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Inaccettabile impotenza di Edward Said
by maurizio Wednesday, Feb. 05, 2003 at 11:05 PM mail:

dal sito della rivista "Internazionale" un articolo di Said che è bene far circolare. Il 15 ci vediamo a Roma

Inaccettabile impotenza
Ogni giorno apro il New York Times per leggere l’ultimo articolo sui preparativi di guerra negli Stati Uniti

Un altro battaglione, un’altra serie di portaerei e incrociatori, un numero sempre più grande di aerei, nuovi contingenti di ufficiali inviati nel Golfo
Persico. L’11 e 12 gennaio sono partiti altri 62mila soldati. L’America sta allestendo oltreoceano una forza enorme e deliberatamente intimidatoria, mentre all’interno del paese le brutte notizie economiche e sociali si moltiplicano inesorabilmente. La gigantesca macchina capitalista sembra vacillare, e intanto opprime la grande maggioranza dei cittadini.

Nonostante questo, George W. Bush propone un altro importante sgravio fiscale per l’1 per cento della popolazione che è relativamente ricco. Il sistema dell’istruzione pubblica è in grave crisi e per cinquanta milioni di americani l’assicurazione sanitaria semplicemente non esiste. Israele chiede 15 miliardi di dollari sotto forma di una nuova fideiussione e ulteriori aiuti militari. E il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti cresce senza sosta, mentre giorno per giorno si perdono posti di lavoro.

Continuano tuttavia i preparativi per una guerra incredibilmente costosa, e continuano senza un’approvazione pubblica né una disapprovazione chiaramente visibile. Un’indifferenza abbastanza generalizzata ha accolto il bellicismo dell’amministrazione e la sua risposta stranamente inefficace alla sfida mossa di recente dalla Corea del Nord. Nel caso dell’Iraq, privo di armi di distruzione massa degne di nota, Washington pianifica una guerra; nel caso della Corea del Nord offre aiuti economici ed energetici. Che differenza umiliante tra il disprezzo per gli arabi e il rispetto per la Corea del Nord, una dittatura altrettanto dura e crudele.


Nel mondo arabo e in quello musulmano la situazione appare più strana. Da quasi un anno politici americani, esperti regionali, funzionari governativi e giornalisti ripetono le accuse che sono diventate il ritornello quando si tratta di islam e di arabi. La maggior parte di questo coro esisteva prima dell’11 settembre. Al coro di oggi, praticamente unanime, si è aggiunta l’autorità del Rapporto sullo sviluppo umano nel mondo arabo, a cura delle Nazioni Unite, che ha certificato che gli arabi sono rimasti drammaticamente indietro rispetto al resto del mondo in materia di democrazia, conoscenza e diritti delle donne.

Tutti dicono – con qualche giustificazione, naturalmente – che l’islam ha bisogno di riforme e che il sistema educativo arabo è un disastro, una scuola per fanatici religiosi e attentatori suicidi finanziata non solo da imam pazzi e dai loro ricchi seguaci (come Osama bin Laden) ma anche da governi che sono ritenuti alleati degli Stati Uniti. Gli unici arabi “buoni” sono quelli che sui media criticano senza riserve la cultura moderna e la società araba. Ricordo le scialbe cadenze delle loro frasi, perché, non avendo nulla di positivo da dire su di sé, sul loro popolo o sulla loro lingua, rigurgitano semplicemente le formule americane che già inondano l’etere e la carta stampata. Ci manca la democrazia, dicono, non abbiamo messo sufficientemente in discussione l’islam, dobbiamo allontanare lo spettro del nazionalismo arabo e il credo dell’unità. Tutto questo è screditato, è spazzatura ideologica. È vero solo quello che sugli arabi e sull’islam diciamo noi e i nostri istruttori americani: vaghi cliché orientalisti riciclati, tipo quelli ripetuti da un instancabile mediocre come Bernard Lewis. Il resto non è realistico né sufficientemente pragmatico. “Noi” dobbiamo aderire alla modernità, essendo la modernità occidentale, globalizzata, liberista, democratica, qualsiasi cosa queste parole possano significare.

Ridisegnare la regione
Lo scontro di civiltà che George W. Bush e i suoi portaborse cercano di fabbricare come paravento per una guerra preventiva contro l’Iraq per il petrolio e l’egemonia dovrebbe sfociare, così ci dicono, nel trionfo di un processo di costruzione democratica, cambiamento di regime e modernizzazione forzata all’americana. Non contano le bombe e i danni provocati dalle sanzioni, che non vengono mai menzionati. Questa sarà una guerra purificatrice il cui obiettivo è rovesciare Saddam e i suoi uomini e sostituirli con una mappa ridisegnata dell’intera regione. Una nuova versione degli accordi Sykes-Picot, con cui nel 1916 Gran Bretagna e Francia si spartirono il Medio Oriente. Dei nuovi 14 punti wilsoniani. Un nuovo mondo, nel complesso. I cittadini dell’Iraq, ci dicono i dissidenti iracheni, saluteranno con gioia la loro liberazione e forse dimenticheranno completamente le sofferenze del passato. Forse.

Nel frattempo la devastante e lacerante situazione in Palestina continua a peggiorare. Non sembra esserci forza capace di fermare Sharon e Mofaz, che gridano la loro sfida al mondo intero. Noi proibiamo, noi puniamo, noi mettiamo al bando, noi rompiamo, noi distruggiamo. Il torrente di inarrestabile violenza contro un intero popolo continua. Mentre scrivo queste righe, mi è stato comunicato che il villaggio di al Daba, nell’area cisgiordana di Qalqiliya, sta per essere distrutto da bulldozer israeliani da sessanta tonnellate fabbricati in America: 250 palestinesi perderanno le loro 42 case, i loro campi coltivati, una moschea e una scuola elementare per 132 bambini. Le Nazioni Unite restano a guardare, mentre le loro risoluzioni vengono violate ora dopo ora. Di solito, purtroppo, Bush simpatizza per Sharon, non per il sedicenne palestinese usato dai soldati israeliani come scudo umano.

Intanto l’Autorità Palestinese offre di tornare al tavolo negoziale e, presumibilmente, agli accordi di Oslo. Dopo essere stato preso in giro per dieci anni, Arafat sembra inspiegabilmente volerci riprovare. I suoi fedeli luogotenenti rilasciano dichiarazioni e scrivono commenti per la stampa, facendo intendere la loro disponibilità ad accettare più o meno qualunque cosa. Tuttavia, la grande massa di questo popolo eroico sembra straordinariamente incline ad andare avanti, senza pace e senza tregua, sanguinando, patendo la fame, morendo giorno dopo giorno. Ha troppa dignità e fiducia nella giustizia della sua causa per sottomettersi ignominiosamente a Israele, come hanno fatto i suoi capi. Per il cittadino medio di Gaza che continua a resistere all’occupazione israeliana, cosa ci può essere di più scoraggiante che vedere i suoi leader inginocchiarsi come supplicanti davanti agli americani?

Fanatici religiosi e pecore sottomesse
In questo panorama di desolazione quel che cattura l’attenzione è l’assoluta passività e l’impotenza del mondo arabo nel suo complesso. Il governo americano e i suoi servi diffondono una dichiarazione d’intenti dopo l’altra, muovono truppe e materiali, trasportano carri armati e incrociatori; ma gli arabi, individualmente e collettivamente, riescono a malapena a esprimere un blando rifiuto (al massimo dicono: “No, non potete usare le basi militari nel nostro territorio”), solo per fare marcia indietro alcuni giorni dopo. Perché questo silenzio? Perché una così incredibile impotenza?

La più grande potenza della storia si prepara a lanciare (ripetendolo incessantemente) una guerra contro uno stato sovrano arabo oggi governato da un orrendo regime, una guerra il cui chiaro obiettivo non è solo distruggere il regime Baath ma ridisegnare l’intera regione. Il Pentagono non ha fatto mistero dei suoi piani per ridefinire la mappa dell’intero mondo arabo, forse cambiando altri regimi e altre frontiere. Nessuno potrà mettersi al riparo dal cataclisma quando arriverà (se arriverà, il che non è ancora una completa certezza). Eppure c’è solo un lungo silenzio seguito da vaghi piagnucolii di educate obiezioni. Dopo tutto saranno coinvolti milioni di persone. L’America pianifica con sprezzo il loro futuro senza consultarli. Meritiamo una simile derisione razzista?

Questo non solo è inaccettabile: è impossibile da credere. Come può una regione di quasi 300 milioni di arabi aspettare passivamente che si abbattano i colpi senza tentare un ruggito collettivo di resistenza e il forte annuncio di una visione alternativa? L’arabo si è completamente dissolto? Anche un condannato a morte di solito ha un’ultima parola da pronunciare. Perché oggi non c’è un attestato finale di gratitudine a un’era della storia, a una civiltà che sta per essere schiacciata e completamente trasformata, a una società che malgrado i difetti e le debolezze continua a funzionare? Ogni ora nascono dei bambini arabi, i ragazzi vanno a scuola, uomini e donne si sposano, lavorano e hanno dei figli, giocano, ridono e mangiano, sono tristi, si ammalano e muoiono. C’è amore e compagnia, amicizia ed eccitazione. Sì, gli arabi sono repressi e malgovernati, terribilmente malgovernati, ma malgrado tutto riescono ad andare avanti. Questa è la realtà che sia i leader arabi sia gli Stati Uniti semplicemente ignorano.

Ma oggi chi solleva gli interrogativi esistenziali sul nostro futuro come popolo? Il compito non può essere lasciato a una cacofonia di fanatici religiosi e di pecore sottomesse, fataliste. Ma questa sembra essere la situazione. I governi arabi – anzi, la maggioranza dei paesi arabi da cima a fondo – se ne stanno comodi in poltrona ad aspettare, mentre l’America si atteggia, si prepara, minaccia e invia altri soldati e F-16 per assestare il colpo. Il silenzio è assordante. Anni di sacrifici e di lotte, di ossa rotte in centinaia di carceri e camere di tortura dall’Atlantico al Golfo, famiglie distrutte, povertà e sofferenze senza fine. Eserciti enormi e costosi. Per che cosa?

Un’alternativa araba
Questa non è una questione di partito, di ideologia o di fazione: è una di quelle questioni che il grande teologo Paul Tillich definiva di “massima serietà”. La tecnologia, la modernizzazione e certamente la globalizzazione non sono la risposta per quel che oggi ci minaccia come popolo. Nella nostra tradizione abbiamo un intero corpo di pensiero laico e religioso che tratta di inizi e di fini, di vita e di morte, di amore e di rabbia, di società e di storia. Esiste, ma nessuna voce, nessun individuo di grande visione e autorità morale sembra oggi in grado di attingervi e di richiamare l’attenzione su di esso. Siamo alla vigilia di una catastrofe che i nostri leader politici, morali e religiosi possono solo denunciare un po’, mentre dietro mormorii, cenni d’intesa e porte chiuse studiano piani per cavarsela senza danni. Pensano alla sopravvivenza, e forse al paradiso. Ma chi si occupa del presente, delle cose terrene, della terra, dell’acqua, dell’aria e delle vite che dipendono l’una dall’altra per esistere? Nessuno sembra occuparsene. In inglese c’è una meravigliosa espressione colloquiale che coglie con estrema precisione e ironia la nostra inaccettabile impotenza, la nostra passività e la nostra incapacità di aiutarci ora che più c’è bisogno della nostra forza. L’espressione è: “Will the last person to leave please turn out the light” (l’ultimo che esce spenga la luce). Siamo molto vicini a uno sconvolgimento del genere, che lascerà in piedi pochissime cose.

Non è arrivato per noi il momento, collettivamente, di pretendere e di cercare di formulare un’alternativa autenticamente araba allo sfacelo che sta per travolgere il nostro mondo? Questa non è solo una questione banale di cambiamento di regime, anche se Dio sa quanto ne avremmo bisogno. Certamente non può essere un ritorno agli accordi di Oslo, un’altra offerta a Israele di accettare per favore la nostra esistenza e lasciarci vivere in pace, un’altra meschina, servile, impercettibile supplica di grazia. Uscirà nessuno allo scoperto a esprimere una visione del nostro futuro che non si basi su un copione scritto da Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz, questi due simboli di potere vacante e proterva arroganza? Spero che qualcuno stia ascoltando.

Traduzione di Nazzareno Mataldi

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