Dopo quasi due anni un magistrato di Genova, il giudice per le indagini preliminari Anna Ivaldi, è giunto alla stessa idea che s’erano fatti i testimoni oculari della notte di fuoco, cittadini genovesi, i visitatori della mattina dopo, tra i quali molti giornalisti, e naturalmente, in primo luogo e in presa diretta, le vittime della bastonatura: i ragazzi che dormivano sul parquet della palestra e lungo i corridoi della scuola Diaz non erano gli aggressori, erano solo gli aggrediti.
Gli aggressori stavano dall’altra parte, erano quelli che sfondavano pesanti cancelli di ferro con i loro gipponi, che menavano botte con i loro manganelli e che poi raccoglievano prove dell’assalto subito, senza stare troppo a guardare. Ricordo una prova: il fondo di una bottiglia di plastica tagliata a metà e colma di chiodi da carpentiere. Fu esibita quella misera bottiglia come un trofeo di guerra, un caricatore di proiettili che chissà quale arma avrebbe dovuto sparare. La scuola Diaz era per metà in ristrutturazione, era un cantiere dove carpentieri e muratori lavoravano davvero, con quei chiodi, con le assi di legno e con i martelli e con le mazzette (altre armi improprie, insieme con le magliette di Che Guevara).
Era la notte caldissima del 21 luglio, il povero Carletto Giuliani era morto in piazza Alimonda, migliaia avevano cercato di manifestare in pace, i “neri” avevano disputato le loro battaglie, la scuola Diaz, che era diventata un dormitorio, e la Pertini davanti (dove si nascondeva un pericoloso centrostampa) vennero prese d’assalto, come un avamposto di criminalità internazionale, dalle truppe dei carabinieri in tenuta antiosommossa. Le solerti forze dell’ordine presero a calci un po’ di computer (del centro stampa) e un po’ di teste, con la scusa di una rapida perquisizione notturna, naturalmente senza l’ombra di un mandato. Ricordo alla luce del primo sole il pavimento della palestra, un tappeto di biancheria, di magliette, di felpe, gli spazzolini da denti, tra le fette biscottate, il tubo di dentifricio, l’avanzo di marmellata, la merendina schiacciata, le forcine per i capelli delle ragazze, i nastri e i nastrini colorati, un rossetto, un paio di libri, le borse, le creme per il sole, gli zainetti e altre cose del genere: un piccola umanità quotidiana rovesciata a terra con violenza, calpestata, offesa, che chiunque poteva osservare con orrore e con dolore, come i resti di una deportazione improvvisa e di massa. Erano chiari anche i segni della “resistenza”: il sangue per terra e soprattutto il sangue sulle canne dei caloriferi, il sangue di una testa sbattuta contro.
Seguendo le macchie rosse, ormai rapprese, percorsi il corridoio e salii le scale bianche. Ricordo un bagno: qualcuno s’era rifugiato la dentro, qualcun altro aveva sfondato a calci la porta. Nel giro di un pianerottolo una ciocca di capelli e poi un’altra e poi un’altra ancora: qualcuno aveva trascinato lungo le scale qualcun altro. Probabilmente una ragazza dalle trecce invitanti. Bisogna ripetere “qualcuno” che è generico, niente altro: si sa che i novanta non global, accusati di resistenza aggravata, furto aggravato e porto di oggetti atti ad offendere, non furono colpevoli di nulla, non si sa chi siano stati i veri colpevoli, soprattutto i loro mandanti. La verità è mezza vuota e probabilmente non si arriverà mai a scriverla per intero.
La storia di Genova, la storia del suo G8 (primo atto di presentazione internazionale del governo di centro destra) è destinata a rimanere incompleta, coperta da uno spesso telone, come quello che il nostro Berlusconi fece tirare sulla facciata di un edificio che non gli piaceva alla vista di Palazzo Ducale (lo facevano anche i podestà fascisti, quando ricevevano in visita Mussolini). Naturalmente la verità ufficiale, quella giudiziaria. Chi ha visto (e magari anche partecipato) sa benissimo come andarono le cose: i famigerati black blok che si muovevano in libertà, i drappelli di polizia, carabinieri, finanzieri che sembravano guidati a colpire i più pacifici tra i manifestanti, a spezzare cortei, a rinchiuderli, ad aggredirli con i lacrimogeni, a picchiare isolati cittadini che non avrebbero potuto nuocere a nessuno.
Ricordo il finanziere agghindato come robocoop fuori ordinanza con le scarpette nike; il carabiniere che si sporgeva dal furgone, sollecitando l’incitamento all’assalto dei colleghi schierati; ricordo l’assurda carica al corteo lungo il mare dopo aver lasciato una ventina di teppisti scorazzare attorno a piazzale Rossetti, incendiando auto, fracassando vetrine. Ricordo un anziano poliziotto romano, vicino alla pensione, che mi confidò riferendosi ai suoi giovani colleghi: «Questi hanno perso la testa». Ricordo anche il giovane agente, che mi stava accanto in un momento di riposo, che urlava: «Lasciate fare a me, li spacco tutti».
Di tutto questo, di una violenza insensata, di una regia colpevole, di una inusitata e ingiustificata carica aggressiva tra le forze dell’ordine, del fumo urticante dei lacrimogeni, dei manganelli di ogni ordine, dei bastoni, dei tondini di ferro (del diametro di due centimetri) in mano agli agenti in borghese, delle assi di legno usate come clave, dei coretti fascisti, in una città in stato d’assedio, di Carletto Giuliani e di piazza Alimonda abbiamo visto molto o quasi tutto, abbiamo riconosciuto il ministro Scajola e il suo capo, altri ministri e sottosegretari. La verità un po’ l’abbiamo vissuta e raccontata. Vorremmo che venisse scritta anche nei registri giudiziari, senza dimenticare i nomi giusti, quelli degli inventori politici e degli esecutori manuali di quell’infernale fine settimana. Chissà che cosa cercavano.
|