#machetilamenti– Ma che lavoro fai? Mi chiede in continuazione la gente che mi sente parlare di luoghi lontani e città con nomi difficili da pronunciare.
Sono una cooperante. Anzi, lo ero fino a che sono rimasta incinta. Poi mi hanno scaricata.Per 4 lunghi anni ho lavorato facendo la spola tra Roma e il Rwanda, Paese che ho studiato per 4 anni e su cui ho scritto 3 tesi di laurea. L’organizzazione che mi aveva assunto era piccola e, al momento del mio arrivo, aveva all’attivo solo un paio di progetti puramente assistenzialisti, creati da persone volenterose ma poco esperte di cooperazione internazionale. Ho scelto di lavorare per loro perché erano donne, donne come me e donne come le beneficiarie dei progetti in Rwanda. Donne che mi avevano dimostrato un’etica di lavoro rigida ma coerente: nessun finanziamento “sporco” e nessun tipo di partenariato compromettente, senza se e senza ma.
Il mio lavoro è stato duro: lunghi mesi in Rwanda nel tentativo, ben riuscito, di far crescere i progetti e darne vita a nuovi più orientati ad una cooperazione decentrata e non a un mero aiuto assistenziale. In 4 anni ho dato letteralmente “anima e corpo” per lo sviluppo sostenibile delle aree in cui ci eravamo focalizzati, e il risultato è stato molto positivo. Anche in Italia mi sono data molto da fare: ho tenuto molte conferenze sui problemi di genere del Rwanda per raccogliere fondi per i nostri progetti.
Il sacrificio di interi anni della mia vita (perché quando vivi a cavallo tra due mondi la tua vita è divisa a metà e non riesci a viverla a pieno né di qui, né di là), il grande dispendio di energie ed il forte impegno era ripagato con un contratto a progetto e uno stipendio da miseria (una media di € 800,00 mensili) perché, nella mia ingenuità, pensavo che così facendo avrei aiutato l’organizzazione, piccola e per questo non molto ricca.
Quando stavo a Roma vivevo in una camera affacciata sui binari di stazione Termini, affittata in nero e senza riscaldamento, perché di più non avrei potuto permettermi.
Tutto è andato avanti fino a quando non ho deciso di iniziare a pensare anche a me stessa: è arrivato l’amore e, nel giro di un anno, sono rimasta incinta. Quando ho fatto il test già immaginavo me e la mia famiglia in Rwanda, a portare avanti il lavoro che amavo nella terra di cui, piano piano, mi ero innamorata e a cui sentivo che potevo dare ancora tanto.
Invece, il mio essere donna ha generato malessere per le Donne per cui lavoravo. La mia gravidanza ha da subito rappresentato un problema sempre più grande man mano che mia figlia cresceva dentro di me, al punto che, quando è nata, queste Donne non si sono nemmeno fatte sentire per augurare un po’ di gioia alla mia piccola donna.
Nel frattempo il mio contratto era terminato, ma nei mesi antecedenti al parto, le Donne dell’organizzazione mi avevano lasciato intendere il suo certo proseguimento dopo la fine della maternità. Così, nel momento in cui sentivo che si avvicinava il momento di fare le valige, ho interpellato le Donne che, però, mi hanno scaricata con una email, un’ “arrivederci e grazie” che mi liquidava da un lavoro che aveva portato alla crescita esponenziale del nome della loro organizzazione.
Ora sono disoccupata. Per via di alcune donne che lavorano per le donne ma che mi hanno discriminata in quanto donna. E allora, SE NON ORA QUANDO è possibile denunciare queste discriminazioni? Come? Non pretendo nulla con questo scritto, ma mi piacerebbe possa essere un passo avanti contro la lotta alle discriminazioni di genere, anche quando arrivano proprio da chi di questa bandiera si fa portatore.