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Guerra infinità e precarietà
by Di A.Fumagalli Saturday, Nov. 22, 2003 at 9:36 AM mail:

Guerra Infinita, precarietà economica, controllo sociale.




Tratto da Infoxoa 16


Potere

Con l'occupazione di Bagdad da parte delle truppe d'invasione angloamericane, la guerra in Irak è stata dichiara "finita" dai media e dai militari. Ma è lungi dall'essere effettivamente terminata, sia per gli irakeni, sia per noi, residenti nel cuore occidentale dell'impero. Per il popolo iracheno, le operazioni militari vere e proprie e i bombardamenti più o meno "intelligenti" sono sostituiti dall'instaurarsi di un nuovo regime d'occupazione, il cui fine è ben lungi dall'occuparsi del benessere e della

libertà di chi vive nelle antichissime terre del Tigri e dell'Eufrate. E' sintomatico il fatto che le prime dichiarazioni degli occupanti siano state tese a tranquillizzare i mercati finanziari e delle materie prime, affermando che i pozzi petroliferi dell'Irak, gli oleodotti, il terminale e le raffinerie di Bàssora non avevano subito danni rilevanti e che ben presto la produzione petrolifera irachena, una volta tolto l'embargo, sarebbe aumentata di ben cinque volte. Il destino che sembra profilarsi per l'Irak è quello dello stato vassallo, subalterno e complice della politica di controllo e dominio degli Usa, sul modello dell'Arabia Saudita. E pensare che la ricchezza del petrolio invece che favorire la dollarizzazione del paese potrebbe garantire un reddito di esistenza a tutti gli abitanti dell'Irak di gran lunga superiore, in termini reali, ai 1700 dollari annui che lo stesso petrolio garantisce a tutti gli abitanti dell'Alaska!
Noi, nell'occidente dalla distorta ricchezza, invece, abbiamo visto i bombardamenti alla televisione, quasi mai nella loro cruenta e sanguinosa realtà, il più delle volte soltanto immaginata. Non li abbiamo subiti direttamente: le nostre case, i nostri ospedali, i nostri musei e i nostri mercatini all'aperto sono rimasti integri. Noi, i bombardamenti, li abbiamo subiti, piuttosto, nelle coscienze e nel cervello. E si è trattato semplicemente di un'azione di guerra che si inserisce in un conflitto che è stato dichiarato da più di dieci anni: una vera e propria dichiarazione di guerra contro l'umanità per espletare la dittatura del mercato economico sugli uomini e le donne di questo pianeta.
Questa guerra di decennale durata è cominciata nella seconda metà degli anni Ottanta quando sono stati introdotti i piani di aggiustamento strutturale (i famigerati Sap) per piegare le economie dei paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa, Sud America e Asia Meridionale, ai diktat finanziari e produttivi delle multinazionali occidentali. Proprio quelle multinazionali (statunitensi ma anche europee) che, dopo lo shock finanziario del 1987 e la crisi debitoria internazionale dei primi anni Ottanta, hanno aumentato in modo smisurato il loro potere tentacolare in grado di condizionare ogni economia del globo. Con il crollo del muro di Berlino del 1989 e la recessione del 1992, il processo di globalizzazione verticistica e di ristrutturazione sociale ed economica ha sempre più interessato anche i paesi e gli abitanti dei paesi più ricchi. Con l'allargamento del mercato capitalistico su scala planetaria, lungo direttrici di subfornitura e di comando ben precise, è cominciata a venir meno la centralità anglossassone nel determinare i sentieri di controllo socio-economico. Nel corso degli anni Novanta, al fallimento del Nafta nel Nord America, ha fatto da contraltare il processo di unificazione monetaria europea dettato dagli accordi di Maastricht. Al recupero della leadership tecnologica da parte degli Usa, grazie allo sviluppo della net-economy, si è aggiunto il boom finanziario e produttivo delle economie del Sud-est asiatico, il cui processo di crescita è stato bruscamente interrotto dalla crisi finanziaria del 1997. Ciò ha permesso all'economia Usa, almeno sino al 2000, di riavere il monopolio incontrollato dei movimenti dei capitali internazionali, di rivalutare il dollaro, tenere sotto controllo la potenziale concorrenza dell'euro, ottenere i finanziamenti necessari per coprire il proprio deficit commerciale a favore di una crescita economica che avveniva a discapito delle altre economie.
Fino alla crisi finanziaria Usa, che, ricordiamo, ha inizio nella primavera del 2000, ben prima degli attentati dell'11 settembre 2001, e i cui effetti iniziano a farsi sentire già a metà del 2001, il trionfo del neo-liberismo "made in Usa", ovvero dell'ideologia del libero mercato, aveva raggiunto apici inimmaginabili solo con l'uso delle armi economiche e dei media, tramite il sapiente mix di condizionamento informativo e ingerenza economica. Tale processo era stato favorito dal crescente peso delle istituzioni di Bretton Woods, Fmi e Wto in testa, e dalla concentrazione in pochi mani dei media. E' con la contestazione di Seattle nel novembre 1999 che inizia a incrinarsi in modo irreversibile il consenso unanime che il neo-liberismo aveva fittiziamente fatto credere di possedere.
Negli anni Novanta, il pensiero unico liberista ha invaso le nostre coscienze e bombardato le nostre teste in modo indiretto, ma pervasivo. In occidente, si è proceduto al sistematico smantellamento delle politiche sociali, frutto del compromesso fordista del dopoguerra, e alla progressiva precarizzazione del lavoro e del reddito come strumenti per garantire il primato delle compatibilità produttive e finanziarie su qualsiasi politica di equità e giustizia sociale. Nei paesi in via di sviluppo, le politiche del Fmi hanno consentito di attuare vere e proprie politiche di predazione nei confronti delle ricchezze minerarie e agricole ivi detenute, con il fine di consentire all'oligarchia economica multinazionale (esito negli ultimi vent'anni del più grande e poderoso processo di concentrazione, produttiva, tecnologia e finanziaria che l'intera storia del capitalismo ricordi) di disporre liberamente dei corpi, dei cervelli, delle coscienze e delle anime dei suoi abitanti, secondo una logica che non si può non definire schiavista. Finché il pensiero economico liberista è stato dominante, finché il diritto del più forte (cioè, il diritto del mercato come diritto unilaterale dell'oligarchia multinazionale) è stato accettato più o meno supinamente, finché tale diritto sanciva il comando non solo sulle forze produttive ma anche sulla cultura e la politica, allora le armi dell'economia erano sufficienti al
protrarsi della guerra economica in modo vittorioso. Dopo Seattle, dopo lo scoppio della bolla speculativa e la recessione Usa, dopo il disvelamento dell'economia virtuale e truffaldina della net-economy e del modello Enron, dopo che si è visto che "il re è nudo", le armi della sola economia non sono state più sufficienti, anzi si sono mostrate inefficaci. E, approfittando degli attentati dell'11 settembre 2001 e la catarsi dell'emergenza terroristica, si sono trasformate in armi direttamente militari.
La guerra infinita si rivela per quella che effettivamente è: il mantenimento della struttura economica di potere con altri mezzi, ovvero la continuazione dell'economia e dell'ideologia del libero mercato con le armi. Il tutto nascosto sotto il velo di facciata dell'esportazione della "democrazia". Un
democrazia, il cui significato rimanda sempre più a precarizzazione individuale, iniquità distributiva, controllo sociale, autorepressione, divisione dei saperi e del lavoro su scala mondiale, sfruttamento dei paesi più poveri, ecc ., ecc..
Con l'occupazione dell'Irak, il potere, nelle sue forme diverse, quello militare nelle mani della monarchia Usa di Bush, quello economico e finanziario nelle mani plurali dell'aristocrazia finanziaria, tecnocratica e produttiva nelle sue forme molteplici e conflittuali (dalle multinazionali al Fmi, al
Wto), il potere, dicevamo, si mostra per quello che è, senza veli e senza ipocrisie: sanguinario e predatorio.

Contropotere

Noi siamo il contropotere. Un contropotere multiplo e variegato che non si pone l'obiettivo della conquista del potere, ma che lo pratica, già ora, laddove è possibile: dalle terre brasiliane e indiane autocoltivate, dalle fabbriche autogestite dell'Argentina, agli spazi delle metropoli liberati e autogestiti. Siamo anche un contropotere frammentato, un po' per definizione strutturale (la moltitudine è per forza variegata), un po' perché non omogeneo nelle sue basi ideologiche e di pensiero.
Siamo anche un contropotere in grado di produrre ricchezza e valorizzazione, del quale la struttura del potere economico non può fare a meno, per garantire la sua stessa ricchezza e preservare il suo stesso dominio.
Il processo di valorizzazione odierno, infatti, per lo meno in occidente, si basa su sistemi di accumulazione flessibile che richiedono sempre più una sorta di cooperazione sociale gerarchica, alla quale tutte le attività e le facoltà umane, sia materiali che immateriali, sono subordinate e messe a valore. Senza questa cooperazione sociale, il sistema produttivo andrebbe incontro al collasso, come ha mostrato, pur con tutte le differenze, il caso argentino. Quest'ultimo ha evidenziato, infatti, che l'attività predatoria dei processi di privatizzazione a favore delle multinazionali straniere e di sfruttamento e precarizzazione del lavoro ha impedito lo sviluppo di una cooperazione sociale a livello locale in grado di consentire un processo di crescita nazionale. In reazione alla crisi, la cooperazione sociale si è svincolata dal comando economico capitalistico è ha dato vita ad esperimenti di auto-organizzazione e di contropotere sia a livello produttivo che a livello sociale di quartiere (sino alla creazioni di nuovi ed embrionali sistemi monetari di pagamento), che proprio in questi mesi sono stati brutalmente repressi. L'esperienza argentina è paradigmatica delle contraddizioni interne al potere economico e militare, oggi sempre più disvelate e evidenti per chi le vuole cogliere. Ma è anche paradigmatica delle contraddizioni interne alla moltitudine.
La principale (tra le altre) contraddizione del potere oggi si muove tra necessità della cooperazione sociale da un lato e struttura sempre più gerarchica dell'organizzazione del lavoro e d'impresa, dall'altro. Ovvero tra cooperazione produttiva e individualizzazione del rapporto di lavoro. Non è pensabile, infatti, di poter sfruttare all'infinito la cooperazione sociale della moltitudine in presenza di una tendenza alla precarizzazione individuale della vita e del lavoro stesso.
Tale contraddizione interna alla struttura di potere rimanda anche alle difficoltà della moltitudine di far implodere tale contraddizione. Da un lato, come si era detto, la frammentazione e la scomposizione dei soggetti della moltitudine, che oggi devono far fronte al processo di precarizzazione, impediscono alla stessa moltitudine di acquisire quella massa d'urto in grado di intervenire, modificandoli, nei rapporti di forza. La frammentazione impedisce la formazione di una capacità di cooperazione sociale dal basso. In ultima analisi, quando parliamo, di cooperazione sociale facciamo riferimento solo all'abilità del comando d'impresa, sia esso tecno-produttivo o finanziario, di trasformare le capacità individuali in ambiti di cooperazione sociale ad uso e consumo dell'estrazione del profitto. La possibilità per la moltitudine di auto-organizzare la propria cooperazione sociale senza farsela espropriare dipende dalla sua capacità di ricomporsi in soggetto politico attivo. La stagione dei movimenti è condizione necessaria ma non ancora sufficiente per procedere a tale costituzione. Ma, soprattutto, la moltitudine può diventare un soggetto politico autonomo? Non è contraddittorio pensare che una pluralità possa dare vita ad unità di intenti in grado di rompere la gabbia degli attuali rapporti di forza?
E' difficile dare una risposta e il dubbio rimane. Ma due considerazioni ci rendono ottimisti.
La prima. La forza del potere oggi costituito sulla moltitudine costituente è essenzialmente dato dall'elevato grado di ricattabilità economica che lega gli individui al rapporto economico servile che li comanda, nella stragrande maggioranza dei casi, a prescindere dall'attività lavorativa svolta o non
svolta. Ciò vale in quasi tutte le latitudini e nei più disparati contesti geo-economici. La ricattabilità, nel cuore dell'impero, è essenzialmente ricattabilità di reddito e di in/formazione cosciente, in altri non luoghi a queste si aggiunge la ricattabilità connessa al non avere diritti (come per i nostri migranti). La lotta per il diritto al reddito, sganciato dalla subordinazione del lavoro, è quindi un elemento imprescindibile per liberarsi dal vincolo di comando imposto dalla cooperazione sociale capitalistica. Il reddito di esistenza diventa così il grimaldello principale per potersi liberare e liberare tempo per promuovere cooperazione sociale dal basso, fuori dal comando capitalistico.
La seconda considerazione riguarda il fatto che la parola d'ordine del diritto al reddito travalica la condizione lavorativa delle singole individualità che compongono la moltitudine. In altre parole è trasversale alle diverse anime del movimento e per questo non mette a rischio l'autonomia dei singoli soggetti. E fattore di ricomposizione ma non di omologazione.

Se il potere, per preservarsi, usa la guerra, noi non possiamo limitarci a chiedere una generica pace o il rispetto del diritto internazionale o accodarci al pietismo degli aiuti umanitari (soprattutto se accompagnati da truppe d'occupazione). Se siamo veramente un embrione di contropotere, qui ed ora, dobbiamo iniziare a sviluppare forme di cooperazione sociale autogestita e rivendicare il diritto al reddito di esistenza come strumento iniziale per procedere alla nostra potenziale liberazione.

Se il reddito è di/per tutti, non ci sarà guerra per nessuno.

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