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La città non si vende né si compra... si vive!

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NON E’ SOLO UN ELETTRODOTTO

Intervista a Nicoletta Dosio del movimento No Tav. Attraverso le sue parole una riflessione sulle mega infrastrutture e le lotte contro di esse, dagli elettrodotti alle linee ferroviarie ad alta velocità: la devastazione e il saccheggio dei territori perpetrati per mezzo delle grandi opere inutili.

Cliccando qui puoi leggere l’intervista in formato pdf.

Lucca Libera: puoi introdurre brevemente la questione dell’elettrodotto che stanno realizzando in Val di Susa?

Nicoletta: questa linea viene costruita in collaborazione tra due società, Terna e Transenergia, quest’ultima formata dalla Compagnia Italiana Energia e dalla Sitaf, la società che gestisce l’autostrada A32. Si tratta della linea Grand’Ile-Piossasco, lunga 190 km di cui 95 in Italia, che dovrebbe unire con un elettrodotto interrato il Piemonte e la Savoia. Tra l’altro, al confine con la Francia dovrebbe sfruttare la nuova galleria dell’autostrada A32, prima chiamata “canna di sicurezza” ora definita “canna di servizio”, perché vogliono potenziare il traffico stradale. Aumentare il traffico stradale potrebbe sembrare in contraddizione con il progetto Tav, in realtà la nuova canna serve perché è molto costosa. Come al solito, il primo significato di opere come queste è: buttarci dei soldi. Il secondo significato è quello di poter occupare i territori. Ciò vale anche per l’elettrodotto, in più con questo c’è la possibilità di entrare nel business del controllo internazionale delle risorse. Comunque, alla base di tutto c’è sempre il tentativo di costruire una grande opera e attraverso questa distruggere il territorio e l’ambiente. La distruzione porta soldi: si distrugge per poi rimettere a posto, è come la guerra. Con la guerra si spende nel farla e poi nel ricostruire, in più viene occupato per sempre il territorio conquistato.

Lucca Libera: facciamo un passo indietro: la faccenda del mega elettrodotto inizia negli anni ’80, con un progetto che prevedeva una linea aerea a 380 kV lungo la Val di Susa…

Nicoletta: sì, allora la linea si chiamava Grand’Ile-Moncenisio-Piossasco e in Valsusa ne venimmo a conoscenza nel 1986. Ci venne detto che volevano costruire questo mega elettrodotto a 380 kV per portare l’energia elettrica dalla Francia all’Italia, partendo dalla centrale nucleare Super-Phénix, la cui attività era iniziata nel 1985, per arrivare al nodo di Piossasco, in provincia di Torino. Nel 1986 noi stavamo già penando per la questione dell’autostrada, allora ancora in costruzione.

Lucca Libera: dunque il territorio valsusino era già in subbuglio per la questione dell’autostrada A32?

Nicoletta: i disastri che questa infrastruttura comportava per la Valle di Susa, non solo ambientali ma anche economici e rispetto alla qualità della vita e del lavoro, erano nel 1986 sotto gli occhi di tutti. Di autostrada si era cominciato a parlare nei primi anni ’80. Anche lì partirono, come vogliono fare adesso con la questione dell’alta velocità, dal traforo. Quindi la prima cosa che fecero fu il tunnel del Frejus e lo misero immediatamente in funzione. Ovviamente il traffico scese subito lungo le strade della Valle, soprattutto i camion. Partirono con la costruzione del tunnel per far percepire l’autostrada come un modo per risolvere il problema del traffico che passava per i paesi. Quando si costruisce una mega infrastruttura è chiaro che si apre la via all’inquinamento, all’occupazione e allo spreco del territorio, alla distruzione della salute e dell’ambiente. Inoltre, i costi si vanno sempre a moltiplicare: questa autostrada aumentò di dieci volte i preventivi originari. La percezione tra la popolazione di cosa significasse un’autostrada all’interno di una valle che nel tratto di massima ampiezza arriva a un chilometro e mezzo e che già conteneva due statali, due strade intercomunali e una ferrovia internazionale, oltre all’unica cosa naturale rappresentata dal fiume Dora, be’ chiaramente non poteva essere positiva. Immettere una nuova, pesante, infrastruttura costituiva un problema notevole di dispendio del territorio ma anche di distruzione urbanistica: bisognava pur farla passare da qualche parte. E, infatti, la fecero passare in buona parte sulla Dora, con tutto il pericolo che la cosa comporta soprattutto per l’inquinamento delle acque. Per questa autostrada passano anche sostanze pericolose che non passano da altre parti. Inoltre, nella bassa Valle, nella zona di Avigliana e Almese, l’autostrada comportò la distruzione di tutta un’economia: l’orticoltura e la frutticoltura, piccoli interessi economici rispetto ai loro grandi progetti, ma fondamentali per intere famiglie. La prima risposta della popolazione valsusina fu di grande preoccupazione: il degrado, anche urbanistico, divenne notevole, si cominciarono a costruire svincoli autostradali, parcheggi ed enormi capannoni, poi rimasti vuoti. Insomma, tutta la porcheria che nasce intorno a queste grandi infrastrutture: la distruzione va sempre oltre il terreno occupato materialmente dalla singola infrastruttura. Si cominciava ad avvertire la desolazione di tutto quanto un territorio, la gente lo capiva. Anche alcuni sindaci, in un primo momento, si dissero preoccupati. Ma l’opera era data come inevitabile da una gran parte delle amministrazioni comunali. Su questo non tutti eravamo d’accordo: a Bussoleno fondammo un comitato spontaneo per un no integrale all’opera, per cercare di fermarla. Precedentemente ci eravamo opposti anche al traforo, ma non eravamo molti. La nostra realtà non era solo ambientalista, metteva in luce anche la questione di un lavoro che non uccidesse, dell’uso delle risorse pubbliche a fini pubblici, della qualità della vita, del paesaggio. Rispetto al problema del lavoro, eravamo ben consapevoli che queste grandi male opere sono pericolose anche per chi le costruisce. Sono alla luce del sole i morti sul lavoro all’interno delle mega infrastrutture, anche se nessuno vuole vederli. Lo stesso avviene per le malattie professionali. I lavori che distruggono l’ambiente sono anche quelli che distruggono la salute delle persone. Con un’unica perenne finalità, quella del profitto. Questi danni, queste nocività non sono mitigabili, il profitto non cerca mitigazioni, sono fasulle le mitigazioni che dovrebbero migliorare la qualità del lavoro. Dire che si può fare un lavoro rispettando anche la qualità della vita di chi questo lavoro lo fa è un’enorme bugia, perché non lo vogliono fare, non renderebbe abbastanza. La pericolosità del lavoro e la distruzione del territorio sono le due facce della stessa medaglia. La radice è sempre quella: i grandi interessi, i grandi capitali di chi è pronto ad usare e gettare le persone, le professionalità, oltre alla vita e al futuro di tutti. Le grandi opere sono sempre grandi male opere.

Lucca Libera: come si svolse la protesta contro l’autostrada?

Nicoletta: a un certo punto tutto fu affidato alle grandi associazioni ambientaliste che entrarono nella partita come rappresentanti degli interessi diffusi, cioè della popolazione in generale, della salute, dell’ambiente. Come tali, tuttavia, non dissero no all’opera. Dissero che l’opera poteva e doveva essere mitigata, era inevitabile farla ma si poteva fare in forma migliore. Fu quindi istituito un tavolo tecnico a Torino, presso la sede della Sitaf, in cui si vedevano periodicamente. Noi come comitato non sedemmo mai a quel tavolo, in parte perché eravamo i guastafeste di sempre e continuiamo ad esserlo e finché vivremo speriamo di continuare ad esserlo, perché quei festini non ci piacciono. Dunque, loro andarono e trattarono. E quale fu il risultato finale? Quello di dare a questa mega infrastruttura il fregio di autostrada ecologica della Valle di Susa, in quanto costruita con la partecipazione e i consigli degli ambientalisti. Noi però continuammo a lottare e infatti Bussoleno fu l’ultimo paese in cui passò l’autostrada. Essa funzionava da Torino a Bussoleno e dal Frejus a Bussoleno: qui tutto il traffico entrava nel paese. Alla fine ci presero un po’ per fame, perché ovviamente la gente protestava, nonostante tutti avessero partecipato con noi nel fronte dell’opposizione. Oltretutto Bussoleno avrebbe dovuto essere divisa in due dall’autostrada con un trincerone. Allora si arrivò all’ultima mediazione, cioè una galleria per salvare il paese. Sapevamo benissimo che era una mediazione al ribasso e non poteva che essere tale. Infatti comportò il taglio delle falde acquifere per tutta una zona. In più, a causa della fretta con cui volevano portare a termine il lavoro, si ebbe la morte di un lavoratore all’interno della galleria. Anche sulla galleria noi come comitato ci rifiutammo di mediare. Con essa, tuttavia, la gente tirò un sospiro di sollievo: almeno i terreni e il paese non erano distrutti dall’autostrada. Fu davvero una magra consolazione e mostrò in modo inequivocabile che rispetto a queste grandi male opere non c’è mediazione possibile, anche quando ti danno l’impressione di stare a sentire i tuoi bisogni in realtà loro pensano ai loro grandi interessi. E fu così per tutto, anche per le compensazioni, davanti alle quali i Comuni alla fine cedettero. Così avviene adesso per la questione dell’alta velocità: ai tavoli sulle compensazioni si è arrivati a dire che il 5% dell’intera opera sarà utilizzato per migliorare la vita in Valle di Susa. Noi lo sappiamo come loro migliorano: altre infrastrutture. Nel caso dell’autostrada furono proposte misere compensazioni: campi da calcio e piste ciclabili lungo l’autostrada. La compensazione delle compensazioni era la messa in sicurezza della Valle rispetto alle alluvioni e il magistrato del Po affidò quest’opera ai costruttori dell’autostrada, i quali si peritarono di mettere in sicurezza… l’autostrada! Risultato: alla prima grande pioggia la Valle fu completamente allagata e si dovettero spendere altri soldi. Il patto con Mefistofele è sempre valido…

Lucca Libera: l’autostrada, dunque, veniva portata a termine nei primi anni ‘90, proprio quando interveniva pesantemente la questione dell’elettrodotto…

Nicoletta: sì, l’elettrodotto che rientrava sempre nella logica dei cosiddetti corridoi di traffico. Infatti, in Europa stava andando avanti l’Unione Europea, che andava a sostituire la Comunità Economica Europea. Rispetto alla CEE, la UE era molto più centrata sulle privatizzazioni, sui grandi poteri, sulle banche: era l’Europa di Maastricht, città dei Paesi Bassi in cui nel 1992 fu firmato il Trattato sull’Unione Europea. Sono gli anni in cui si inizia il discorso dell’alta velocità, in cui si inaugura l’autostrada, in cui si progetta il mega elettrodotto. Tutte infrastrutture funzionali alla visione dell’Europa di Maastricht, l’Europa dei grandi corridoi di traffico per merci ed energia. La prospettiva era da lontano a lontano: chi si trovava in mezzo ai corridoi doveva subire. Un corridoio non è bello neanche in una casa e noi cominciammo a dire che volevano vivere anche in una bella cucina, in un salotto, non in corridoio. Di qui si iniziò a ragionare anche rispetto all’attuale modello di sviluppo, una critica generale che però nasceva dalla vita reale dei territori. Si prende consapevolezza e coscienza di come stanno le cose soprattutto quando le si vivono. Da parte nostra ci fu sempre la volontà di allargare questa consapevolezza. La lotta contro l’elettrodotto fu un segno di questo: la portammo avanti collegandoci anche ai grandi temi, non trattando solo i temi del dissesto idrogeologico. Il dissesto era già di per sé evidente, infatti noi abbiamo già un elettrodotto che passa sul versante orografico sinistro della Dora, in una zona ad alto rischio. Loro volevano farne un altro, in parallelo, a 200 metri da quello esistente, sullo stesso versante e sulla stessa fascia abitata, con i conseguenti enormi rischi per la salute. Decidemmo di dire no, e questa volta non furono più le associazioni ambientaliste a portare avanti l’opposizione, ma fondammo fin da subito un comitato. Partimmo con una raccolta di firme in modo da coinvolgere le persone nei mercati, nei paesi, e nacque il comitato contro il mega elettrodotto Grand’Ile-Moncenisio-Piossasco. Evitammo anche di partire dalle amministrazioni comunali, che furono coinvolte solo in seguito per gli atti formali che erano comunque necessari. Cominciammo, dunque, da uno zoccolo duro fatto di cittadini che prendevano coscienza di quale era il problema. La loro visione andava già al di là dell’orticello di casa, anche se in pratica si partiva di lì, perché si parlava del diritto alla sopravvivenza delle piccolissime località. Non credo che esistano lotte nimby (not in my backyard, “non nel mio giardino”) tra le popolazioni, perché il diritto a vivere è fondamentale ed è di tutti, anche delle piccole realtà. Quando questo è chiaro non c’è possibilità di arrivare a compromessi, perché se la gente capisce che è messa in discussione la sua nuda esistenza, trova la forza per dire no e cresce e comprende. Comunque, la nostra lotta fu anche contro il nucleare: in Italia nel 1986 c’era stato il referendum contro il nucleare e dalla Francia volevano trasportare energia proveniente dalle centrali nucleari. L’Enel era azionista per un terzo della centrale Super-Phénix e tentava di importare l’energia non perché in Italia fosse insufficiente, questa era una favola, ma perché volevano importarla a prezzo minore, facendola pagare però a noi allo stesso prezzo della produzione locale: di qui il business. L’Enel investì in questo anziché potenziare la ricerca sulle energie alternative, pulite e rinnovabili. Ciò avvenne solo quando servì a fare business, con lo sfruttamento dei grandi impianti del solare e dell’eolico. Così oggi ci troviamo intere campagne lastricate di pannelli fotovoltaici e interi crinali collinari pieni di pale eoliche, soprattutto nel meridione. In questo modo si perde il senso delle energie alternative, ossia del controllo popolare e dal basso di tutte le risorse e del loro uso ai fini della vita vera, non del profitto. Quindi il discorso delle energie alternative è decollato allora solo nel senso delle grandi infrastrutture calate dall’alto.

Lucca Libera: nonostante gli enormi interessi in gioco, riusciste tuttavia ad organizzarvi per portare avanti la lotta contro l’elettrodotto. Quali furono i passaggi più importanti?

Nicoletta: ci collegammo con la parte francese, dove c’erano dei gruppi che avevano cominciato a lottare contro il degrado della Valle della Maurienne e contro il nucleare, a dimostrazione del fatto che non è vero che i francesi sono tutti allineati sulla questione del nucleare. Si sviluppò, nel caso dell’elettrodotto, una vera lotta popolare, nata dal basso, senza leader e che riuscì a coinvolgere anche le amministrazioni locali. In particolare, ci fu un sindaco, Romano Perino di Mompantero, che era uno di quelli che avevano dato l’assenso all’autostrada. Da quell’opera il suo paese era stato penalizzato tantissimo, ciò lo fece crescere notevolmente, per cui ci dette un forte aiuto contro il mega elettrodotto, fino a divenire punto di riferimento in Comunità Montana, mettendosi anche contro gli altri amministratori. In questo senso riuscimmo a coinvolgere le amministrazioni locali: senza deleghe. Per quanto riguarda le associazioni ambientaliste, ci diede una mano Pro Natura della Valsusa, molto meno le altre, perché continuavano ad avere la visione della rappresentanza, della delega, ovvero io come grande associazione mi prendo una delega e faccio i tuoi interessi. Noi dicevamo che la gente doveva imparare a fare i propri interessi collettivamente, partendo dal basso, dalla realtà vera della vita. Con questo metodo cominciammo a trovarci e a fare assemblee. I luoghi erano le piazze, non i palazzi. Di convegni, alla fine, ne facemmo solo uno ad Avigliana, quando già ormai stavamo vincendo e riuscivamo a creare contraddizioni, addirittura all’interno della Regione Piemonte. L’aspetto importante fu dunque andare nelle piazze, nei mercati, parlare alle persone. Facevamo anche delle manifestazioni, che erano piccole, non erano le grandi manifestazioni No Tav. Ma erano comunque capaci di mettere insieme tante storie, anche di origini diverse, perché l’argomento era forte e importante. Fu così che andammo avanti e nel cammino riuscimmo anche a sfatare tante bugie che venivano dette. Ci mettemmo in collegamento con tutta una serie di realtà, sempre di tipo popolare, che lottavano in Italia e lì scoprimmo che il problema non era solo la linea Grand’Ile-Moncenisio-Piossasco: dopo Piossasco c’era un tracciato che portava in Liguria e dalla Liguria un pezzo giungeva a La Spezia, mentre sul versante orientale c’erano i comitati veneti che lottavano anch’essi contro i mega elettrodotti che distruggevano l’economia agricola. Un tema importante, allora sconosciuto, che venne fuori proprio grazie ai comitati fu quello della salute. Si cominciò a parlare allora della questione dei campi elettromagnetici e furono coinvolte delle università: all’università di Bologna il professor Maltoni faceva degli studi su questi temi. Avemmo a un certo punto anche dei contrasti, perché lì facevano degli studi sui topi, mentre noi non volevamo assolutamente esperimenti su animali, visto anche che già esisteva tutta una serie di dati informatizzati su cui era possibile fare delle indagini epidemiologiche. Volevamo evitare di fare altre vittime: nel momento in cui difendi l’ambiente e la vita, le difendi anche nelle sue forme animali, non era necessario far morire un povero topo per provare per l’ennesima volta che l’elettromagnetismo è nocivo. Quindi approfondimmo le nostre conoscenze partendo anche da studi che erano stati fatti in Unione Sovietica negli anni ’50 e ’60 sull’incidenza delle malattie di tipo genetico e delle leucemie sui macchinisti delle ferrovie. Loro, infatti, sulle locomotive vivevano all’interno di campi elettromagnetici. Era a quel punto ormai chiaro che l’esposizione a campi elettromagnetici faceva male alla salute ed erano notevoli le incidenze leucemiche sui bambini. Approfondimmo poi il fatto che quest’opera era assolutamente inutile e costosissima. Perché farla, dunque, se non era affatto indispensabile alla vita reale delle persone?

Lucca Libera: di fronte a queste evidenze come reagirono i promotori dell’opera?

Nicoletta: ci risposero: ah, ma voi vi mettete contro la pubblica utilità. E noi scoprimmo che non può esserci pubblica utilità dalla somma di mali individuali e vedemmo che ogni territorio aveva gli stessi nostri problemi. In Veneto e in Lombardia, nella zona di Franciacorta, si scoprì una cosa curiosa e allo stesso tempo preoccupante: esistevano già degli elettrodotti che passavano sulle vigne e l’Enel aveva inviato delle lettere ai vignaioli affinché mettessero a terra i fili metallici delle vigne, perché c’era il rischio di folgorazioni. Noi tirammo fuori tutte queste cose e la gente cominciò a riflettere sui problemi. Inoltre, la popolazione aveva bisogno di una battaglia: come sempre, e ciò vale anche per il Tav, la lotta ricrea comunità. Avere un obiettivo comune, importante, generoso serve anche dal punto di vista sociale, avvicina le persone e ti dà un altro spazio e un’altra dignità nella vita. La storia dell’autostrada ci aveva un po’ messi in ginocchio, la gente si sentiva umiliata e c’era un senso d’impotenza. La lotta contro il mega elettrodotto ridiede spazio e speranza, voglia di vivere e di lottare: cominciò a ricrearsi quel senso della collettività che chiaramente non serve ai grandi costruttori né ai grandi banchieri né al grande capitale, anzi è ciò che da essi è maggiormente temuto. La lotta divenne per loro preoccupante, addirittura il Politecnico di Torino, che aveva creato un dipartimento di studi sulla mitigazione dei conflitti, istituì un master sull’esperienza della nostra lotta. Vennero anche degli intervistatori a farci delle domande. Cosa volevano dimostrare? Semplicemente come potevano continuare a vincere coinvolgendo le popolazioni: per loro il vero male stava nel fatto che non ci avevano coinvolti e non ci avevano spiegato l’infrastruttura. Il master iniziò quando la battaglia contro l’elettrodotto era ancora in corso e quindi era finalizzato a capire come fare a rimetterci in ginocchio. Era una sorta di laboratorio che indagò qui e in altre parti d’Italia. Tuttavia la Valsusa era la situazione per loro più preoccupante, anche perché avevano altri progetti: cominciavamo allora a sentire cose sul treno superveloce e sulla modernizzazione della ferrovia. Proprio nei primi anni ‘90 iniziava la privatizzazione delle Ferrovie dello Stato, il piano Necci, e si prevedeva esplicitamente il potenziamento di 5.000 km di ferrovie compatibili con l’alta velocità contro il taglio e la dismissione di 11.000 km di reti ferroviarie. A questo punto inizia anche la vicenda del Tav, ma è importante capire, e lo si vede benissimo, che tutto è concatenato. Siamo di fronte a un progetto complessivo, un sistema. Quindi, lottare contro un mega elettrodotto o contro una linea ad alta velocità significa mettersi contro il sistema, è per questo che dopo, allora, loro reagiscono con la repressione o con l’inganno, cercando magari di comprarti. Non possono esserci mediazioni, perché nel momento in cui accetti di mediare sei già sconfitto, non avrai futuro. Fingeranno di concederti una piccola vittoria, una piccola compensazione, ma in realtà ti prenderanno tutto, riusciranno a fagocitarti: nel momento in cui accetti il compromesso entri nel sistema, se provi a dire un mezzo sì, loro ti tirano dentro, ti risucchiano. In quel momento, dunque, tentarono l’inganno del secolo: innescare, come sempre avviene, la guerra tra poveri.

Lucca Libera: nel caso dell’elettrodotto in cosa consistette questo inganno?

Nicoletta: misero di mezzo le acciaierie Ferrero. A un certo punto la Regione doveva decidere, ma nicchiava, perché si rendeva conto che esisteva un’opposizione abbastanza forte, la lotta popolare aveva tirato dalla propria parte i sindaci, nessuno di loro si schierò a favore dell’elettrodotto. Invece, la giunta della Comunità Montana, nonostante il parere contrario del consiglio, si espresse a favore dell’elettrodotto col parere vincolante dell’assessore al lavoro della Valle, perché era scoppiato il caso delle acciaierie Ferrero. Venne posta la solita questione: meglio morire d’inquinamento domani che di fame oggi. Ferrero era anche proprietario di centrali idroelettriche in Valle d’Aosta che vendevano il surplus all’Enel, quindi erano in affari fra loro. Ferrero accettò quindi di farsi parte in causa rispetto a questo: se non si fa il mega elettrodotto si chiude l’acciaieria. Si trattava di almeno 700 posti di lavoro. Però chi lavorava lì erano gli stessi che in quel territorio vivevano e l’acciaieria stessa inquinava moltissimo l’ambiente. La contraddizione ambiente-lavoro è la peggiore delle contraddizioni, tra le tante schifezze del capitale la più grande è quella di far amare agli schiavi le proprie catene, ti dice che puoi vivere solo grazie a questa catena, altrimenti crepi. Lì bisognava fare una scelta: noi andammo davanti alle acciaierie con dei volantini e cercammo di spiegare ai lavoratori che non era possibile che la sopravvivenza dell’acciaieria fosse improvvisamente legata al mega elettrodotto e dicemmo che con la sua realizzazione sarebbero peggiorate anche le condizioni lavorative, perché avrebbero aumentato i turni e i ritmi produttivi. Naturalmente non ci fu verso, il sindacato non riuscì a comportarsi decentemente, a parte una minoranza della Cgil. Così la bugia andò avanti. L’acciaieria, nel momento in cui la Regione doveva decidere, fece uno sciopero indotto, infatti gli operai furono pagati e portati in pullman davanti al palazzo della Regione. Fu fatta poi una manifestazione a Bussoleno a cui andammo anche noi del no. Lì vedemmo che per i lavoratori non era poi tutto così chiaro e non erano nemmeno tutti allineati, tuttavia ci prendemmo tanti insulti, ma era una cosa che dovevamo fare. La Regione, intanto, non decise nulla, mentre a Roma i procedimenti andavano avanti. Ma anche noi non stavamo fermi, a Mantova fondammo con le altre realtà italiane il Comitato contro i Campi Elettromagnetici e andammo insieme in parlamento e alla Commissione Ambiente. Qui trovammo un mondo di un’ignoranza totale, qualcuno venne ancora a dirci: eh, ma voi volete tornare al lume di candela. Ovviamente rispondemmo che la luce c’era, ma non solo: c’erano industrie che stavano chiudendo e non per mancanza di energia elettrica, era cominciata da tempo la deindustrializzazione della Valle. Strano che l’energia che prima alimentava tante industrie ora non bastasse per sostenerne molte meno. Credevano, poi, che la parte francese avesse già fatto tutto, erano convinti che l’elettrodotto fosse già al Moncenisio e che soltanto noi rompevamo i coglioni per quanto riguardava la parte italiana. Ovviamente non era assolutamente vero. Erano anche convinti che il tutto fosse anche supportato da un patto Italia-Francia, mentre il patto era solo fra l’Edf e l’Enel, non tra i due paesi. Addirittura la responsabile della Commissione Industria, una tal Costanza Pera, aveva già mandato al presidente della Confindustria un telegramma che diceva di stare tranquilli perché l’elettrodotto sarebbe stato fatto e avrebbero messo a tacere tutte le proteste. Il presidente della Commissione Ambiente andò a Parigi, vide che non c’era niente e quando tornò facemmo una grossa assemblea in Valle in cui lui disse chiaramente che avevamo ragione noi. Così il Ministero dell’Ambiente diede parere sfavorevole. Naturalmente ciò non avvenne per la questione della salute, perché questa è sempre stata considerata controversa: devono esserci almeno 10.000 morti accertati, come per l’amianto, per dire che determinate cose fanno male. La cosa assurda è che la facoltà di prova che un’opera fa male spetta alle vittime, mentre dovrebbero essere i proponenti a dimostrare che non fa male, ma questo nella legislazione italiana non è passato. Il famoso garantismo qui non esiste.

Lucca Libera: la lotta contro l’elettrodotto, dunque, si concluse con una vittoria della popolazione…

Nicoletta: sì, lì vincemmo. E fu una vittoria che diede sicuramente ossigeno alla nuova lotta che era agli albori: il movimento No Tav.

Lucca Libera: e qual è stato il destino dell’acciaieria?

Nicoletta: l’acciaieria non chiuse, anzi fu potenziata. Chiusero un’unità produttiva a Chivasso, che si trovava in area urbana, e portarono tutto qui. Le condizioni dei lavoratori peggiorarono drasticamente, la fabbrica fu intasata dai macchinari, ci misero un altro forno e altri laminatoi. I ritmi di lavoro aumentarono spaventosamente e lo spazio risultava sempre più ridotto. Purtroppo in quel periodo ci furono anche degli infortuni mortali sul lavoro. Questo è il lavoro dato dalle grandi male opere, questo è il lavoro che non vogliamo.

Lucca Libera: oggi, però, la questione elettrodotto torna ad essere all’ordine del giorno, con la novità dell’interramento.

Nicoletta: sì, questa volta propongono un mega elettrodotto interrato con un costo di un miliardo e mezzo di euro, pagato per metà dalla Transenergia e per metà dalla Terna, la quale un po’ in tutta Italia sta realizzando e progettando mega elettrodotti. In realtà non sarà tutto interrato, sono previsti anche dei piloni esterni, uno dei quali lo vorrebbero mettere in Val Clarea, dove ora c’è il Campo della Memoria realizzato dal movimento No Tav accanto al cantiere per il tunnel geognostico di Chiomonte. Per quel minuscolo terreno hanno offerto ai proprietari ben 10.000 euro, per fortuna l’offerta è stata rifiutata, visto che il figlio dei proprietari è un No Tav. Ovviamente procederanno con l’esproprio, ma evidentemente hanno fretta di entrarne in possesso. Non lo dicono chiaramente, ma una delle funzioni che avrà questo elettrodotto sarà quella fornire energia per potenziare i cantieri del Tav. Per questo motivo siamo contrari anche a questo progetto, oltre al fatto che per il resto è assolutamente inutile e darebbe un tipo di lavoro soltanto negativo. Infine, continuiamo a dire che le mega infrastrutture non vanno costruite, perché costituiscono una servitù dei territori, espropriano le popolazioni dell’autodeterminazione. E’ chiaro che l’interramento causerebbe meno problemi alla salute, ma è il sistema che non va: la sovranità popolare sui territori è una cosa importante. Non vuol dire “non nel mio giardino”, ma significa solidarietà in rete tra popolazioni diverse. Meno che mai in questo momento è necessario potenziare queste linee elettriche, se non per la finalità di trasportare elettricità prodotta dannosamente e pericolosamente: qui c’è in ballo il ripotenziamento delle centrali nucleari francesi e la sottomissione di altri popoli attraverso la fornitura di energia. I territori vengono occupati anche rendendoli schiavi delle energie prodotte e trasportate in un certo modo. La guerra all’uomo e al territorio si porta in tanti modi: c’è la guerra guerreggiata e c’è la guerra delle mega infrastrutture. Portare elettricità in grandi quantità in certi territori significa appropriarsi della popolazione e del suolo, perché l’elettricità non è della popolazione ma del privato che ce la porta o del nord del mondo che porta qualcosa al sud per privarlo di molto di più. Portano elettricità ma in realtà portano la guerra, non benessere ma schiavitù, il controllo delle fonti non viene dato ai popoli ma rimane nelle mani di pochi. Il dominio sul mondo di questo sistema maledetto va avanti anche con questi mezzi: i corridoi di traffico dell’Europa di Maastricht sono corridoi di potere. Contro questo bisogna essere molto chiari e bisogna combattere: si deve fare quello che serve nella vita reale e con generosità nei confronti di tutti. Così come portano l’energia, portano anche l’acqua, il gas, il petrolio. Cos’è l’Europa di Maastricht e del fiscal compact? E’ quella che ingenera la crisi per tagliare diritti. E’ l’Europa del trattato transoceanico con gli Stati Uniti per i commerci e gli investimenti, in cui le multinazionali diventano anche padrone delle leggi a livello nazionale. E’ l’Europa della deregolamentazione e delocalizzazione totale del lavoro, lo si porta là dove si può sfruttare meglio e inquinare di più. E’ un sistema complesso, non è solo un elettrodotto: quell’elettrodotto lì è tutto. Ecco perché in questo momento l’unica opzione possibile è l’opzione zero. Chiaramente non sempre riusciamo a imporla, ma deve esserci la coscienza che una determinata cosa non serve.

Lucca Libera: naturalmente tutto questo ragionamento comprende anche il Tav.

Nicoletta: è la nostra storia. La storia del Tav è la storia di un qualcosa di nuovo che vogliono costruire mentre abbiamo la ferrovia internazionale che funziona soltanto più per il 12% delle sue capacità. E’ la storia della rete ferroviaria piemontese, dove a fine anno scorso hanno tagliato 13 linee di grande traffico pendolare. E’ la storia di una Sicilia e di una Sardegna che hanno ferrovie ancora tutte a binario unico, così come quasi tutta la Liguria. Allora, vuoi dare lavoro? Fai le cose che servono alle persone, raddoppia la ferrovia là dove serve, metti in sicurezza i territori, crea un’energia alternativa che sia reale… invece no, avviene l’esatto contrario. Nel periodo della questione dell’elettrodotto hanno anche costruito la centrale in caserma di Venaus, quella dell’Irem. E’ una centrale che non ha mai funzionato a pieno, perché costruirla ha significato tagliare tutte le falde acquifere della zona e per anni e anni hanno lavorato le idrovore, e continuano a lavorare, perché c’è un lago sotterraneo, tutte le falde acquifere sono precipitate nel terreno. Oltre ad essere pericolosa e costosa è pure inefficiente e ha drenato tutte le acque della zona. Continua a creare problemi, scaricano le acque che passano dai macchinari nelle rogge, quindi non sono acque pulite. Questo è il mondo che non vogliamo, la nostra Valle dice: ne abbiamo già avuto abbastanza, ma non lo vogliamo neanche per gli altri. Da soli non ci si salva, non è che dici “non fatela qui, fatela altrove”. La storia del movimento No Tav è anche questa: nel 1996 andammo a Modena perché ci avevano detto che c’era una manifestazione contro il Tav. Quando arrivammo scoprimmo però che il Tav l’avevano accettato: c’erano due partiti, uno diceva che non doveva passare ai confini della città, l’altro che non doveva passare per la campagna. La lotta si riduceva a quello: l’accettiamo, però passi di lì e non passi di là. Alla fine l’hanno fatto passare da tutte le parti, hanno fatto gli svincoli, i nodi elettrici a servizio delle linee ad alta velocità ecc. La gente deve capire che in questo momento l’opzione zero è l’unica opzione possibile. Bisogna curare e rimettere in funzione l’esistente, migliorarlo. Chiediamoci perché qui in Valsusa possono interrare l’elettrodotto e altrove no. Perché per noi interrarlo sarebbe una compensazione, ma la salute non si compensa: è un diritto, non una compensazione. Allora facciano l’interramento degli elettrodotti già esistenti là dove sono utili e si smantellino quelli ormai inutili. Perché non mettere in sicurezza l’esistente anziché costruire il nuovo e magari poi abbandonare l’esistente al disastro annunciato? La stessa cosa vale per le linee ferroviarie e per le grandi fonti di energia, e qui ci troviamo di fronte a un discrimine: le cose le fai per il tuo portafoglio o le fai per il bene comune? Le fai per il tuo potere o per una vita collettiva e un futuro decente per tutti? Il discorso è sempre questo e lì si sceglie, ecco perché non può esserci compromesso, o si sta da una parte o dall’altra.

2 Responses to NON E’ SOLO UN ELETTRODOTTO

  1. Avatar Gemma urbani
    Gemma urbani says:

    Grazie. veramente un pozzo di notizie.
    Anche a Lucca ci sarà da lottare per conservare la sovranità sui nostri territori e sui beni della città

  2. Avatar capemarco
    capemarco says:

    Sono colpito dalla totale assenza di motivazioni contro l’elettrodotto in questa intervista…
    Pieno di motivazioni con il progetto di 30 anni fa, e motivazioni valide.
    Ma contro il progetto attuale (completamente diverso) non leggo nulla che induca ad essere contro