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Come affonda un Presidente
by di Siegmund Ginzberg Saturday, Sep. 03, 2005 at 12:24 AM mail:

La democrazia americana funziona altrimenti. Ma lo scricchiolio è diventato assordante.

Come affonda un Presidente
di Siegmund Ginzberg

Galleggiano i cadaveri. Si teme possano essere migliaia. Impazzano saccheggi, sparatorie, incendi dolosi. Gli elicotteri militari americani sono stati bersagliati da colpi di arma da fuoco da terra. Esplode la rabbia della gente, il caos, le recriminazioni. Washington manda le truppe e i blindati. È stata proclamatala legge marziale. L’ordine è sparare a vista. Le tv ingaggiano guardie armate per proteggere reporter e cameramen. No, non in Iraq, a New Orleans, che una volta chiamavano The Big Easy, la città dai modi tranquilli.Com’è che le notizie da New Orleans, nel cuore dell’America, somigliano così spaventosamente a quelle cui siamo abituati in un Paese in guerra o colpito da un cataclisma naturale nel terzo mondo? Non vale l’assioma, tante volte confermato, che un terremoto, uno tsunami, un’inondazione, a parità di gravità del fenomeno naturale, mietono tra i poveri una quantità di vittime incomparabilmente superiore a quelle in una società industrializzata, ricca, organizzata? Non si sapeva con ampio anticipo dei rischi di devastazione dell’uragano Katrina, non l’avevano monitorato coi mezzi più sofisticati passo a passo, non ci avevano spiegato di aver mobilitato ogni mezzo per l’emergenza, di aver fatto evacuare mezzo milione di persone? Non c’era stato il ripetuto avvertimento, da parte degli esperti e delle autorità, con parole fin troppo apocalittiche, quasi tratte dalla sceneggiatura di uno dei tanti film catastrofisti che continuano a fare la fortuna di Hollywood, che si rischiava uno dei peggiori disastri della storia degli Stati Uniti? Allora, perché quelle notizie ci sorprendono, fanno inorridire, scombussolano quelle che credevamo certezze?

È vero, un uragano del genere può avere forza distruttiva pari a molte atomiche. New Orleans, che si adagia in una conca anche un paio di metri più in basso del Mississippi, del Golfo in cui sfocia, dei canali, delle paludi, dei laghi che la circondano, è particolarmente esposta. Ogni anno, da secoli sprofonda un po’ di più. Il sistema di argini, la cui costruzione era iniziata nel 1724, e resta ancora da completare, è fragile. Si sapeva che difficilmente avrebbe tenuto. Più volte nell’ultimo secolo s’era scampata solo per un pelo la tragedia, e passato il pericolo si erano affidati alla buona fortuna per la prossima. Ma resta la sorpresa. Quando si era saputo che l’uragano aveva mutato all’ultimo istante corso, evitando di colpire in pieno la città, ed aveva perso forza, facendosi degradare da categoria 5, la massima, a 4, secondo altre stime addirittura 3 o 1, si era tirato un sospiro di sollievo. Per essere più precisi, lo avevano tirato i corsi petroliferi e le compagnie di assicurazione. Poi, a ciel sereno, è cominciato a venir fuori che «lo cose sono andate anche peggio di quanto ci si potesse aspettare».

Che semplicemente non avevano la minima idea di quel che era successo a migliaia di persone. Che s’erano “dimenticati” dei poveracci, dei vecchi, dei più deboli, di quelli che non avevano eseguito l’ordine di evacuazione perché non ne avevano i mezzi, semplicemente non sapevano dove andare. Gli avevano apprestato rifugio nello stadio della locale squadra di football, ma anche quelli li hanno, a quanto si viene a sapere dalle notizie frammentarie delle agenzie, abbandonati a sé stessi, senza nemmeno viveri e acqua a sufficienza. Ora pare cerchino di rimediare, ma coi blindati, costretti a dirottare gran parte delle forze di polizia e della guardia nazionale mobilitata a compiti di ordine pubblico, anziché di soccorso. Come in Iraq, verrebbe da dire, per quanto il paragone appaia assurdo.
Ci avevano spiegato di aver evacuato l’80, forse il 90 per cento della popolazione. Ora viene fuori che si erano praticamente dimenticati del restante 10-20 per cento. Corrisponde grosso modo alla spaccatura tra un’America “normale” e un’altra che “non conta”, vive al di sotto della “soglia di povertà”, non lavora, non vota. Viene in mente il modo in cui un ambasciatore indiano, persona colta e raffinata, ci aveva spiegato il fenomeno dei “paria” nel suo Paese: ogni società, anche la più avanzata, ha un suo 20 per cento di emarginati. Sono i più deboli, quelli che un Paese civile degno di questo nome dovrebbe pensare a proteggere per primi.

Sono quelli che in America fanno esplodere violentemente i ghetti anche per meno di un uragano come Katrina. Il Sud non è stato generoso con i propri “negri”. Una parte del Delta del Mississippi è forse ancora quella del film «Mississippi burning». Da tutte le località più colpite dall’uragano vengono segnalati venti di rivolta, reazioni di rabbia compressa tra i più poveri. «Molti non avevano i mezzi per andarsene. È stato commesso un crimine, e la gente è furibonda», dicono. Ma il problema, la sorpresa, non è solo che l’uragano ha assunto proporzioni da terzo mondo solo per la parte della popolazione che vive come nel terzo mondo. È tutto il resto che lascia esterrefatti.

I primi ad essere sorpresi ed esterrefatti sono i giornali americani, che pure non avevano affatto minimizzato le potenzialità del disastro. Si erano diffusi in modo particolareggiato nei giorni precedenti sui rischi. Non sono sorpresi dal fatto che le cose siano andate così tragicamente. Sono sorpresi da quanto poco e male si sia fatto per ridurre le conseguenze. Gli editoriali di tutti i principali quotidiani sono durissimi con chi li governa, con le autorità locali, ma soprattutto con la Casa Bianca. Persino il «Wall Street Journal», il più “simpatizzante” dell’attuale presidente, nota che «l’uragano sta rivelando gravi mancanze da parte dei dirigenti governativi e dei pianificatori dell’emergenza prima dell’arrivo di Katrina e un’azione deficiente da parte delle agenzie di soccorso mentre il disastro di consumava». L’elenco di quel che non ha funzionato è impietoso. Il «New York Times» chiama direttamente in causa Bush. Lo rimprovera di essersi fatto sentire «solo un giorno dopo di quello in cui era necessario», in quella che «per questa amministrazione sembra ormai diventata un’abitudine rituale» (il riferimento è all’11 settembre, al silenzio iniziale di diverse ore così ferocemente ridicolizzato nel film di Michael Moore). E di averlo fatto «con uno dei peggiori discorsi della sua carriera», totalmente inadeguato alla gravità che cominciava ad emergere. «In attesa di un leader», è il devastante titolo dell’editoriale.
A nessun giornale americano sarebbe passato per la mente una denuncia di questo genere dopo l’11 settembre. E non solo perché stavolta non c'è un “nemico” contro il quale stringere i ranghi. C’è poco da ironizzare su “piove, governo ladro”. Ovviamente George W. Bush non ha colpa per Katrina (qualcuno dice di sì, che avrebbe dovuto curarsi un po’ di più dei rischi dell’ambiente, ma questo è un altro discorso). Può anche darsi che abbia fatto il possibile per quello che gli spettava (c’è chi sostiene di no). Venerdì volerà sul posto (anche se è difficile pensare che venga accolto come alle Torri Gemelle). La novità è però che sembra essere venuto meno il rapporto di fiducia degli americani nei confronti del proprio presidente.

Prima ancora di Katrina, i sondaggi lo avevano rivelato al punto più basso nell’opinione che la gente ha di lui. Li ha delusi sull’Iraq. Ma non si tratta evidentemente solo di quello. La ferocia dei commenti dei giornali non viene probabilmente dalla sorpresa per il fatto che le cose siano andate molto peggio di quel che ci si aspettasse. Riflette un malumore molto più profondo, che covava da tempo, ed è esploso con Katrina. In altri posti e circostanze è successo che un disastro naturale catalizzasse malumori di natura molto più profonda. In Cina, era stato il terremoto di Tanghshan a far crollare maoismo e Banda dei quattro.

La democrazia americana funziona altrimenti. Ma lo scricchiolio è diventato assordante.

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