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http://italy.indymedia.org/news/2006/11/1176966.php Invia anche i commenti.

CAMP DARBY, STORIA DI UNA INGERENZA LUNGA 55 ANNI
by NO BASE U.S.A. Monday, Nov. 06, 2006 at 10:24 AM mail:

CAMP DARBY, STORIA DI UNA INGERENZA LUNGA 55 ANNI



Parlare di camp Darby significa raccontare la storia di un territorio
a sovranità limitata, costantemente condizionato nella sua vita
sociale, politica, culturale ed economica.
Una folgorante immagine dell’Italia del dopo guerra si può avere
guardando “La pelle”, magistrale traduzione filmica dell’omonimo
romanzo di Curzio Malaparte, per la regia di Liliana Cavani. Così
l’occupazione U.S.A. della pineta di Tombolo (dove poi si stabilirà
Camp Darby), è descritta da un altro film, meno bello ma molto
realistico, dal titolo “Il paradiso nero” .
Da queste opere emerge il quadro di un esercito brutale, che
“libera” l’Italia imponendo con la violenza, la corruzione e
l’arbitrio una occupazione ancora in vigore. Vicende omesse dalla
storiografia ufficiale del nostro paese.
Così nel 1947 l'esercito USA si insedia in terra toscana, dentro una
bellissima pineta mediterranea, inglobata successivamente nel parco
nazionale di S. Rossore.
L’immensa area di oltre 1.000 ettari viene formalmente concessa agli
statunitensi nel 1951 dall’allora governo De Gasperi, in base ad un
trattato bilaterale sottoscritto dal ministro dell’Interni Randolfo
Pacciardi. I termini di quel trattato, a 55 anni di distanza, sono
ancora segreti.

La posizione geografica è congeniale per l’uso che gli U.S.A.
vogliono fare di questa base: collegata al mare ed al porto di
Livorno attraverso il canale dei Navicelli ( le richieste di
raddoppio del canale sono reiterate nel tempo), l’aeroporto civile e
militare di Pisa ad un tiro di schioppo, la rete ferroviaria che
entra fin dentro la base, un sistema viario ottimale con la
superstrada e l’autostrada a poche centinaia di metri.
Questa posizione strategica crea le condizioni per lo sviluppo di
quella che è oggi una delle sei più grandi basi logistiche
dell’esercito statunitense nel mondo.
Oggi camp Darby è il principale deposito logistico del SETAF
(Southern European Task Force), in grado di garantire una
mobilitazione operativa immediata e simultanea di intere brigate
meccanizzate: truppe, armi, munizioni ed equipaggiamento pronte per
essere inviate celermente in qualunque zona di “EUCOM, comando di
combattimento regionale, con la responsabilità dell’intera Europa,
nell’area mediterranea, nordafricana e mediorientale, per circa 55
milioni di km2.
Secondo il rapporto Base Structure Report 2005, essa comprende 136
edifici con una superficie di 60 mila metri quadri”.
Secondo lo stesso rapporto, altre strutture per il rifornimento e
l’addestramento, comprendenti 327 edifici in proprietà e 58 in
affitto, si trovano in tre località in provincia di Livorno e in due
in provincia di Pisa.
I compiti di questa base sono nel tempo molteplici. Oltre a servire
per le aggressioni militari all’estero, camp Darby è stato nodo
strategico di un’altra guerra, elaborata e diretta originariamente
da personaggi come Edward Luttwak, negli anni ‘70 esponente di
spicco dei servizi segreti del Pentagono: Il conflitto interno,
conosciuto poi come “guerra di bassa intensità” .
Vincenzo Vinciguerra, terrorista neofascista, responsabile materiale
della strage di Peteano del31.5.1972, inizia nel 1984 a far emergere
una verità scottante, quella di Gladio e Stay behind.
Il magistrato Felice Casson raccoglie le sue testimonianze ed apre
un’inchiesta che lo porta davanti ai cancelli della base di camp
Darby, dove Vinciguerra dichiara che negli anni ’70 sono addestrati
neofascisti italiani e installati i “NASCO”, depositi d’armi
per le strutture parallele della NATO, dei servizi segreti e dei
fascisti in funzione anticomunista.
Ovviamente quei cancelli rimarranno chiusi per l’inchiesta, così
come in seguito per Guido Salvini, l’altro magistrato che
parallelamente apre una nuova indagine che lo porta alle stesse
conclusioni.
Le inchieste sono ancora aperte, ma come sappiamo i mandanti e gli
esecutori di quella strategia sono liberi e continuano ad agire con
gli stessi metodi, aggiornati alla contingenza: Le basi USA divengono
retroterra strategico della nuova “guerra infinita”, nella
funzione diretta di sostegno alle aggressioni militari ma anche rete
per i trasferimenti, la custodia e la tortura di prigionieri
clandestini, rapiti ai quattro angoli della terra, come emerso in
questi ultimi anni da varie inchieste.
Esemplificativo il caso dell’imam di Milano Abu Omar, catturato nel
centro di Milano nell’aprile 2003 da 23 agenti della CIA (oggi
sottoposti ad una probabilmente inutile inchiesta della magistratura
milanese), trasportato nella base USA di Aviano, poi in quella USA di
Ramstein (Germania), infine “desaparecido” nelle carceri
egiziane….
I “voli segreti” cojme denunciato da A: International, sono
passati anche per l’aeroporto pisano G. Galilei, molto vicino in
linea d’aria dalla base. Si parla da anni di tunnel sotterranei che
collegano aeroporto e base: chi può garantire che i prigionieri non
siano passati dalla base per subire i ben noti “interrogatori
pesanti” ordinati da Donald Rumsfeld ?
Questo era ed è la base di camp Darby.
Le caratteristiche che ha acquisito nel tempo non fanno prevedere
ravvicinate ipotesi di smantellamento unilaterale, così come
ipotizzato per La Maddalena. Anzi.
Nell’agosto del 2005 si è parlato di un suo raddoppio, smentito poi
da dichiarazioni a dir poco ambigue da parte dell’ambasciatore
statunitense in Italia.
Le attuali e future strategie d’aggressione militare statunitensi
troveranno in questa base uno snodo così importante che crediamo
utile una particolare attenzione su di essa da parte del movimento
contro la guerra continentale.
Ora, nel quadro della ridislocazione delle forze e basi statunitensi
dall’Europa settentrionale e centrale a quella meridionale e
orientale, il Pentagono ha necessità di aumentare l’efficienza
della base. Da qui «l’ammodernamento degli impianti», di cui ha
parlato l’ambasciatore degli Stati uniti Ronald Spagli durante la
visita a Pisa il 26 gennaio 2006. Anche se la base non verrà
ampliata, essa avrà certamente bisogno di maggiori infrastrutture di
supporto

UN COMITATO PERMANENTE CONTRO LA BASE
Sin dagli anni ’50 grandi manifestazioni pacifiste hanno circondato
camp Darby, riuscendo talvolta ad entrarvi dentro e sostituire le
stelle e strisce con la bandiera rossa dei lavoratori. Una
“tradizione” che è proseguita sino ai giorni nostri, con le
mobilitazioni contro i treni della morte, la campagna
“trainstopping” contro l’aggressione all’Iraq del 2003 .
Si tratta oggi di capire cosa e quanto di queste grandi mobilitazioni
è rimasto nella coscienza delle popolazioni che vivono intorno alla
base, che atteggiamento assumono le amministrazioni locali, le forze
politiche, sindacali, le realtà produttive, le maestranze italiane
che vi lavorano. Comprendere per attrezzarci adeguatamente, dando
risposte non testimoniali al rilancio della battaglia per la sua
chiusura

L’esperienza maturata in tanti anni di battaglie contro le basi USA/
NATO evidenzia alcuni nodi centrali intorno ai quali si sono
concentrati gli sforzi dei comitati.
Sinteticamente, alcuni tra i principali:

1)Mettere in discussione la fitta rete d’accordi militari tra lo
Stato italiano, l’Alleanza atlantica (la NATO) e gli USA, imponendo
nell’agenda politica nazionale la dirimente questione di una diversa
collocazione internazionale dell’Italia.
2)Scardinare i consolidati legami, sviluppatisi in più di 50 anni di
presenza, tra le basi militari straniere e la rete produttiva, di
servizi ed istituzionale presente nei territori limitrofi alle basi
stesse
3)Contrastare l’immagine d’impatto territoriale poco
“intrusivo” della maggior parte delle basi, costruita nel tempo
dalle gerarchie militari e dalle compiacenze locali, con l’evidente
obiettivo di renderle “compatibili” agli occhi delle popolazioni
limitrofe.
4)Combattere contro un potentissimo sistema di difesa ideologico,
politico e repressivo che trova adepti tra partiti ed intellettuali
di destra, centro e “sinistra”, pronto a scagliarsi contro la
nostra battaglia con tutti i mezzi di comunicazione di massa e di
contrasto a loro disposizione.
5)Lavorare sin da subito a concrete proposte alternative alle basi,
coinvolgendo nell’elaborazione dei progetti le popolazioni, le
maestranze impiegate all’interno delle basi, le realtà sindacali e
politiche, le amministrazioni locali e le varie realtà produttive
presenti sui territori.

Il Comitato unitario per lo smantellamento e la riconversione a scopi
esclusivamente civili della base USA di camp Darby si costituisce per
iniziare a rispondere “sul campo” a questi nodi, con l’obiettivo
di radicare la pratica antibase ed antimilitarista nei territori.
Il contesto nel quale si concretizza l’idea di costituire un
comitato permanente contro camp Darby è il convegno “Mediterraneo
para bellum”, organizzato nel dicembre 2004 a Pisa dal Comitato
nazionale per il ritiro delle truppe dall’Iraq, durante il quale si
incontrarono tutte le realtà che in Italia si battono contro la
presenza statunitense e NATO.

Dopo pochi mesi, il 2 marzo 2005, un ampio fronte di realtà
associative, culturali e politiche presenti a Pisa e Livorno
costituisce il comitato, lanciando una sfida: colmare le fasi di
riflusso del movimento contro la base, intervenendo a prescindere
dalle “emergenze belliche”, con un lavoro d’indagine tra le
popolazioni, di confronto serrato con istituzioni locali, le forze
politiche e sindacali, attraverso una costante campagna
d’informazione e mobilitazione sui territori.

Il documento costitutivo è molto chiaro negli intendimenti generali:
smantellamento e riconversione esclusivamente civile, per
un’alternativa consona alle vocazioni storiche dell’area, senza
alcuno sconto per le ambigue proposte di sviluppo di “peace
keeping”, sbandierate anche recentemente dalla Regione Toscana e dal
suo presidente “New Global” Claudio Martini.
Un’ipotesi del genere significherebbe cadere dalla padella della
guerra “di liberazione” ed unilateralista stile Rumsfeld/Bush
alla brace di quella “umanitaria” e multilateralista di stampo
europeo, sperimentata dai popoli jugoslavi negli anni '90 ed ora di
nuovo alla prova in Libano.
Altro riferimento esplicito è quello alla NATO, alleanza militare che
sottomette le basi militari USA in un’unica centralizzata catena di
comando. L’uscita dell’Italia da questa alleanza ed il suo
scioglimento è quindi tra i punti centrali della nostra prospettiva.

Molte sono state le iniziative pubbliche di fronte alla base, a
partire dal 25 aprile 2005 con la parola d’ordine “60 anni a
sovranità limitata – Liberiamoci della guerra, liberiamoci delle
basi”.
Una seconda mobilitazione ci ha portato di fronte ai cancelli di camp
Darby l’11 settembre 2005, per protestare contro l’ipotesi,
attualmente rientrata, di raddoppio dell’insediamento militare USA
sul territorio di Guasticce, nel comune di Collesalvetti, in
provincia di Livorno.
Oltre alle mobilitazioni di piazza abbiamo proposto alcuni momenti di
riflessione e confronto pubblici.
Attraverso alcuni incontri di studio nell’autunno 2005 abbiamo
elaborato una concreta proposta di “riconversione preventiva”
sulla quale abbiamo chiamato il 29.11.05 le istituzioni locali al
confronto, nella sala della provincia di Livorno. All’appuntamento
si sono presentati gli amministratori dei Comuni e delle Province di
Livorno, Pisa e Collesalvetti, ma non i sindaci. Altra grave assenza
quella della regione Toscana, entità istituzionale con maggiori
possibilità di condizionamento sull’operatività della base USA.
Nell’incontro abbiamo avanzato quattro proposte, elementi battaglia
politica e vertenzialità sul territorio :


1) Informazioni alla cittadinanza e formulazione di piani
d’evacuazione

Sappiamo della volontaria reticenza delle autorità militari
statunitensi nel comunicare quantità di armi contenuti nelle base e
spostamenti esterni/interni, quindi l’impossibile valutazione
formale dei pericoli che questa presenza rappresenta per i territori
circostanti .

Non di meno l’incidente dell’agosto 2000 (di cui parliamo
diffusamente nel dossier che ho portato), venuto alla luce solo
grazie ad un sito miltare statunitense, evidenzia il grado di rischio
per tutto il territorio circostante, in un’area all’interno del
quale sono da inserire le intere province di Pisa e Livorno, se non
oltre.

Chiediamo la costituzione un gruppo di lavoro composto da ARPAT,
Protezione Civile, Vigili del Fuoco ed altri corpi addetti alla
prevenzione di catastrofi naturali, in grado di preparare uno
specifico piano di prevenzione ed evacuazione delle popolazioni in
caso di incidente grave nella base di Camp Darby.

2) Livorno porto nucleare: far rispettare il decreto legislativo 230
del 1995

Il porto di Livorno come sappiamo è inserito nella lista degli 11
porti italiani che possono ricevere natanti a propulsione nucleare o
trasportanti armi nucleari .

In base al succitato decreto i cittadini devono sapere se vivono in
un'area a rischio nucleare. Nel decreto si stabilisce che le
Prefetture hanno il dovere di informare le popolazioni sulla
pericolosità della presenza di natanti a propulsione nucleare,
predisponendo nel contempo un piano d’evacuazione in caso
d’incidente nucleare all’interno del porto da diffondere
capillarmente. Anche in questo caso le Prefetture interessate,
compresa quella di Livorno, sono inadempienti.

3) blocco d’ogni decisione all’intero del Comitato Misto
Paritetico toscano

Nella riunione del 2 luglio 2003 il CoMiPar toscano ha approvato
all’unanimità, quindi con il voto favorevole dei 7 rappresentanti
della Regione Toscana, il dossier di richiesta del governo
statunitense recante le sigle USA PN 58497 e PN 58493 che contiene il
progetto di potenziamento della base per la costruzione di sette
magazzini e varie infrastrutture per complessivi 450mila metri cubi
e nove ettari di superfici coperte ed impermeabilizzate con un
investimento di oltre 50 milioni di dollari annuali stimanti per
lavori che si prolungheranno sino al 2010.

Chiediamo che la Regione Toscana assuma un atteggiamento
d’ostruzionismo all’interno del CoMiPar della nostra regione per
ogni tipo d’attività inerente la base USA di Camp Darby.

4) avvio del progetto di “Riconversione preventiva”

Proponiamo l’assunzione da parte delle amministrazioni locali
dell’obiettivo della “Riconversione Preventiva” della base USA
di camp Darby, cioè di un atteggiamento politico e operativo che
pianifichi ed organizzi sin da subito, e cioè prima dell’effettiva
partenza delle truppe americane, le condizioni per il ripristino
dell’area ad uso esclusivamente civile.

In questo senso solleciteremo le amministrazioni locali ad accogliere
una nostra proposta per la costituzione di un “Fondo Regionale per
la Riconversione” dal quale attingere per avviare controlli
ambientali indipendenti, promuovere studi per la riqualificazione del
territorio da liberare, finanziare borse di studio per progetti di
riuso dell’area, promuovere corsi di formazione per la
riqualificazione degli addetti civili della ex base, organizzare
pool di esperti (ingegneri, architetti, economisti, ambientalisti,
pacifisti) in grado di maturare proposte concrete di riconversione
attuabili sin da subito, e tutte le attività necessarie ad
evidenziare la volontà concreta di allontanare questa base di morte
dai nostri territori, determinando così un clima socio/culturale
favorevole alla sua chiusura.


Questo primo “giro di consultazione” con le forze politico/
istituzionali si è concluso il 18 gennaio 2006, in prossimità non
casuale con le elezioni politiche generali, con l’incontro sul
tema “Il ruolo della base USA di C. Darby dopo la guerra fredda –
Sovranità nazionale e politiche di pace di un governo alternativo al
centro desta”.
La biblioteca comunale di Pisa, gremita di convenuti, vide la totale
assenza dei rappresentanti dell’Unione (se togliamo una risicata
presenza dei partiti della cosiddetta “sinistra radicale”).

20 DOMANDE PER UNA INCHIESTA DI MASSA
Un utile strumento di intervento che ci siamo dati è stato il
questionario di 20 domande con il quale abbiamo iniziato una campagna
di massa nelle città, attraverso banchetti nelle piazze, cene
sociali, concerti, spazi nei negozi del mercato equo e solidale
aderenti al comitato.

Questo semplice mezzo di consultazione popolare si è rivelato sin dal
primo banchetto un’arma molto utile e coinvolgente. Centinaia di
cittadini si fermano ai tavoli per rispondere alle domande. Il
questionario ha destato un interesse intorno ai tanti interrogativi
che circondano la base, difficilmente suscitabile con i tradizionali
strumenti di propaganda ed agitazione.
I risultati che trarremo dall’analisi dei questionari ci serviranno
per un altro progetto in cantiere: la produzione di un “libro
bianco” sulla base, da divulgare a livello di massa.
Altro risultato tangibile di questa inchiesta di massa riteniamo sia
stato la reazione delle nuove gerarchie militari statunitensi ed
italiane succedutesi ultimamente al comando di camp Darby.
Con una pratica che rompe il tradizionale riserbo di queste entità
militari, i comandi della base hanno lanciato una vera e propria
“offensiva mediatica”.
Il 2 dicembre 2005 la base si è “aperta” a TV e stampa locale per
un lungo e circostanziato “briefing” nel quale i nuovi vertici
militari, i colonnelli Steve Sicinski e Raffaele Iubini,
rispettivamente per l’esercito USA e italiano, “rispondono” a
quasi tutte le domande del questionario dando ampie garanzie di
sicurezza, trasparenza e disponibilità.
L’offensiva mediatica USA è ripresa alla fine del mese di gennaio
’06, con l’invito all’interno della base dei sindaci e dei
presidenti delle province di Pisa e Livorno. Nell’incontro i
colonnelli hanno reiterato la volontà di aprire la base al
territorio, manifestando addirittura l’intenzione di mettere a
disposizione le strutture interne a camp Darby (campi sportivi,
cinema…) al mondo associativo locale….!

Questa “strategia del sorriso” si scontrerà però ben presto (il
primo marzo 2006) con la dura realtà di un licenziamento collettivo
per 87 dipendenti italiani del reparto manutenzione mezzi da
combattimento.
Le poche rappresentanze sindacali “ammesse” – i lavoratori
italiani della base non possono iscriversi alla CGIL né ad altri
sindacati giudicati evidentemente incompatibili con la “democrazia a
stelle e strisce” – si sono trincerate dietro un “no comment”
che evidenzia una scarsa o inesistente possibilità contrattuale .
Ad oltre 50 lavoratori precari non e’ stato rinnovato il contratto,
per gli 87 in pianta stabile il licenziamento è stato spostato di
pochi mesi. Nel prossimo novembre si deciderà sulla loro sorte.
Scontati gli attacchi da parte dei sindacati “gialli” contro il
movimento antibase, accusato di essere parte in causa di questo
attacco occupazionale, perché fautore di un “clima di insicurezza
ambientale” ventilato dalle gerarchie militari come elemento che
spinge verso una smobilitazione e spostamento di settori di punta
della base stessa per il prossimo futuro, nel quale evidentemente le
strutture militari U.S.A. saranno interessate dalla moltiplicazione
nell’impegno bellico.

Il nostro comitato si è mobilitato in quei giorni di forte tensione
attraverso una serie di prese di posizione ed un convegno, svoltosi
lo scorso 15 giugno 2006, dal titolo “Camp Darby – Il ricatto del
lavoro, le prospettive della “guerra infinita. Idee e proposte per
una riconversione che salvaguardi ed incrementi l’occupazione”,
pubblicizzato di fronte ai cancelli della base con volantinaggi e
conferenza stampa , al quale abbiamo invitato alcune realtà
significative del movimento nazionale contro le basi, tra cui Gaetano
Ventimiglia, lavoratore Base USA/NATO Sigonella e dirigente della CUB
Trasporti all’interno della base.

Ultima iniziativa in ordine di tempo lanciata dal Comitato e raccolta
a livello regionale la manifestazione di fronte alla base lo scorso
26 luglio per denunciare all'opinione pubblica il traffico di armi
verso Israele, impegnato in quei giorni a massacrare le popolazioni e
le infrastrutture del Libano .
Sconcertanti le successive dichiarazioni della vicepresidente della
Commissione Difesa della Camera dei Deputati Elettra Deiana, la quale
dopo una sua ennesima visita alla base ( 21 agosto) comunica alla
stampa locale la garanzia data dai vertici militari statunitensi sul
fatto che “nessun transito di superbombe e nessun impegno sugli
attuali teatri di guerra” interesserà la base stessa. Deiana, dopo
aver visitato la struttura, dichiara alla stampa locale: “ la base
in questo momento è in stand by. L’attività è legata alla
logistica e non è previsto alcun impegno funzionale sui fronti di
guerra, neppure in Iraq” (Il Tirreno e La Nazione del 22.8.06) .
Evidentemente il ferreo ed ultra cinquantennale segreto militare che
circonda camp Darby si è sciolto come neve al sole di fronte alla
nuova compagine governativa…..Garantisce Deiana!
Quest’ultima notazione ci introduce immediatamente nel nuovo
contesto politico determinatosi in Italia con l’avvento del governo
di centro sinistra. Le scelte generali di politica estera, contro le
quali mentre sto parlando siamo impegnati con la manifestazione
nazionale a Roma, si ripercuotono immediatamente anche nelle vertenze
locali contro le basi, rideterminando un posizionamento delle varie
rappresentanze istituzionali ancora da decifrare nei dettagli, ma i
primi segnali sono preoccupanti, come del resto emerge dalla vicenda
del carteggio tra il Comune di Vicenza e il capo di Gabinetto del
Ministero della Difesa sul Dal Molin.
Inutile nascondere le difficoltà congiunturali che questa situazione
determina e determinerà nella nostra azione quotidiana sui territori,
già condizionata storicamente da posizioni delle amministrazioni
locali ambigue, dilatorie e dietro le quinte accondiscendenti verso
le basi .
Il caso toscano è paradigmatico, con un presidente della Regione
distintosi per le lacrime versate a causa dei lacrimogeni del 22
luglio 2001 a Genova e per i convegni annuali “New Global” con il
gotha del movimento altromondialista nella tenuta pisana di S.Rossore.
Martini da sempre propone una alternativa “peacekeeping” a camp
Darby, scelta perfettamente consona alle politiche
“multilateraliste” dell’Europa di Maastricht, oggi schierata in
Libano con le truppe dell’Unifil rafforzato.
Non aiutano la nostra comune battaglia gli sconcertanti adeguamenti
all’attuale politica estera interventista di una sinistra
cosiddetta “radicale” entrata in parlamento con ben altre deleghe.
Come giustamente ricordava Manlio Dinucci a chi nei mesi scorsi
tendeva a distinguere le missioni una dall’altra, siamo di fronte ad
una stessa strategia militare, dall’Afghanistan al Libano, passando
per l’Iraq.
Nella realizzazione di questa strategia le basi USA NATO in Italia
giocano un ruolo centrale ed imprescindibile
Come è possibile lottare contro queste basi senza mettere in
discussione i conflitti per i quali sono determinanti? Domanda per
niente retorica alla quale non tocca certo a noi rispondere.
Al movimento contro le basi del nostro paese tocca invece sviluppare
una battaglia coerente ed indipendente contro il sistema di guerra
presente sul territorio, come quella indicata in questi mesi dalle
realtà vicentine e venete contro l’ipotesi di occupazione del Dal
Molin da parte dell’esercito statunitense, di cui il convegno di
oggi è espressione.
Una lotta maturata come naturale reazione ad un progetto il quale,
oltre a proiettare ancora di più i territori nelle presenti e future
guerre di aggressione, stravolgerebbe la vivibilità e l’ecosistema
di una vasta area abitata.
Dalle cose dette in questo appuntamento emergono, ancora una volta,
gli elementi che legano inscindibilmente le realtà interessate dalla
presenza delle basi: Uso dei territori a fini bellici, esproprio del
diritto alla sovranità, attacco ai diritti sociali, alle libertà
individuali e collettive, condizionamento profondo dei processi
democratici e dell’economia locale, rischio ambientale e
stravolgimento dell’ecosistema.

Se questi ed altri elementi accomunano le nostre realtà e guidano le
nostre lotte locali è ora di pensare ad una nuova stagione che
trasformi le comuni condizioni in un progetto nazionale di resistenza
e controffensiva antimilitarista, per la chiusura delle basi ed il
ritorno dei territori sotto la nostra sovranità, per una nuova
collocazione internazionale dell’Italia fuori e contro la NATO.

Sulla scorta delle esperienze maturate in questi anni è possibile
costruire una piattaforma rivendicativa comune capace di imporre di
nuovo nell’agenda politica nazionale la questione delle basi.

Vorremmo con l’occasione riprendere e rilanciare una proposta emersa
in vari momenti di confronto, assemblee, convegni e mobilitazioni
tenutesi in questi anni in varie città italiane, quella della
costruzione di un coordinamento nazionale che si verifichi in tempi
brevi intorno ad alcune grandi scadenze, a partire da una “marcia
nazionale delle comunità e dei comitati che si battono contro le
basi”, sulla falsariga delle grandi battaglie sviluppatesi in questi
anni a Scanzano ed in Val di Susa

Da Sigonella ad Aviano, da camp Darby alla Sardegna, da Solbiate
Olona a Taranto e a Brindisi lavoriamo ad una grande manifestazione
nazionale che chieda la chiusura delle basi militari USA NATO in
Italia, l’uscita l’Italia dalla NATO e dal meccanismo infernale
delle guerre imperialiste, perché non si ripetano più le vergogne
della Moby Prince e del Cermis, dei rapimenti e dei trasferimenti di
prigionieri “invisibili”, per il diritto alla sovranità sulla
nostra terra, per la difesa delle nostre libertà individuali e
collettive, per la salvaguardia del nostro ecosistema.

L’unico governo amico sarà quello che porrà al centro della sua
azione politica questi obiettivi.
Alla luce dei recenti avvenimenti e delle scelte in corso d’opera di
questo esecutivo la parola d’ordine, naturale ma non scontata è la
solita: organizziamoci e prepariamoci alla lotta!

Valter Lorenzi
Del Comitato unitario per lo smantellamento e la riconversione a
scopi esclusivamente civili della base USA di Camp Darby
Esponente del Comitato Nazionale per il Ritiro delle truppe dall’Iraq.


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Intervista ad Andrea Licata, esperto di riconversione dei siti
militari: «Gli Stati Uniti si installano dove non c’è controllo e
si paga meno. Ecco perché raddoppiano Ederle»
«Vicenza sarà la più offensiva delle basi Usa in Europa»

di Davide Varì (Liberazione)

«Gli Stati Uniti raddoppiano la base di Vicenza perchè evidentemente
gli conviene. Di solito l’amministrazione americana è molto
pragmatica: sceglie posti economici, accoglienti e dove è possibile
inquinare senza troppi problemi». Insomma, secondo Andrea Licata
(Presidente del centro studi e ricerche per la pace presso
l’università di Trieste, esperto di riconversioni di basi militare
ed autore del libro “Dal militare al civile, la conversione
preventiva della base Usa di Aviano” - Editore Kappavu) i motivi che
hanno spinto gli Usa a richiedere il raddoppio della base vicentina
non sono motivi di sottile geopolitica. Per farsi un’idea basti
pensare che il 37% delle spese sono a carico dei cittadin italiani.

«Questo vuol dire che più di un terzo delle truppe Usa le manteniamo
noi, con le nostre tasse».

E se, a questo punto, comprendiamo le ragioni degli Stati Uniti,
sfuggono quelle del comune di Vicenza che proprio ieri ha approvato
il raddoppio della base militare americana che “ospita” nel
proprio territorio. Lo chiediamo proprio ad Andrea Licata che forse
qualche risposta è in grado di fornircela.

Insomma, cosa ha spinto la giunta del comune di Vicenza a concedere
l’ampliamento della base Usa?

Innanzi tutto mi vengono in mente mere ragioni politiche. Siamo di
fronte ad una contrapposizione nei confronti del governo di
centrosinistra da parte di un’amministrazione di centrodestra. Poi
mi vengono in mente alcuni interessi economici che evidentemente
andavano sostenuti. Forse esistono alcune lobby che si avvantaggiano
di questi lavori: imprenditori e costruttori su tutti. Insomma, se
per i cittadini questa decisione rappresenta una grave perdita, per
alcuni potrebbe rappresentare un bel guadagno. Del resto è la stessa
giunta di centrodestra che ha bloccato il referendum proposto. Hanno
paura che i cittadini di Vicenza, gli stessi che li hanno votati, si
oppongano a questa scelta scellerata. Ma ripeto, forse qualcuno ci
guadagnerà.

Che intende dire?

Intendo dire che centinaia di migliaia di Euro pubblici, finiranno
nelle tasche di una manciata di privati.

Ma la giunta di Vicenza sostiene che aumenteranno i posti di lavoro.

Questa è una bella favola. Intanto voglio specificare che quei pochi
lavoratori saranno inquadrati sotto il governo Usa con posizioni
contrattuali e vincoli molto particolari. E poi basti pensare che ad
Aviano ci sono 700 dipendenti, un numero ridicolo di lavoratori.
Senza contare che le riconversioni delle basi militare compiute in
tutto il mondo hanno dato numeri di impiegati molto molto superiori.

E forse, anche altri tipi di benefici?

Certo, le conversioni avvenute nel resto del mondo sono state dei
grandi successi. Sia da un punto di vista ambientale che di
opportunità di lavoro. Sia per la pace naturalmente. Penso ad ex basi
che sono divenute centri di energia rinnovabili, distretti
commerciali e aeroporti civili. Penso alla base di Werle in Germania
e a quella di Achim, vicino Berna, che ora ospita una grande area
verde e una grande area residenziale. Penso inoltre agli ex
dipendenti della base militare di Brugen-Bracht che hanno fatto corsi
di riqualificazione, di giardinaggio, di architettura edilizia
disegno e tante altre attività costituendo una cooperativa. Insomma,
decine di progetti alternativi che hanno creato circuiti virtuosi.

E in Italia qual’è la situazione rispetto alle conversioni delle
basi militari?

In Italia c’è il deserto. Abbiamo una situazione di abbandono, non
certo una progettualità di bonifica e riconversione dei siti
militari. Non ci sono centri di studio né università che abbiano
puntato le proprie attività sulla riconversione. Ci sono alcuni
siti, come quello del Monte Nardello in Calabria, dove prima c’era
una base Usa di radar, che è abbandonata da anni. C’è stata una
piccola e inconsistente bonifica e poi più nulla. Addirittura ci sono
le scuole della zona che spingono per creare un osservatorio
ambientale, ma nessuno gli da retta, nessuno li ascolta.

Insomma in Italia si va in direzione opposta rispetto al resto dell’
Europa?

Mi sembra evidente. Sia chiaro, noi cittadini italiani paghiamo il
37% delle basi presenti in italia, insomma, siamo noi che paghiamo le
truppe Usa. La basi militari sono un buco nero e i motivi che
spingono l’amministrazione Usa a scegliere i luoghi nei quali
installarsi non rispondono sempre a logiche di geopolitica. Anzi, le
basi si muovono anche in base ai seguenti criteri: primo, dove pagano
meno; secondo, dove hanno libertà di inquinare; terzo dove c’è una
certa ospitalità.

Quindi i militari americani si trovano bene, per così dire, in Italia.

Evidentemente si. Per quel che mi risulta i controlli ambientali del
nostro governo sono molto difficili, limitati e poco indipendenti.
Poi c’è il discorso legato ai familiari dei militari. Ormai le
agenzie di reclutamento usa sembrano agenzie di viaggio. “Vieni in
Italia, a Venezia, in Toscana, Firenze. Buon
cibo, buon vino, moda” e così via.

E per quanto riguarda le bonifiche, di chi sono le spese?

Tutte le basi inquinano e le spese di bonifica e di dismissione sono
il vero grande problema per le amministrazione americane: cercano in
tutti i modi di evitarle. La bonifica non solo è necessaria, ma è
obbligatoria per legge. Per farsi un’idea della portata
dell’inquinamento che provocano basta consultare i dati sulle falde
acquifere. E ripeto, i controlli sono molto difficili. Di fatto le
basi sono una sorta di appendice del territorio americano.

Ora la palla passa al governo, al ministro della difesa Arturo Parisi.

Sì, certo, sta a lui l’ultima parola. Sarà lui che dovrà
controfirmare la decisione della giunta del comune di Vicenza. Io
spero davvero che si fermi questo scempio. basta dare un’occhiata
alla cartina della città per rendersi conto che siamo di fronte ad un
vero e proprio assedio. Un assedio militare, Vicenza non ha più
vie di fuga. Una situazione grottesca e inquietante che deve essere
fermata. Peraltro, in questo modo Vicenza diverebbe una delle basi
più grandi ed offensive d’Europa. Cosa hanno in mente non è dato
sapere, ma di certo nulla di cui star sereni.

NO BASE U.S.A. VICENZA

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