15 Ottobre - Ragionamenti e prospettive

da indymedia roma

15 Ottobre: ragionamenti e prospettive

Come si è arrivati, zoppicando, al 15 ottobre

Per comprendere quella giornata in funzione soprattutto di una prospettiva di lotta da sviluppare nel prossimo futuro è necessario analizzarne i suoi complessi aspetti a partire da alcuni passaggi che hanno portato a quella data.

Il corteo del 15 ottobre era per certi aspetti “senza gambe” e dal dubbio significato politico, almeno in Italia. Non parliamo degli slogan che hanno lanciato la mobilitazione europea nonché quella mondiale (chiari e diretti contro l’austerity, la politica finanziaria delle banche, la BCE, etc..) ma di come larga parte dei movimenti italiani abbia scelto di “cavalcare” quella data. Grossa parte dei comitati promotori infatti, nel voler riprodurre una forma di protesta già manifestatasi nella penisola iberica e che si sarebbe data quasi su scala mondiale in quella data, non ha ingenuamente tenuto conto della “specificità italiana”. La fase finanziaria e politica (istituzionale e di movimento) del nostro paese è infatti ben diversa da quella spagnola e di altri paesi europei perché la crisi di governo, quella economico-finanziaria e quella reale “percepita” del nostro paese è ben più grave e avanzata; le realtà di lotta italiane sono molto più ricche, diversificate e complesse di quelle spagnole. Già da queste semplici constatazioni si poteva prevedere il fallimento dell’emulazione con declinazione italiana di una pratica ormai già anacronistica per il nostro paese.

Ad aggravare la situazione si aggiunge la volontà da parte dei comitati promotori di voler trasformare quella giornata in un momento di visibilità politica e mediatica, con comizio finale, funzionale solo a raccogliere consensi popolari da delegare-relegare in un’ urna alle prossime turnate elettorali.

 

Sulla delazione e l’eterogenea composizione di movimento del corteo

Analizzare la composizione del corteo permette di comprendere quelle reazioni di massa contro “i violenti” e le successive “delazioni da web” che hanno preso forma.

In quella piazza non si sarebbero incontrati i lavoratori e le lavoratrici durante una giornata di sciopero, non si sarebbero incontrati i migranti in lotta contro la politica di gestione dell’immigrazione, non si sarebbero incontrati i movimenti reali che lottano contro le nocività dalla Val Susa, a Terzigno o al No Ponte, dopo aver compiuto percorsi unitari di base, costruiti negli anni e che culminano in una grande manifestazione di massa dal grande valore politico e di classe. No. Sebbene tutti questi soggetti fossero (“separatamente”) comunque tutti presenti, la maggioranza delle persone che componeva il corteo era costituita dal popolo che legge il giornale del Ministero degli Interni detto “Repubblica”, dal Popolo Viola unito dall’antiberlusconismo, dai pacifisti grillini pronti a gridare al black block persino in Val di Susa, dal popolo giustizialista e attaccato alla legalità di Di Pietro, De Magistris, Travaglio, Vendola che spera in un’alternativa (di governo e non rivoluzionaria) tanto che alcuni tra questi hanno persino fatto chiarezza chiamandosi apertamente “Uniti per l’Alternativa” (…si, di poltrona).

Quel giorno si è incontrata un’eterogenea parte del nostro paese priva di percorsi comuni e duraturi o di forti amicizie politiche, mossa da poche parole d’ordine neanche troppo chiare, guidate dalla testa di un corteo assoggettata alle richieste della politica istituzionale e della questura, presenti tutti insieme solo perché ognuno stufo/a di un malessere (a volte diverso, altre comune) che vive sulla propria pelle.

In partenza – da parte dei più – c’era solo una voglia di riprodurre l’ennesima sfilata, di fare comizi e di portare avanti una proposta politica che si declina in entrismo nelle istituzioni, rispetto della legalità di Stato, riforme democratiche. Di progettualità politica rivoluzionaria, di unità di classe, di autodeterminazione dei territori, su scala diffusa c’era molto poco a quel corteo e questi concetti erano relegati solo nei piccoli gruppi o realtà di movimento presenti che ogni giorno lottano sui propri spazi in maniera autorganizzata e senza delega.

 

Bisogna poi constatare un altro dato politico sulla partecipazione. Ai già citati attori presenti vanno aggiunte le migliaia di persone scese in piazza, italiani/e e non, che – in tempi di crisi – sperimentano tutti i giorni sulla propria pelle una condizione di sfruttamento e di precarietà sui posti di lavoro, nei call center, nei ristoranti pagati a nero, gli/le studenti dei licei o delle università pagate con difficoltà dalla famiglia e coloro che abitano le periferie. Vanno aggiunte le tifoserie ultras che avevano annunciato battaglia in ogni corteo dall’introduzione della tessera del tifoso perché anche loro appartengono agli stessi giovani di cui sopra. Tutti questi soggetti, gli sfruttati insieme ai movimenti, sono i veri protagonisti che dovrebbero prendere parola contro un’economia capitalista e così, senza la regìa millantata dai media o da aree “compagnesche” che denunciano una volontà di sovradeterminazione della piazza, quel giorno hanno scelto di alzare il sipario e scendere in strada.

 

Il corteo, la violenza, la resistenza

Con queste premesse e in questo contesto si è scesi/e in piazza: con una composizione eterogenea per lo più figlia di una democrazia borghese, con una testa del corteo assoggettata ai dicktat della questura, ma anche con molte altre persone, molti altri e altre giovani pieni di rabbia per un esistente e un vissuto di sfruttamento e assoggettamento, che hanno dimostrato di aver voglia di agire in prima persona e senza mediazioni per determinarne il cambiamento.

Alcune delle analisi che abbiamo letto tendono a separare in due fasi temporali la manifestazione: quella dei teppisti e quella della “risposta di popolo” ai caroselli polizieschi in piazza S.Giovanni. Non ci possiamo sottrarre anche noi nel riconoscere il diverso valore politico e sociale dei due momenti, se così vogliamo chiamarli. Ma vogliano altresì sottolineare che se a piazza S.Giovanni è esploso un “incendio sociale”, con resistenza collettiva e di massa alla violenza di Stato è stato dovuto anche – e non solo – al fatto che, le molte persone a diversa composizione sociale per le quali la misura è ormai stracolma da tempo, si sono fatte “scintilla” di quell’incendio al quale poi tutti e tutte hanno preso parte. Sarebbe miope limitarsi a criminalizzare le pratiche che hanno acceso la rabbia sociale prima per poi elogiarne ed esaltarne gli effetti dopo. Con questo non ci sottraiamo però a fare dei distinguo perché a nostro avviso non esistono pratiche buone e pratiche cattive ma solo pratiche che sono condivise, comprese, collettivizzate che uniscono e pratiche che risultano distanti, fuori luogo, incomprese e che quindi dividono. Lungo via Cavour e a via Labicana, delle azioni compiute da pochi in preda all’istinto e al trascinamento hanno determinato una divisione tra le anime del corteo. Incendiare macchine qualunque, forse appartenenti ad un operaio, lungo il percorso di un corteo oppure mettere a repentaglio le persone che abitano nei palazzi a causa di altro fuoco acceso da adrenalina più che da coscienza politica, è un gesto stupido e superficiale. E’ un gesto che non possiamo considerare “politico” e quindi non è di nostro interesse. Difendersi e fare barricate usando a malincuore i beni di altra gente è ben altra cosa, è resistere con ogni mezzo necessario alla repressione del potere. Così come distruggere le banche e le macchine di lusso, ancor più in questo periodo storico, ha un chiaro messaggio politico: attaccare simbolicamente ma anche direttamente coloro che hanno accumulato ricchezza capitalista attraverso lo sfruttamento dei proletari.

I compagni e le compagne che scendono in piazza dovrebbero essere in grado di valutare momento per momento, qual è la pratica migliore da mettere in campo, per la collettività tutta. Alcune volte questo non si è riusciti a farlo, ma come ha ricordato bene qualcuno prima di noi: gli anni e le lotte appena trascorsi non sono stati affatto utili per “imparare a prendere la mira”, in quanto dominati solo da pratiche mediatiche o di pompieraggio della rabbia sociale. Bisognerà affinare la tecnica ed allenarsi a tirare con l’arco le frecce della rivoluzione su quelli che si ritengono i bersagli sensati.

E’ vero, alcune di queste incapacità hanno portato delle lacerazioni all’interno del corteo, hanno portato spezzoni a litigare tra loro, hanno portato momenti di delazione già in piazza. Ma a questo proposito c’è sempre da tenere a mente qual era la composizione di quel corteo. Bisogna ricordarsi dei figli di Repubblica, del Popolo Viola, di Di Pietro, di Travaglio, di Vendola e compagnia cantante che avrebbero fatto quello che hanno fatto davanti a molto meno. Sono gli stessi che gridano agli arresti per gli operai in sciopero davanti alle loro fabbriche o che avrebbero votato a favore (come fece Vendola) per l’istituzione dei CPT (centri di permanenza temporanea per migranti) in Italia. Sono gli stessi che hanno consegnato giovani alla questura o che hanno attivato quel meccanismo di delazione via web perché inorriditi dalla violenza, data una completa assuefazione alla violenza quotidiana di questo sistema. Sono gli stessi che erano in piazza per un cambiamento di bandiera, di colore del governo e non per una rivoluzione e riscrittura dei rapporti sociali ed economici del paese. Questa media borghesia è ancora lontana dal percepire gli effetti della crisi e a questo popolo dal capitalismo-democratico, noi, non abbiamo niente da dire.

Piazza S. Giovanni, l’incendio sociale seguito alle tante scintille di rabbia nate lungo il percorso del corteo è sicuramente un evento sul quale riflettere. Un evento che seguìto al 14 dicembre, alla resistenza di Terzigno e in Val Susa, non può essere visto più come un “caso isolato” o un “momento di passaggio”. Quella piazza ha segnato uno e più spartiacque nell’orizzonte politico istituzionale e di movimento italiano. Una massa di giovani, improvvisatisi ribelli con ciò che ha trovato, ha resistito per ore alle cariche e ai caroselli delle forze dell’ordine affermando la volontà di determinare i propri spazi, di non voler sottostare alle imposizioni statali o di potere preferendo ancora una volta la “resistenza collettiva” alla “fuga solitaria”. Il governo, al di là della retorica populista, in quel momento tirava giù bestemmie come quelle che abbiamo sentito pronunciare dalle forze dell’ordine in difficoltà, sotto una pioggia di sampietrini. I movimenti più filo-istituzionali, i partiti di ogni colore, i sindacati confederali e a quanto pare anche i cobas, bestemmiavano con loro, con il potere. Non perché ci fosse “violenza” in quella piazza, ma piuttosto perché alla loro politica spettacolarizzata nella società delle illusioni si erano sostituite sane ore di resistenza popolare. Un boccone troppo amaro da digerire.

In ogni caso non possiamo basare il successo della giornata sul fallimento del disegno politico organizzato da altri pezzi di movimento ma questo insuccesso deve farci riflettere sulla rottura delle dinamiche di rappresentanza. Interi pezzi di vari settori sociali, infatti, non si riconoscono più nella narrazione estetica del conflitto proposta da alcune aree di movimento o nell’alternativa di governo che esse propongono. Allo stesso tempo, però, risultano distanti anche alle realtà più autorganizzate a causa di insufficienti relazioni politiche tessute nei territori, il che non ha permesso di condividere in questi anni una base di analisi politica comune e tantomeno delle pratiche.

 

Black Block gruppi identitari?

Li hanno chiamati black block, teppisti, anarchici, autonomi nostalgici. Qualche servo di regime si è anche prodigato a delineare identikit o a diffondere video-interviste false sui giornali nazionali on-line. Ricordiamo, solo per inciso, che il black block non è un gruppo identitario granitico quanto piuttosto una pratica di lotta di piazza. Ripetiamo: pratica, non gruppo.

Dietro quei cappucci, quelle sciarpe, quei passamontagna, sotto quei caschi c’era anche lì un’eterogeneità di persone alle quali lungo il percorso se ne sono aggregate molte altre. Quei giovani, studenti, operai, disoccupati, non hanno mai pensato di ritrovarsi in gruppo, incappucciati così perché hanno un’identità politica unica, un’estetica precisa o – ancor peggio – un immaginario da difendere, diffondere o da mantenere. Semplicemente, con l’avanzamento delle tecnologie di controllo, diviene sempre più facile per le forze dell’ordine riconoscere un volto all’interno di un corteo e, di conseguenza, perseguirlo penalmente. Essere travisati ed avere più o meno tutte/i lo stesso abbigliamento rende molto più difficile questo tipo di identificazione. Questo tipo di pratica non è un feticcio da difendere o un vanto di cui pregiarsi con gli amici in preda a raptus di appartenenza, è semplicemente un riproporre pratiche che sono state efficaci per ridurre le identificazioni. Qualora il movimento ne trovasse collettivamente di nuove, diverse e magari più efficaci da utilizzare, dovrebbe solo dotarsene e iniziare a praticarle.

 

Sui palazzi del potere, la forma corteo e come andare avanti

Per giorni prima del 15 ottobre e per le settimane a seguire quello dei palazzi del potere era diventato un tormentone. Aree di movimento ci avevano rinunciato, altre ne avevano fatto il loro primario obiettivo. La valenza politica di manifestare o assalire i palazzi del potere non crediamo sia necessario discuterla qui, in quanto palese e scontata ai più. Vorremmo piuttosto riflettere, nella società capitalista industrializzata del XXI secolo, con decentralizzazione produttiva fuori e dentro le metropoli, su dove sia collocato il potere economico (e non di rado quindi politico) oltre alle sedi di “Palazzo”, dove si trovino le sue arterie e i suoi nodi di scambio funzionali al suo fluire e quindi al suo riprodursi. Sono davvero (solo) i vuoti palazzi della politica, dove vengono solo siglate le decisioni più importanti sulla nostra pelle “la bastiglia da espugnare”? Peraltro sempre più difesi militarmente durante giornate come quella del 15 ottobre? La lotta deve darsi (e infrangersi) davvero solo nello scontro frontale e militare con le forze di polizia? Noi crediamo di no e pensiamo che nel movimento debba aprirsi una riflessione ampia sulla possibilità di accrescere l’efficacia delle lotte praticando altri obiettivi come i punti centrali della produzione capitalista e dell’accumulazione del profitto. Abbiamo avuto modo di constatare come le lotte e le occupazioni di discariche o cantieri del TAV durante questi anni, le occupazioni delle fabbriche o dei luoghi di produzione nella storia passata, abbiano fatto vacillare il potere costringendolo, spesso, a fare dei passi indietro se non addirittura a demordere. Cantieri delle grandi opere, siti di produzione materiale e immateriale ovvero luoghi di sfruttamento proletario, fabbriche, uffici, televisioni e radio nazionali, scuole, università nonché tutti i luoghi di assistenza sanitaria e sociale ormai devastati dalle politiche liberiste, grandi distributori di benzina, strade e autostrade potrebbero divenire alcuni dei luoghi da bloccare, da occupare, per mettere in crisi i ritmi della società capitalista. Luoghi in cui sostituire l’autogestione ed una pratica comunitaria allo sfruttamento capitalista e affermare, a partire da lì, il mondo diverso che insieme cerchiamo di costruire.

 

A questo proposito non pensiamo esistano ricette precostituite per perseguire l’obiettivo, “sediamo sulle spalle dei giganti” guardando alla storia, anche a quella più recente, per trovare spunti, suggestioni e suggerimenti. La forma corteo unitaria e centralizzata a Roma, con un unico serpentone che sfila lungo un unico percorso imposto dalla questura è una pratica. Solo una. Non l’unica. Molto probabilmente anche di più facile controllo da parte delle forze dell’ordine. Forse, più cortei dislocati nella stessa metropoli o diverse manifestazioni di varia natura dislocate sul territorio nazionale in contemporanea, non solo concentrate nei centri delle città ma appunto con obiettivi come quelli appena indicati, diverrebbero di più difficoltoso controllo per le forze dell’ordine e sarebbero molto più incisive nello sferrare un duro colpo al capitalismo, al suo potere, ai suoi potenti.

Anche di questo ci auguriamo che il movimento, dopo una giornata così significativa come quella del 15 ottobre, sia in grado di interrogarsi. Consapevoli del fatto che i cortei o le azioni non si dovrebbero convocare con la bacchetta magica, come forse successe per il 15, ma devono essere frutto di percorsi autorganizzati, radicati nei territori, nei posti di lavoro, nelle scuole, nelle università. L’unità e la partecipazione vanno costruite con i percorsi reali, radicati e condivisi e non semplicemente aderendo in massa ad una piattaforma internazionale. Solo così si può sviluppare maturità e coscienza politica diffusa, la vera arma contro il mostro del capitale.

Arrivederci nelle lotte, quelle fatte giorno per giorno.

 

 

 

Roma, 01-11-11

Alcuni/e a volto coperto

Gio, 10/11/2011 – 23:14
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