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Cambia la politica Usa in Iraq; si all'Iran e morte ai sunniti.
by mazzetta Thursday, Dec. 01, 2005 at 5:09 PM mail:

Ok da Washington a sciiti ed iraniani.

Cambia la politica U...
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Mentre Bush si esibisce in patria a beneficio dei fantaccini e delle televisioni promettendo la vittoria, la sua amministrazione è dedita a piani completamente diversi in Iraq.
La conta dei morti americani ha passato ormai i duemila soldati deceduti, ai quali vanno aggiunti almeno 280 contractor occidentali ed un numero di feriti che supera le ventimila unità.
Un numero molto alto, in rapporto ai caduti, che trova la sua spiegazione nell’efficace dotazione di protezione individuali dei soldati americani. Un numero che ci dice che i colpiti da attacchi sfiorano ormai i trentamila, e che gran parte di loro si salva la vita.
A fronte di questo dato positivo risalta però un inconveniente: la gravità delle lesioni riportate dai colpiti è molto più alta di quella mediamente rilevata finora nella storia dei conflitti. Gli americani stanno riportando a casa un gran numero di mutilati e di persone che, pur strappate alla morte, sono attese da una vita da handicappati.
Oltre questo disastro, comunemente sottaciuto perché i media focalizzano l’attenzione solo sui deceduti, c’è quello degli iracheni morti che da tempo non fanno notizia, ma che continuano ad essere assassinati a ritmi altissimi.
Una situazione nella quale i due terzi dei fondi spesi vengono inghiottiti dalla voce -sicurezza- e nella quale non si riesce a portare avanti nessuno dei previsti progetti di ricostruzione, mentre nel paese aumenta la povertà, il numero dei profughi interni e la capitale è ormai ridotta ad una gabbia da un reticolo di checkpoint e barriere che continua a crescere incessantemente; tattica mutuata dal modello israeliano di controllo dei palestinesi.

Si è aperta così una serie di iniziative politiche, contatti, accordi e colloqui volti a ridisegnare l’impegno in Iraq; l’amministrazione Bush è preoccupata più dalle elezioni di mezzo termine del prossimo novembre, che dalle esigenze degli iracheni; grossi dissensi si stanno aprendo il varco anche tra i repubblicani, poco inclini a pagare il prezzo del fallimento di Bush sacrificando il proprio seggio.
Una serie di attività che, pur non essendo segrete, non hanno avuto l’onore di essere riportate dal mainstream occidentale, forse troppo impegnato a coprire la buffonata di un Bush troppo ottimista per esser vero, patriottico e allo stesso tempo patetico come ai tempi nei quali dichiarava: mission accomplished dal ponte di una portaerei.
Pietosa propaganda di guerra, che ha sempre bisogno di una platea di militari compiacenti per trovare un numero significativo di americani disposti ad applaudirla.


Lo spostamento dell’ambasciatore Zalmay Khalilzad da Kabul a Bagdhad, suggeriva un cambio dell’approccio americano, che non ha tardato a verificarsi. Khalilzad è quel che si dice una vecchia volpe, ed è l’uomo che in Afghanistan si è incaricato di ottenere la benevolenza iraniana all’occupazione, come di trattare il rientro dei talebani nel governo di Kabul, al momento sprofondato in un fallimento anche peggiore di quello iracheno.

Khalilzad ha rivelato a Newsweek di essere stato autorizzato ad intavolare colloqui diretti con l’Iran, riattivando i rapporti diplomatici che furono interrotti dall’invasione dell’Iraq, come già aveva fatto ai tempi della sua ambasciata a Kabul.
La decisione è stata contestata dai conservatori attestati sulla linea della fermezza con i persiani, che ancora preferirebbero appoggiarsi al movimento iraniano MEK (Mujahideen-e Khalq), per sovvertire il governi di Teheran; nonostante il Mek sia unanimemente odiato in Iran e nonostante sia iscritto al Dipartimento di Stato e all’Onu come formazione terrorista.
Ha vinto il realismo e Khalilzad è pronto ad incontrarsi con i dirigenti iraniani per concertare una serie di azioni che permettano agli Usa di disimpegnare un terzo del contingente prima delle elezioni di novembre del prossimo anno.
Il motivo di tale cambio nella strategia è sicuramente da ricercarsi nella caduta a piombo del gradimento della presidenza Usa, che non registrava una tale mancanza di consensi dai tempi di Nixon massacrato dal caso Watergate e dal pantano vietnamita.
Purtroppo per gli iracheni il cambio di strategia non prelude ad un vero disimpegno americano, e nemmeno ad un plausibile miglioramento delle loro condizioni di vita.
Il piano prevede il disimpegno di cinquantamila soldati americani dal terreno, più alcune migliaia di quelli alleati; il resto delle truppe, oltre centomila uomini, dovrebbe rimanere il più possibile nelle basi, ed il controllo del paese sarebbe affidato alla forza aerea statunitense e, sul terreno, all’esercito iracheno.
Qui sta il problema grosso; l’esercito iracheno non è in grado, e non lo sarà, di assicurare la tanto agognata -sicurezza- e allora occorre pensare a qualcosa di diverso.
L’opzione alternativa prevede l’appoggio dell’Iran, e dello SCIRI, il Consiglio della Rivoluzione Islamica vicino a Teheran, di matrice sciita.
Non è passato inosservato il fatto che immediatamente dopo il vertice della Lega Araba che ha chiesto il ritiro delle truppe non-arabe dall’Iraq, il presidente Talabani sia volato direttamente a Teheran; e non è passato inosservato che gli Stati Uniti abbiano rispolverato l’ex primo ministro Chalabi (già accantonato per corruzione), che appariva in disgrazia e che invece è stato ricevuto d Rice, Cheney e dal consigliere per la Sicurezza Nazionale Hadley, e in queste settimane vola tra Iran e USA e partecipa a colloqui ai massimi livelli, incaricato di assicurarsi che lo SCIRI sia disponibile a fare quanto necessario per -pacificare- i sunniti.
Un incarico che già gli sciiti svolgono con determinazione ed entusiasmo, almeno stando alle cronache che riportano una interminabile scia di sangue alla quale i sunniti rispondono con le autobomba; una repressione sistematica operata su base etnica, come testimonia anche la scoperta di prigioni segrete sciite nelle quali i sunniti vengono detenuti e torturati a caso, senza che sia necessario da parte loro aver commesso alcun crimine o un’appartenenza ad organizzazioni criminali di qualsiasi tipo.
L’Iraq è dunque destinato a ricevere dall’esterno un nuovo assetto, per il quale gli Stati Uniti conserveranno l’occupazione del paese ed il controllo dei cieli, mentre sul terreno verrà data mano libera all’estremismo sciita filoiraniano, che sarà libero di regolare i propri conti con i sunniti e con quegli sciiti troppo patriottici per accettare la doppia tutela americana ed iraniana; assetto nel quale il Kurdistan iracheno sarà sempre più indipendente e lontano dal resto del paese.
L’amministrazione Usa ha scelto quindi l’ennesima opzione a favore dello spargimento di sangue iracheno, affidando ancora una volta nella storia lo svolgimento del lavoro sporco ad un “paese canaglia” e a formazioni che nulla hanno di democratico. Dopo il massacro dei curdi e dopo quello degli sciiti per mano di Saddam, Washington si prepara ad avallare quello dei sunniti per mano dello SCIRI; un classico della realpolitik repubblicana, a suo modo imparziale nell'eliminare chi non ne accetti gli ordini.




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