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”Precarietà, reddito e nuove garanzie sociali”
by Incontrotempo3 Monday, Oct. 16, 2006 at 9:47 AM mail:

Tavola rotonda e aseguire proiezione di "Reinvebtare il welfare"

Il sistema del lavoro, negli ultimi decenni del secolo XX, ha subito profonde trasformazioni.
Le strutture e le dinamiche che, dal dopoguerra fino agli anni Ottanta, hanno caratterizzato il sistema del lavoro hanno cambiato radicalmente aspetto. Da un lavoro a tempo pieno fondato sul principio del “lavoro per una vita”, caratterizzato da una ritmicità e continuatività della produzione e del sistema di lavoro in cui si determinava un’organizzazione della vita non meno ritmicamente scandita da cicli ben determinati, si è assistito ad una radicale trasformazione delle forme di produzione e di regolazione dei rapporti fra impresa e lavoro, alla decentralizzazione della produzione e alla flessibilità della prestazione.
Nel periodo precedente le scuole e le università pubbliche formavano l’individuo, prima del suo ingresso nel mondo del lavoro, il sistema pensionistico garantiva un certo grado di sicurezza economica a chi usciva da esso. Un insieme di garanzie sociali, il Welfare state, con cui lo Stato poteva sostenere anche gli squilibri intrinseci del sistema di lavoro.
Oggi il lavoro fisso è sempre meno una possibilità reale e si è iniziato a parlare di precarietà del lavoro e della vita quale risvolto negativo della flessibilità introdotta da questo nuovo sistema del lavoro. Forme di lavoro a termine, stagionale o d’inserimento, sono sempre esistite. Si trattava, però, quasi sempre di forme di lavoro circostanziate nel tempo e relative ad alcuni settori di produzione. Oggi la temporaneità della prestazione è stata esportata da settori specifici a tutta la produzione di servizi e non. La flessibilità si è imposta come modello di riferimento generale per tutto il mondo del lavoro e la precarietà, per anni circoscritta ad alcune aree della produzione, ha finito per coinvolgere vasti segmenti di produzione e strati sempre più larghi di popolazione. Il lavoratore flessibile e precario, si trova di fronte alle esigenze della propria esistenza privo della pur minima protezione sociale. Ciò comporta forti squilibri soprattutto nella gestione della propria vita presente e nelle scelte per il futuro. Nell’introdurre la flessibilità del lavoro, nel liberalizzare il rapporto tra impresa e lavoratori, la legislazione ha mancato di stabilire un sistema di garanzie che fosse adeguato a queste nuove forme di contratto di lavoro. La liberalizzazione dei contratti ha finito per coincidere con una vera e propria deregolamentazione dei rapporti tra lavoratori e impresa.
La flessibilità frammenta oggettivamente e soggettivamente la composizione della forza lavoro, delocalizza la produzione e spezza i legami sociali che si stabilivano tra i lavoratori e tra il lavoratore e il proprio lavoro. Il lavoro flessibile è sempre più spesso un lavoro individualizzato, dove ognuno gioca per sé, per un tempo determinato. I costi sociali di questa condizione sono spesso molto alti.
Il rapporto tra le scelte personali e le condizioni socio-economiche è particolarmente stringente per chi è in una condizione di precarietà. Le condizioni di instabilità economica restringono le possibilità di scelta sul presente, a prediligere soluzioni temporanee su ogni fronte e a dare seguito spesso a rinunce definitive (come crearsi una famiglia o avere figli). Con l’estendersi della precarietà, il ciclo di vita individuale è divenuto più articolato e meno certo. Nello stesso tempo, la formazione, una volta relegata all’età pre-lavorativa, oggi, sempre più, tende a sovrapporsi, temporalmente, alla fase del lavoro e del non lavoro: si parla infatti di “formazione continua” dei soggetti (long life learning).
Sapersi muovere tra le opportunità più differenti, saper scegliere, saper “fiutare le occasioni”, saper essere “imprenditore di se stesso”, saper rischiare: tutto questo richiede una pazienza e una saggezza che vengono dalle esperienze di vita in generale, per cui si parla sempre più spesso di individuazione di competenze di base e trasversali. Chi è in condizione di precarietà deve continuamente riorganizzare questo tempo libero in funzione delle richieste del mercato, delle sue fluttuazioni. È proprio la possibilità di affrontare questa organizzazione del proprio tempo extralavorativo a fare la differenza tra le opportunità che ciascun cittadino possiede per trovare un impiego dignitoso. Spesso, quando possono, sono le famiglie d’origine che fanno fronte a queste esigenze ma, in questo caso, diviene facilmente comprensibile quanto ciò pesi nel determinare una forte asimmetria tra le opportunità sociali su cui gli individui possono contare. Chi non ha un solido sostegno economico personale o familiare, indipendentemente spesso dalle sue capacità e dal suo impegno, difficilmente potrà fare adeguatamente fronte alla ricerca di una dignitosa allocazione professionale.
Va detto però che la flessibilità è un concetto ambivalente perché identifica un processo che, se da un lato individualizza il prestatore di forza lavoro, indebolendone la forza contrattuale, dall’altro lo libera dalla costrizione del posto fisso qualunque esso sia. Quest’ultimo aspetto potrebbe anche produrre, all’opposto, una maggiore valorizzazione del lavoratore stesso, sganciando la sua vita dalla routine e dalla ripetizione ed esaltandone le competenze soggettive, anche accompagnate da un ruolo maggiore della formazione professionale, in grado di permettere al lavoratore stesso, la costruzione di diverse opportunità professionali nel corso della sua vita. Una cosa possibile, questa, solo nel caso in cui si avessero delle adeguate garanzie di vita nei periodi di inattività. Si tratta, allora, di ripensare il concetto stesso di flessibilità. Si tratta di ridefinire la flessibilità in un’ottica che non veda il lavoratore come puro oggetto passivo, in balia delle fluttuazioni del mercato e delle esigenze dell’impresa, ma di valorizzare le sue capacità produttive, senza svilire le sue urgenze di vita. Si tratta di contrapporre alla flessibilità come condizione soltanto subita, un’impostazione che faccia della flessibilità un’occasione, una possibilità per i lavoratori: una “flessibilità agita”, per poter scegliere.
Si tratta di capire che, con la trasformazione delle condizioni generali del lavoro e della vita, vanno affermandosi nuovi problemi, bisogni sociali primari di un precariato sempre più diffuso. Si tratta di capire, soprattutto, che un lavoratore soggetto alla discontinuità e all’incertezza del reddito, è innanzi tutto un lavoratore fortemente ricattabile, perché costretto ad accettare qualunque occasione, anche la più degradante e mal retribuita, pur di avere un minimo di cui vivere. Cresce e prolifera senza limiti il lavoro nero e irregolare, tutto quel lavoro che è al limite e oltre la legalità. Cresce la speculazione sul lavoro, per cui la flessibilità diventa un’occasione per disporre di manodopera a basso costo e priva di coperture sindacali. La precarietà vuol dire anche questo: sottomissione a rapporti sfavorevoli perché non si ha la possibilità di rifiutare nulla, poiché nulla è garantito. Gli effetti di ciò sul costo del lavoro, sono facilmente immaginabili: si innesca un circolo vizioso che, data la disponibilità di manodopera sotto ricatto, conduce l’impresa a proporre salari sempre più bassi, come tra l’altro dimostrano le statistiche italiane sull’andamento del salario medio, caduto ben al di sotto della media europea.
Ciò sottende, evidentemente, che l’unico modo di ottenere reddito, è sottostare alla scarsità di opportunità realmente offerte, là dove solo i più forti ce la fanno. Una società così strutturata non può che avere quale propria conseguenza logica l’esclusione sociale, soprattutto dei meno abili e scaltri nel maneggiare le regole del mercato. I rapporti degli enti di intervento sociale agli esclusi (per esempio, la Caritas) confermano la crescita del fenomeno e il suo allargarsi su strati sociali tradizionalmente considerati abbastanza garantiti. Forte è l’incidenza della mancanza di lavoro e della disoccupazione classica, ma altrettanto forte è la condizione di precarietà che molti soggetti vivono attraversando continuamente lo stato di lavoratore attivo allo stato di disoccupato. I bisogni che scopriamo tra i lavoratori precari come loro debolezza sociale dimostrano la debolezza della società in quanto tale, dimostrano che, a fronte di un generale sviluppo della produzione flessibile e delle ricchezza che essa ha prodotto, nella società matura una condizione soggettiva di generale insicurezza verso il proprio presente e il proprio futuro. Il risultato di questo ciclo è una società più povera, più statica e perciò meno produttiva, una società con forti dispersioni di risorse.
In merito a questo vanno segnalate le preoccupazioni emergenti dai dati di fonte Eurostat in merito alla povertà che suggeriscono che questo “ è un fenomeno preoccupante perché in crescita. E solo grazie a massicci interventi sociali i Paesi membri dell'Unione riusciranno a gestire una situazione altrimenti esplosiva. A livello Ue, sono ben 72 milioni le persone in questa categoria, di cui 11 milioni (cioè circa il 15 per cento) si trovano in Italia”. Questo quadro và aggravandosi proprio a fronte di nuove forme di povertà che colpiscono in particolare i giovani. Secondo una ricerca dei servizi di accoglienza Caritas i giovani dai 18 ai 25 anni poveri e a rischio povertà vanno dai 600 mila a oltre il milione. Vanno segnalate infine le allarmanti previsioni che ci dicono che: “la Polonia è in testa alla classifica degli Stati a rischio povertà, con il 49 per cento della popolazione rispetto a una media Ue-25 del 40 per cento. In questa graduatoria, senza interventi sociali in Italia il 42 per cento della popolazione rischia la povertà. Seguono, tra gli altri Paesi, la Grecia (41 per cento), la Spagna (40 per cento) e la Finlandia (40 per cento).” (Fonte Eurostat 2005)
Dalla Francia con il revenue minimum d’insertion all’ Austria con la sozialhilfe fino ai modelli scandinavi e anglosassoni, le reti di protezione sociale oltre il lavoro sono una garanzia ed un diritto ormai decennale. Anche la Spagna negli ultimi anni ha dato vita a forme di reddito di base (renta basica) nelle diverse regioni iberiche. In Europa sono due i paesi che non alcuna forma di sostegno al reddito: Grecia e Italia nonostante la raccomandazione 92441 del 1992 sulla “garanzia minima di risorse” impegnasse il nostro paese ad adottare misure di reddito minimo come elemento qualificante.
Un problema quello delle nuove garanzie sociali, con la centralità del reddito diretto (monetario) e di quello indiretto (beni e servizi), che coinvolge l’intero continente europeo (che in molti paesi ha trovato già forme di sostegno e garanzie minime) e il nostro paese.
I nuovi problemi quindi vanno compresi nella urgenza che ognuno di essi esprime. È necessario trovare, per ciascuno di essi, un’adeguata soluzione, una forma di sostegno: l’insieme di quelle misure così individuate può definire un nuovo sistema di garanzie, un nuovo sistema di diritti, adeguato a far fronte ai rischi di dissoluzione della vita sociale e democratica.

Intervengono al dibattito: Infoxoa, Acrobax Project, Coordinamento Cittadino di lotta per la casa, Andrea Fumagalli, Ricercatori Precari, CW

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quando?
by A CHE ORA? Wednesday, Oct. 18, 2006 at 12:36 PM mail:

ripeto, quando e a che ora?

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F. Orwelliano
by il Lavoro Precario Rende Liberi! Wednesday, Oct. 18, 2006 at 12:55 PM mail:

Reddito di cittadinanza+lavoro precario=Libertà -
Operatori call center=Artigiani di seconda generazione o lavoratori subordinati?... è una LIBERA SCELTA INDIVIDUALE: l'ha scritto Fumagalli su Carta!

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incontrotempo 3
by www.acrobax.org Wednesday, Oct. 18, 2006 at 2:53 PM mail:

Venerdi 20 dalle ore 19 ad Acrobax, via della vasca navale 6 Roma.
http://www.acrobax.org per il programma intero

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