a scomparsa di Edward Said, grandissimo critico letterario e acuto studioso militante del conflitto israelo-palestinese
«Ciascuna famiglia si inventa i propri genitori e figli, assegnando a ognuno di essi una storia, un carattere, un destino, o addirittura una lingua. Nel modo in cui sono stato inventato io, per essere inserito nel mondo... c'è stata una sfasatura fin dall'inizio. Che essa fosse dovuta a una lettura sbagliata da parte mia del ruolo assegnatomi oppure a un qualche radicato difetto del mio essere, non avrei saputo dire... la sensazione dominante era quella di essere sempre nel posto sbagliato». A sentirsi Out of place, ossia Sempre nel posto sbagliato, dal titolo che dà a una intensa memoria autobiografica (Feltrinelli), è Edward Said, comparatista grandissimo, saggista, docente alla Columbia University, commentatore politico tra i più lucidi e seguiti, nonché testimone e portavoce della complessità - culturale, oltre che politica - del conflitto israelo-palestinese. Quando, nel 1994, decide di porre mano alla sua autobiografia, che apparirà in America cinque anni più tardi, Said ha appena saputo di essere ammalato di leucemia: anzi, è la notizia stessa della malattia a spingerlo a ricomporre in scrittura i molti frammenti di una vita - eccentrica nella sua singolarità eppure al tempo stesso esemplare, e in questo degna di essere condivisa - tutta segnata dalla Storia.
Eccentrica sin dal nome che porta, e che fin da piccolo gli crea imbarazzo: Edward, indiscutibilmente inglese, per simpatia verso il Principe di Galles, cucito al cognome arabo Said: «Per anni mi mangiavo l'Edward, sottolineando il Said; oppure facevo il contrario, oppure li pronunciavo insieme così rapidamente che nessuno dei due risultava chiaro». Infine una precaria appartenenza al luogo, una geografia personale e familiare destinata più volte a ridefinirsi. Perché Said nasce nel 1935 a Gerusalemme Ovest, ma già dalla primavera del 1948 la famiglia viene sradicata da quei luoghi e non è più tornata dall'esilio, in Egitto dapprima, poi in una disapora che per lui prenderà la direzione dell'Occidente. Sarà la malattia a riportarlo, dopo decenni trascorsi negli Usa, in Palestina, ritorno, del quale lungamente scriverà.
Era dunque fatale che questa pluralità di identità, perlopiù conflittuali, questa compresenza di lingue e di luoghi, avrebbe offerto al Said studioso, al comparatista, una angolatura del tutto speciale attraverso la quale leggere la letteratura, suo campo di elezione. Uno sguardo di confine, per così dire, a partire dal quale si disegna un progetto critico che Said nitidamente persegue fin dal lontano 1966, anno in cui appare Joseph Conrad and the Fiction of Autobiography; che prosegue poi con Beginnings, del 1975, uno studio sul tema della soglia, dell'inizio, del testo narrativo, nel quale Said analizza i capisaldi delle letterature europee.
Dal concetto di soglia a quello di frontiera il passo è breve, e naturale, per chi come Edward Said porti nella sua storia la ricchezza di un sapere che unisce inestricabilmente Oriente a Occidente. Nel 1978, con Orientalism (Orientalismo, Bollati Boringhieri. Recentemente ripubblicato da Feltrinelli) Said consegna una lettura fondamentale del rapporto tra oriente e occidente, attraverso il consapevole ruolo che stereotipi sapientemente costruiti hanno giocato nella definizione, da parte della cultura europea, dell'«altro-da-sé». Sì, perché, Said ci spiega in un testo che rappresenta a tutt'oggi un imprescindibile punto di riferimento per chiunque voglia davvero riflettere sui rapporti tra culture, tutti credono di sapere cosa sia oriente, del quale si ha una idea generica quanto inesistente, quasi che si trattasse di una entità naturale data, basata sul posto speciale che questo occupa nell'esperienza europea occidentale. Allo stesso modo in cui, genericamente, si crede di avere una definizione di orientalismo
E invece, scriveva Said già più di trent'anni addietro, in una appassionata rivendicazione di un punto di vista corretto, l'oriente non è una entità data: «L'Oriente non è solo adiacente all'Europa; è anche la sede delle più antiche, ricche, estese colonie europee; è la fonte delle sue civiltà e delle sue lingue; è il concorrente principale in campo culturale; è uno dei più ricorrenti e radicati simboli del Diverso. E ancora, l'Oriente ha contribuito, per contrapposizione, a definire l'immagine, l'idea, la personalità e l'esperienza dell'Europa (o dell'Occidente). Nulla, si badi, di questo oriente, può dirsi puramente immaginario.... Credere che l'Oriente sia stato creato per il solo gusto di esercitare l'immaginazione, sarebbe alquanto ingenuo, oppure tendenzioso». Perché, conclude Said, «Il rapporto tra Oriente e Occidente è una questione di potere, di dominio, di varie e complesse forme di egemonia».
E' da questo studio, ancora oggi quantomai attuale, che prende forma quello che rimane a tutt'oggi, per gli studiosi di letteratura - quella inglese in particolare - la più completa e documentata analisi sul ruolo centrale che la narrativa ha rivestito nella costruzione del consenso nei confronti del colonialismo prima, e degli imperialismi poi, ossia Culture and Imperialism, (Cultura e imperialismo, Gamberetti, 1998).
Un testo talmente ricco e appassionante, sostenuto da una altrettanto ricca capacità di scrittura, che per festeggiarne l'uscita dell'edizione inglese, oltre 450 pagine, presso Chatto & Windus, nel febbraio 1993, la Bbs mise in onda un bellissimo programma di quasi due ore che traduceva in un sontuoso reportage televisivo, ricco di testimonianze dirette di autori e critici, di filmati d'epoca e di ricostruzioni storiche, i quattro densi capitoli di un grande viaggio all'interno della forma-romanzo. Uno scritto di critica letteraria di ampio respiro, sotteso da rigore critico, da un deciso e dichiarato punto di vista ideologico e al contempo appassionante come un romanzo.
Cultura e imperialismo parte dal fondamentale ruolo rivestito in Occidente dalla letteratura nella costruzione del consenso nei confronti dell'imperialismo; dalla idea che il cosiddetto «canone letterario ufficiale», che ha al suo centro i grandi romanzi del Settecento e dell'Ottocento, sia stato deliberatamente costruito, soprattutto in Inghilterra, lasciando fuori, oppure dando per scontato, tutto ciò che accadeva aldilà dei confini della Gran Bretagna e in particolare nei vasti territori d'oltremare da questa asserviti, e che alla «madrepatria» garantivano benessere e prosperità. Come dire che l'idea di sé come universo egemone che l'Europa, e in particolare l'Inghilterra, costruisce attraverso la letteratura nel corso di almeno due secoli è resa possibile dalla sistematica cancellazione della voce dell'altro.
Una voce che tuttavia è sempre esisistita, Said ci dice, contrariamente a quanto si è voluto pensare o far credere, perché «non è mai accaduto che la partita dell'imperialismo vedesse in campo un invasore occidentale attivo contro un indigeno non-occidentale passivo e inerte: vi è sempre stata qualche forma di resistenza attiva e nella stragrande maggioranza dei casi. Questa, alla fine, ha avuto la meglio». E tale disegno, tale geografia nascosta, della letteratura basata su questi due fattori, ossia l'esistenza di un modello culturale imperiale più generale, valido per tutto il mondo, e un'esperienza storica di resistenza all'impero, Edward Said lo costruisce attingendo a piene mani alla voce dei testi. Testi che decostruisce e scompagina, obbligandoci a una rilettura che sposta il punto di vista più ovvio, per illuminare, in ciascuno di essi, aspetti troppo spesso ritenuti marginali.
Per ricomporre un ordine, che rimettendo al loro posto le tessere di un mosaico in continuo movimento, rendesse giustizia ai soggetti deboli che la letteratura cosiddetta maggiore aveva da sempre tacitato e mal rappresentato. Voci troppo spesso condannate al silenzio, perché, come diceva di se stesso Edward Said - del quale ci mancheranno la forza dell'intelligenza, il fascino della parola, e la bellezza del volto -, troppo spesso collocate nel posto sbagliato.
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