine impegnate a garantire la sicurezza e la democrazia anche attraverso un utilizzo sistematico e reiterato dello strumento della tortura. Il quarto volume del Progetto memoria rompe il silenzio su uno degli episodi più oscuri della nostra storia recente, raccogliendo una cospicua mole di materiale relativo a quest’altro gigantesco rimosso e sollevando il coperchio su uno dei più protetti e tutelati tabù della lotta dello Stato al terrorismo. Lo fa raggruppano documenti di vario genere e di varia provenienza: dai verbali d’interrogatorio e dalle denunce presentate dalle vittime degli abusi (anche precedenti, sia chiaro, quel 1982,) ai referti medici che attestarono i danni fisici e psicologici subiti in seguito alle torture inflitte; dai (pochi) articoli di quotidiani e riviste che in quegli anni si occuparono del fenomeno, ai documenti di quelle organizzazioni sindacali di polizia che osarono rompere il patto di silenzio corporativo-cameratesco, sollevando il problema dei brutali metodi di repressione utilizzati dalle forze dell’ordine.

Le torture affiorate è un bel manuale degli orrori, per stomaci forti, in cui vengono narrati abusi sessuali a uomini e donne, finte fucilazioni, trattamenti a base di scariche elettriche nei genitali, tecniche di tortura dai nomi esotici ma non per questo rassicuranti (su tutte, la famosa “algerina”) e via di questo passo. Per chi poi, fedele al detto san tommasiano del “se non vedo non credo”, avesse anche un insopprimibile istinto voyeurisitico da soddisfare, ecco una piccola sezione fotografica che rende il tutto ancora più tremendamente realistico.

E a ben vedere di sottolineature realistiche ce n’è davvero bisogno, dal momento che ciascuno di noi, ne siamo certi, arrivato all’ultima di queste pagine si chiederà per prima cosa se quanto letto è davvero successo, se tutto è credibile, talmente assurdi ed estranei alla nostra cultura appaiono molti degli episodi narrati. Non si tratta, crediamo, di essere più o meno ingenui, più o meno realisti del re, più o meno disillusi e “scafati”; si tratta, più semplicemente, di prendere atto di un rimosso che impedisce alla collettività di conoscere certe cose e di apprenderne altre, nel timore che certe rivelazioni possano rovinare momenti di gaudio e giubilo generalizzato.

Dire che la sconfitta delle Brigate Rosse è maturata anche attraverso l’utilizzo di “metodologie investigative poco ortodosse” significa rovinare la festa; di conseguenza tutti, dai mass media ai garanti del vivere civile, hanno preferito fare finta di non vedere, per non complicare le cose, e per godersi in serenità la vittoria del bene sul male.


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Lotte e rivolte (1969-1977)
by da tmcrew Sunday, Jan. 08, 2006 at 12:09 AM mail:

Sono quegli anni in cui si passa anche in carcere dalla ribellione individuale alla lotta collettiva, dal ribellismo alla lotta con un carattere politico:
Le prime lotte in carcere a carattere di massa e unitarie si sviluppano a partire dall'aprile 1969, inizialmente con mobilitazioni a carattere pacifico: sit-in, resistenza passiva, scioperi della fame, ma assunsero presto forme più radicali sopratutto nei carceri giudiziari delle grandi città, dove i contatti con l'esterno furono più intensi e maggiormente si fece sentire lo stacco profondo e insanabile tra le vecchie forme di protesta del proletariato prigioniero e le nuove esigenze.

Ora le forme di lotta diventano le devastazioni di interi reparti dei carceri, la distruzione delle suppellettili. Le risposte del governo sono le fucilate: a Firenze nel febbraio '74 un morto e otto feriti, ad Alessandria tre mesi dopo i morti sono sette (di cui 5 ostaggi) e 14 i feriti.

E' un movimento che preocupa talmente il potere al punto che il governo emette la famosa e controversa "circolare Tanassi - Henke" che autorizza l'impiego dell'esercito per sedare le rivolte nelle prigioni.

Gli obiettivi dei detenuti sono quelli del miglioramento delle condizioni di vivibilità, del vitto, della remunerazione del lavoro, dell'aumento della socialità interna e verso l'esterno e dell’abolizione del letto di contenzione; cui si aggiungono le richieste di amnistia e condono (poi ottenuto nel ‘70) e per la riforma carceraria di cui si discuteva dal dopoguerra ma ancora senza esito.
Per dare pubblicità a questo movimento di lotta venivano usati i processi come cassa di risonanza del movimento di lotta: si disertavano le aule o si denunciavano durante l’udienza le condizioni di vita o gli obiettivi della lotta. La presenza, sempre più massiccia di compagni nelle carceri sviluppa il processo organizzativo e l’ampliamento di rapporti con l'esterno.

Le organizzazioni esterne che più si faranno carico di sostenere la lotta dei detenuti sono, in quegli anni, Lotta Continua (Commissione Carceri del 1970 e la rubrica "i dannati della terra" sul giornale omonimo dal 1971) e Soccorso Rosso; in seguito verranno coinvolte un po' tutte le organizzazioni rivoluzionarie e in particolare quelle che facevano riferimento all'area dell'"autonomia".

E' dalle lotte di Torino del ‘73 (alle carceri "Nuove" di Torino) che emerge il programma che sistematizza le parole d'ordine e i vari obiettivi emersi dalle lotte. Tutto il circuito carcerario prenderà a riferimento delle proprie lotte la "piattaforma di Torino". E’ una piattaforma rivendicativa, ma a largo spettro: spazia dal chiedere il miglioramento delle condizioni interne, il superamento del Codice fascista "Rocco", la libertà di voto, la fine della censura sui giornali e sulla corrispondenza, si parla di vivibilità e di sesso, di apertura del carcere all’esterno e di lavoro.

Sull’onda delle lotte, a metà degli anni 70, e dopo l’approvazione della "riforma", con un’intelligente utilizzazione degli spazi che essa offriva, pur esprimendo una valutazione complessiva molto negativa sulla legge, i detenuti riprendono con più vigore i progetti di evasione, molti dei quali portati a termine positivamente, anche grazie ai livelli organizzativi raggiunti:

- verso la fine del '75 evasione in massa da Regina Coeli, nell'agosto del '76 evasione armata dal carcere di Lecce, cui seguiranno quelle da Firenze, Treviso, Fossombrone, Benevento ecc..
Le prime organizzazioni interne al carcere sono il "collettivo G. Jackson" (ne abbiamo visto la nascita) e le "Pantere Rosse", quest’ultima nata nel carcere di Perugia con un’ipotesi che riconosce la pratica proletaria dell’extralegalità come il terreno su cui questo settore di classe esprime il proprio antagonismo al sistema capitalista; le Pantere Rosse si pongono da subito la prospettiva combattente. Da questi prime organizzazioni nasceranno, nel 1974, i NAP (nuclei armati proletari) all’interno dei quali confluiranno i militanti dei collettivi nati precedentemente più altri compagni/e provenienti dall’area della sinistra rivoluzionaria. La prima azione dei NAP è dell'ottobre 1974 con la diffusione di discorsi e messaggi d'appoggio alle lotte tramite altoparlanti piazzati davanti alle carceri di Milano, Roma e Napoli, altoparlanti che si autodistruggono esplodendo dopo la trasmissione. Tra l'altro in questi messaggi viene detto:

" Noi non abbiamo scelta: o ribellarsi e lottare o morire lentamente nelle carceri, nei ghetti, nei manicomi, dove ci costringe la società borghese, e nei modi che la sua violenza ci impone. Contro lo stato borghese, per il suo abbattimento, per la nostra autoliberazione di classe, per il nostro contributo al processo rivoluzionario del proletariato, per il comunismo, rivolta generale nelle carceri e lotta armata dei nuclei esterni".

Gli strumenti che la direzione delle carceri usa per contrastare il movimento di lotta sono molti, oltre alle solite punizioni, il trasfe-rimento rimane quello fondamentale per spezzare i livelli di aggregazione rag-giunti nei vari carceri, ma alla lunga questo strumento contribuisce a portare in giro l'esperienza realizzata nei punti più avanzati ed espande la conoscenza e la coscienza delle lotte.

VIENE VARATA UNA MISERA RIFORMA

Nel 75 con la legge n.354 del 26 luglio viene varata la "riforma penitenziaria" della quale si discuteva dal dopoguerra e non avrebbe visto la luce senza le lotte le rivolte di prigionieri, ma ancora una volta si manifesta la timidezza e l'arretratezza del ceto politico, la sua mancanza di cultura e di coraggio civile e la sua volontà di non voler sostanzialmente realizzare una rottura profonda con la logica fascista (regolamento penitenziario del 1931) che d’altronde richiama esplicitamente molto spesso; la gestione del carcere si muove nel senso trasgressione=uguale=punizione, senza prendere in considerazione le relazioni tra reato e struttura politica ed economica del contesto.
Così la "riforma" non riesce a realizzare il coinvolgimento del tessuto sociale attraverso la sensibilizzazione e l’apertura dell’istituzione carceraria al territorio e alla comunità esterna. Il carcere continuerà ad essere una "cosa" separata dalla realtà esterna, separata e ignorata: una sorta di contenitore dove si cerca di cacciare a forza -e tenere in silenzio- tutti i problemi e le contraddizioni di una società che non riesce ad interrogare se stessa. Nel momento che la legge viene varata è già vecchia e obsoleta sia negli strumenti eccessivamente discriminatori e fastidiosamente punitivi cui si ispira, sia negli inadeguati e vecchi (nel senso di reazionari) personaggi che sono chiamati ad applicarla: direttori di carcere, funzionari del Ministero di Grazia e Giustizia, magistrati, che la gestiscono in maniera restrittiva.
Una riforma di tal genere non soddisfa nemmeno un po' le esigenze dei detenuti che sono costretti a riprendere le lotte. La miseria intellettuale della classe dirigente, in questa come in altre occasione, è in realtà la più efficace propaganda a favore di chi da tempo sosteneva la tesi che era inutile sperare e attendere una riforma che desse un po' di respiro ai problemi dei carcerati e che era invece necessario organizzarsi autonomamente e lottare per conquistarsi la libertà e anche condizioni di vita dignitose.
Che questa legge di riforma sia ben misera cosa e sopratutto inadeguata, oltre che in contrasto perfino con la Costituzione in alcuni suoi passaggi, è un giudizio che allora espressero anche numerosi giuristi: quelli italiani lo dissero talmente sottovoce che non fu agevole ascoltarli e non se ne accorse nessuno; in altri paesi il giudizio fu molto duro al punto che in numerosi ambienti giuridici europei si disse che l'Italia si era definitivamente conquistata un posto nel "terzo mondo giuridico" (in seguito con l'uso della tortura, con i "processi di regime", con l'istituzione dei carceri speciali e con l'uso spregiudicato della carcerazione preventiva, dei mandati di cattura a "grappolo" l'Italia si collocò tranquillamente nel 4° o 5° mondo sul terreno della giustizia).

Comunque alcuni giuristi cominciarono a pensare da allora ad alcune correzioni della "riforma"; correzioni che non vedranno la luce prima del 1986 sempre a causa di quella timidezza e assenza di coraggio civile che caratterizza il ceto politico italiano (è la legge 10 ottobre 1986 n. 663 che va sotto il nome di "Legge Gozzini", che modifica gli aspetti più assurdi e reazionari della riforma del 75), ma anch’essa non raggiunge gli obiettivi che si era proposta: ignora ancora una volta il contesto sociale e offre troppo spazio all’interpretazione soggettiva.
E’ necessario a questo punto riportare, anche se schematicamente, il dibattito che in quegli anni si sviluppava sul problema del "carcere" tra la sinistra rivoluzionaria.
C’è da dire che dal ‘68 il problema del carcere e delle altre "istituzioni totali" (manicomi, istituti di correzione, carceri,) era al centro dell’attenzione dei compagni/e.
Si era analizzato a fondo lo sviluppo storico di questi strumenti terribilmente coercitivi usati dalle società moderne capitaliste per ridurre alla normalità ogni comportamento trasgressivo e non omologato. Si era tutti d’accordo -più o meno- nel portare una dura lotta contro le "istituzioni totali" nella prospettiva della loro abolizione.

Quello che invece non trovava tutti d’accordo era la valutazione sui soggetti sociali che frequentavano queste "istituzioni totali", in particolare il carcere, ossia il "proletariato detenuto" e quale rapporto politico instaurare con esso. Le posizioni erano diversi-ficate, ma oggi si possono riassumere in due blocchi:

- una che intendeva portare la lotta contro il carcere denunciano i soprusi, le violenze e l’illegalità dell’istituzione carceraria, rivendicando riforme e misure umanizzanti, aprendo il carcere all’esterno e consentendo ai detenuti di avere un rapporto e uno scambio il più vivace possibile con la società esterna; consentire al detenuto di essere un titolare di diritti e di "vivere" il suo periodo di detenzione, ovviamente da abbreviare, in modo tale che non venisse distrutta la propria personalità e la propria identità. L’attività di quest’area era di critica puntuale di ogni progetto di riforma a carattere moderato, si puntava invece su obiettivi molto alti sostenendo le lotte dei detenuti e propagandandole per far si che spezzoni di società sempre più numerosi entrassero in rapporto con il carcere e con i detenuti/e.

- l’altra posizione riconosceva sostanzialmente al "proletariato detenuto" nella sua pratica extralegale, comportamenti antagonisti al regime capitalista e comunque all’attuale stato di cose. Il carcere si riteneva essere lo strumento della borghesia per perpetrare il suo dominio di classe e quindi anche lì dentro può avvenire lo scontro per distruggere il dominio della borghesia imperialista. Gli obiettivi erano dunque di collegare le lotte interne al carcere con quelle esterne nella prospettiva di "portare fuori i proletari detenuti dalle galere"; di liberare tutti !

Entrambe le posizioni e questo lo si può affermare retrospettivamente- hanno contribuito a togliere al carcere quell’atmosfera di "oggetto lontano, sconosciuto e rimosso" che purtroppo oggi è tornata a rappresentarlo, anche tra quei settori della società che, per condizione materiale o per scelta ideale dovrebbe collocarsi molto vicino ai problemi di chi è costretto a vivere senza la propria libertà.

Detto fuori dai denti e senza mezzi termini crediamo che tutti i compagni e le compagne dell’area dei Centri Sociali Occupati Autogestiti e della sinistra antagonista dovrebbero avere nei confronti del carcere un interesse e una sensibilità maggiore di quella che dimostrano di avere; dovrebbero manifestare una gran voglia di conoscere le esperienze più significative che sono avvenute oltre quelle mura e che ancora ne portano i segni; dovrebbero sentire propria la lotta dei detenuti/e che, costretti in condizioni inimmaginabili per chi non ha mai varcato quel cancello, si battono per conquistare una dignità e una libertà che a loro è negata due volte. E’ una sensazione amara questa che esprimiamo, ma è accompagnata dalla speranza di essere smentiti immediatamente e sonoramente.

Col 1977 si ha l'istituzione dei Carceri Speciali; e anche un ingresso sempre più numeroso nelle carceri di compagni provenienti dal movimento e dalle organizzazioni combattenti; e la situazione cambierà ancora come vedremo sul prossimo dossier sui Carceri Speciali e sulla continuazione della lotta alla fine degli anni 70 e primi anni 80).

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Il supercarcere di Voghera
by *** Sunday, Jan. 08, 2006 at 12:28 AM mail:

9 Luglio 1983, Voghera

Manifestazione contro le carceri speciali indetta dal Coordinamento dei comitati contro la repressione. La dimostrazione, a cui aderirono tutte le sigle del movimento di quel periodo, dagli organismi autonomi nazionali, agli internazionalisti e agli anarchici, terminò con una vera e propria caccia all'uomo da parte della Polizia. La città era totalmente presidiata e per evitare un posto di blocco tre manifestanti (Valeria, Eleonora e Stafano) morirono travolti da un camion.
Così descrive la giornata un militante dell'Autonomia milanese: "...Per questo motivo il 9 Luglio 1983 la realtà ceh ha dato vita al convegno del Cristallo, con l'adesione dei Comitati contro la Repressione, indice una manifestazione a Voghera, dove era sorto il primo carcere speciale, contro l'articolo 90 e contro la differenziazione all'interno del carcere. Faceva un caldo bestiale. Molti manifestanti non erano stati fatti partire. Due o tre pullman bloccati a Pavia, molti vagoni ferroviari vennero deviati.
Chi riuscì a concentrarsi nella piazza principale di Voghera trovò ad aspettarli 5.000 poliziotti. Una cosa mai vista, neanche negli anni Settanta.
Hanno iniziato subito a caricarci. E' finita con 330 fermi. Hanno caricato per quattro ore, eravamo rincorsi in qualsiasi vicoletto. Hanno giocato molto sull'immagine. Hanno caricato con le autoblindo, avevano due carri armati leggeri su ruote. Hanno fatto intervenire i Nocs che incappucciati saltavano dalle autoblindo in velocità, facevano una capriola, ti prendevano alle spalle, ti sbattevano contro il muro, manette e via.
Malgrado le botte, quel corteo era riuscito a smollare la tensione che esisteva all'interno del carcere, aveva quindi ottenuto un piccolo risultato politico...".

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Un altro episodio emblematico è la battaglia per la chiusura del carcere di Voghera, battaglia portata avanti da diversi movimenti, incluso il movimento femminista, che hanno caratterizzato la lunga stagione di lotte che in Italia si è protratta dal '68 al '78. Il carcere di Voghera (cittadina del Nord Italia) nacque come carcere speciale esclusivamente femminile, dove furono sperimentate particolari tecniche di deprivazione sensoriale. Dentro il carcere non era consentito nessun tipo di attività, si era costrette a restare 24 ore chiuse in cella, in isolamento, non si potevano spedire o ricevere né lettere né pacchi, non si poteva usare un fornelletto in cella, non si potevano ricevere libri o riviste, che si potevano solo acquistare, le luci interne erano accese giorno e notte e i muri erano insonorizzati, i locali docce erano provvisti di telecamere. In seguito ad una battaglia per la chiusura del carcere (manifestazione nazionale a Voghera - luglio 1983) furono aboliti solo alcuni divieti e Voghera ebbe anche una sezione maschile; si estese quindi ai prigionieri ciò che era stato prima sperimentato con le prigioniere.

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Voghera - Massima Sicurezza - 1983

Le divise informi di stoffa ruvida con stampigliato sulla schiena "Trani - 1944" (ma eravamo belle lo stesso, bastardi, Dio se eravamo belle). E quando mettevano brutta musica a tutto volume sparata dagli altoparlanti in tutti i corridoi per impedirci di comunicare tra noi, noi cantavamo più forte, fino a gonfiare le vene del collo. E quando, al momento dell’arrivo, ci mettevano nude in fila e ci facevano fare sei flessioni e poi ci cacciavano a forza sotto le docce calde, per vedere se la vagina, rilassata dal calore, lasciava cadere esplosivi, messaggi cifrati, documenti politici, lettere d’amore clandestine, cacciavamo le lacrime in gola e cercavamo i nostri sguardi più sprezzanti e, perfino, qualche scintillio di ironia. E quando, rivestite delle divise naziste, e calze color militare che scendevano al polpaccio ad ogni passo e scarpe di cartone, incalzate dal fiato sul collo dello sbirro che dava il ritmo dell’apertura dell’infinita teoria dei cancelli blindati ripetendo "muoviti puttana". Sì, anche allora eravamo belle, bastardi, Dio se eravamo belle.




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Quando anche l’Italia degli Anni Settanta torturava
by di Filippo Ceccarelli Sunday, Jan. 08, 2006 at 5:05 PM mail:

La Stampa, 13 maggio 2004


Per battere l'eversione si superò ogni limite? La denuncia-ricordo in un libro di Curcio.

L’argomento è ancora molto doloroso, delicato. E non solo per il fatto, comprensibile, che chi subisce questo tipo di violenza prova poi una terribile difficoltà ad elaborare in pubblico il suo dramma. Ma anche perché, più in generale, «trattamenti» del genere vengono di solito rimossi molto rapidamente dal vissuto collettivo. Condivisa o meno che sia, la memoria tende infatti a sfuggire, disperdendosi nel buio indistinto della storia e delle sue verità più inconfessabili. E insomma: meno si parla di tortura e meglio è. Ma ecco che, in questi giorni, per forza, qualcosa di spaventoso riemerge. E non è poco, né è avvenuto troppo tempo fa, o troppo lontano. Per ben tre volte, nel febbraio, nel marzo e nel luglio del 1982 l’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni fu chiamato in Parlamento a rispondere su un dilemma assai lacerante, alla base della democrazia e dello stato di diritto: per battere il terrorismo lo Stato fece uso di tortura?

La questione - e la risposta affermativa - si trovano documentate in una ricerca di quasi 400 pagine che la casa editrice fondata da Renato Curcio, «Sensibili alle foglie» ha pubblicato nel 1998 nell’ambito del «Progetto Memoria» con il titolo: «Le torture affiorate». Vi si trova dentro quel che nessuno sapeva o ricorda più: testimonianze, perizie mediche, denunce, verbali d’interrogatorio, deposizione nei tribunali, sentenze, lettere ai parenti e agli avvocati, articoli sui giornali (Lietta Tornabuoni, sulla Stampa), interpellanze e dibattiti parlamentari. Il governo negò sempre, ma sempre un po’ alla democristiana, quindi lasciando credere che qualche tortura c’era stata.

Il libro dà conto di 32 casi, tra cui sette donne, riportati fra il 1975 e il 1982. C’è anche un corredo fotografico, a colori. E poiché i corpi nudi e maltrattati sono tutti uguali, a Padova come a Baghdad, le immagini del volto tumefatto del brigatista Cesare Di Lenardo, delle gambe tagliuzzate, delle mani bruciate, del pene e dei testicoli su cui i poliziotti hanno applicato degli elettrodi per scaricarvi con intensità graduale la corrente elettrica, ecco, anche queste immagini dicono il male eterno che c’è nell’uomo. E non occorre andarselo a cercare laggiù, nel carcere di Abu Ghraib.

Di Lenardo era dentro al sequestro del generale Dozier. Forse l’avrebbe potuto uccidere. Ma anche il sequestro, dopo tutto, è una forma di tortura. In guerra tutto è possibile. Fatto sta che per salvare Dozier cinque ufficiali di Ps praticarono una violenza, crudele e scientifica, che nessun giudice fu in condizione di poter assolvere. E infatti furono condannati, anche in appello. Poi parzialmente amnistiati. Uno di loro fu eletto alla Camera, con il psdi.

Ne «Le torture affiorate» il campionario di pratiche su corpi di semplici inquisiti - anche qui quasi sempre nudi, spesso incappucciati, non di rado legati al «tavolaccio» - fa davvero impressione: finte esecuzioni, manette strette all’inverosimile, spilli sotto le unghie, acqua intubata e pompata nello stomaco, dita delle mani storte, bruciature di sigarette qui e là, nervi del collo tirati, iniezioni di Pentotal, capezzoli strizzati, sale e aceto sulle ferite, fiamme sotto le piante dei piedi, secchiate di acqua gelida, peli pubici strappati, cordicelle a tirare i testicoli, giochi d’elettricità...

Anche lì si cercò in un primo momento di negare, poi si tirò in ballo la catena di comando. Dopo l’arresto di un giornalista, Piervittorio Buffa dell’Espresso, che con scrupolo e coraggio aveva segnalato il caso, venne fuori che le notizie gli erano arrivate dall’interno della Polizia. Anche il Siulp denunciò metodi che erano stati «incoraggiati dall’alto». Un capitano si assunse in seguito la responsabilità delle rivelazioni. Nacque un Comitato contro l’uso della tortura; intervenne Amnesty International; si pronunciò Magistratura democratica; ci fu anche un convegno, a Torino, su «Informazione e tortura». In Parlamento si mobilitarono i radicali, praticamente da soli. In aula prese la parola Sciascia: «Non si converge assolutamente con il terrorismo - disse - quando si agita il problema della tortura».

Quando l’Italia torturava, era in fondo un paese un po’ uguale e un po’ diverso da come è oggi. Solo il dolore è sempre lo stesso, e il corpo che lo patisce, povero involucro di carne senza difese contro l’uomo che non è più uomo.

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Quando anche l’Italia degli Anni Settanta torturava
by di Filippo Ceccarelli Sunday, Jan. 08, 2006 at 5:07 PM mail:

La Stampa, 13 maggio 2004


Per battere l'eversione si superò ogni limite? La denuncia-ricordo in un libro di Curcio.

L’argomento è ancora molto doloroso, delicato. E non solo per il fatto, comprensibile, che chi subisce questo tipo di violenza prova poi una terribile difficoltà ad elaborare in pubblico il suo dramma. Ma anche perché, più in generale, «trattamenti» del genere vengono di solito rimossi molto rapidamente dal vissuto collettivo. Condivisa o meno che sia, la memoria tende infatti a sfuggire, disperdendosi nel buio indistinto della storia e delle sue verità più inconfessabili. E insomma: meno si parla di tortura e meglio è. Ma ecco che, in questi giorni, per forza, qualcosa di spaventoso riemerge. E non è poco, né è avvenuto troppo tempo fa, o troppo lontano. Per ben tre volte, nel febbraio, nel marzo e nel luglio del 1982 l’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni fu chiamato in Parlamento a rispondere su un dilemma assai lacerante, alla base della democrazia e dello stato di diritto: per battere il terrorismo lo Stato fece uso di tortura?

La questione - e la risposta affermativa - si trovano documentate in una ricerca di quasi 400 pagine che la casa editrice fondata da Renato Curcio, «Sensibili alle foglie» ha pubblicato nel 1998 nell’ambito del «Progetto Memoria» con il titolo: «Le torture affiorate». Vi si trova dentro quel che nessuno sapeva o ricorda più: testimonianze, perizie mediche, denunce, verbali d’interrogatorio, deposizione nei tribunali, sentenze, lettere ai parenti e agli avvocati, articoli sui giornali (Lietta Tornabuoni, sulla Stampa), interpellanze e dibattiti parlamentari. Il governo negò sempre, ma sempre un po’ alla democristiana, quindi lasciando credere che qualche tortura c’era stata.

Il libro dà conto di 32 casi, tra cui sette donne, riportati fra il 1975 e il 1982. C’è anche un corredo fotografico, a colori. E poiché i corpi nudi e maltrattati sono tutti uguali, a Padova come a Baghdad, le immagini del volto tumefatto del brigatista Cesare Di Lenardo, delle gambe tagliuzzate, delle mani bruciate, del pene e dei testicoli su cui i poliziotti hanno applicato degli elettrodi per scaricarvi con intensità graduale la corrente elettrica, ecco, anche queste immagini dicono il male eterno che c’è nell’uomo. E non occorre andarselo a cercare laggiù, nel carcere di Abu Ghraib.

Di Lenardo era dentro al sequestro del generale Dozier. Forse l’avrebbe potuto uccidere. Ma anche il sequestro, dopo tutto, è una forma di tortura. In guerra tutto è possibile. Fatto sta che per salvare Dozier cinque ufficiali di Ps praticarono una violenza, crudele e scientifica, che nessun giudice fu in condizione di poter assolvere. E infatti furono condannati, anche in appello. Poi parzialmente amnistiati. Uno di loro fu eletto alla Camera, con il psdi.

Ne «Le torture affiorate» il campionario di pratiche su corpi di semplici inquisiti - anche qui quasi sempre nudi, spesso incappucciati, non di rado legati al «tavolaccio» - fa davvero impressione: finte esecuzioni, manette strette all’inverosimile, spilli sotto le unghie, acqua intubata e pompata nello stomaco, dita delle mani storte, bruciature di sigarette qui e là, nervi del collo tirati, iniezioni di Pentotal, capezzoli strizzati, sale e aceto sulle ferite, fiamme sotto le piante dei piedi, secchiate di acqua gelida, peli pubici strappati, cordicelle a tirare i testicoli, giochi d’elettricità...

Anche lì si cercò in un primo momento di negare, poi si tirò in ballo la catena di comando. Dopo l’arresto di un giornalista, Piervittorio Buffa dell’Espresso, che con scrupolo e coraggio aveva segnalato il caso, venne fuori che le notizie gli erano arrivate dall’interno della Polizia. Anche il Siulp denunciò metodi che erano stati «incoraggiati dall’alto». Un capitano si assunse in seguito la responsabilità delle rivelazioni. Nacque un Comitato contro l’uso della tortura; intervenne Amnesty International; si pronunciò Magistratura democratica; ci fu anche un convegno, a Torino, su «Informazione e tortura». In Parlamento si mobilitarono i radicali, praticamente da soli. In aula prese la parola Sciascia: «Non si converge assolutamente con il terrorismo - disse - quando si agita il problema della tortura».

Quando l’Italia torturava, era in fondo un paese un po’ uguale e un po’ diverso da come è oggi. Solo il dolore è sempre lo stesso, e il corpo che lo patisce, povero involucro di carne senza difese contro l’uomo che non è più uomo.

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Ergastolo - Un «j'accuse» dalla prigione senza tempo
by keoma Tuesday, May. 16, 2006 at 6:03 PM mail:

Ergastolo - Un «j'accuse» dalla prigione senza tempo

Annino Mele, ex bandito ed ex militante della lotta armata, sconta la pena a vita al «Bassone»: nel suo libro «Mai» c'è una disamina spietata del regime carcerario italiano



La Provincia di Como



Mai. Un avverbio (quello che indica la mancanza di un "fine pena" per gli ergastolani) è il titolo secco del libro di Annino Mele, ex bandito sardo ed ex militante dell'organizzazione "Barbagia Rossa" detenuto al carcere del Bassone di Como. Il volume, dalla copertina scarlatta come il Libretto Rosso di Mao, è edito da «Sensibili alle foglie», l'associazione fondata da Renato Curcio, ex capo storico delle Br. Mele, noto per un'intensa attività pubblicistica che svolge dall'interno del carcere, è stato condannato all'ergastolo per un duplice omicidio (al quale si è sempre dichiarato estraneo) e per la partecipazione ad alcuni sequestri di persona. Elemento di spicco della malavita isolana, Mele, nato a Mamoiada nel 1951, ha una storia criminale piuttosto singolare, posta alla confluenza tra il banditismo sardo e l'insurrezionalismo (come si direbbe oggi) con matrice politica di sinistra. Il suo libro, fin dal suo titolo, secco e ficcante, Mai, è un dichiarato atto di accusa all'istituzione della pena a vita, vista come "pena eliminativa", come morte dilazionata del reo, come emblema massimo del processo di "mostrificazione sociale" del condannato. In questo senso, l'autore ha ragione nell'indicare che l'ergastolo è una sorta di pena di morte "addomesticata", nel senso che espunge dal diritto il rito macabro e cruento del sacrificio espiatorio. Salvo non eliminare la sostanza materiale e simbolica della punizione dotata del massimo significato e contenuto retributivo: se nel caso della pena di morte, lo Stato toglie la vita, in quello della detenzione a vita, esso se la prende. Cioè, diventa "padrone" dell'esistenza del condannato, nel senso che può disporre di tutti i suoi giorni fino all'ora del trapasso.

Se l'ergastolo, quindi, nega in sé la finalità rieducativa della pena, perché il condannato non è di fatto redimibile essendogli precluso il reinserimento nella società, esso rappresenta al massimo grado il valore retributivo della pena stessa. Tale sanzione è infine dotata di una intrinseca forza dissuasiva, di una deterrenza, che gioca un ruolo non trascurabile nella sopravvivenza di una società e nella difesa interna delle sue regole.

Tutto ciò ci pare possa configurare l'oggetto di una possibile discussione sulla congruità e sulla sostenibilità della pena dell'ergastolo, in relazione allo stadio evolutivo di una determinata civiltà giuridica; ma essa non può essere affrontata in modo esauriente in questa sede. Anche perché il tema vero del libro di Annino Mele non ci è sembrato tanto quello della contestazione aperta della massima pena, e dei suoi rigori. Ci mancherebbe che ci si potesse aspettare altro da un ergastolano che affronta ogni giorno una privazione così dura, da apparire spietata; quella non tanto e non solo della libertà, quanto del futuro. No, l'obiettivo polemico reale del j'accuse, è il carcere, visto come istituzione totale che nega ogni brandello di dignità umana al detenuto. In questo senso, Mele è efficace nel rappresentare la reale condizione del carcerato, oggi, in Italia. I penitenziari sono, nella migliore delle ipotesi, dei contenitori di disperazione umana, tenuti in piedi da un burocratismo indisponente quanto sottilmente perfido: dove un direttore di carcere sequestra forme di pane carasau temendo forse che possano contenere la lima per il galeotto. Al vertice di questo burocratismo si colloca il rito della "domandina" che il carcerato ligio deve compilare per ottenere ciò che magari gli spetta di diritto. Perché, come dicevano una volta i forcaioli da bar per esecrare lo spreco di risorse che lo Stato compie per "tenere in vita" i carcerati, sarà pur vero che (forse) i detenuti hanno la tv in cella (oggi il computer): ma il trattamento non è esattamente alberghiero, come racconta Mele, al quale fu assegnata, al Bassone di Como, una cella sudicia di vomito, di feci e di sangue, occupata fino al giorno prima da un malato mentale. La situazione carceraria è talmente grave da rendere verosimili le accuse (non documentate) che Annino Mele riporta nel libro, per abbattere quel po' di legittimazione sociale che mantengono oggi gli istituti di pena. La droga nei penitenziari? Cercatela nelle tasche degli agenti di custodia, sono loro a portarla dentro le fatidiche mura. E ancora: il carcere del Bassone è stato costruito su cumuli di materiale contaminato proveniente da Seveso. Possibile che sotto la casa circondariale ci sia la diossina? Qualcuno è in grado di affermare con prove certe che si tratti di una leggenda metropolitana di dubbio gusto? L'ex bandito sardo compie una disamina spietata di questo «regime di iniquità istituzionalizzata» che è il sistema carcerario italiano. Lo fa con parole efficaci, anche se un po' caricate ideologicamente. Ma resta il fatto che le nostre carceri sono una pentola maleodorante il cui coperchio nessuno pare voglia sollevare. Non si tratta di essere garantisti a oltranza, e infatti noi, per essere chiari, non siamo favorevoli né all'abolizione dell'ergastolo, né a quella delle carceri. Ma una sana riforma, di stampo settecentesco, sarebbe assai salutare. Aiuterebbe i custodi della legge e dell'ordine a rendere più presentabili e razionali le istituzioni della repressione, e ci eviterebbe l'imbarazzo di dover ascoltare requisitorie dagli ospiti delle patrie galere. Roberto Festorazzi Annino Mele, «Mai. L'ergastolo nella vita quotidiana», Sensibili alle foglie, 112 pagine, 12 euro








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NEL RECINTO CHIUSO
by Vincenzo Andraous Tuesday, May. 16, 2006 at 6:07 PM mail:




Ancora minori protagonisti di accadimenti delinquenziali.

Giovani, tutti dentro il recinto chiuso delle emozioni, arena eretta a olimpo ove schierare limiti e frustrazioni, mancanze e assenze irrappresentabili.

Giovanissimi con lo zainetto a spalla e le cerniere calate in basso, pronti a riempire il fondo di avventure disperanti, di sfide impari all’impazienza.

Studenti di oggi e professionisti di domani, ognuno con il proprio libro aperto sul letto, dimenticato alla pagina relegata a misera giustificazione di stanchezza.

Famiglia, scuola, oratorio, agenzie educative sconfitte dai messaggi mediatici, dalle estetiche dirompenti, dalle tasche vuote da riempire di denaro e piacevoli rese.

Diluizione energetica è termine scientifico, per addetti ai lavori, insomma, per pochi intimi, eppure dovrebbe diventare dinamica di tutti i giorni, pratica quotidiana, affinché il più difficile dei ragazzi, entri in possesso della chiave di accesso, all’agire con il proprio cuore e l’altrui misura.

Aiutare a portare fuori le parole, aiutare chi trasgredisce o infrange la norma condivisa, a dialogare con il proprio fuoco-compagno di viaggio, stavolta pancia a terra.

Aiutare il minore significa rimanere in ascolto, silenzio non verbale, per poi farne traccia di un percorso di risalita, di risposte comprensibili e sensibili, quindi non solo accudenti, ma promotrici di un’attenzione forte a responsabilizzare il nostro ruolo di genitori e conduttori.

Nel branco che colpisce, il bullo vince e impara a non fare prigionieri, la violenza è lo strumento di riordino delle idee piegate di lato, una sorta di potere rincorso per arginare chi deride, peggio, opprime con l’indifferenza.

Ragazzi difficili ai quali consegnamo l’idolatria dell’immagine, grimaldello per ogni difficoltà che si presenti a sbarrare il passo.

Piccoli delinquenti crescono intorno, nonostante i nostri sforzi, i consigli per gli “ acquisti “ chiaramente disinteressati, soprattutto indicanti una cultura dei bicipiti bulimici.

Pugni nello stomaco al più debole, violenza sulla ragazzina meno arrendevole, ancora disvalori del libero mercato, la vita è afferrata come uno scherzo, perché non c’è nulla di buono da aspettarsi dalle proprie capacità.

Minori a rischio tra trasgressione e devianza, nel mondo degli adulti che perde contatto con la pazienza della speranza, non scommette più sul potenziale dei propri figli, non ne supporta più la crescita, come a voler sottolineare che non tutte le persone sono preziose.

Forse occorrerebbe imitare lo stile educativo di don Franco Tassone della Comunità Casa del Giovane di Pavia, il quale come un buon padre, pone domande ai suoi giovani ospiti, piuttosto che impartire ordini disimpegnanti, ciò per apprendere il valore di una strategia che parta dal rispetto per se stessi, per giungere alla considerazione e alla fiducia dell’altro.

Ai giovani di oggi bisogna credere, e non soltanto per puro interesse collettivo, ma perchè se ci si sente accettati, coinvolti a dare il meglio di sè, non si ha necessità di attirare l’attenzione con gesti eclatanti, destinati alla follia più lucida.



Di : Vincenzo Andraous

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[carcere] Testimonianze da Sulmona e Avezzano
by asdel Tuesday, Oct. 10, 2006 at 4:22 PM mail:

http://italy.indymedia.org/news/2006/10/1162255.php

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