GIULIO SALIERNO Quando ero un picchiatore fascista Insieme a Serse sul ring e alla sezione missina. Il mancato omicidio del colonnello Valerio, l'omicidio e la delazione. La Legione straniera, la prigione e la svolta GERALDINA COLLOTTI «Mentre aspettavo Serse, mi pareva che l'Indomita fosse il luogo più attraente del mondo - ricorda Giulio Salierno - sognavo di diventare un pugile bravo come Festucci, che avrebbe poi conquistato il titolo europeo, o come Valentini e Cerasani, campioni d'Italia, allenati su quel quadrato da due super maestri, Nobili e Stocco». L'«Indomita» era (è) a Roma, in via Merulana, a due passi dal cinema Brancaccio. Lì tira anche Serse, un noto pugile professionista, «ragazzo audacissimo e formidabile picchiatore. Combatteva con una tecnica raffinata, alla Ray "Sugar" Robinson, colpiva con ambo le mani anche quando indietreggiava». Per i più giovani, Giulio Salierno è autore di testi adottati nelle facoltà di sociologia, materia che insegna all'Università di Teramo. Ha scritto piccoli «classici» come Il carcere in Italia (Einaudi, 1971); Autobiografia di un picchiatore fascista (Einaudi, 1976); La violenza in Italia (Mondadori, 1980); Fuori margine (Einaudi, 2001). Per i più vecchi, è uno spicchio di storia «dura» di cui non si parla più e che, dice oggi il sociologo, «sarebbe invece utile ricordare». Giulio Salierno nasce a Roma il 31 gennaio 1935, proprio mentre sta maturando la guerra d'Etiopia. Per quanto può ricordare, da ragazzo, è sempre stato fascista. In modo «naturale, ineluttabile, come si digerisce, come si respira». E' un bravo bambino borghese, benvestito, beneducato. La sua è una famiglia di militari, divisa al suo interno fra sostenitori del fascismo e partigiani. «Allora - racconta - volevo convincere Serse a venire in sezione. Mi servivano atleti conosciuti». La sezione di Salierno è quella del Movimento sociale. Vi si iscrive a 14 anni. E' cresciuto nel culto della patria, «sentito in modo viscerale». Ha vissuto «con umiliazione» l'ingresso degli anglo-americani a Roma nel giugno del 1944. Da studente partecipa ai moti per il ritorno di Trieste all'Italia. Nell'Msi, a 17 anni è già commissario politico giovanile di 5 sezioni, delegato al congresso, dirigente federale della Giovane Italia. Non ancora diciottenne, entra nel gruppo che darà poi vita alla famosa organizzazione Ordine Nuovo, diventa allievo di Julius Evola, il filosofo spiritualista stimato da Hitler.
Una pizza da Osvaldo
Quando il pugile esce dal club, vanno a mangiare una pizza da «Osvaldo» in via Mariani, «allora un punto di richiamo per molti pugili italiani e stranieri, ma anche per ladri, contrabbandieri, magnaccia. Gli avventori ci trattavano affari di ogni genere. Dalla combine di un incontro alla vendita di una pistola». L'ingresso di Serse nel gruppo attira diversi giovani sportivi romani. Un altro serbatoio di possibili militanti, Salierno lo scopre nel campo-caserma dei profughi giuliani di Santa Croce in Gerusalemme: «Gente costretta a lasciare i propri paesi ceduti alla Jugoslavia a causa del trattato di pace e che, sul ceppo della vecchia antipatia verso gli slavi, considerati da sempre nemici tradizionali, aveva innestato un nuovo risentimento contro la Jugoslavia e il regime titoista, e che disprezzava il governo italiano». Salierno organizza una squadra di calcio, e arruola giovani profughi giuliani, «tutti ragazzi atletici e decisi». Intanto s'impegna «nella dura ginnastica richiesta a chi voglia calcare il ring». Come pugile, però, sostiene di non valere un granché. «Nervoso, soggetto facilmente a emorragie nasali, non riuscivo a esprimere in modo coordinato la potenza, notevole, di cui ero dotato. Comunque, salivo volentieri sul ring. La boxe affascinava le ragazze, che però venivano solo agli incontri importanti». A tirare di boxe, allora, «erano per lo più giovani marginali e affamati, che sognavano di sfuggire, incrociando i guanti, al degrado delle periferie e al carcere».
Il colonnello Valerio
Salierno, invece, il carcere lo conosce per aver cospirato contro Walter Audisio - ritenuto l'esecutore della condanna a morte di Mussolini - all'epoca deputato comunista. «Della questione Audisio - racconta - si discuteva, nell'Msi, già all'atto della sua fondazione, nel primo dopoguerra. Ma non se n'era mai fatto nulla. La vicenda era tornata a galla verso la fine del 1952. A un gruppo di dirigenti del Movimento sociale che si era recato in Spagna, Francisco Franco aveva chiesto: "Com'è che i fascisti italiani non hanno eliminato Walter Audisio?"». Imbarazzatissimi, i dirigenti missini avevano risposto che preferivano tenerlo nel Parlamento per meglio screditare la stessa istituzione parlamentare. Il dittatore «aveva ribattuto: "Che machiavellici, questi italiani!"». E il gruppo era tornato a Roma «con la certezza di aver perso la faccia». Quando la faccenda si viene a sapere, «diversi attivisti missini duri e puri» decidono l'eliminazione di Audisio, alias colonnello Valerio. Il loro scopo, secondo Salierno, non era tanto di vendicare Mussolini, quanto far naufragare, con un gesto esemplare, i tentativi di appeasement tra l'Msi e i partiti di governo, e la graduale deriva filoatlantica della direzione del partito. Una linea politica che avrebbe poi trovato sbocco nel 1960, nell'appoggio esterno del Movimento sociale al governo Tambroni. Inoltre, «la liquidazione di Audisio sarebbe anche servita per spostare sul terreno dello scontro di piazza, fisico, il durissimo confronto politico in corso in quegli anni tra la destra e il blocco socialcomunista».
Il giovane Giulio si candida a eseguire l'attentato. Autore di altre azioni paramilitari, lanciato, come dicono di lui molti dirigenti del Msi, verso «un luminoso avvenire politico», non si preoccupa delle conseguenze. Anzi. Calcola, dopo l'azione, di rifugiarsi in Spagna e rivendicarla pubblicamente. E in Spagna conta di ottenere l'appoggio di Otto Skorzeny, l'ex colonnello delle Ss che aveva liberato Mussolini dall'albergo-prigione di Campo Imperatore e che a Madrid, sotto il nome di Antonio Scorba, gestisce il bar Erika nella calle de Silva. Serse sarà la sua spalla. Nel giugno del 1953 i sogni di palingenesi del giovane Giulio s'infrangono però bruscamente. Non riesce a portare a termine l'attentato. Si imbatte in un muro di gomma; e «sono proprio alcuni ambienti neofascisti, prima favorevoli all'esecuzione del colonnello Valerio, forse per timore delle conseguenze, a erigerlo». Così, «per, rabbia, delusione, spavalderia», i due finiscono nel delitto comune. Non hanno bisogno di soldi, né sono mai scesi al livello della delinquenza spicciola. Anzi.
La sottoclasse sociale
Sono convinti che furti e scippi li facciano i sottoproletari, «una sottoclasse sociale» che disprezzano. Eppure decidono di compiere una rapina. Sono armati, come d'abitudine. Il 15 giugno del 1953 si recano all'Eur e tentano di prendere la macchina a un giovanotto che si è appartato con una ragazza. Ma quello reagisce. E' una cintura nera, ha preso la macchina della ditta senza il permesso del principale. Finge di prendere una pistola. Serse e Giulio lo fulminano. Quattro giorni dopo, una lettera anonima alla questura, inviata in copia anche ai due rapinatori, li denuncia. Per Salierno, si tratterà di «una studiata delazione, probabilmente di alcuni settori del partito, ben contenti di togliere di mezzo due persone scomode». I due, allora, pensano di fuggire. Hanno sentito parlare della Legione Straniera come di un mondo in cui ci si lascia alle spalle il passato. «Nella Legione la selezione era durissima - racconta ancora Giulio - ma la superammo e fummo destinati ai commandos». Durante l'addestramento, conoscono «il Deuxiéme Bureau, il controspionaggio francese, i pieds-noir, il deserto, i postriboli di Sidi-bel-Abbés». Frequentano gli altri legionari: «banditi, carogne, eroi, spettri della seconda guerra mondiale, ex ufficiali delle Ss, reduci della Repubblica sociale, profughi polacchi, russi, ungheresi». Poi puntano al Vietnam, dove sarebbero finiti a Dien Bien Phu. Ma vengono arrestati dall'Interpol. «Non era mai successo da 123 anni. - dice Salierno - Avvenne, forse, perché il comandante della piazzaforte partì di colpo per il Vietnam e il sostituto, che proveniva dalle truppe regolari, applicò una clausola del Patto Atlantico sempre disattesa». Per i due, è una botta. Brucia loro «l'imputazione di rapina, non quella di omicidio». Dopo qualche giorno passato nelle celle dell'Interpol, «canili di ferro e cemento arroventati dal sole africano», finiscono nel carcere di Sidi-bel-Abbés: in mezzo a quegli arabi, «laceri, affamati, carichi di pidocchi annidati nelle costure delle djallabe e dei falzar», che hanno sino allora disprezzato e comandato. In carcere, entrano gli algerini «con il corpo piagato dalle bruciature di sigarette, che sembravano carte geografiche». Il giovane Giulio, istintivamente, sceglie di stare con il torturato contro il torturatore. Rinuncia a interpretare politicamente il suo stato d'animo. Se glielo domandassero, risponderebbe di essere un fascista. Ma istiga e aiuta «gli algerini rognosi» contro quei parà e quei poliziotti a cui dovrebbe sentirsi ideologicamente affine. Scopre la fame, resa così acuta anche perché, in Algeria, le prigioni, allora, sono porto franco. I carcerieri franco-algerini «rubano quanto possono e obbligano i detenuti, per un pacchetto di sigarette, a intrecciare i cesti per la raccolta dei datteri e delle olive nella calura insopportabile».
Nella prigione di Orano
Serse e Giulio vengono poi trasferiti a Orano insieme a molti arabi che devono essere giudicati dal Tribunale. Giulio è vicino a un ragazzo algerino, «sgusciante come un'anguilla», che aveva tentato di rapinare i francesi per finanziare i primi nuclei dei ribelli. Alla stazione di Sidi-bel-Abbés «c'è la madre del ragazzo. Si avvicina al figlio per abbracciarlo e un poliziotto pied-noir la colpisce con un pugno. La donna cade vicino alle ruote del treno e il ragazzo tenta di saltare addosso al poliziotto». Giulio affronta il pied-noir, che aveva già estratto la pistola per far fuori il giovane. Il poliziotto, «per paura o per evitare guai disciplinari, recede dal suo intento». Nella prigione di Orano, grazie anche a questo episodio, Giulio entra in contatto con altri ribelli, convive con due algerini condannati a morte, che cerca di aiutare come può. Per gli algerini, è «un arabo nato per caso in un paese lontano chiamato Italia». Ad Algeri, nella celebre prigione di Barberousse, dove si trova in attesa dell'estradizione, un nucleo arabo del costituendo Fronte di liberazione nazionale gli offre «di far parte dell'organizzazione».
Grazie a Terracini
Estradato in Italia, Salierno è condannato a trent'anni e tre di vigilanza speciale. In quei primi anni Cinquanta, in carcere entra solo il Corriere dello Sport e le difficoltà, «per uno che voleva capire e partiva dal nulla», sono notevoli. La vita dentro «è disumana». Salierno, aggirando l'occhiuta censura e destreggiandosi tra risse, rivolte e isolamento, fa ginnastica e legge tutto ciò che trova, storia e filosofia soprattutto. E i classici del marxismo. Passa attraverso 22 prigioni, comprende «l'equivoco della socialità fascista», si accosta alla sinistra. Nel 1960, durante i moti popolari contro il governo Tambroni, è detenuto nel penale di Alessandria. Altri reclusi, ex noti partigiani, gli affidano «il comando dell'eventuale insurrezione». Liberato nel 1968, grazie anche a Umberto Terracini, trova un'Italia «profondamente mutata, cresciuta». S'impegna subito «contro ogni forma di esclusione ed emarginazione». Pubblica i suoi saggi, fonda, con Savelli, Radio Città Futura, la prima radio libera d'Europa. Conduce, assieme a Franco Basaglia, la lotta contro le istituzioni totali e manicomiali, si batte contro i regimi totalitari cileno e argentino, sostiene con forza che il vero cancro della società contemporanea è «il non saper rischiare per gli altri», documenta «la relazione diretta tra lotta armata e storia nazionale», insieme a Terracini promuove la riforma del sistema carcerario. Poi riprende l'attività sportiva, «non in palestra, in bicicletta».
E in bicicletta, nel 2002, alla vigilia della presentazione del suo ultimo lavoro per Einaudi, Fuori margine, finisce sotto una motoretta. «Il traffico di Roma - dice - è più pericoloso della Legione Straniera».
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