LE RADICI E LE ALI

La commovente, intensa, esemplare vita di Zaccaria Verucci, soldato della classe operaia. Le poche righe che seguono spiegano molto più di 100 manuali di storia… parlano al cuore e alla mente una lingua che non ammette defezioni o rinunce.

<<Chi si pone per obiettivo quello di accendere i cuori degli altri con la sua fiamma interiore, costui getta una sfida al mondo dell’incomprensione, della negazione, al mondo ostile. Solo la lotta, infatti, ha un senso nella vita.>>
- Ernst Thalmann

Mi chiamo Zaccaria Verucci, sono nato il 29 agosto 1929 a Norcia, in provincia di Perugia.

Nel 1924 un fratello di mia madre fu ucciso a 16 anni in seguito ad un diverbio con un fascista ed alle percosse che subì successivamente. Il suo nome era Zaccaria; per questo motivo mio padre e mia madre vollero ricordarlo dandomi lo stesso nome quando nacqui.

Il primo ricordo che ho dopo l’8 settembre è quello dei parenti, di mio fratello in particolare, che fuggirono per evitare la deportazione in Germania e si diedero alla macchia verso la Valnerina. Io continuai a vivere a casa a Norcia con le mie sorelle, una più grande e una più piccola. Mia madre era morta nel ’41, mio padre era in carcere a S. Agata di Spoleto in quanto comunista, un mio fratello, Spartaco, era in Jugoslavia e scappò dopo l’8 settembre per evitare la deportazione in Germania e tornò a Norcia malato di tubercolosi, in seguito alla quale morì nell’aprile ’44. Un altro fratello, Libero, riuscì a fuggire a Firenze dal treno che lo portava in Germania ai lavori forzati, e tornò a piedi a Norcia lo stesso giorno della liberazione del paese.

Da Norcia si diedero alla macchia circa 30 giovani che formarono, assieme ad altri partigiani, una banda autonoma operante lungo la Valnerina. Io, fin dai primi tempi, assunsi la funzione di staffetta, cioè portavo informazioni circa la presenza nazista, la dislocazione dei reparti repubblichini e tedeschi, la preparazione dei rastrellamenti. Per individuare dove fossero i partigiani dovevo guardare, vicino ad una capanna nella vigna di mio padre, come fosse posizionato un bastone di legno messo per terra, che mi indicava la direzione di massima dove li avrei trovati. Un mio amico che aveva la mia stessa età ma di corporatura più robusta, anche lui con un fratello partigiano, trasportava invece le armi. Avevo 14 anni, fame e paura mi accompagnavano quando passavo la carrozzabile dove c’erano i tedeschi, per andare dai partigiani, e quando mi fermavano per chiedere dove andassi dicevo sempre che abitavo in un cascinale di là dal bosco e stavo rientrando a casa. Poi però non potevo tornare indietro, perché se mi avessero visto non avrei saputo come spiegare il mio ritorno… così passavo la notte nella capanna della vigna. La paura dominava ogni momento della vita dei partigiani; la paura continua di essere scoperti, una paura che accompagnava le giornate ma che era anche una spinta a continuare a combattere i nazisti e i loro alleati fascisti. Paura che si respirava anche a Norcia, dove vi furono diverse uccisioni fra i civili: ricordo per esempio l’assassinio di un vecchi parroco, don Loreto, colpevole solo di essere fuggito per la paura dopo aver sentito degli spari in lontananza. O anche l’assassinio del fornaio Otello, dentro la sua casa, probabilmente un po’ alticcio, colpevole di aver malrisposto ai nazisti.

Ricordo qualche episodio come l’attacco della banda partigiana ad un convoglio tedesco allo stretto di Biselli. Ricordo il partigiano Franco, che riusciva ad entrare in paese con tutte le armi per andare a trovare la zia, che abitava vicino la mia casa. E lo ricordo a Cascia, ferito dopo uno scontro con i tedeschi, che si teneva gli intestini con le mani riuscendo ancora a fuggire, e che morì successivamente. Ricordo due piloti inglesi, il cui apparecchio cadde vicino al bosco di proprietà di mio padre, ai quali sconsigliai di passare per la carrozzabile perchè sarebbero stati visti da una spia fascista, un civile, del paese. Probabilmente non mi capirono, e finirono proprio nel podere di questa spia che avvertì i tedeschi i quali li catturarono ed anziché farli prigionieri – come avrebbero dovuto – li fucilarono nei pressi del cimitero del paese.

I partigiani riuscirono a sopravvivere per nove mesi, perché godevano dell’appoggio dei contadini del luogo, che li rifornivano di viveri nonostante le minacce e le rappresaglie dei tedeschi e dei loro alleati fascisti. Dopo la liberazione di Norcia la banda partigiana si sciolse, le armi furono riconsegnate. La lotta al fascismo lasciò segni e ferite nel corpo della popolazione e dei partigiani che decisero di combattere. Ma lasciò anche la consapevolezza di iniziare una nuova fase storica dopo il fascismo, una fase in cui si credeva di poter cambiare la società, rinnovandola secondo criteri di libertà e giustizia. Eravamo 300 iscritti alla Fgci a Norcia dopo la guerra e volevamo come voi giovani cambiare la società. Poi fummo purtroppo dispersi dalla miseria, dalla politica clericale e dalla polizia di Scelba.

Subito dopo la guerra venni a Roma, e andai da una cugina di mio padre che mi ospitò a vicolo dell’Orfeo, a S. Pietro, dove rimasi per poco tempo perché trovai lavoro come ragazzo di bottega presso un negozio di generi alimentari. Lavoravo tutto il giorno, la paga era solo il vitto (scarso) e l’alloggio (si fa per dire: dormivo sopra la pedana del bancone, con due sacchi di iuta come materasso e come coperta). Rimasi poco, perché la polizia mi rimandò a Norcia in quanto non avevo la residenza a Roma: avevo partecipato ad una manifestazione degli edili e durante gli scontri che ci furono con la Celere fui portato in caserma e dagli accertamenti risultò la mia residenza fuori città. Era all’incirca il 1947: mi arrangiavo a fare un po’ di tutto come bracciante agricolo, ma lavoro ce n’era poco. I compagni della Fgci emigrarono fuori dal paese come me, parecchi fuori l’Italia, in Francia o in Belgio nelle miniere di carbone, altri a Torino, Milano, Livorno e Roma, come me. Dopo pochi mesi tornai a Roma per cercare di nuovo lavoro ma dal momento che ero stato segnalato non ne trovavo. Vivevo come un clandestino al giorno d’oggi, dormivo dove capitava (sui camion, ai giardinetti, per strada) e mangiavo quando potevo. Finalmente trovai un impiego come garzone presso un negozio di generi alimentari, a via Principe Amedeo, ma ero sotto ricatto di esplulsione, quindi dovevo stare sempre all’erta. Partecipai ancora ad una manifestazione di invalidi di guerra che si tenne nei dintroni del Viminale e che degenerò in scontri con la polizia di Scelba. Piantai il lavoro per andare alla manifestazione: volevo giustizia, come tanti altri insieme a me non volevo il ricatto del padrone di turno. Quella volta vi fu una donna uccisa da un colpo d’arma da fuoco sparato dalla polizia. Scappai di nuovo ma al negozio ovviamente non mi rivollero, così ricominciai a cercare. Dopo una breve esperienza da Alibrandi (altro negozio di alimentari dal quale andai via per l’eccessivo sfruttamento) per parecchi mesi non trovai nulla e vissi stentatamente dormendo ai giardini di Piazza Vittorio. Cominciai a lavorare saltuariamente come facchino e come manovale. Era la primavera del ‘48 e dormivo da una paesana presso San Giovanni: eravamo in sette in una stanza, e pagavo la branda. Ero iscritto alla sezione del Pci di Norcia ma ormai passavo più tempo a Roma, cercando lavoro e partecipando alle manifestazioni. Fu così che in occasione dell’attentato a Togliatti mi ritrovai con altri compagni, anche di altri partiti (socialisti, repubblicani e altri) a fronteggiare le cariche della Celere di Scelba: sassi contro manganelli e gipponi. Tirai una sassata ad un poliziotto a cui ruppi la testa, scappai ma inciampai, caddi e fui preso dalla Celere. Mi portarono alla questura centrale e ci pestarono, me e tutti gli arrestati; poi ci trasferirono a Regina Coeli, insieme ai detenuti comuni, dove passai quindici giorni d’inferno. Mi processarono (ricordo il processo, incatenato come i criminali, anche se non ero un criminale) e mi condannarono a cinque anni con la condizionale e mi espulsero di nuovo a Norcia, da cui non mi potevo muovere, nel senso che fui “confinato” in casa: non potevo uscirne prima delle sette e dovevo rietrare prima delle diciotto. Ma avevo mia sorella piccola e mio padre anziano, avevo bisogno di lavorare, quindi cercavo di uscire ugualmente per andare a caricare la legna o a fare altri lavori agricoli. Ma dopo tre mesi tornai a Roma. Stavo con mio fratello a dormire dalle parti di Piazza Vittorio e lavoravo con lui presso la sua bottega di alimentari. Una mattina venne la polizia alle cinque, mi portarono in questura e poi alle carceri di Spoleto, poi di nuovo a Norcia, dove ricominciai a lavorare senza però l’obbligo dell’orario. Dopo tre anni mia sorella più grande, che abitava a Roma, si offrì come garante per me, per farmi tornare a Roma, dove arrivai nel ’52 ; ma di lavoro non ve n’era. Ricominciai la vita sbandata, trovai un posto sempre da garzone ad Ostia, ma il negozio chiuse dopo cinque mesi. Ricominciai a vivere di lavoretti, dormivo in pineta o dove capitava. Finalmente, grazie alle lotte della Cgil di Di Vittorio, fu varata la legge che permetteva la libera circolazione dei lavoratori e terminarono così le mie espulsioni. Continuai a lavorare precariamente: pulivo le spiagge, facevo il manovale, il facchino, fra Ostia e Roma. Feci così per parecchi anni. Arriva il luglio ’60: sentii che ci sarebbe stata la manifestazione contro Tambroni, così rimediai uno straccio rosso e lasciai Ostia e, pur non avendo i soldi del biglietto, presi lo stesso il treno e appena sceso a Piramide la polizia mi fermò, chiedendomi dove andassi. “Ho da fare, non fatemi perdere tempo” dissi, ma nascosto addosso avevo lo straccio rosso, la mia “bandiera”… A Viale Aventino scoppiarono gli incidenti più duri, vi furono sassate contro le cariche a cavallo (i fratelli D’Inzeo guidavano la carica della polizia a cavallo). Presi tante frustate, ma riuscii a fuggire. Quella volta non mi catturarono ma ho il vivido ricordo dei provocatori in borghese. Mi rimisi a cercare lavoro. Finalmente trovai un lavoro stabile come facchino, prima con una cooperativa, poi con un privato, con cui ho lavorato tanti anni. Poi feci domanda al comune ed entrai come spazzino, lavoro che svolsi fino alla pensione.

In tutti questi anni sono sempre stato iscritto al Partito. Ho fatto tutto quello che un militante comunista deve fare per il Partito, senza fini personali, sapendo che la lotta di un militante può essere dura ma non è mai vana. La fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la Giustizia sociale, la libertà per tutti i popoli, la dignità dei lavoratori sono le cose in cui credeva mio padre ed in cui ho creduto io, ed in cui credo ancora. E posso dire con tranquillità che rifarei tutto.

Zaccaria Verucci

  1. Eugenio
    25 febbraio 2011 a 0:01 | #1

    Commovente. Una lezione straordinaria di coraggio e umiltà.
    Grazie Zac. Cercheremo d’essere degni di levare in alto, sempre e comunque, quel meraviglioso “straccio rosso”, come non hai mai smesso di fare tu.
    Addio
    che la terra ti sia lieve Compagno!