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I kurdi, la Turchia e l'Italia dopo Ocalan
by Dino Frisullo (by M.Molotov) Thursday, Oct. 24, 2002 at 1:24 PM mail:

Riflessione-bilancio di Dino Frisullo, scritto per il prossimo numero di Kurdistan Report. Un compendio delle vicende Kurde negl'ultimi 4 anni

QUATTRO ANNI DI PASSIONE
1998-2002: i kurdi, la Turchia e l'Italia dopo Ocalan

Quattro anni sono passati da quel giorno di novembre in cui un uomo di nome Abdullah Ocalan sbarcò a Fiumicino. Quattro anni da quelle notti gelide trascorse con migliaia di kurdi giunti da tutta Italia nel gelo di piazza Celimontana, da allora piazza Kurdistan per tutti ma non per la toponomastica.

Due eventi recenti fanno da ponte per la memoria. Due buone notizie che lasciano però l'amaro in bocca.
Sono stati assolti, dopo ben quarantadue mesi di processo, i giovani che dettero voce all'ira dei kurdi dopo il sequestro del loro presidente in Kenya dando alle fiamme la sede delle linee aeree turche a Roma. Un'azione non certo nonviolenta, ma le cui uniche vittime furono sei di loro incarcerati o agli arresti domiciliari e sessanta perquisiti: l'operazione Girasole, ricordate?
L'altra notizia è nota: la pena di morte per Ocalan è stata commutata nel carcere a vita. Una vittoria anche questa, certo. Invece dell'impiccagione, la morte lenta dell'isolamento in un'isola umida e fetida irta di soldati. La pena di morte è abrogata in Turchia, certo: salvo in tempo di guerra o di "pre-guerra". Come questo nostro tempo, con le basi turche pronte a scaraventare in Iraq (e in Kurdistan) bombardieri e blindati turchi ed angloamericani.

Quattro anni fa, nel tempo della speranza, Dario Fo dedicava ai kurdi il suo Nobel. E Pietro Ingrao apriva con le donne kurde uno sterminato corteo per la libertà di Ocalan e di tutti noi. Nel tempo della solitudine, il 9 ottobre scorso, cento profughi kurdi sono usciti dal centro Ararat di Roma e con immensa dignità hanno portato le loro bandiere rosse e le fiaccole accese, nonostante la pioggia battente, da piazza Venezia al Colosseo, ripercorrendo a ritroso il percorso di quel corteo, nell'anniversario dell'inizio dell'odissea di "Apo".
La memoria, diceva Primo Levi, è un triste privilegio delle vittime. Ma nel caso dei kurdi le vittime sono fra noi. E continuano ad arrivare, a sbarcare, spesso a morire. E' difficile rimuoverla del tutto, la memoria, quando prende carne ed ossa di uomini donne bambini.

Dall'alto dei Palazzi i volti dei profughi però non si vedono. Nei palazzi arriva solo quella stessa "realpolitik" che cacciò Ocalan dall'Europa. E l'Europa dei palazzi, non l'Europa dei diritti umani sognata dai kurdi ma quella che prepara la guerra, dopo quattro anni ha messo al bando come "terrorista" il partito di Ocalan, il Pkk. Che ora si chiama Kadek, e per adesso non è sulla lista nera. Ma quell'atto è stato uno schiaffo in viso a milioni di persone. Ha criminalizzato una storia di liberazione. Segna a fuoco, insieme alla quasi definitiva legittimazione della Turchia, la nascita di quest'Europa.

I kurdi tuttavia sono rimasti. In questi anni le loro bandiere non sono mai mancate nelle piazze della democrazia, dai giorni neri di Napoli e Genova ai grandi scioperi per i diritti, alle marce pacifiste, fino alla rivendicazione di legalità (per tutti, a partire dagli esclusi) di piazza San Giovanni, dove fra i più applauditi è stato l'intervento dell'esule kurda Hevi pubblicato qui a fianco.
Proviamo a tirare un bilancio di questa presenza. Degli sforzi di pochi, della rimozione di tanti. Un bilancio di quattro anni di passione.

La vicenda di Ocalan

La sentenza che tre anni fa, troppo tardi per lui ma non per quelli che verranno, ha attribuito ad Ocalan l'asilo in Italia, è stato il primo e quasi unico esempio di applicazione dell'articolo 10 della nostra Costituzione. Se da allora a quella norma si rifanno tutte le proposte di legge sull'asilo, si deve a Ocalan e ad un giudice coraggioso che contraddisse il governo D'Alema.

Condannato a morte ed ora al carcere a vita senza sconti di pena, la salute minata dall'isolamento quasi totale, attraverso i suoi avvocati (pluricondannati per questo) Ocalan continua a parlare al suo popolo, alla Turchia e al mondo. E' presidente del Kadek e del Congresso Nazionale Kurdo in esilio. Ora è davvero il Mandela kurdo. La Corte di Strasburgo ha rinviato all'inizio del 2003 la sentenza sul ricorso contro il sequestro e il processo-farsa, con l'Italia nella veste di accusata per l'odissea in cui risospinse "Apo" e non, come avrebbe dovuto, come parte a favore di un rifugiato riconosciuto.

Dal '99 quando lo si cita è grande l'imbarazzo, soprattutto nella sinistra. Brucia la scelta che allora si operò al bivio fra diritti e ragion di stato, ricostruita finora, sul filo del "giallo politico", solo in un libro del giornalista Marco Ansaldo. Rimane incompresa la grandezza di questa figura, come leader d'una lotta di liberazione nata contro una sanguinaria dittatura militare e ancor più, da Roma in poi, come alfiere di una radicale e unilaterale scelta di pace e dialogo. Ma di Abdullah Ocalan, per tre mesi e per sempre cittadino di Roma, si dovrà pur tornare a parlare in Italia. Anche traducendo qualcuna delle sue oltre sessanta opere. Che non si lasci il suo nome a Berlusconi, che da ministro degli Esteri ha sprezzantemente addebitato ai suoi predecessori di "aver solo portato in Italia Ocalan e la Baraldini".

Le relazioni turco-italiane

E' poco noto ma, accanto a quella sulle mine, una delle poche vittorie dei movimenti di solidarietà in Italia fu, due anni fa, l'esclusione dell'Agusta e dell'Oto-Breda dalle grandi commesse turche per la fornitura di elicotteri d'assalto e blindati, seguita dal recesso dei proprietari turchi del settore Avio della Piaggio. Quella per l'embargo degli armamenti destinati alla "guerra sporca" in Turchia fu una vertenza che coinvolse da Pax Christi ai delegati di fabbrica, dai sindacati ai centri sociali, e costò anche un processo rabbiosamente intentato dall'Agusta, e tuttora aperto, contro venti "occupanti" del suo stabilimento di Benevento.

Oggi però la Turchia è ridiventata un partner legittimo del governo italiano. E' bastata l'operazione poco più che cosmetica delle "riforme", ma soprattutto la ripetuta partnership turco-italiana nei teatri di guerra (dal Kossovo all'Afghanistan, ed ora forse in Iraq), per far archiviare articoli e documentari sulle carceri in cui si muore, sulla tortura e sull'esodo dei kurdi che continuano. E per sancire, da parte dei ministri Bianco, Scajola e Pisanu, accordi di collaborazione di polizia contro i profughi ed i "terroristi" con un paese che tuttora definisce terrorismo ogni dissenso.

Non si è rotto il blocco della cooperazione ufficiale - del governo, dell'Unione europea, delle grandi Ong - nel Kurdistan turco, a differenza dei (comunque pochi) progetti in corso nel Kurdistan irakeno. Quattro milioni di "displaced people" da migliaia di villaggi distrutti, immane ricaduta sociale di una vasta pulizia etnica, non esistono per le agenzie della grande cooperazione e della solidarietà, Onu inclusa. Esistono, invece, per le decine di enti locali che assieme all'associazionismo hanno faticosamente avviato diversi progetti di "cooperazione decentrata" a Dogubeyazit sull'Ararat, a Diyarbakir, sul lago di Van, e si sono organizzati in un organismo apposito, il Ciscase, con sede alla Provincia di Ancona. Sono istituti per donne e bambini privati dalla guerra di una famiglia, interventi ambientali e fognari per municipi kurdi abbandonati al dissesto, adozioni a distanza di famiglie di detenuti politici. Sono rivoli, ma nel deserto sono vitali.

La legittimazione del movimento kurdo

"Non vogliamo carità ma diritti, riconosceteci come kurdi" dicono spesso i profughi. La promessa fatta tre anni e mezzo fa ad Ocalan in partenza, che l'Italia avrebbe legittimato i kurdi come partner di un processo internazionale di dialogo e di pace, è rimasta sulla carta su cui fu scritta. Se in Italia i movimenti kurdi non sono perseguitati come in altri paesi e godono di libertà di espressione, anche nel contesto di un governo filoturco e di una legislazione antiterrorismo potenzialmente più liberticida di quella inglese, lo si deve al senso comune che, in Italia più che in altri paesi, ha assimilato l'idea della legittimità della lotta di un popolo perseguitato.

Nel contesto internazionale, nonostante la crescita delle istituzioni nazionali kurde nella diaspora, si parla oggi molto meno che negli anni '90 di diritti dei kurdi, se non in riferimento strumentale ai kurdi d'Iraq contro Saddam Hussein. Quanto alla Turchia, nel migliore dei casi si annega la questione nel capitolo "tutela delle minoranze", come se venti milioni di persone in un territorio vasto quanto l'Italia potessero essere considerate alla stregua d'una sopravvivenza etnica. E la loro lotta di liberazione, con riferimento almeno alla Turchia e alla storia del Pkk, è catalogata dall'Europa dopo l'11 settembre sotto la voce "terrorismo": un popolo è stato speso come moneta di scambio per l'impegno turco in Afghanistan e in Iraq.

Ma ciò che i governi non riconoscono è riconosciuto dal basso. Controcorrente è giunto un documento di protesta del Comune di Roma che invita anche in Campidoglio il Kadek, erede del Pkk. Sono molti i comuni che hanno attribuito la cittadinanza onoraria a Ocalan o alla deputata detenuta Leyla Zana. E sia il Kadek, sia il Congresso nazionale kurdo (Knk) hanno avviato un'interlocuzione con i gruppi parlamentari italiani.

Ancora più "in basso", fra i movimenti e nella società civile, molti muri sono crollati in questi tre-quattro anni. Sindaci e rappresentanti kurdi, Pkk incluso, sono intervenuti alle ultime tre edizioni della Marcia Perugia-Assisi, superando un pregiudizio del pacifismo europeo nei confronti della lotta kurda. Nel movimento contro la globalizzazione, le cui manifestazioni sono state spesso aperte dai kurdi come quelle contro le guerre, si fa strada l'idea che i kurdi siano, anche nel coraggio delle loro ultime scelte politiche, "gli zapatisti d'Europa". Settori ampi del movimento ambientalista hanno scoperto lo scandalo delle grandi dighe sul Tigri e sull'Eufrate con una campagna che, anche se non ha raggiunto l'incisività di quella inglese, ha costretto l'italiana Impregilo e la Sace a seguire la consociata inglese nel disimpegno dalla più devastante delle dighe, quella di Ilisu. Giuristi democratici e movimenti garantisti hanno toccato con mano, anche con molte delegazioni in Turchia, il dramma delle carceri e degli scioperi della fame stroncati col ferro, il fuoco e il crimine dell'alimentazione forzata che restituisce vita da larve umane. L'area dei centri sociali sta superando l'iniziale incomprensione della scelta radicale di pace (non di disarmo, ed è ancora più difficile) operata da Ocalan e dal suo partito. E a livello politico, tutti i maggiori rappresentanti dell'associazionismo italiano laico e cristiano, pacifista e "antagonista" hanno sottoscritto più volte la richiesta di legittimazione di tutti i movimenti, i partiti e le istituzioni kurde, compreso il partito di Ocalan.

In questi anni tremendi, nei quali la questione kurda è passata dalla ribalta della cronaca alla colpevole e totale rimozione, s'è comunque consolidata una rete di iniziativa dal basso: dall'associazione Azad (Liberi), nata proprio nel '97 su un'ipotesi di sostegno non solo al popolo kurdo ma alla sua lotta di liberazione, all'attività culturale e solidaristica del "Ponte per Diyarbakir", ai coordinamenti locali proliferati da Firenze a Trieste, dalla Sardegna ad Alessandria e a Bologna.

Questa rete si è sperimentata non solo nella solidarietà a distanza ma soprattutto nella presenza diretta sul campo. Sono fra cinquecento e mille gli italiani che negli ultimi anni hanno conosciuto la dimensione sociale e umana della lotta kurda partecipando come "osservatori" alle immense feste di popolo del Newroz, il Capodanno kurdo, agli incontri (specie di e con donne), ai processi politici, compreso il "processo del secolo" ad Imrali… Viaggi su viaggi hanno consentito di scoprire la ricchezza e l'articolazione della società civile kurda, in prima fila le donne, le "Madri della Pace". Gli "Italyanlar", componente maggioritaria di tutte le delegazioni internazionali, sono accolti ormai con grande affetto in Kurdistan dai tempi del "Treno della Pace" del '97 e della successiva vicenda carceraria di chi scrive. Anche in questi giorni una delegazione italiana è di nuovo in Turchia per monitorare, nei luoghi nascosti agli occhi del mondo, una decisiva campagna elettorale. E per il prossimo Newroz, in marzo, si prepara una grandissima delegazione che si prolungherà idealmente in settembre, nell'incontro internazionale che si propone a Diyarbakir "come nella Selva Lacandona".

I kurdi in Italia e l'asilo negato

Fino alla seconda metà degli anni '90 la presenza kurda in Italia si limitava quasi esclusivamente agli esuli kurdo-irakeni, in prevalenza studenti e intellettuali inseriti spesso nella sinistra politica e sindacale, sempre arbitrariamente esclusi (va ricordato) dall'accesso alla cittadinanza italiana.
E' dal '98 che il salto di qualità della mafia di stato turca ha cominciato a proiettare sulle coste italiane i barconi carichi di profughi dall'Iraq, dalla Siria e soprattutto dalla Turchia, e la presenza kurda in Italia s'è fatta molteplice e "sociale": richiedenti asilo quasi tutti, spesso lavoratori.

Questa presenza, amplificata dalla vicenda di Ocalan, ha dato nuova linfa all'ufficio romano del Fronte kurdo (oggi Uiki, Ufficio d'informazione del Kurdistan in Italia), ed ha consentito di affiancare all'antica Comunità kurda, che raggruppa gli esuli dagli altri Kurdistan, associazioni della diaspora kurdo-turca a Milano, Trieste, Modena-Parma, Roma, Badolato. A Badolato, in particolare, vive da tre anni e si è poi diffusa in altri centri calabresi un'originale esperienza di convivenza solidale fra i kurdi sbarcati su quelle coste e le comunità locali spolpate dall'emigrazione. Esperienze minori ma simili si sono realizzate a Venezia, Parma, Firenze, Lucera, Rotondella e altrove. Ed a Roma da oltre tre anni, nel totale disimpegno istituzionale, sopravvive e cresce l'esperienza di autogestione dell'accoglienza di migliaia di profughi e della comunicazione culturale (musicale, teatrale-folklorica, cinematografica) intitolata all'Ararat: la montagna-madre, il nome della prima nave giunta in Italia carica di kurdi.

Dunque anche in Italia la diaspora si fa soggetto sociale e politico. E culturale: cresce la richiesta di borse di studio per l'inserimento universitario di giovani intellettuali kurdi, e le università di Napoli e di Roma sono "in gara" per giungere ad istituire il primo corso di lingua, letteratura, cultura e storia kurda. Un buco nero in Italia nei confronti della lingua negata più parlata al mondo, come riconosceva nel 2000 un appello di linguisti, primo firmatario Tullio De Mauro. Ora sono in preparazione dizionari e grammatiche, e le poche pubblicazioni disponibili cresceranno (anche a difesa d'una storia recente criminalizzata) grazie ad alcuni editori di buona volontà.

Ma anche in Italia si profila un drammatico scontro rispetto alla negazione del diritto d'asilo. A differenza di altri paesi, "in primis" Germania e Gran Bretagna, in Italia dal '98 al riconoscimento ufficiale della persecuzione dei kurdi era seguita una politica aperta di attribuzione dell'asilo o, quantomeno, della "protezione umanitaria". Se alle frontiere non si è mai smesso di respingere i profughi negli inferni sloveno, albanese o greco (da dove spesso, in violazione di qualsiasi convenzione, tappe forzate li riportano in Turchia e in Iraq), i casi di deportazione diretta dall'Italia in Turchia si contavano sulle dita di una mano. Ora siamo in piena inversione di tendenza. Gli accordi intergovernativi con la Turchia e la legittimazione del regime turco stanno producendo un'ondata di rigetti dell'asilo, di dinieghi di rinnovo della protezione umanitaria, di decreti di espulsione. La motivazione è sempre più spesso un'arbitraria previsione di non persecuzione di persone che portano spesso i segni della tortura nella carne e nella memoria, perché "la Turchia è cambiata". Con vere e proprie perle della commissione ministeriale, come quella sugli orientamenti democratici del "nuovo governo turco" (quello di coalizione con i Lupi grigi!). Manca solo, ma è questione di tempo, il tocco finale, la deportazione collettiva dall'Italia alle galere turche.

Qualche storia fra tante. O., a Roma, torturato infinite volte, asilo rigettato. H., a Venezia, ha perso il lavoro regolare assieme al soggiorno "per motivi umanitari" che gli aveva consentito di portare in Italia la sua famiglia. H., a Bolzano, attende da dieci mesi l'esito dell'incontro con la commissione sospeso per "accertamenti" (quali?), e intanto non riesce ad ottenere neppure il rinnovo del soggiorno umanitario di sua moglie. C., a Roma, s'è visto rifiutare l'asilo perché era "soltanto" un disertore dall'esercito. E una storia esemplare è quella della moglie di G. che, partita incinta, ha partorito due gemelli a Crotone. La coppia fuggiva dalla Turchia dove li aveva espulsi il governo tedesco, revocandogli l'asilo, per punirli della loro presenza a Roma nei giorni di Ocalan. Dieci mesi dopo, padre e madre di due bimbi nati in Italia si sono visti rifiutare l'asilo politico. Possono tornare anche loro in Turchia, è cambiata, assicurano i burocrati del Viminale.

Intanto l'esodo kurdo s'intensifica sospinto dai venti di guerra. Con tutta evidenza sono profughi di guerra, quella "preventiva" dei bombardamenti e quella "sporca" che si combatte ogni giorno nelle celle di tortura di cui è fornito ogni commissariato turco (ma anche siriano, irakeno, iraniano). Nelle storie di questi esseri umani s'intrecciano molti nodi: quello della guerra e della pace, quello del diritto internazionale e della sua negazione pratica, quello della flagrante e voluta cecità delle diplomazie e delle burocrazie. Ognuna di queste storie dev'essere "adottata" in tutta la sua complessità (inclusi i costi dei ricorsi), fino ad inviare delegazioni sul campo per verificare, come ha fatto con successo la tedesca Pro Asyl, la situazione dei rimpatriati e la storia e i rischi dei "rigettati" candidati al rimpatrio. E' questa la sostanza della specifica campagna nazionale che, prima che sia troppo tardi, l'associazione Azad propone d'intitolare alla memoria di Malli Gullù, forte e fragile donna kurda, militante dell'Hadep, fuggita dalla tortura e dal processo per aver digiunato nel '99 in solidarietà per Ocalan, morta di stenti nel 2001 sotto gli occhi dei suoi figli nella stiva d'una nave diretta in Italia.


Dino Frisullo

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