E' il testo dell'articolo pubblicato oggi in prima pagina da LIberazione
Per questo fotomontaggio Indymedia è sotto sequestro (viene pubblicato con il fotomontaggio incriminato)
di Sabina Morandi Il gip di Roma Marco Patarnello ha disposto il sequestro preventivo del sito italiano di Indymedia, la rete di informazione indipendente nata nei giorni della rivolta di Seattle. Motivo, la pubblicazione di una fotografia di papa Benedetto VI in divisa da nazista, praticamente la stessa foto che è stata sparata in prima pagina dal Sun di Murdoch, il giorno dopo la fumata bianca. E’ da sottolineare il fatto che l’iniziativa arriva appena una settimana dopo che la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 402 del codice penale, quello relativo appunto al vilipendio alla religione – una delle tante notiziole che non hanno trovato spazio nei media ufficiali. Il capo della procura Giovanni Ferrara e il pm Salvatore Vitello, comunque, sono stati costretti a firmare una rogatoria per notificare il provvedimento del giudice in Brasile visto che (HO TOLTO ITALY PERCHE SONO TUTTE LE INDYMEDIA) indymedia.org risulta facente capo a un indirizzo brasiliano. Vero è che si appoggia a un provider estero secondo un’abitudine consolidata e assai diffusa fra i siti affiliati alla rete di controinformazione più famosa del mondo, per aggirare le svariate iniziative censorie che colpiscono sempre più spesso la rete, forse l’ultimo territorio dove le informazioni scomode possono pascolare più o meno indisturbate.
L’iniziativa è infatti solo l’ultima della serie. Il 7 Ottobre 2004 l’Fbi ha fatto irruzione negli uffici statunitensi della Rackspace, società che gestisce i server che ospitano molti siti locali di indymedia, fra cui italy.indymedia.org. Gli agenti sequestrano alcune macchine e poi spariscono nel nulla. Dopo una settimana di silenzi, ipotesi e attestati di solidarietà, l’ufficio legale di Indymedia Italia viene a sapere che l’ordine è partito dalla pm di Bologna Morena Plazzi che aveva chiesto l’acquisizione di informazioni nell’ambito dell’indagine sulla Federazione anarchica informale. Nessuno però aveva chiesto il sequestro delle macchine né degli hard disk che infatti, il 13 ottobre, vengono restituiti ai legittimi proprietari. Sugli hard disk sequestrati c’erano tutte le informazioni pubblicate da decine di migliaia di attivisti nello spazio aperto che affianca quello ufficiale, gestito dalla redazione, ma non c’erano i loro indirizzi né, quindi, alcuna possibilità di rintracciarli. Ma la censura non colpisce soltanto gli “indyani”. All’inizio di aprile l’Fbi ha inviato due mandati di comparizione all’amministratore del server flag.blackened.net, punto di riferimento per anarchici di tutto il mondo che ospita numerosi siti internet e forum di discussione. In due occasioni differenti l’Fbi ha intimato la consegna degli indirizzi dei visitatori di alcuni siti ospitati sul server, tra cui il popolare Infoshop News, perché contenevano messaggi di «istigazione alla violenza». Naturalmente il gioco può essere truccato facilmente: basta infilare messaggi provocatori nello spazio libero, ed ecco pronta la scusa per l’intervento delle forze dell’ordine. Se si va indietro nel tempo la lista delle vittime dell’Fbi aumenta. I casi più noti a livello internazionale riguardano la chiusura del sito Raise the Fist, l’arresto del webmaster (progettista di siti) Sherman Austin e il particolare accanimento contro molti altri snodi del network Indymedia, soprattutto in prossimità di eventi considerati a rischio. Considerando l’importante ruolo che il network ha svolto raccogliendo testimonianze, foto e riprese video sugli eccessi della polizia durante le contestazioni – a Seattle, Praga, Genova, Washington e via dicendo – le autorità si premurano di rendere la vita difficile ai cyber attivisti soprattutto in prossimità delle manifestazioni di protesta. Ma anche in Italia i censori si danno da fare. Sono stati chiusi accadeinsicilia, un paio di siti RdB/CUB che si occupavano di lavoro precario e brigaterosse.org, che si occupava di un’analisi storica del periodo. Si è arrivati a sfiorare il grottesco quando è stato ordinato il sequestro del sito dell’Unione nazionale carabinieri che, nel dicembre scorso, è stato chiuso d’ufficio per avere adottato la pericolosa abitudine di denunciare malefatte e abusi all’interno dell’Arma. In realtà dall’ultima iniziativa dei magistrati traspare una totale ignoranza di alcuni concetti basilari del cyberspazio e dell’informazione in rete. Prima di tutto Indymedia non è in Italia o in Brasile: è semplicemente ovunque perché è in sostanza una rete con server sparsi per tutto il pianeta. Se ne viene chiuso uno d’autorità bastano un paio di giorni per allestire un mirror, un sito specchio che può riproporre, in parte o integralmente, i contenuti del sito originale. In secondo luogo Indymedia è concettualmente più simile a una bacheca che a un giornale. Chi si collega lo fa per avere accesso alle informazioni che vengono ignorate o distorte dai media ufficiali ma anche per sapere cosa pensa la gente comune e, magari, per dire la propria. A differenza dei lettori o dei telespettatori, l’utente di un sito come Indymedia non è un fruitore passivo ma interviene, commenta, mette in comune quello che sa e talvolta, manifesta la propria incazzatura in modi più o meno coloriti. Censurare un sito di questo tipo, o mettersi minacciosamente a caccia dei presunti “responsabili”, equivale in sostanza a mettere sotto processo un preside perché sui muri della sua scuola sono comparse delle scritte offensive.
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