Bergamo – Fra la fine del XIX secolo e il 1943, la Questura e la Prefettura di Bergamo schedarono 3500 individui come sovversivi. Erano anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani, democratici, liberali, cattolici popolari e non, sacerdoti, arditi del popolo, reduci non fascisti, fascisti dissidenti, sospetti antifascisti, emigrati e ‘fuorusciti’, volontari della guerra di Spagna, primi esponenti della Resistenza, ‘sovversivi’ generici, ecc. Erano espressioni diverse dell’opposizione politica e del conflitto sociale che in determinato momento storico si manifestò nella provincia di Bergamo. Furono oggetto di indagine, controllo, repressione da parte degli organi di polizia del tempo. Le loro storie furono schedate e organizzate in 106 faldoni conservati all’Archivio di Stato di Bergamo che di recente ha istituito un fondo con lo scopo di realizzare un data-base per renderne disponibili i dati on-line.
Tuttavia, al di là delle singole storie, la domanda che si pone è: chi è il sovversivo? Di cosa si parla quando si parla di “sovversivi”? L’istituzione di questa “anagrafe” risale al 1894, con un provvedimento di legge emanato da Francesco Crispi in cui si istituiva presso ogni prefettura un apposito ufficio, il cui compito era di raccogliere tutte le informazioni utili sui militanti più in vista dei partiti e dei movimenti sovversivi. Fu quindi lo stesso Crispi che 40 prima, provenendo dai circoli massonici, aveva organizzato i moti siciliani del ’48, la rivolta che diede il via ai moti di quell’anno, a istituire questo strumento di controllo e repressione. Giorgio Mangini, dell’Archivio Bergamasco, sottolinea tale passaggio: “Non si può accettare l’idea che la società civile possa organizzarsi al di fuori e contro lo Stato. Una volta realizzato il proprio progetto politico, qualsiasi movimento che tentasse di trasformare lo status quo autonomamente, indipendentemente e contro lo Stato viene considerato un pericolo mortale”. La società che Crispi aveva in mente non era dittatoriale, ma prevedeva che l’unico cambiamento possibile potesse calare dallo Stato sui cittadini, non viceversa. Una sorta di democrazia autoritaria, in cui chi si pone al di fuori delle istituzioni precostituite, al di fuori della coloritura politica, è ipso facto un sovversivo.
Nel 1923 questo ufficio verrà denominato “casellario politico centrale”, la sua funzione e le modalità non cambiano. Le forze di polizia hanno il compito di entrare nel corpo politico e sociale, raccogliere informazioni e schedarle. Ciò che nasce a fine Ottocento è quindi l’istituzione del Controllo. Dallo studio dei documenti, Mangini evince due tipi di controllo: uno politico, diretto verso i militanti, e uno sociale, che interessa il 40% dei soggetti schedati. Essi sono figure border-line, emarginati, sradicati, tutti coloro che si muovono ai margini della società e, per varie ragioni, non sono stati inglobati nelle sue maglie. Il potere capisce che la sovversione non viene solo da convinzioni ideologiche, ma anche dall’erranza sociale. Per quest’ultimi la rivolta, prima ancora che per ragioni politiche, nasce da un malessere esistenziale e sociale.
Centinaia di storie vengono quindi seguite, intrappolate, studiate, braccate. Nel 1902, in cui viene istituita la scuola di polizia scientifica, che si dota di importanti strumenti come la scheda biografica che permette di classificare attraverso segni fisici, ma anche caratteriali e psicologici. Vengono sperimentate e adottate foto segnaletiche bi- e tridimensionali, nonché i fogli dattiloscopici per raccogliere le impronte digitali. Attraverso dei parametri lombrosiani, lo Stato costruisce un identikit del sovversivo. Con l’avvento del fascismo la repressione si rincrudisce, Bocchini, nominato Capo della Polizia da Mussolini, crea nel 1926 la “Polizia Politica” con una rete di informatori indipendente dal sistema della questura e della milizia fascista. Un sistema di centinaia di delatori si infiltra sui posti di lavoro e nei luoghi di ritrovo, sia all’Italia che all’estero.
Il braccio della Polizia Politica fu l’OVRA, il significato dell’acronimo è tutt’oggi misterioso, nato proprio per garantire a questo apparato una libertà d’agire al di fuori delle caserme e delle questure. L’arresto di Ernesto Rossi, giornalista, partigiano e antifascista, in territorio bergamasco fu opera dell’OVRA, tramite la spia Carlo del Re, avvocato milanese infiltrato nei gruppi di “Giustizia e Libertà”. La repressione si fa sempre più capillare. Giovanni Angelo di Osio Sotto viene picchiato e imprigionato per avere sfregiato dei manifesti di Mussolini. Nell’Aprile del ’25 “Lino” residente in Città Alta, per avere partecipato a una riunione di socialisti, viene schedato, picchiato e “diffidato” da ripetere tali azioni. Oggetto particolare di controllo sono le comunicazioni di chi è migrato: vengono aperte e lette le lettere di corrispondenza che gli emigranti intrattengono con i propri familiari, come nel caso dell’operaia Bissotto Teresa nata a Nossa e che infilerà un giornale comunista francese fra le proprie comunicazioni, facendo oggetto di repressione la propria famiglia in Italia. Ogni idea al di fuori e in contrasto al regime non deve filtrare. Anconetti Antonio di Gerosa viene segnalato nel 1912 e vigilato per trent’anni per essere stato individuato a Parigi all’interno dei circoli anarchici.
Il carattere della repressione è di essere reticolare, mutuando un’espressione di Foucault, funziona non come una catena, ma come qualcosa che circola. Non ha luogo, si infiltra nelle strutture elementari della società, diviene quotidiana, anonimo, banale. In controluce è forse capibile chi è il sovversivo. È l’uomo liminale, l’uomo comune. In questa annotazione vi è tutta la drammaticità politica del sovversivo, il suo essere anti-eroe: la sua possibilità di essere ingaggiato in una resistenza o di far parte delle maglie del potere. Il sovversivo è l’uomo destinato a entrare in un casellario politico, di cui sappiamo e sapremo solo pochi dati anagrafici, ma di cui non sapremo perché, ad un certo punto della sua vita, ha deciso di alzare la testa e lottare. Il Potere non è riuscito ad annotare nei suoi faldoni il motivo di una scelta, forse, per propria costituzione, non la può neppure capire e comprendere.
Eppure, lasciando che le carte parlino, si può trarre un’ulteriore conclusione. Una conclusione che mette in questione la stessa domanda di partenza: non occorre chiedersi chi è il sovversivo, ma dove è il sovversivo. Se il Potere è ovunque, ugualmente esteso in ogni anfratto della vita, il sovversivo è sempre localizzato, in un luogo ben dato e preciso. Le carte parlano di singole storie in ogni angolo della provincia. Le carte dicono che ovunque il potere ha messo in moto la proprio repressione, il sovversivo lì c’era. Era dove un poliziotto ha alzato il manganello contro una persona, dove c’era una lotta per un lavoro dignitoso, dove c’è un conflitto per una paga che sfami. Lì il sovversivo c’era.