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Stallo in Bolivia. La rivolta continua. Soldati di leva giustiziati
by dal manifesto Thursday, Oct. 16, 2003 at 12:11 PM mail:

Amnesty accusa Sanchez per l'«uso eccessivo della forza». Soldati di leva giustiziati dagli ufficiali. Il ruolo dell'ambasciata Usa. Wojtyla fa il Pilato.


Martedì è stata una giornata di tregua nello scontro che oppone ormai da un mese gran parte della popolazione e l'opposizione boliviane al presidente, filo-Usa e free market, Gonzalo Sanchez de Lozada, e che è precipitato da domenica in una vera rivolta popolare. Tregua relativa, per la verità dal momento che ci sarebbero stati altri morti e due minatori in marcia verso La Paz sono stati uccisi ieri. Fare dei numeri è difficile. Certe stime parlano di 53 morti da domenica, altre - come quelle dell'Assemblea permanente per i diritti umani della Bolivia e della chiesa cattolica - parlano di una settantina. In ogni caso un massacro.

Lo scontro è tutt'altro che chiuso, nonostante la repressione, gli appelli alla calma di certuni e il deciso appoggio al Gringo Sanchez e alla «democrazia» di altri. Anzi l'aria è che sia destinato ad allargarsi. Sempre nuovi settori sociali si uniscono alla rivolta, sempre più numerose sono le marce - una vecchia tradizione della Bolivia - di masse di uomini, donne e bambini che percorrono a piedi centinaia di chilometri dai campi e dalle montagne verso le città. La Paz è isolata e presidiata dai carri armati. Il Congresso è chiuso. Banche e scuole sono chiuse, idem negozi e supermercati, gli ospedali sono privi di servizi essenziali e stentano a funzionare e martedì sono morti tre bambini per mancanza di ossigeno. Il campionato di calcio è sospeso. La capitale è quasi isolata dal resto del paese e il paese è isolato dal resto del mondo esterno. L'aeroporto internazionale è chiuso. A El Alto, teatro del massacro di domenica, i manifestanti bloccano ogni via di accesso verso il fondo del cratere dove si trova La Paz. Le strade sono interrotte da barricare di pneumaticci e sassi. Così è per le altre città - Cochabamba, Potosi, Oruro, Sucre, Santa Cruz - e per tutte le strade principali.

L'opposizione, anzi le opposizioni perché come dice qui sotto il padre Eugenio Cotter, sono molto divise fra loro a causa della forte tendenza al caudillismo, chiedono all'unisono le dimissioni di Sanchez, che però rifiuta di andarsene e rilancia offerte di dialogo a cui nessuno - lui per primo vista la militarizzazione e repressione che ha scatenato - crede più. Ieri si è riunito con i suoi partner di governo che sono tentati di lasciarlo andare al suo destino per non affogare con lui. Che gode di un livello di gradimento pari al 9%. Il vicepresidente Meza lo ha mollato, un ministro del Mir si è dimesso (nonostante l'appoggio incondizionato, l'unico, espresso dall'ineffabile ex presidente Jaime Paz Zamora, l'ex-guerrigliero che si presenta come «socialdemocratico») e i ministri di Nueva Fuerza repubblicana, destra populista, si sono dimessi. Ieri anche il leader di Nfr, Manfred reyes Villa, ha preso le distanze: «se per salvare la democrazia fosse necessario che Sanchez si dimettesse, questa ipotesi non può essere esclusa». Evo Morales e Felipe Quispe, i due popolari leader indigeni - che peraltro non si amano per nulla - hanno ribadito che la mobilitazione popolare andrà avanti fino a che «l'assassino» Sanchez non se ne sarà andato. «Anche se dovesse durare due anni», ha precisato el Malku (il condor) Quispe.

Al Gringo restano le forze armate e fuori un vasto spiegamento che parte dagli Usa - il suo principale sponsor -, passa per l'Osa, la Ue, l'Onu per arrivare fino al papa. Lunedì il comandante delle forze armate, generale Roberto Claros ha garantito l'appoggio «non alla persona» ma «a un governo legittimamente costituito». C'è chi ha creduto di vedere in questa distinzione una presa di distanze e una porta aperta. Ma forse non è così. E' certo invece che ci sono problemi con i soldati di leva, riluttanti a sparare sulla folla. Ci sono testimonianze di alcuni soldati passati per le armi. Evo Morales riferisce di un incontro, lunedì, fra l'ambasciatore Usa a La Paz, Greenlee (un passato nella Cia) e l'alto comando militare. Martedì l'ambasciata americana ha diffuso un comunicato «di pieno appoggio a questo governo, democraticamente eletto, che non deve essere rimpiazzato da uno imposto con la forza o con la violenza dei delinquenti». E il papa, ieri, ha lanciato un appello un po' pilatesco da Roma per la fine della violenza esortando i boliviani e scegliere «il dialogo civile». Più netta la denuncia di Amnesty che ha anch'essa lanciato «un appello mondiale» ma «al governo boliviano» accusandolo di un «uso eccessivo della forza».



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