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mafia e potere
by Roberto Scarpinato Sunday, Jan. 22, 2006 at 7:53 PM mail:

MAFIA E POTERE RELAZIONE DEL MAGISTRATO ROBERTO SCARPINATO TRATTA DA www.libera.it

A volte ascoltando i discorsi sulla mafia nelle sedi istituzionali e nei dibattiti televisivi, si ha quasi la sensazione che il tempo non sia trascorso.

Tranne poche eccezioni, a tutt’oggi i discorsi sulla mafia continuano ad incentrarsi - esattamente come accadeva venti o trent’ anni orsono - su Provenzano, su Riina, su altri capi militari, sulla problematica del concorso esterno, sulla diffusione del racket, sulla mancanza di collaborazione dei cittadini, sul traffico degli stupefacenti, etc.

Dopo avere puntigliosamente inventariato i temi sopra accennati, i relatori di turno, quasi seguendo un collaudato rituale della comunicazione, sono poi soliti concludere rendendo omaggio alla memoria delle vittime della mafia e rivolgendo un accorato appello all’unanimismo delle forze politiche nella risposta istituzionale, perché, come si suole stancamente ripetere, la mafia non è di destra né di sinistra, ma sta dalla parte di chi detiene il potere.

Qualcuno osa spingersi più in là, formulando generiche critiche alla politica, soggetto astratto ed indistinto al quale si addebita di continuare a sottovalutare il fenomeno mafioso o di non emarginare qualche isolata pecora nera rimasta impigliata nelle indagini di mafia.

Dopodichè tutti a casa, sino al successivo appuntamento nel quale ripercorrere – oggi come ieri - lo stesso usurato clichè, magari aggiornato con i commenti sulle ultime retate dei soliti noti: killer, favoreggiatori, estortori.

Una massima di saggezza popolare insegna che le cose più importanti non sono quelle che si dicono, ma quelle che si tacciono.

Credo che questa massima si attagli perfettamente al discorso ufficiale sulla mafia.

Noi riteniamo appunto che i fatti più importanti in tema di mafia siano proprio quelli che vengono rimossi e taciuti nei discorsi ufficiali: cioè i nuovi straordinari elementi di conoscenza sulla dimensione macropolitica della mafia emersi a seguito dei profondi mutamenti negli assetti di potere nazionali ed internazionali verificatisi alla fine degli anni Ottanta.

L’ambizione di questo Convegno è di tentare di ricostruire in questi due giorni la parte mancante del discorso sulla mafia, di riempire un vuoto di riflessione collettiva che ci aiuti non solo a comprendere meglio il presente, ma soprattutto ad attrezzarci per gli scenari futuri.

In coerenza con queste premesse metodologiche, la riflessione non può che muovere, a nostro parere, da un evento straordinario che ha impresso un nuovo corso alla storia mondiale, determinando una serie di effetti a catena, alcuni dei quali riguardano proprio il sistema di potere mafioso.

Nel 1989 il crollo del muro di Berlino e la fine dell’Impero sovietico dissolvevano il vecchio ordine mondiale fondato sull’equilibrio armato tra Est ed Ovest, generando un’onda lunga che sconvolgeva gli equilibri interni esistenti in molti paesi.

L’impatto di quest’onda lunga era particolarmente travolgente in l’Italia, dove la fine del bipolarismo internazionale lasciava molti orfani:
• partiti che sull’equilibrio armato tra Ovest ed Est e sul pericolo dell’avvento dei rossi avevano costruito la propria legittimazione;
• partiti che a sinistra venivano privati della loro identità culturale e svuotati di un ubi consistam;
• settori del mondo economico che avevano costruito le loro fortune nell’Italia lottizzata a sovranità limitata ed impunità garantita.

Tra gli orfani vi erano anche le strutture militari delle mafie che vedevano i loro tradizionali referenti politici crollare o voltare loro le spalle.



Nella crisi degli assetti della classe dirigente della prima Repubblica, si apriva agli inizi degli anni Novanta una parentesi storica, oggi richiusasi a seguito dell’avvenuto ristabilirsi di quegli stessi assetti, durante la quale il sistema di potere nazionale perdeva temporaneamente il controllo di alcuni sottosistemi strategici, quale quello dell’ amministrazione della giustizia.

Per la prima volta nella storia del paese, la magistratura operava come una variabile indipendente dal sistema politico, inverando nella prassi il dettato costituzionale dell’indipendenza dell’Ordine giudiziario, rimasto sino ad allora virtuale affermazione di principio.



In questa parentesi storica si sono verificati alcuni fenomeni straordinari per il tema oggi in discussione, il cui unico comun denominatore è stato quello di proiettare un fascio di luce su una faccia del pianeta mafia da sempre rimasta nell’ombra: mi riferisco alla faccia del rapporto tra mafia e potere.

Per alcuni anni, quasi in una sorta di straordinaria congiuntura astrale, il pianeta mafia ruotando su se stesso ha mostrato pienamente per la prima volta entrambe le sue facce – quella della mafia militare e quella della mafia borghese , che si sono rivelate l’una il rovescio dell’altra, componenti dello stesso sistema di potere.



Passando dalle metafore alla realtà, ricordiamo brevemente alcuni dei fattori che hanno consentito una piena visibilità del pianeta mafia.

Il primo riguarda il fenomeno dei collaboratori di giustizia.

Come è noto, nella seconda metà degli anni Ottanta i collaboratori di giustizia, Tommaso Buscetta per primo, Francesco Marino Mannoia poi e tanti dopo di loro, si rifiutarono di parlare dei rapporti tra mafia e politica assumendo che i tempi non erano maturi e che si rischiava una reazione di rigetto globale che avrebbe travolto tutto e tutti.

Da uomini della prassi e profondi conoscitori della realtà - essi dunque per ragioni di prudente realismo si limitarono in una prima fase a fornire una rappresentazione dell’identità del sistema mafioso tutta appiattita sulla sua struttura militare – le famiglie, i mandamenti, la commissione - pur nella consapevolezza che si trattava in realtà di una rappresentazione mutilata e parziale.

Una rappresentazione che spacciava per unica realtà della mafia solo la sua faccia militare, oscurando l’altra faccia, quella delle interazioni globali tra le élites criminali e alcune élites delle classi dirigenti.

Quella dei collaboratori di giustizia, che potrebbe apparire come una voce narrante proveniente dall’interno dello stesso mondo mafioso e sulla base della quale identificare compiutamente l’oggetto mafia, era dunque in realtà una rappresentazione “politica”; politica nel senso che teneva conto dei rapporti di forza esistenti nella polis, nel paese, e che, pertanto, offriva una visione ed una rappresentazione della mafia compatibili con gli assetti di potere globali, per scongiurare e prevenire crisi di rigetto.

Agli inizi degli anni Novanta – in una fase storica segnata dal disfacimento dei preesistenti rapporti di forza internazionali e nazionali, alla quale abbiamo fatto cenno all’inizio – i collaboratori di giustizia ritennero di poter finalmente raccontare anche l’altro pezzo della storia, completando così la descrizione di un quadro globale che includeva la struttura militare mafiosa in un sistema più ampio, in cui emergeva il legame inestricabile tra alcune componenti della classe dirigente ed aristocrazie criminali.

Alla voce narrante dei collaboratori si aggiunse nel corso dei tanti processi a carico di esponenti della nomenclatura del potere nazionale e locale, quella dei testimoni; uomini e donne comuni che mai avevano avuto prima fiducia nello Stato, e che in quegli anni trovarono la forza ed il coraggio di parlare, raccontando fatti e segreti di cui erano venuti a conoscenza.

Ed ancora alle voci narranti, si aggiunsero documenti, carte, intercettazioni, preziosi elementi di conoscenza acquisiti da esponenti di Forze di Polizia i quali, per la prima volta nella storia del Paese, ebbero la possibilità di indagare a tutto campo sugli “intoccabili”, e che negli anni seguenti, ristabilitisi i vecchi equilibri, avrebbero a volte pagato la loro lealtà alle istituzioni e la loro inaffidabilità nei confronti del potere, in termini di stasi e ritardi nella loro progressione in carriera.

In quegli anni i processi penali sono così divenuti, al di là dei loro esiti concreti, luoghi della messa in scena della storia di un potere che era sempre rimasto fuori dalla scena, nell’osceno.

Nei processi, accanto ed oltre il rito penale che riguardava i singoli imputati, si celebrava un altro rito: quello del disvelamento del vero volto di ampi settori della classe dirigente e dei rapporti tra mafia e potere.

Ed era un disvelamento che gettava un potente fascio di luce sulla enorme diffusività dei rapporti della struttura militare della mafia con esponenti della borghesia politica, imprenditoriale, professionale; rapporti trasversali che attraversavano tutto il corpo sociale, che a volte erano inquadrabili giuridicamente in fattispecie penali e a volte non lo erano, ma che, comunque, nell’uno e nell’altro caso costituivano una corposa, ineludibile realtà sociale e politica.

Emergeva così che il fenomeno mafioso era talmente embricato con la realtà dell’organizzazione dei rapporti sociali della Polis, da poterlo individuare come una componente stessa dell’organizzazione politica della società.

La storia della criminalità mafiosa cessava così di essere una storia separata, una storia “altra” dei soliti “sporchi brutti e cattivi”, per confluire, come un fiume carsico sotterraneo, nel mare magnum di una storia collettiva, regionale, nazionale, interclassista.

Una storia nella quale la violenza praticata, minacciata, temuta era la protagonista occulta: una energia pulsante che tracimava continuamente dagli argini definiti della legalità per travasarsi in quelli della illegalità, e viceversa, in una confusione totale delle acque.

La storia della mafia diveniva per molti versi anche un capitolo della storia del potere, assumendo le credenziali per iscriversi nella storia nazionale con la S maiuscola; così come in quella storia maiuscola si iscrivono i capitoli dello stragismo della destra eversiva, i progetti di golpe, gli omicidi politici, tangentopoli: tutte declinazioni della criminalità del potere.

A fronte del racconto di quest’ altro versante della storia – il versante osceno del potere, quello cioè che sta fuori dalla scena pubblica - si è avuta una reazione di rigetto trasversale e pressoché generalizzata, il cui segno dominante è stato l’esorcismo culturale variamente praticato nelle forme nel negazionismo, del riduzionismo, del complottismo.


Su quest’altra storia è dunque sceso un velo di silenzio culturale generalizzato, un silenzio tombale che assume i connotati della rimozione e della regressione culturale: una sorta di nanizzazione che a confronto fa giganteggiare i dibattiti e le analisi su mafia e politica degli anni Settanta ed Ottanta.

Lo stesso velo di silenzio, non a caso, è sceso sulle complicità, le connivenze politiche che hanno coperto lo stragismo della destra eversiva in Italia negli anni Settanta – Ottanta; altro capitolo di una criminalità del potere che non ha esitato in alcuni casi a depistare le indagini sulle stragi, a coprire assassini, a favorire la loro fuga all’estero, come hanno dimostrato sentenze passato in giudicato.

Nel corso della passata legislatura la Commissione Parlamentare sulle stragi, dopo avere raccolto per anni milioni di documenti, dopo avere sentito centinaia di testi, ha concluso i propri lavori con un nulla di fatto, senza stendere una relazione conclusiva.

In questa legislatura, con tacito accordo trasversale l’intero ceto politico ha deciso di non rinnovare la Commissione Parlamentare stragi.

Poi il 2 agosto, anniversario della strage di Bologna, ci battiamo tutti ipocritamente il petto, nascondendo sotto il cerone della retorica ufficiale, le rughe profonde di un paese che sta invecchiando, condannandosi al declino, senza essere mai cresciuto.

CONTINUA nel sito di Libera....

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