All Reds Rugby su 15 ottobre

Gli All Reds Rugby Roma sono una squadra di rugby che promuove lo sport popolare come momento di aggregazione fondato sull’antifascismo, antirazzismo e sull’antisessismo rappresentando uno dei laboratori con maggior seguito del L.O.A. ACROBAX. Nati ormai 7 anni fa, ci sentiamo di poter definire la nostra esperienza una realtà sportiva consolidata. La squadra maschile partecipa per il sesto anno consecutivo al campionato nazionale di serie C mentre quella femminile è alla quarta partecipazione alla coppa Italia di rugby a 7 di cui ha disputato le ultime 2 edizioni delle finali nazionali. E non possiamo certo non sottolineare come gli sforzi di tutte e tutti abbiano permesso di adeguare le strutture dell’ Ex Cinodromo, le stesse definite un covo di brigatisti, sino a raggiungere un risultato per noi straordinario: l’ omologazione del campo da parte della Federazione Italiana Rugby.

Il 15 Ottobre chi tra noi era in piazza a Roma a manifestare, lo ha fatto insieme a centinaia di migliaia di persone, precari e precarie, disoccupati, migranti e studenti. Lo ha fatto contro una politica di austerity imposta alle nostre vite proprio da chi questa crisi ha contribuito a crearla.

Per questo vogliamo prendere parola in merito alla vergognosa gogna mediatica a cui è stato esposto tutto il Laboratorio Acrobax e quindi anche noi All Reds: respingiamo con tutta la forza possibile le accuse riportate dai giornali e dal ministro dell’interno Maroni, accuse di regia occulta
dei fatti del 15 ottobre, mosse con l’unico intento di screditare un luogo importante per l’ autorganizzazione della nostra città. Autorganizzazione praticata attraverso i suoi laboratori e le sue iniziative politiche per il diritto alla casa, per la lotta contro le morti sul lavoro, contro la precarietà e per la diffusione di un modello di sport inclusivo, lontano dalle logiche del profitto e capace di muovere una vera integrazione sociale.
Proprio per questo, ad accuse così assurde rispondiamo con attivazioni costruite dal basso, sempre pubbliche, alla luce del sole .

A tutti quelli che ci hanno dipinto come il mostro da sbattere in prima pagina, e come sempre a tutto il quartiere, l’invito è di partecipare a questa partita per noi vitale e di sostenere gli All Reds già dalla prossima domenica quando sul campo dell’ex cinodromo di Roma si disputerà la III GIORNATA DEL CAMPIONATO DI SERIE C: ALLREDS-CORSARI

Vi aspettiamo il 23 OTTOBRE ALLE ORE 15.30 in VIA DELLA VASCA NAVALE 6.

Caro Maroni, ci vediamo nella mischia… se te regge!

Il coordinamento cittadino di lotta x la casa sul 15Ottobre

Sabato 15 ottobre eravamo in piazza.

 Sabato 15 ottobre eravamo in piazza. Ci capita spesso, abituati/e come siamo a contendere metro dopo metro la città agli speculatori e a chi ne difende gli interessi. Eravamo in piazza con la nostra solita composizione: uomini e donne da tutto il mondo che hanno scelto la via dell’auto-organizzazione e della lotta per non soccombere alla schiavitù degli affitti o del mutuo.

 

Non eravamo soli. Insieme a noi centinaia di migliaia di persone, a Roma come nel resto del mondo manifestavano contro le politiche di austerity imposte con la forza dalle istituzioni finanziarie mondiali per far pagare a sfruttati e sfruttate i debiti con cui i finanzieri si sono arricchiti.

 

In tutte le sedi possibili, prima del 15, abbiamo evidenziato che la rabbia sociale contenuta in una giornata del genere non avrebbe potuto essere circoscritta nel ristretto spazio che una serie di organizzazioni più o meno rappresentative le avevano riservato: una passeggiata lontano dai palazzi del potere con comizi finali, che in alcuni casi prefiguravano una candidatura a succedere a Berlusconi nell’ordinaria amministrazione della crisi.

 

I fatti ci hanno dato ragione. Non ci interessa la cronaca. Ci basta rilevare che l’andamento di quella giornata ha travolto gli argini di qualunque rappresentanza, comprese quelle “di movimento”.  

Il variegato mondo di soggetti sociali colpiti dalla crisi ha dimostrato di essere irrappresentabile. Resta aperto il problema di come possa auto-organizzarsi ed estendere il conflitto dalle grandi piazze alla quotidianità delle contraddizioni sociali: territori, reddito, lavoro e beni comuni.

 

Siamo abituati/e anche, di tanto in tanto, ad essere sbattuti come mostri in prima pagina dai mass-media dei padroni di centro-destra o di centro-sinistra, secondo le circostanze. Per questo esprimiamo la nostra assoluta vicinanza a tutti quei compagnie e quelle compagne a cui la forsennata campagna stampa in atto attribuisce la “regia occulta” degli scontri. In primis compagni e compagne del LOA Acrobax, che da anni, a volto scoperto e alla luce del sole, sono parte integrante del nostro movimento e nelle nostre occupazioni, nei nostri picchetti, nelle nostre tendopoli si battono per conquistare il diritto ad una abitazione dignitosa, in una città vivibile per tutti e per tutte.

 

Quello a cui non siamo abituati né abituate è ad assistere ad una vergognosa campagna di invito alla delazione di massa che vede in prima fila quegli esponenti del centro-sinistra che, ahinoi, alcuni pezzi di movimento anelano a vedere alla guida del paese. Costoro gareggiano con Maroni nel chiedere arresti in massa e leggi speciali. Inevitabilmente questo costituisce uno spartiacque: da una parte chi ci vuole in galera, dall’altra chi vuole aiutare lo sviluppo di un movimento di massa di opposizione sociale, in grado, finalmente, di invertire i rapporti di forza nella nostra società, mettendo in pratica, mediante la lotta, l’auto-organizzazione e la riapproprazione le parole d’ordine contro il debito, per il reddito e per i beni comuni.

 

Solidarietà a chi ha avuto la casa perquisita.

Solidarietà a compagni e compagne arrestati/e.

Libertà subito per tutti e tutte.

 Coordinamento cittadino di lotta x la casa – Roma

 

Comunicato Retelettere RomaTre sul 15 ottobre

Nessuna criminalizzazione delle lotte sociali.

All’indomani della grande manifestazione del 15 ottobre e dell’operazione di isolamento e stigmatizzazione di poche e riconoscibili sue parti messa in atto da giornali, segretari di partito, sindacati e alcune strutture di movimento, Retelettere si esprime rifiutando:

– il registro dicotomico tra violenti/non violenti, buoni/cattivi, responsabili/irresponsabili su cui fa leva la colpevolizzazione di precise soggettività politiche: tra questi il centro sociale Acrobax con il quale abbiamo preso parte all’ area indipendente del corteo del 15, abbiamo interagito nella partecipazione agli stati generali della precarietà e ancora prima intessuto preziosi legami di riflessione e collaborazione durante l’occupazione della nostra facoltà e, nel tempo, nella preparazione di seminari autogestiti ed assemblee pubbliche. O il movimento No Tav, che abbiamo conosciuto direttamente, campeggiando in val di Susa, e del quale sosteniamo la lotta dal basso in difesa del territorio e l’autonomia delle forme di organizzazione. Infine, non da ultime, tutte quelle realtà sociali che agiscono conflitto e vengono in questi giorni ridotte a capro espiatorio.

– l’attribuzione di una presunta regia degli scontri agli stessi pezzi di movimento, cosi come l’accusa di aver voluto sovra determinare la gestione di piazza per spezzare il corteo e far saltare piazza San Giovanni.

Ci pare semplicistico e superficiale individuare come responsabili dell’esito della giornata quanti hanno, a viso aperto, dichiarato di non condividere la scelta di piazza San Giovanni e alcune caratterizzazioni della giornata mondiale indetta contro l’austerity.

Il dibattito sulle pratiche di conflitto nel Movimento, sulla presunta democraticità di scelte, azioni e obiettivi ha senso se e solo se si assumono le specificità di tutte le parti in gioco. Assumere: che è il contrario di escludere. Additare, isolare, o limitarsi a prendere astutamente le distanze non favorisce una riflessione comune.

Retelettere sottolinea l’urgenza di partire da quello che è accaduto in Piazza San Giovanni, assediata dai blindati delle forze dell’ordine e dal loro armamentario di idranti. La violenza scatenata contro i manifestanti accorsi o brutalmente gettati in quello spazio, e costretti a difendersi, non può passare in secondo piano.

Alle forme di violenza legittimata e messa in atto dallo Stato il 15 seguono le proposte e le disposizioni di questi giorni: dal ripristino della legge Reale avanzata da un capo di partito, al divieto di manifestare per un mese nel Comune di Roma fino alle misure da stato di eccezione del ministro Maroni: l’arresto preventivo o l’obbligo di garanzie patrimoniali per eventuali danni.

Rifiutando di prestarci al gioco di quanti distinguono tra buoni e cattivi subordinando i fatti di piazza San Giovanni, che per noi sono una resistenza di migliaia di persone alle cariche della polizia, rivendichiamo come unica divisione possibile quella tra chi è impegnato da anni nelle lotte sociali reali e chi, da sempre, le reprime per difendere questo sistema di sfruttamento che prende il nome di capitalismo.

Retelettere – lettere e filosofia Roma Tre

La forma corteo è finita, ce ne vuole un’altra | da il Manifesto

di Girolamo de Michele | il Manifesto

22 ottobre 2011


Provo a buttar giù alcune note, nella condizione di parziale autocensura cui si è costretti per solidarietà, o come riflesso delle altrui ipocrisie: un dispositivo di assoggettamento che pesa tanto quanto la “delazione partecipata”, e forse più. La prima è sulla sbalorditiva prima pagina del manifesto del 16/10: titolo, editoriale e foto. Che dicono qual è lo scenario di scontro generalizzato e incontrollato che ci aspetta se la lettera della Bce dovesse trovare ascolto in Italia. La «lettera alla Bce» spedita il 15/10 pone due domande: sul corteo – perché chi contesta la dittatura della finanza accetta di esprimersi all’interno dei vincoli del sistema che contesta?; e sugli scontri – è davvero negli interessi del movimento questa modalità di contestazione? Sulla gestione del corteo ha pesato il tentativo di egemonia esercitato da Uniti per l’Alternativa, che ha cercato di sovradeterminare un movimento ancora nascente senza averne la capacità organizzativa e programmatica. L’egemonia è un progetto politico che assorbe e incanala le potenzialità plurali. A fronte della radicalità della crisi, quali risposte, quali parole d’ordine erano proposte? L’indignazione di massa l’ha auspicata a Matrix Paolo Bonolis. La dittatura della finanza che uccide i diritti la denuncia Cirino Pomicino. No alla Bce, a Draghi, a Trichet lo stanno dicendo i duri del liberismo governativo, da Martino a Straquadanio. Davanti all’assenza percepita di futuro non basta dire «No Bce», se non si assume in concreto la proposta di praticare il diritto all’insolvenza da parte di uno Stato o un ente locale. Se questa proposta viene taciuta per giochi di mediazione politica, resta solo l’illusione che lo strapotere della finanza si combatta spaccando i vetri della Goldman Sachs. Non si evocano i simboli invano, e non si trasformano le cose in simboli, perché i simboli hanno il malvezzo di prender vita autonoma – e chi fa ricerca filosofica dovrebbe saperlo. Hic Rodhus, hic salta.
Sugli scontri: a cosa fanno segno? Il 14 dicembre scorso ci ha mostrato la novità dal “pischello riottoso”, soggetto del tutto nuovo, sfuggente, irrappresentabile: rieccolo, sotto altre forme. Qualunque forma organizzativa abbia assunto, questo pischello parla di una rabbia, di una violenza, di una criticità (nel senso letterale del termine: del punto prossimo di deflagrazione) diffusa, che è destinata ad aumentare. Eccede un movimento che non coincide con la somma delle sue componenti organizzate. Si manifesta in forme politiche di mera reattività, resistenziali? È passibile di “delirio soggettivistico”? Vero. Ma è il sintomo di una malattia, e il movimento (scrive Bifo) non è un prete né un giudice: è un medico che non giudica la malattia, la cura. Decidere che la malattia non esiste decretandola “estranea” o “fascista” è facile. Che sia anche utile, è tutto da dimostrare. Utile sarebbe invece domandarsi, come fanno i Wu Ming, perché a questa generazione non abbiamo saputo diffondere una visione più articolata e strategica dello scontro sociale. Per parte di questi ragazzi la lotta è solo scontro. Il conflitto è vissuto con modalità da stadio (e qui bisognerebbe riprendere le ricerche di Valerio Marchi sul mondo ultras): quindi lotta fisica, tattica, armamenti, velocità, mordi-e-fuggi. Se porti a casa la pelle hai vinto: fine della storia. È il problema di un filo tra generazioni che si è interrotto, e ha interrotto la trasmissione dei saperi parziali, di classe: delle pratiche di lotta, in una parola. Non basterà il lavoro di una generazione a ricucirlo, questo filo: ma è necessario cominciare.
Come? In primo luogo, sarebbe bene chiudere con i Grandi Eventi Epocali e con i “palazzi del potere” come obiettivo finale: che i movimenti vengano liberati dalla necessità di “andare a Roma” e di assoggettarsi a pratiche e mediazioni i cui esiti sono noti in partenza. E ragionare sull’esaurimento della forma-corteo. Serve un’autocritica radicale, da parte di tutti: che le organizzazioni politiche si mettano al servizio – nei termini di agenzie di servizio ed elaborazione – dei movimenti, delle piazze davvero plurali nei tempi, nei luoghi e nei modi. Che la malmasticata nozione di egemonia non sia più declinata in termini di sovradeterminazione delle pratiche altrui. Ci sono ampi spazi politici che si aprono tra la politica delle mediazioni e il culto del riot: bisogna agirvi dentro, prima che queste praterie si trasformino in deserti. Perché quando il deserto crescerà, servirà a poco maledire chi favorisce i deserti. È prossima l’edizione italiana della serie Game of Thrones, tratta della saga di G.R.R. Martin: suggerirei di studiarne le dinamiche che portano i soggetti alla catastrofe senza rendersene conto. Come dicono laggiù, a Winterfell: Winter in coming.

Comunicato attivisti indipendenti di Bari sul 15 ottobre

Abbiamo preferito attendere, lo abbiamo fatto per riprendere fiato, per
ponderare bene tutte le parole e per rimettere insieme questo puzzle complesso generato da questo 15 ottobre. E soprattutto  perché mai come
adesso ci pare essere investiti collettivamente da un processo storico: la
giornata del 15 a Roma ci ha scaraventato  in una fase nuova, inesplorata,
entusiasmante ma anche difficile ed articolata.

Questo testo non sarà un punto di vista sui fatti del 15, non vuole essere
un’analisi politica o sociologica sui fatti di Roma; questo testo non sarà una
delle mille cose che si stanno scrivendo per dire la propria in un dibattito
che mai come oggi ci pare parziale, a volte sconcertante, fino a scivolare
spesso nel grottesco.

Questo testo è solo una lettera, una lettera con diversi destinatari.

I primi destinatari sono le arrestate e gli arrestati, le/i perquisite/i, i
“mostri sbattuti in prima pagina”. L’oggetto della delazione diffusa, di un
volgare scherno di massa. A loro innanzitutto va’ la nostra solidarietà. Una
solidarietà umana, vera, incondizionata perché il movimento non può e non
deve  imbastire processi. Una solidarietà per quello che stanno subendo nella
disperazione della solitudine di un deserto politico confezionato ad arte.

Perché si sentano meno soli. Perché non abbiano paura. Perché sappiano che la
loro rabbia è la nostra rabbia, la loro indignazione è la nostra indignazione.
Perché sappiano che presto reincroceremo le nostre strade. Che ci riprenderemo
quello che ci hanno tolto.

I secondi destinatari sono le compagne e i compagni dello spezzone dello
Sciopero Precario e di tutte quelle realtà sociali che oggi vengono additate, da giornalisti faziosi e funzionali ad un pericoloso schema repressivo, come “covi di brigatisti” o “occulte cabine di regia”. Malgrado alcune siano politicamente diverse da noi non si può traslare la differenziazione politica ex post sul campo della
repressione, non si possono criminalizzare mistificando la realtà. Non solo
perché si tratta di falsità ma anche perché sono tutte realtà che hanno dato
negli anni casa, reddito, socialità, cultura, vita a migliaia di persone abbandonate,
lasciate sole di fronte alla precarietà esistenziale, di fronte alla violenza
della finanza, all’ingiustizia sociale. Sono realtà dove il precariato
metropolitano in tutte le sue articolazioni vive, riflette, si fa potenza collettiva. Sono realtà importanti. Sono un bene comune per tutte e tutti quelle/i che credono nella possibilità di un cambiamento e per tutte/i quelle/i che non vogliono subire in eterno né essere muti di fronte all’ingiustizia. Lo ripetiamo: sono BENI COMUNI a TUTTO il MOVIMENTO. Ovviamente questo pone la questione su cosa sia il movimento e cosa rappresentino tutte le varie articolazioni del movimento oggi, ma questa è un’altra storia e probabilmente è un dibattito attuale ma che si farà percorrendo insieme strade, occupando piazze, assediando i palazzi del potere, rifiutando il debito, scioperando e , non ci sentiamo di arretrare su quello che dicevamo su questo fino a ieri TUTTE/I, costruendo rivolta e rivoluzione.

Vicinanza politica a tutte/i loro, sapendo che domani saremo ancora dalla
stessa parte della barricata e saremo tantissime/i ancora più del 15, ancora
più determinate/i. Perché ciò che ha rappresentato per noi quella rete politica
in quel corteo è la resistenza di P.zza San Giovanni.  La difesa di uno spazio
pubblico, di uno spazio di democrazia, non un tentativo di sovradeterminare
qualcosa o “una resa di conti” interna al movimento. Quella rete politica per
noi è uno spazio da potenziare perché uno spazio di indipendenza reale, di
chiarezza. L’unico spazio utile alla costruzione di un processo in sintonia con
quello che accade in tutto il mondo.

L’ultimo destinatario è lo Stato. Allo Stato e ai suoi dispositivi retorici e
repressivi. Uno Stato che ha sfruttato vecchi, nuovi e sorprendenti “utili
idioti” (i “pacifisti rivoltosi” o i “rivoltosi pacifici” citando un politico
molto in auge adesso, i “mai più in piazza con i violenti”, i “sono i nostri nemici” e tutte/i i delatori, gli infami, gli sbirri della domenica delle salme, i giornalisti “progressisti” e “legalitari” ignari, forse, del gioco a cui si sono sottoposti anche entusiasticamente). Uno Stato che con una regia scientifica è riuscito in un sol colpo a spaccare un corteo, spaccare un movimento e, speriamo di no, restringere gli spazi di democrazia e conflitto nel paese. Vogliamo dirlo con tutta la chiarezza possibile: non lo ha fatto con un particolare dispiegamento di forze. Mai uno Stato nel suo tentativo di
strozzare il dissenso ha avuto gioco più facile, o forse si, all’indomani dell’incendio del Reichstag in Germania nel ’33. Ma questa è una storia tragica che, speriamo, non si ripeta mai più neanche nella sua versione farsesca.

Adesso che qualcuno propone la legge Reale forse i più intelligenti iniziano a
sospettare qualcosa…

Allo Stato crediamo si possa serenamente dire questo: non ci fermerete.

Non ci fermerete perché verremo ancora alle vostre porte, sotto i vostri
palazzi. Verremo come i No Tav, a mani nude, a volto scoperto, a testa alta.

Verremo e non ci fermerete perché saremo ancora senza bandiere, senza partito
e senza paura. Verremo e saremo ancora di più, ancora più arrabbiati anche se
più intelligenti. Intelligenti nel non ripetere gli errori che la rabbia ti fa
compiere. Gli errori che lungo il corteo sono stati fatti e che hanno reso poi
il giochino repressivo facile da realizzarsi. Errori fatti perché la rabbia è
un sentimento nobile, è un sentimento diffuso, è un sentimento che diventa
rivoluzionario, potente, esplosivo solo se si fa intelletto collettivo,
(ricordate la “rabbia degna” degli zapatisti? Ricordate le “giornate della
collera” mediorientali?)  se si indirizza verso chi sta in alto, verso chi oggi
ci fa pagare la crisi.

Abbiamo ancora tanto da dire e da fare insieme perché la storia è nostra!

Le attiviste e gli attivisti indipendenti di Bari

La misura della rabbia. Considerazioni prima e dopo il 15 ottobre di Connessioni Precarie

Connessioni precarie//Coordinamento migranti Bologna e provincia

Il 15 ottobre come moltissimi altri abbiamo colto l’occasione offerta dalla giornata globale contro le politiche di austerity: l’occasione per amplificare le voci disparate di uomini e donne, precarie, migranti, operai, che ogni giorno fanno esperienza della crisi come di una precarizzazione sempre più sfrenata del lavoro e dell’esistenza, e che rifiutano la precarietà come forma selettiva e gerarchica di coazione al lavoro. Connettere queste voci è stata la nostra scommessa attraverso il 15 ottobre, e lo abbiamo fatto condividendo il percorso aperto dagli Stati Generali della precarietà e lo spezzone del precariato sociale che sabato ha coinvolto migliaia di uomini e donne

Non ci interessa giudicare i fatti del 15 ottobre a partire dalla contrapposizione, fin troppo angusta e fin troppo nota, tra violenza e non violenza, o fra i pochi e i tanti separati dalle pratiche messe in scena a Roma…

 

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Roma 15 ottobre 2011: Il conflitto è un bene comune! di Reality Shock

A Roma, il 15 ottobre, 500 mila persone hanno deciso di scendere in piazza per non perdere un occasione (ricordiamolo non di adesione a un appuntamento sindacale o partitico, ma dentro un processo di convocazione autorganizzata dai movimenti stessi), in cui finalmente le lotte che vediamo estendersi in ogni angolo del pianeta potessero incontrarsi, riconoscersi, e fare un passo ulteriore verso un orizzonte di conflitto e trasformazioni globali che giorno dopo giorno appare sempre più concreto.

Questo è il primo punto che ci interessa sottolineare, perché nel dibattito pubblico del nostro paese, sempre miope e patetico, sembra che tutti si siano dimenticati lo straordinario contesto in cui inserire tutte le vicende che hanno caratterizzato la giornata del 15 ottobre in Italia, giornata che si è presentata molto complessa, articolata, e carica di tutte le contraddizioni che insieme abbiamo affrontato in questi anni di mobilitazione diffusa e continua.

Vogliamo provare a dire la nostra rispetto ai fatti di quella giornata, perché, come sempre in queste occasioni, parla di noi chi nei movimenti non c’è mai stato e chi vuole usare la giornata di sabato come pretesto per chiudere ogni spazio di partecipazione in un paese che da anni ormai vive una crisi profonda del suo “sistema democratico”.

Durante il corso della manifestazione si sono verificati episodi e fatti estremamente variegati che è corretto differenziare se si vuole fare chiarezza e non contribuire ad annebbiare la percezione di quel che è successo con l’intento di criminalizzare l’intero movimento e marginalizzare tutti quelli che in questo paese pensano che un futuro diverso possa passare solo attraverso le lotte e la loro messa in comune. Possiamo riassumere queste dinamiche così complesse – facendo ovviamente un’opera di semplificazione – sugli episodi che hanno coinvolto un numero ristretto di persone in via Cavour e la “resistenza allargata” che in piazza San Giovanni ha visto protagonisti migliaia di manifestanti.

Rispetto ai fatti di via Cavour pensiamo che politicamente la pratica messa in atto non sia utile al movimento e a chi immaginava il 15 ottobre come un nuovo punto di partenza. Nell’orizzonte di costruire forme comuni di “rottura” e “alternativa radicale” ci sfugge l’utilità politica di incendiare delle macchine ad un metro dal corteo che sfila o incendiare un palazzo. La pratica di chi, autoreferenzialmente e senza nessuna condivisione, utilizza i grandi cortei per degli sfoghi minoritari, pericolosi per incolumità dei compagni stessi, non ci appartiene e non fa altro che legittimare i discorsi di chi vorrebbe rappresentarci come una minoranza isolata.

Differentemente Piazza San Giovanni ha visto svilupparsi una rabbia espressa da centinaia o migliaia di giovani orientata a rispondere alla violenza delle forze dell’ordine. Se c’era qualcuno che cercava il morto lo si può trovare nei reparti di carabinieri, guardia di finanza, celere e ministero degli interni, che in maniera scellerata hanno ripetutamente tentato di investire decine di manifestanti disarmati, ma giustamente determinati a respingere gli attacchi. Certo è stata una dinamica articolata, confusa e complessa, in cui tante soggettività differenti hanno espresso un’insofferenza forte rispetto alla stretta autoritaria che avvertiamo svilupparsi nel nostro paese. La complessità però non ci spaventa: ci rafforza e arricchisce. Detto che sulle “azioni” di via Cavour, permeate di un residuale e dannoso “esibizionismo”, non vale la pena spendere troppe parole, su quello che è successo per ore a San Giovanni è giusto soffermarsi di più perché ci dice più cose sul movimento, portando a galla inadeguatezze comunicative e strategiche.

 

I movimenti che si sono affacciati sullo spazio europeo, nord-africano e, più di recente, negli Stati Uniti, ci parlano non solo della crisi della rappresentanza o della assunta centralità di elementi come il reddito e i beni comuni, ma aprono anche nuovi spazi di conflitto in cui finalmente a diventare protagonista del dibattito politico è la possibilità concreta di modificare l’esistente. La rabbia, l’insoddisfazione e la precarietà esistenziale che ormai pervadono completamente la vita di milioni di persone ci costringono a fare i conti con un’opportunità e uno scenario nuovi e quanto mai concreti, in cui il conflitto sociale radicale determina dinamiche di consenso diffuso e generalizzato. Uno scenario dove il conflitto sociale potrebbe finalmente declinarsi secondo una logica maggioritaria e per questo vincente. Piazza San Giovanni ci parla proprio della nostra urgente necessità di aprire una discussione vera e responsabile su questo e trovare, attraverso un nuovo piano di interlocuzione tra le varie componenti che animano il movimento stesso, la strada più efficace per interpretare senza semplificazioni questo “elemento sfuggente” e fare in modo, tutti insieme, che la rabbia e l’insofferenza che legittimamente permea sempre più un’intera generazione, possa essere espressa all’interno di un piano organizzativo e strategico intelligente e condiviso. Esattamente quello a cui abbiamo dato vita, pur dentro mille difficoltà, recentemente in Val Susa e a Roma il 14 dicembre scorso.

Senza scivolare sul pernicioso piano morale che definisce trascendentalmente ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, cos’è violenza e cosa no, crediamo che ciò che è avvenuto sabato a Roma ci costringa ad aprire un ragionamento serio sulle pratiche, sulle modalità e sugli obiettivi che ci diamo in piazza. Ma questi sono affari nostri e non di questure o delatori di sorta (tanto meno di chi si arroga si rappresentare ciò che sfugge ad ogni rappresentanza e rappresentazione).

 

Detto questo, nei giorni successivi alla straordinaria giornata del 15 ottobre il dibattito pubblico del nostro paese si è come sempre concentrato sul tentare di dividere un movimento che fino a sabato era riuscito a spostare l’attenzione pubblica verso la violenza che la crisi e le sue conseguenze stanno portando nella vita di tutti noi.

Fin dalle prime battute media main stream e forze politiche hanno costruito il discorso pubblico sulla dicotomia interna al movimento tra buoni e cattivi, tra bene e male. Da anni respingiamo questo ragionamento. Da anni, nelle lotte reali, all’interno delle assemblee, questa divisione costruita ad arte sembrava essere sorpassata. Nella lotta contro la riforma Gelmini una moltitudine di pratiche e posizionamenti differenti sono state in grado di creare la più grande mobilitazione sociale del nostro paese degli ultimi anni. Ci sembra questo il cuore del ragionamento che debba prodursi all’interno del movimento, ponendo come punto comune da cui non arretrare il fatto che solo dentro i processi di lotta possono essere individuati gli strumenti più utili nella costruzione e nell’avanzamento delle lotte stesse. Respingere i tentativi di divisione significa uscire da questo piano del discorso, sempre fuorviante e volutamente provocatorio, e ribadire che solo nella contaminazione di pratiche e discorsi possiamo immaginare un futuro differente.

In questo contesto non ci stupisce che si dia spazio a ridicole reti universitarie (vedasi Run, rete universitaria dei Giovani Democratici), mai viste e mai sentite nelle nostre facoltà, pronte ad aiutare la polizia, che si intervistino black block chiaramente inventati, che si provi a tracciare la mappa dei movimenti buoni e di quelli cattivi.

Ci riempie di rabbia invece guardare a Repubblica e al Partito Democratico e vederli in prima fila nell’incoraggiare la delazione di massa nel riconoscimento di chi ha resistito in piazza San Giovanni: una pratica triste e fortemente reazionaria. Ci interroghiamo su come chi ha deciso di essere in piazza sabato, ognuno con la propria attitudine, si possa prestare a legittimare i discorsi di chi giorno dopo giorno continua a sfruttare, rubare e violentemente imporre tutte le conseguenze di questa crisi a precari, lavoratori e studenti. E invitiamo tutti quelli che hanno partecipato ai movimenti negli ultimi anni, a ripensare i media come strumento di chi svuota ogni giorno di più il senso della democrazia e della partecipazione. Ci sembra evidente che contribuire a moltiplicare questo discorso non possa che chiudere ogni spazio democratico in un paese che vive in questo senso già una profonda e drammatica situazione.

Infine vorremmo spendere due parole (perché non ne meritano di più) su quei politici che dopo la manifestazione di sabato hanno parlato di cancrena nei movimenti e hanno invocato una legislazione speciale per bloccare il conflitto sociale del nostro paese. Non possiamo nascondere il forte rammarico nei confronti di Nichi Vendola che, per probabili questioni di “opportunità”, ha fatto delle gravi dichiarazioni mostrandosi assolutamente dissociato dalle vere contraddizioni che in questi mesi vediamo dispiegarsi nel nostro paese, rivelando quanto lontana sia da lui l’attitudine a capire e a contaminarsi con la complessità delle dinamiche sociali, mai lineari e sempre in divenire. Antonio Di Pietro si spinge oltre e arriva ad invocare una nuova legge reale per prevenire lo svilupparsi di conflitti che, nel processo di crisi strutturale, si preannunciano potenti e potenzialmente determinanti. Immediatamente Maroni accoglie le denunce dei due esponenti dell’”opposizione”. Ed è così che quelli che potevano in qualche modo sembrare degli interlocutori del movimento si presentano in prima fila, ancora prima che lo faccia un vero fascista come Maroni, ad invocare la chiusura degli spazi di partecipazione e di conflitto o quantomeno, nel caso di Vendola, ad alimentare un insopportabile frame generale connotato da semplificazioni che nutrono il piano strategico di criminalizzazione del movimento e delle sue istanze.

Tutto questo per noi è stato il 15 ottobre. E ripartiamo consapevoli che nonostante tutto il nostro paese è in fibrillazione e che, dove regna il caos, c’è sempre una possibilità di trasformare la realtà che viviamo, intrecciando l’istinto e l’intelligenza tattica, le pulsioni rabbiose e la lucidità necessaria per vincere.

Reality Shock

Comunicato stampa Officina 99 e antagonisti campani sul 15 Ottobre e oltre

15 Ottobre una nuova Piazza Statuto dove la storia si rimette in marcia

Da giorni i media nazionali concorrono nella criminalizzazione della manifestazione del 15 Ottobre, offuscandone il significato di portata storica e svilendone i contenuti in un’operazione di riduzionismo penale che offre un pessimo servizio alla comprensione stessa delle ragioni, oltre che della rabbia espressa da migliaia di persone in quella giornata.

Se fosse vero, come si legge da molti editoriali ed illustri commentari, che poche centinaia di “black block” si sono impadroniti della scena attraverso la violenza, perché continuare a dargli tanto spazio con presunti scoop più o meno veri  e non dedicare che poche righe ai motivi che hanno portato milioni di persone in piazza in tutto il mondo contro le politiche di austerity, concertate da governi ed organismi internazionali come la BCE? Perché, invece di scatenare la caccia alla streghe, assumendosi un compito che spetterebbe ad altri, non dare invece conto delle richieste e delle proposte portate in piazza da centinaia di migliaia di lavoratori, disoccupati, studenti immiseriti dalla crisi e sempre più precari, movimenti che resistono alla devastazione ambientale e a difesa dei beni comuni?

La verità, essendoci stati a Roma, è che a respingere la follia di blindati lanciati a carosello nel corteo, cariche dal retro e idranti sulla folla (per ammissione dello stesso Maroni inutilizzati da 20 anni) non erano pochi giovani incappucciati, ma migliaia di manifestanti di tutte le età e di varie appartenenze arrivati a Roma per esprimere una carica di rabbia comune di fronte all’assenza della politica e al peggioramento inarrestabile delle condizioni di vita e di lavoro, non più disposti a subire le politiche economiche ed i divieti di governi che rappresentano solo se stessi e che preparano un futuro senza speranza per le nuove generazioni.

Ecco, forse è questo che scandalizza e mette paura: Piazza S. Giovanni è diventata una nuova Piazza Statuto, la riscossa di generazioni a cui è stato strappato il futuro e che, in un’epoca di crisi dell’intero sistema capitalistico, nessun partito o sindacato può rappresentare e contenere; una piazza che rischia di rompere gli argini e contagiare l’intera società nella necessità, prima ancora che nel desiderio, di un cambio di rotta radicale capace di rimettere al centro i bisogni veri di milioni di persone contro gli interessi ristretti di Banche, finanza, multinazionali e classe politica che si limita, dall’alto dei propri palazzi blindati, a gestirli.

 

Non potendo rispondere a questa richiesta di cambiamento radicale che viene dalla società, si punta l’indice contro chi discutibilmente, soprattutto per l’incolumità del corteo, infrange simbolicamente le vetrine di qualche banca, individuate ormai da tutti tra le artefici di una crisi che scarica la sua violenza concreta (e ben più grave) fatta di licenziamenti, disoccupazione, lavoro precario e difficoltà di arrivare a fine mese su fette sempre più estese di società.

Per quanto ci riguarda, noi eravamo in migliaia a Roma dopo aver costruito per un mese con altre realtà di base e movimenti, iniziative cittadine  di confronto e di pubblica denuncia con presidi alle banche, all’INPS, cortei di migliaia di persone nel consenso generale della gente comune che vive sulla propria pelle la crisi e che rifiuta l’idea di dover ancora fare sacrifici per salvare rendite e profitti di pochi. Noi c’eravamo e non abbiamo niente da cui prendere le distanze se non da un’intera classe politica che, da destra a sinistra, non ci rappresenta.

A lasciarci perplessi, tuttavia, non è la “casta” impegnata ad arrivare a fine legislatura per rubarsi in pochi anni una pensione d’oro di fronte agli spiccioli che chi lavora a tempo indeterminato vedrà solo dopo 35 anni e chi è precario non vedrà mai; non è chi invoca ordine e punizione nella richiesta scandalosa, tra l’altro avanzata senza vergogna da un rappresentante della presunta opposizione come Di Pietro, di ritorno alla legge Reale, fino al divieto di manifestare se non dietro pagamento di cauzione, a cui speriamo che la FIOM abbia il coraggio di rispondere con un secco NO; o ancora al fermo preventivo di memoria fascista. Piuttosto, ci lascia perplessi l’atteggiamento a geometria variabile, sia di parte della sinistra sia dei media mainstream, che da un lato fanno a gara ad esaltare il valore delle rivolte, certo non pacifiche, della cosiddetta primavera araba o del resto d’Europa, Grecia in testa, dove l’attacco ai simboli del capitalismo è all’ordine del giorno, e dall’altro, quando tutto questo avviene in Italia, si affrettano invece a criminalizzare e cancellare le ragioni profonde che mezzo milione di persone, in contemporanea con mille piazze nel mondo, hanno gridato nelle strade.

Lo ripetiamo, noi a Roma c’eravamo in uno spezzone indipendente e pieno di precari, disoccupati, migranti, insieme a tanti altri centri sociali e gruppi di base, a gridare Reddito Garantito Per tutti – lavoro o non lavoro, crisi o non crisi – che il debito lo paghi chi l’ha provocato. Abbiamo preso parte alla storia, lo abbiamo fatto anche simbolicamente, invadendo in massa i fori imperiali, ed ora, dopo Piazza S. Giovanni continueremo, a portare avanti nei nostri territori del sud, ulteriormente martoriati e devastati dalla crisi, le ragioni di quella alternativa societaria oltre l’economia di mercato, che la politica ufficiale non rappresenta e di cui c’è tremendamente bisogno prima che la barbarie dell’ingiustizia sociale, del  razzismo e della guerra prendano ancora il sopravvento.

Area Antagonista Campana, Laboratorio Occupato SKA, CSOA Officina 99, Collettivo Operatori Sociali, Collettivo Area Vesuviana, CSOA Tempo Rosso

Dietro il passamontagna del 15 ottobre, di L. Caminiti

Incolti, brutali, rozzi, prezzolati, criminali, teppisti, dementi, sfascisti, populisti, nemici. Neri. Eccolo, nei commenti sui quotidiani, l’identikit degli “incappucciati” di piazza san Giovanni.

Un unanime coro di condanna, di politici, di opinionisti – un arco che raccoglie la destra e la sinistra e i più radicali delle sinistre – che manda al rogo quei maledetti violenti.

Una trasversalità di opinioni che lascia sgomenti. Accade solo con le catastrofi, con i terremoti, l’unanime cordoglio. E i tumulti appartengono alla politica, non alla natura del mondo. Tutti hanno “espressioni di ferma condanna”, plaudono alla polizia, invocano azioni repressive – individuateli, toglieteceli dai coglioni.

Tutto il vocabolario dei comunisti d’antan – i Pajetta, i Pecchioli, i Berlinguer – avete tirato fuori. Untorelli, squadristi, chiamavano gli altri incappucciati, quelli del Settantasette, senza capirci un cazzo. E sono storie che non c’entrano quasi nulla, l’una con l’altra. Quelli, però, avevano stoffa e storia, oltre che il pelo lungo così sullo stomaco, voi chi cazzo credete di essere, pensate che basti il pelo? Loro poi andavano da Cossiga con le liste di proscrizione, indicando chi andava arrestato: lo farete anche voi? Andrete anche voi da Maroni? Farete come promise Cameron dopo il riot di Londra, li prenderemo a uno a uno nelle loro case? Avete già le vostre liste?

Chiedete consulenza a Carlo Bonini della Repubblica: lui conosce bene gli Acab, All cops are bastards, ci ha fatto un libro, dove racconta le sofferenze dei poliziotti – ognuno ha le sue debolezze –, e ora disegna le mappe dei violenti di piazza, i luoghi dove si annidano, dove andare a scovarli. La chiama informazione, lui.

Non siate così melodrammatici – la madonnina sul selciato, oh la guerra di spagna e i preti fucilati, oh i talebani e i Buddha sgretolati, e la piazza di San Giovanni violata nella sua sacralità, ah il luogo delle composte manifestazioni, ah le canzoni di luca barbarossa e fiorella mannoia.

Non siate così mediocri nel giudicare.

Volete redigere e distribuire il manuale del bravo indignato? Dire come deve essere la rabbia e indicare i comportamenti dell’accettabile indignazione? Avete già pronta la guida della giovane marmotta indignata, un’indignazione composta, educata, per bene, moderata? Che aspettate a distribuirla?

Siete indignati con i black bloc, con gli incappucciati, i violenti, ormai l’indignazione vi viene così, come niente. Siete indispettiti, avevate già tutti i vostri bei discorsetti pronti, i vostri editorialini, le vostre intervistine, e v’hanno messo un candelotto dentro, ve li hanno bruciati come fosse un blindato.

O giovani incappucciati, meditate su quale disastro abbiate prodotto: Eugenio Scalfari e Aldo Cazzullo vi hanno ritirato la loro simpatia. Ci potevate pulire il culo già prima con la loro simpatia.

Un tumulto non è un pranzo di gala, un ordinato corteo, una partita magari un po’ rude e maschia da commentare nei salotti di una tivvù. Non è la simulazione dello scontro sociale. È una forma dello scontro sociale. Il tumulto è un grumo nero di rabbia e distruzione. Non mette fiori nei cannoni, non cerca consensi, non costruisce alleanze. Non è un movimento politico.

Questi non occupano il teatro Valle e non ascoltano gli uomini di cultura e i loro lamenti. Sono folli di rabbia, pazzi di distruzione.

Sono cronaca nera, forse è vero. Ma è nella cronaca nera che oggi si legge quanta rabbia e quanta disperazione stia producendo la crisi in chi era già ai margini, in chi è senza reti di protezione, in chi non sa a che santo votarsi.

Ma è sulla cronaca nera, sulla rabbia e sulla disperazione, che qualunque proposta politica di trasformazione, di riforme, deve misurare la sua credibilità. Mohammed Bouazizi, il giovane ambulante tunisino che si diede fuoco per protesta contro una multa dei vigili, era cronaca nera, un episodio di disperazione e rabbia, prima che un movimento lo trasformasse in un’onda politica inarrestabile.

La piaga di questo paese è diventato l’antiberlusconismo, spargere a piene mani l’illusione che basti un’imboscata parlamentare, un complotto trasversale, e buttare giù il governo e tutto – come d’incanto – cambierebbe. Niente più debito pubblico, niente più disoccupazione, niente più precariato, niente più tagli all’assistenza sanitaria: invece, investimenti, occupazione, credito a strafottere, la Fiat che marcia a pieno ritmo, e tutta la cassa integrazione che rientra. Basterebbe mettere Visco all’economia, Vendola allo sviluppo, Di Pietro alla giustizia, e ecco la quadra: la Bce ci darebbe tutto il credito di cui abbiamo bisogno, i mercati – la speculazione! – capirebbero che abbiamo un governo solido e stabile e ci ricompenserebbero; Sarkozy e la Merkel ci penserebbero due volte prima di decidere tutto da soli il futuro dell’Europa, e persino la Grecia e la Spagna si risolleverebbero, vuoi mettere? C’è chi fa i calcoli di quanti punti si ridurrebbe lo spread col Bund tedesco, e lo dà come cosa acquisita. Ma si può? Di che favola andate parlando? Quale film vi state girando nella testa? State lì, con l’acquolina alla bocca, pronti a governare senza uno straccio di programma, senza un sentimento sociale che spinga al cambiamento, litigiosi come i capponi di Renzo mentre si assaltano i forni del pane. Questo è il “male assoluto”, non quattro vetrine infrante.

Vedete, la domanda vera non è come mai a Roma il 15 ottobre ci sia stato l’inferno e nelle altre capitali del mondo tutto sia filato liscio – che poi non è neppure vero, già dimenticate le giornate di Atene? già dimenticato il riot di Londra? già dimenticato il 14 dicembre di Roma? già dimenticate le giornate dello sgombero dei No Tav? –, ma come mai non succeda tutti i giorni un casino simile.

Certo, se state tutti i giorni a pensare a Ruby e alla Minetti, a Scilipoti e a Sardelli, a Montezemolo e a Napolitano, è difficile che vi rendiate conto di quanta rabbia e disperazione stia producendo la crisi, quanta devastazione nella vita quotidiana e nell’immaginare un qualunque domani.

A che servono le vostre condanne? Convinceranno forse i black bloc – gli uomini neri – a essere più duttili? Blinderete le manifestazioni pacifiche facendole proteggere da cordoni di sicurezza pronti a menare chiunque si discosti dalle vostre indicazioni, dal vostro manuale di comportamento – fin qui si può essere rabbiosi, più in là, no, non sta bene, ci alieniamo scalfari e cazzullo? Che un movimento faccia le barricate e poi chiami la polizia per rimuoverle – come diceva Marx dei tedeschi – è una cosa contro natura.

Che un movimento provi a costruire simpatia e consenso intorno ai suoi temi è non solo legittimo ma auspicabile, che un movimento ponga un’opzione di cambiamento radicale è non solo legittimo ma auspicabile.

Il tumulto non viene da Marte, non è un complotto organizzato da minoranze di facinorosi. È nelle nostre attorcigliate viscere. È il buco nero della politica, il collasso della materia. Ma è nel nostro universo.

È qui che si misura la sfida di una politica del cambiamento, nel trasformare la rabbia in speranza, nel dare alla rabbia una speranza.

di lanfranco caminiti

Nicotera, 17 ottobre 2011

Comunicato L38 Squat sul 15/10

“Qui chi non terrorizza…si ammala di terrore”…

Si scatena la gogna mediatica. E non ci stupisce.

Il perbenismo pacificatore si dissocia, punta il dito e si rende complice dell’ennesima persecuzione degli apparati polizieschi e giudiziari. Non ci piace.

Quelle che in molti continuano a chiamare come le mele marce della manifestazione del 15 ottobre, ai nostri occhi appaiono come i frutti di una rabbia diffusa, di un malcontento sociale che si estende. E’ questione di punti di vista.

C’è chi continua a parlare del futuro dei più giovani, di generazioni destinate a non poterlo costruire, perché private dei “diritti fondamentali” come il lavoro. Per noi sfruttamento e oppressione, attraverso il lavoro salariato, sono sempre state le condizioni costanti del dominio: le combattiamo qui e ora, senza aspettare.

 

Siamo “un po’ stufi” di sentire solamente la lagna dell’indignazione, della crisi globale fatta pagare sulle popolazioni di tutto il mondo, delle condizioni di vita precarie, delle responsabilità delle banche e dei mercati finanziari, senza fare qualcosa che metta in discussione la totalità di questo sistema.

Perché in fondo, da una parte all’altra che si trovi, è una questione di paura.

E il 15 Ottobre, di paura, ne ha fatta: ha fatto paura alla classe politica, perché una folla di persone si è riversata nelle strade per dire che sono le banche, gli istituti finanziari e gli imprenditori i veri artefici di questa crisi fatta pesare sulle popolazioni del mondo, perché c’è stata un’esplosione incontrollabile di rabbia, controversa ed istintiva, impaziente, a volte incosciente, come è tipico dell’irruenza di chi porta dentro qualcosa che brucia; ha fatto paura a chi, anche dentro quella manifestazione, ha provato a cavalcare l’onda per il proprio tornaconto, agognando una comoda poltrona in qualche stanza del potere o perché mossa da un freddo calcolo di interesse politico; ai padroni probabilmente ha messo qualche pulce nell’orecchio, che, ci auguriamo, cominci il prima possibile a far sanguinare.

 

Se infatti le strade si agitano e diventano terreno di ribellione, quando una valle insorge, resiste da 20 anni e attraverso la lotta diffonde l’idea di un reale cambiamento, a tal punto che in molti parti d’Italia le popolazioni cominciano a opporsi alle nocività del capitale, quando i lavoratori cominciano ad incrociare le braccia, a rompere le catene del loro sfruttamento e a occupare le strade e le stazioni, quando i migranti rinchiusi dentro un Cie evadono, quando le persone si organizzano e dal basso cominciano a riprendersi le proprie libertà e ciò di cui hanno bisogno…allora si, che la paura cambia di campo.

Se televisioni e giornali sguinzagliano i loro sciacalli e non parlano d’altro che di violenti e teppisti, se il black-bloc è il demone da creare per dar seguito all’inquisizione, se in un coro bipartisan si rispolvera una Legge Reale per attuare nuove misure repressive, se Maroni e i suoi alleati di governo invocano garanzie patrimoniali per l’autorizzazione di cortei e invitano all’allerta in Val di Susa (quanto scotta l’idea di quanti siano i solidali dal nord al sud dell’Italia al fianco dei valligiani!), è perché sanno che per loro può tirare una brutta aria, da arginare il prima possibile con una buona dose di menzogne e altrettanta di terrore. A tutti coloro che portano nel cuore un mondo libero da oppressione e sfruttamento, sta il coraggio di continuare a soffiare più forte.

La vera violenza è quella di coloro che ogni giorno vorrebbero schiacciare nell’indifferenza, nella solitudine e nella rassegnazione le nostre vite; chi ha compiuto brutalità nei riguardi dei manifestanti il 15 ottobre sono le stesse guardie al servizio dei potenti e a tutela dei loro interessi: in tutto questo chi invita o si rende promotore di gesti delatori e collaborazionisti come quello di andare a portare materiale video e fotografico alle forze dell’ordine, per agevolare la repressione di chi si è ribellato, chi prende le distanze e si dissocia, non sta capendo niente e deve essere il primo a darsi una rinfrescata alle idee. Al contrario di chi rema nella direzione dell’inquisizione, pensiamo sia indispensabile non lasciare soli i ragazzi e le ragazze che sono state arrestati durante la manifestazione, far sentire loro la nostra vicinanza e la nostra solidarietà.

Il 15 ottobre è stata UNA giornata, animata e vissuta da una marea di individui e realtà anche molto diversi tra loro. Ormai conclusa e da lasciarsi alle spalle, non per il carico di menzogne che si stanno montando o di “veleni” che si sta portando dietro, ma perché è necessario guardare avanti, pensare a tutti gli altri giorni che verranno. I quartieri, le strade, i luoghi di frequentazione quotidiana; i bisogni, le tensioni e le libertà da conquistare: se “una folla di uomini e donne che fuggono, è una folla di uomini e donne soli”, nelle relazioni umane e nell’autorganizzazione, orizzontale e senza leader, è necessario trovare quella complicità sociale, che ci faccia correre, il prima possibile, tutti e tutte insieme, dall’altra parte.

Per i compagni e le compagne che si sono dovuti svegliare presto lunedì 17, a causa di qualche “maleducato” che non rispetta il riposo altrui, per i ragazzi e le ragazze rinchiusi ancora dentro i carceri di Regina Coeli e Rebibbia, per chi è stato ferito durante il corteo, per tutti gli spazi occupati, collettivi, situazioni e tutte le individualità, che in questi giorni sono stati oggetto di una becera caccia alle streghe su giornali e tv: un abbraccio grande e tutta la nostra solidarietà, non siamo soli/e.

L38 Squat

… che nonostante tutto, in questo momento gode di buona salute…