Non possiamo più tollerare che l'attività segregazionista, violenta e criminale del lager Regina Pacis, sia ancora descritta e rivendicata dai
tristi protagonisti di questa storia con parole quali "accoglienza","solidarietà", "attività caritativa", "eroismo".
To: SOCIAL FORUM <GSF-Puglia@yahoogroups.com> Subject: [GSF-Puglia] lettera aperta (CON ALLEGATO!!!)
car@ compagn@,
un gruppo di manifestanti del 30 a san foca ha scritto queste righe; altr@ compagn@ hanno apportato commenti e modifiche, e adesso vorremmo diventasse una lettera aperta alla cittadinanza, ai media, a tutti i soggetti che si sentono coinvolti;
vi invitiamo a leggerla, commentarla, diffonderla,
forum dei diritti, bari.
------------------------------------------------ 1 dicembre 2002 Lettera aperta del Forum dei Diritti di Bari alla città e ai media
FALSO PRETE VERO LAGER
La nostra presenza intorno al lager Regina Pacis, e all'interno del Duomo di Lecce, è dovuta alla necessità di denunciare e impedire che le leggi dello Stato legittimino, ancora una volta dopo il nazismo, la creazione di esseri sub-umani, senza volto e senza voce, privi di dignità, di cui si possa disporre come "corpi-merce" nei centri di permanenza temporanea.
Non possiamo più tollerare che l'attività segregazionista, violenta e criminale del lager Regina Pacis, sia ancora descritta e rivendicata dai tristi protagonisti di questa storia con parole quali "accoglienza", "solidarietà", "attività caritativa", "eroismo". Parole, queste, ancora oggi utilizzate da alcuni media.
Quale "eroismo" si nasconde dietro il "lavoro" di Lo Deserto? Egli è, più semplicemente, il gestore di un tassello della politica economica neoliberista dell'immigrazione in Italia. Egli è un segmento della filiera che fa degli immigrati uno dei più grossi business di questo secolo. Quale "attività caritativa" può derivare dallo "stoccaggio" nei centri di corpi-merci in transito, costretti entro il binomio produzione-sparizione? Quale "accoglienza" può praticarsi in un recinto separato, da cui non si può uscire, e in cui non si può entrare, filmare, fotografare, parlare, curarsi, informarsi sul proprio destino?
La delegazione che è entrata nel lager ha raccolto testimonianze agghiaccianti, ma il coro mediatico le bolla come "da verificare". Ci chiediamo perché la parola dei condannati (senza reato!) debba valere meno di quella dei loro aguzzini. Dove risiede l'umanità dei migranti reclusi, se la loro voce "deve essere verificata" da prove ancora più evidenti dei segni lasciati sui loro corpi? E gli ematomi, la braccia rotte, le lacrime, il filo spinato, le lamiere sulle finestre, le telecamere e la militarizzazione del territorio non bastano? Quali strumenti di tortura ci si aspettava di trovare nello "stanzino" di Lo Deserto? Ruote dentate? Vergini di ferro? Fruste e mazze ferrate? Il sangue si lava, la voce si può zittire, gli occhi si possono chiudere, i corpi si possono "trasferire" e rimpatriare. E' un clima terroristico, intimidatorio, fatto di ricatti e ritorsioni, quello che regna al Regina Pacis.
La vicenda dell'ultimo pestaggio ci lascia addirittura sgomenti. La denuncia sarebbe "una bufala" perché fatta "da un soggetto psicolabile". Come nella migliore tradizione delle istituzioni totali, la parola dei malati di mente non vale nulla di fronte ai discorsi scientifici dei loro medici e sorveglianti. Al di là di ogni ragionevole dubbio, alcune cose sono molto chiare e vanno denunciate: nella struttura si usano psicofarmaci in dosi massicce; persone che hanno bisogno di cura non sono assistite, ma recluse, e questo sicuramente peggiora le loro condizioni di vita.
L'esperienza storica del "campo di concentramento" ci insegna qualcosa a proposito delle prove. I nazisti, a chi andava in cerca di prove, offrivano "visite guidate" in luoghi idilliaci, prati dove giocavano i bambini; diffondevano filmati in cui centinaia di ebrei cantavano sorridenti, ballavano e suonavano i violini.
La storia della "redenzione coatta", dal carcere a certi modelli di comunità per tossicodipendenti, dai manicomi agli attuali CPT (laici o religiosi), ci parla di una strategia di governo che diffonde nel corpo sociale pratiche e discorsi di disciplinamento e controllo. Fili ininterrotti di una politica volta ad eliminare tutto ciò che possa modificare i rapporti di produzione in atto. Una pratica sottile e subdola, ma non per questo meno violenta e perversa, che costruisce le categorie "devianti" per porle dinanzi all'opzione: integrazione o deportazione. Una pratica da cui non sono esclusi i cosiddetti "operatori", costretti, quando non sono complici (come lo sono i kapò del Regina Pacis), a barcamenarsi tra senso etico e ordine superiore dello Stato.
La nostra scelta di andare al centro della città, nella casa di Dio, non è un episodio, non è una boutade da "società dello spettacolo". Prendere la parola nel luogo dedicato a Cristo - condannato a morte per sedizione dalle gerarchie ecclesiastiche e da quelle politiche - significa rimettere al centro la collusione tra i poteri dello Stato e chi si arroga il compito di "accogliere" e proteggere i più deboli, uniti da una pratica di pura persecuzione.
A Dio quel che è di Dio, e a cesareŠil suo deserto.
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