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pubblicato il 7.05.08
Verona rassegna stampa - 2 -
·

Natural born nazi
Gianfranco Bettin

Hanno allevato la bestia per anni, l’hanno nutrita di odio, aizzata con parole e metafore, facendo i finti tonti sul nesso tra parole e fatti, tra metafore e gesti. L’hanno allevata così, chiudendo occhi e orecchi quando mordeva gli «altri». Ora che, a morte, ha colpito «uno di noi», ora che la bestia è uscita dal recinto in cui si poteva tollerarla e magari utilizzarla – con le sue prepotenze, le sue aggressioni squadristiche, la sua presunzione d’impunità – ora che sul «suolo natio» ha sparso il «sangue nostro», nessuno la conosce più come figlia propria.
Il retaggio di questa intima conoscenza, tuttavia, si rivela, nitido, in molti commenti della destra veronese e veneta, nel tentativo di ridurre l’aggressione omicida a ragazzata finita male o a mera bravata di deficienti o a effetto di un vuoto di valori. Cazzate, o, appunto, istintiva, se non cosciente, volontà di sradicare l’accaduto dal suo autentico terreno di maturazione. Questi giovani sono tutt’altro che vuoti di valori. Ne sono invece pieni: danno valore alla forza, alla violenza celebrata e praticata, all’onore che deriva dalla sua cameratesca condivisione, ai miti pagani e/o cristiani o al ciarpame che gli spacciano per tali, all’ordine gerarchico e allo spazio vitale di cui si sentono guardiani. È una predicazione attiva quella di cui sono stati bersaglio, a Verona come sulla scena nazionale, dove questi stessi «valori» vengono correntemente spacciati e dove il linguaggio delle armi «nostrane» e dello stigma da imprimere agli «altri» è corrente, anche da scranni istituzionali. Una predicazione che li ha raggiunti fin dai primissimi anni, fino a fargli sentire come naturale e legittimo questo modo di essere, certo rielaborato a modo proprio e portato all’estremo, ma niente affatto alieno dal contesto. Alieni sono gli altri, quelli da cacciare.
«Natural born nazi», checché ne dica Fini, che non vede in loro contenuti ideologici e antisemiti e per questo sembra reputare più gravi dei fatti di Verona quelli di Torino in cui sono state bruciate le bandiere israeliana e americana. E nemmeno «deficienti», ma perfettamente integrati nella società locale: un bravo pargolo di buona famiglia, un metalmeccanico, un promotore finanziario, ad esempio, come quelli che hanno aggredito e ucciso Nicola. C’è da scommettere che, a parte che erano nazistoidi, e che andavano in curva con gli ultras veronesi, a parte che avevano accumulato una ricca esperienza di violenze e prepotenze, a parte questo, c’è da scommettere che per tutti erano dei «bravi ragazzi» e che nessuno «l’avrebbe mai detto».
C’è da stare sicuri che un sacco di gente sapeva benissimo che cosa combinavano in curva a danno di immigrati e di avversari politici, e che cosa poteva costare incrociarli nelle zone che consideravano territori propri. Lo sapevano, ma non gli creava problemi. Non era ancora morto nessuno, e per di più si trattava di vittime «aliene». Non contavano.
Dicono, da destra, che l’aggressione omicida non aveva contenuto politico: in un certo senso è vero, ma ciò la rende ancora più inquietante. Perché gratuita espressione di un puro odio cresciuto così tanto da farsi indiscriminato: vomita addosso a chiunque il veleno diffuso per anni nell’aria, e conferma l’antica terribile legge per cui chi offende e perseguita i diversi, i deboli, gli «altri», prima o poi offenderà e perseguiterà tutti.


Gianfranco Fini, relativamente parlando
Ida Dominijanni

Qual è il criterio che arma il giudizio di Gianfranco Fini, secondo il quale l’assassinio naziskin di Nicola Tommasoli a Verona e la contestazione della Fiera del libro da parte dei centri sociali di Torino «non sono paragonabili», e tuttavia la seconda è più grave del primo? Relativismo etico, cinismo morale, strumentalità politica, giustificazionismo fazioso? O più semplicemente il ricorso all’antica favola degli opposti estremismi, da sempre utile nella storia della Repubblica per assolvere quello di destra e condannare quello di sinistra?
A soli cinque giorni dal suo discorso solenne e furbo d’insediamento alla presidenza della camera, nel quale si era incoronato da solo paladino e arbitro del Vero e del Giusto contro il nuovo «male del secolo» che sarebbe il relativismo culturale, Fini getta clamorosamente la maschera politica e quella (si fa per dire) intellettuale. I due fatti, di Verona e di Torino, «non sono paragonabili», però lui li paragona eccome. Per giudicarli non secondo un criterio di verità, o più umilmente di umanità come il caso vorrebbe (c’è qualcosa di meno umano che ammazzare di botte qualcuno per una sigaretta?), bensì secondo il più relativo nonché disumano dei criteri. La contestazione torinese (lui la chiama «astio antisemita giustificato con una politica antisionista») è più grave, sostiene, dell’assassinio veronese, perché la prima è ideologica, la seconda è casuale. Lì c’è violenza politica, qua c’è criminalità comune «con una distorta ideologia nazista nella testa». S’è mai sentito un criterio più relativo di questo? E un cinismo politico più becero e più autoreferenziale? Considerando i due fatti effettivamente imparagonabili non cadremo nella trappola di Fini e non ci metteremo a paragonarli all’incontrario, né per dire che l’assassinio di Verona è ideologico nella misura in cui i suoi esecutori vivono identificandosi con la sigla naziskin, né per dire che se non lo è sarebbe più grave che se lo fosse, stando a indicare in questo caso che valori e comportamenti naziskin sono entrati sottopelle nel senso comune giovanile e non solo.
Ma Fini non si limita al suo paragone relativista e anche di fronte alla tragedia di Verona insiste, come dall’alto scranno della camera, a proporsi come giudice e castigatore dei costumi. Non ci sono cinque assassini naziskin con le loro responsabilità specifiche, ci sono «giovani privi di esempi, di volontà positiva, di ancoraggio, che spesso fanno riferimento al branco e nove volte su dieci sono dei vili, incapaci di affermare la propria personalità, spesso pieni di sostanze stupefacenti e di alcool». O tempora o mores, la colpa è delle canne e delle birre, il gesto efferato dei cinque naziskin viene diluito nella crisi dei valori e Fini, siccome con quella sigla non c’entra niente ed è un uomo di stato ripulito dal ciarpame ideologico del secolo scorso, dall’alto del suo ruolo immacolato bacchetta scuola, famiglia, cinema e tv e invoca «il ruolo pedagogico della politica». Si riferiva a se stesso, nel suo discorso alla camera, sentenziando che «la libertà è minacciata nel momento in cui nel suo nome si teorizza una presunta impossibilità di definire ciò che è giusto e ciò che non lo è»? Quale imbarazzo o quale sovrana indifferenza gli impedisce di guardare alla tragedia di Verona con un sentimento nudo di dolore e di condanna, invece di ammantarsi di metri relativi, condanne dell’ideologia altrui e prediche moraleggianti per tutti? Ma Fini è un uomo di stato, come Bruto che era un uomo d’onore, e tanto basta.
Da uomo di stato e d’onore, Fini aveva condannato il relativismo culturale, che è la sana e irrinunciabile capacità di leggere le culture diverse dalla nostra, confondendolo con il relativismo etico, che è l’insana e pilatesca scappatoia di chi sfugge al giudizio morale dei fatti usando i metri e le misure che più gli convengono. Di fronte alla tragedia di Verona la mschera è caduta e ora si capisce che sotto non c’era solo ignoranza. Condannare il relativismo culturale come «male assoluto» va benissimo per instillare diffidenza, incomprensione e odio per chi è diverso da «noi» e minaccia la sicurezza proprietaria degli abitanti «legittimi» di Verona o di Roma o di qualunque altro posto. Praticare il relativismo etico va altrettanto bene per lavarsi le mani quando il male assoluto, senza virgolette, si manifesta dentro quel «noi», rivelando l’odio e la violenza che immancabilmente lo fratturano.


Si sono costituiti altri due autori del pestaggio del primo maggio a Verona. Ne mancano all’appello ancora due. L’accusa è omicidio. Tra loro due erano stati indagati l’anno scorso per una serie di aggressioni a gay, comunisti e meridionali
Quei bravi ragazzi a caccia del «diverso»
Quattro degli aggressori sono ultras, il quinto non va allo stadio e non fa politica. E sono tutti giovani «normali». Ecco l’identikit degli assassini di Nicola, e del sindaco leghista Tosi che partecipa ai cortei dell’estrema destra e prega per le «malefatte degli omosessuali»
Paola Bonatelli
Verona

Si è presentato in questura accompagnato dal suo avvocato e ha raccontato il massacro. Frequenta il penultimo anno delle superiori – ieri al liceo classico Maffei i suoi professori erano disperati, qualcuno piangeva – Raffaele Dalle Donne, il diciannovenne veronese che per primo ha ammesso di aver partecipato al pestaggio che nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio ha ucciso Nicola Tommasoli, 28 anni, disegnatore industriale, morto ieri senza mai essere uscito dal coma. Nella notte tra domenica e lunedì gli investigatori hanno fermato altri due ragazzi, Andrea Vesentini, 20 anni, e Guglielmo Corsi, 19, mentre sono ricercati gli ultimi due componenti del gruppo, probabilmente fuggiti in Austria, di cui si conoscono solo i soprannomi, «Peri» e «Tarabuio». I tre fermati si trovano nel carcere di Montorio a disposizione delle autorità giudiziarie; il fermo per «lesioni gravissime» sarà inevitabilmente trasformato nell’accusa di omicidio. Racconta il dirigente della Digos Luciano Iaccarino, che con la sua squadra e i carabinieri ha condotto le indagini: «Siamo andati a casa di Dalle Donne sabato scorso. Il ragazzo, insieme a uno dei due latitanti, faceva parte del gruppo dei 17 perquisiti e indagati l’anno scorso, nell’ambito dell’inchiesta su alcuni pestaggi di “diversi” avvenuti in centro. Non l’abbiamo trovato, c’erano i suoi genitori. Domenica è venuto a costituirsi accompagnato dal suo legale. Oltre all’accusa (associazione per delinquere allo scopo di compiere aggressioni con l’aggravante della legge Mancino, ndr) che gli pendeva sulla testa, aveva ricevuto la sanzione di allontanamento dagli stadi per gli scontri durante una partita Hellas-Genoa. In realtà quattro di loro sono ultras dell’Hellas mentre Andrea Vesentini non va allo stadio né fa politica, è solo amico di Guglielmo Corsi. C’è il legame con la curva, dove qualcuno gli ha messo in mano una croce celtica. Ma di politico c’è solo la patina, la vera droga è l’amicizia, il branco, dove possono fare i duri. La partita, il bar, la politica sono punti di aggregazione, dove purtroppo si fa sottocultura. Sono fatti gravissimi che nascondono un disagio enorme».
Gli stadi come vivaio dell’estrema destra, sfruttando gioventù, ignoranza e testosterone. I giovani in carcere non sembrano essere militanti di nessuna formazione – il Veneto Front Skinhead ha già dichiarato la sua estraneità a fatti e persone – mentre di Raffaele Dalle Donne si sa – secondo la testimonianza di un familiare – che aveva rotto con Blocco Studentesco, gli studenti legati alla destra radicale, e che stava riprendendo il ritmo scolastico dopo un periodo di crisi. Se il suo avvocato Roberto Bussinello – per inciso leader oltre che difensore dell’estrema destra locale – la butta sulla «lite tra ragazzi degenerata», il procuratore capo Guido Papalìa, titolare dell’inchiesta dello scorso anno con 17 indagati, rilancia l’allarme già espresso all’inizio dell’anno giudiziario: «A Verona si verificano atti di matrice criminale con una deriva xenofoba che coinvolgono giovani e giovanissimi. Non sono militanti di gruppi neonazisti organizzati anche se praticano la stessa ideologia e usano gli stessi simboli, sono aggregazioni motivate dalla violenza per la violenza».
Mentre Verona esprime il suo dolore per la morte di Nicola – finché scriviamo al presidio sul luogo dell’aggressione c’è una marea di cittadini – e il consiglio comunale programma per giovedì prossimo una seduta straordinaria «per manifestare la ferma condanna di tutte le forze politiche sull’accaduto», azzardando pure una manifestazione silenziosa sulle scalinate del municipio, la sinistra, in primis il capogruppo del Pdci Graziano Perini, chiede a gran voce le dimissioni del sindaco leghista Flavio Tosi, storicamente legato alla destra radicale e fautore di una «sicurezza» che produce solo odio e paura senza proteggere nessuno. Tosi, che prima di diventare sindaco è stato segretario del Carroccio, consigliere in Comune, provincia e Regione, dove ha ricoperto anche l’incarico di assessore ai Servizi sanitari, si salva spesso «in extremis». Confida nella sua popolarità dovuta ai suoi modi da butel (ragazzo) del quartiere. Ma a questo punto forse anche lui teme che non basterà.
Sul luogo dell’aggressione la gente in questi giorni ha deposto fiori e lettere che parlano chiaro. Sono indirizzate al sindaco e alla città: «Caro sindaco – si legge – ti ricordo che il tuo razzismo è squadrismo che la superficialità culturale fa parte della tua storia e di quelli che in questo luogo hanno dato prova di sè e che queste persone sono generate da te, cara Verona», e un’altra si riferisce alle dichiarazioni rilasciate da Tosi dopo l’episodio di violenza: «No, non è uno su un milione (così aveva detto il sindaco, ndr) è una delle tante che ci feriscono il cuore e la coscienza in questa città».
Parole pesanti come pietre. Come dimenticare, del resto, oltre alla scia sanguinosa delle aggressioni neofasciste di questi anni, la partecipazione di Tosi al corteo della destra radicale del 15 dicembre scorso – ma lui ci andava già nel 1999 – dopo il quale ci fu la «caccia al terrone» e il pestaggio di tre parà meridionali? Oppure la condanna sua e di cinque suoi sodali – tra cui la sorella, attuale capogruppo della Lega in consiglio comunale – per incitamento all’odio razziale e violazione della legge Mancino per una campagna contro gli zingari, poi tramutata in condanna per propaganda razzista e che prossimamente tornerà alla corte d’appello di Venezia dopo l’intervento della Cassazione? O ancora i suoi stretti legami con gli integralisti cattolici, con cui si inginocchiava alle «messe riparatrici» per le malefatte degli omosessuali? Ma soprattutto come dimenticare che ha sdoganato i neonazisti, dal momento che l’ex skinhead Andrea Miglioranzi, che suonava nel gruppo nazirock dei Gesta Bellica, è il capogruppo della sua lista in consiglio comunale?


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