Se vuoi vivere felice, brucia la tua fabbrica

da non-fides.fr

Se vuoi vivere felice, brucia la tua fabbrica


[volantino trovato su un banchetto di tematica anti-industriale nel nord-est di Parigi, novembre 2010]


Il 4 ottobre, in Ungheria, una fabbrica che produce alluminio ha vomitato 1 milione di metri cubi di fanghi tossici, devastando vallate e villaggi su 1000 ettari di estensione, uccidendo una decina di persone e mutilandone diverse centinaia. Molte schifezze, fra le quali piombo, alluminio, cadmio, radio, torio (prodotti radioattivi) e altra merda, si sono diffuse nelle piane e nei fiumi, lasciando dietro di sé una regione profondamente devastata per molto tempo a venire.

In fondo, nessuna sorpresa. Oltre ai casi più mediatizzati, come Bhopal, le diverse maree nere, Cernobyl, AZF [fabbrica chimica di Tolosa esplosa il 21 settembre 2001, NdT], non dimentichiamo che queste “catastrofi” non sono che la punta visibile dell’iceberg: ogni parcella di terra, di aria e di mare è già stata più o meno guastata. E non sono le false opposizioni fra industria pesante ed officina autogestita a scala umana, catene di produzione vetuste o eco-certificate, discarica selvaggia o differenziazione dei rifiuti, laboratorio di ricerca pubblico o privato, che compreranno il nostro consenso.

Quando ci rompono con la storia che “L’avvenire del pianeta è nelle vostre mani”, servita in tutte le salse (“differenzia i rifiuti”, “butta la carta nella pattumiera”, “mangia biologico”…), non si tratta che di uno sporco ricatto, basato sulla colpabilizzazione di tutti e sul vecchio mito dell’interesse generale. In linea di massima, non ci rimarrebbero che due (non) scelte: andare verso un modo di produzione cosiddetto “sostenibile”, sotto la tutela dello Stato, appoggiato dalla cosiddetta “società civile” ed accompagnato dall’ideologia “ecologista-cittadinista”, oppure sprofondare diritti verso un’apocalissi ambientale e/o sociale.

La minaccia di un disastro planetario dovrebbe farci accettare le condizioni di vita che subiamo già ogni giorno: questo assoggettamento imposto dalla società capitalista ha bisogno dell’industria per fare profitti. È qui in effetti che si situa il cuore problema, e non in un modo di produzione o in un altro, preteso alternativo.

Dietro ogni “modo di produzione” si nasconde la stessa costrizione sociale, che ci riduce allo stato di forza lavoro. Dietro ogni prodotto “verde” ed il suo bagaglio di buona coscienza si nascondono la stessa reclusione in questa o quest’altra prigione industriale, lo stesso sfruttamento del lavoro. La pretesa rivoluzione verde conserva, in realtà, l’essenziale della struttura sociale esistente, senza nemmeno sfiorare gli innumerevoli rapporti di dominio che la forgiano.

Non vogliamo alimentare questo catastrofismo che è nell’aria, né cedere alla rassegnazione che l’accompagna, né accettare il riformismo che vorrebbe approfittare della situazione per venderci la sua ultima merce politica. È ancora possibile mettere dei bastoni nelle ruote del progresso industriale, così come è possibile portare una critica pratica al lavoro, sabotando le numerose rotelle della macchina, denunciando le responsabilità reali degli apostoli e dei collaboratori zelanti di questa società di merda che ci guasta la vita in modo così insostenibile.
Facciamola finita con essa, prima che essa la faccia finita con noi.
La nostra liberazione è sempre nelle nostre mani. Un po’ d’immaginazione…

Sab, 04/12/2010 – 00:21
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