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L’insegnamento cileno
by Umanità Nova redazione torinese Tuesday, Sep. 02, 2003 at 11:18 AM mail: fat@inrete.it

L'atteggiamento legalitario impedì a Unidad Popular di comprendere che un processo come quello iniziato, per compiersi doveva avere l’appoggio delle masse operaie e contadine in possesso di quelle armi che andavano sottratte alle forze armate. Attaccare il privilegio economico senza disarmare l’apparato statale è stato il più grave errore allora compiuto.

L’insegnamento...
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11 settembre 1973 - 11 settembre 2003 il trentennale del golpe in Cile
L’insegnamento cileno
Negli anni ’60 si affermava in Cile il Partito Democratico Cristiano portatore della parola d’ordine "rivoluzione nella libertà" che tentava di incanalare su di sé la domanda di giustizia sociale delle masse operaie e contadine impoverite e di sviare il loro potenziale sostegno alle formazioni di sinistra, grazie ad una poderosa campagna anticomunista e antisocialista. Il programma iniziale, basato su riforma agraria e nazionalizzazione delle miniere di rame, si arenò progressivamente dimostrando la sua funzione strumentale. Le miniere rimasero nelle potenti mani delle multinazionali (Anaconda, Kenecott e Cerro de Pasco) e nelle campagne la riforma disattese la richiesta di terre dei contadini poveri.
La disillusione fece crescere allora l’opposizione che, nel 1970 dopo grandi e significative battaglie sociali e sindacali, fu alla base della vittoria elettorale di "Unità Popolare", una coalizione capitanata dal medico socialista Salvador Allende, formata dal Partito Comunista, dal MAPU e dalla Sinistra Cristiana. Questo governo nazionalizzò senza alcun indennizzo le imprese che sfruttavano i giacimenti di rame (grande ricchezza del paese) o che operavano in altri settori strategici (circa 200 compagnie), statalizzò le banche private ed il commercio estero e diede impulso alla riforma agraria favorendo forme collettivizzate di produzione. Insomma una serie di misure da "socialismo di stato" realizzate sul filo della legalità costituzionale. Misure che prima ancora di poter dimostrare la loro valenza, incontrarono l’opposizione dei ceti possidenti che trovarono comprensione e sostegno nell’amministrazione USA, nel Pentagono, nella CIA e nelle multinazionali nordamericane, in particolare l’ITT. L’ultradestra si incaricò di fare il gioco sporco sovvenzionando gli scioperi nei trasporti che provocarono seri problemi di approvvigionamento nelle città mentre donne dell’alta e media borghesia davano vita a cortei con pentole e cucchiai per protestare contro la "fame". In un clima di provocazioni crescenti l’11 settembre 1973 si produceva il colpo di stato diretto dal generale Augusto Pinochet, nominato capo di stato maggiore dell’esercito, solo poco tempo prima, dallo stesso Allende, che confidava in lui, preoccupato com’era della tenuta "democratica" delle forze armate… Allende sarà poi ucciso, mentre resisteva con estrema coerenza e dignità, nel palazzo presidenziale della Moneda, attaccato da aerei e carri armati, e una repressione violentissima si abbatterà indistintamente su quanti, per lo più a mani nude, cercarono di resistere, sui militanti politici e sindacali della sinistra: migliaia furono gli incarcerati, i torturati, gli scomparsi, i fucilati sommariamente. Lo stadio di calcio di Santiago divenne il primo campo di concentramento operativo, simbolo di una barbarie testimoniata da fotografie che fecero il giro del mondo suscitando un’ondata di esecrazione e di mobilitazione generalizzata. Ci furono anche dei tentativi di organizzare colonne di combattenti pronte a partire per il Cile, nell’illusione di una nuova epopea spagnola. Ma il Cile non era la Spagna, e il movimento popolare cileno pur registrando la presenza significativa di militanti anarcosindacalisti nelle centrali operaie come di gruppi anarchici, era ampiamente influenzato dal legalitarismo riformista di marca socialista e stalinista. Un legalitarismo che fino all’ultimo impedì a Unidad Popular e al suo presidente di comprendere che un processo come quello iniziato, per compiersi doveva avere l’appoggio delle masse operaie e contadine in possesso di quelle armi che andavano sottratte alle forze armate. Attaccare il privilegio economico senza disarmare l’apparato statale, nella convinzione che l’autonomia del politico potesse condurre fino in fondo il processo di espropriazione giocando in punta di lama con i codicilli costituzionali, è stato il più grave errore allora compiuto. Errore che diede avvio poi a quella riflessione condotta in Italia da Enrico Berlinguer, segretario del PCI, sulla necessità del "compromesso storico" tra comunisti e democristiani, per governare il paese. Secondo il leader del PCI nemmeno la vittoria elettorale delle sinistre avrebbe potuto modificare l’assetto di potere esistente e solo un’alleanza con la DC avrebbe dato questi frutti. In realtà con questa scelta si escludeva ogni via sia pur minimamente rivoluzionaria, proprio nel momento in cui la spinta del ’68-’69 continuava a fare sentire i suoi effetti, si permetteva alla DC, già in grave crisi, di continuare a essere il centro politico del paese e a Craxi-Ghino di Tacco di condizionare, con una rappresentanza elettorale poco significativa, il quadro istituzionale. In sostanza il compromesso storico prendeva atto della crescente aggressività dell’imperialismo americano (colpo di stato in Grecia, strage di stato in Italia, colpo di stato in Cile) che si sarebbe poi ulteriormente manifestato con il sostegno alle dittature militari in Uruguay ed Argentina, dando però una risposta del tutto difensiva e liquidatoria di ogni processo di effettiva trasformazione sociale. Invece di radicalizzare il proprio impegno operando fino in fondo una scelta di classe, il PCI abbandonava di fatto questo terreno, trascinando alla sconfitta l’insieme della sinistra politica e sindacale italiana. La reazione movimentista e lottarmatista che ne seguì non riuscì (e nemmeno poteva) invertire le rotta ed anzi accelerò di fatto il processo di integrazione di un Partito che si fece stato e punta di lancia della repressione (vedi 7 aprile e dintorni).
Per chi visse quegli anni la data dell’undici settembre non può lasciare indifferenti. Essa, al pari del 12 dicembre 1969, segna un punto di non ritorno. E non solo per le emozioni che gli Inti Illimani hanno saputo suscitare, quanto per la determinazione a seguire un percorso di giustizia sociale che solo un processo autenticamente rivoluzionario può garantire. Oggi come allora.
M. V.

Umanità Nova n. 27 del 2 settembre 2003 pag 1

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