Blocchi Neri, Tute Bianche e Zapatisti nel movimento
antiglobalizzazione
di Claudio Albertani
Tutti i mali che nascono nelle repubbliche si devono alle
violente inimicizie che dividono la nobiltà dal popolo
perché, mentre l'una vuole comandare, l'altro non vuole
obbedire.
Niccolò Machiavelli
...s'è accesa, a poco a poco, una nuova epoca d'incendi, di cui nessuno di coloro i quali vivono ora vedrà la fine:
l'obbedienza è morta
Guy Debord
Più di mezzo secolo fa, George Orwell scrisse che una
società perviene ad essere totalitaria quando le sue
strutture diventano palesemente artificiali, cioè quando la
classe dominante riesce a sostenersi unicamente grazie alla
forza e all'inganno. Una tale società non può permettersi di
essere tollerante, né può autorizzare un resoconto veridico
di ciò che accade.
Oggi il Grande Fratello è al governo ovunque e combattere le
sue menzogne risulta più difficile che ai tempi di Orwell.
Lo si è visto in occasione delle manifestazioni contro il
vertice dei potenti, tenuto a Genova a fine luglio 2001.
Ci è parso utile, per ristabilire la verità, provare a
ricomporre frammenti di quel resoconto, come strumenti da
mettere a disposizione di chiunque intenda liberamente
avvalersene.
In quei giorni erano all'opera un numero impressionante -
forse centomila - fra microfoni, macchine fotografiche,
cineprese e videocamere, la qual cosa, se da un lato ha
attizzato la curiosità malevola dei pubblici ministeri,
dall'altro ha reso più facili la memoria e il ripensamento
critico.
Inoltre, grazie alla creazione di Radio Gap e al suo sito
Internet (www.radiogap.net/it), l'informazione è circolata
in tempo reale ed ha potuto essere seguita in più lingue da
qualsiasi parte del mondo.
Ci siamo dunque avvalsi di questo materiale e delle
testimonianze che coloro i quali sono stati a Genova hanno,
in prima persona registrato.
In un'epoca che pare avere perduto ogni certezza, è molto
difficile prevedere quali potranno essere gli sviluppi di
questo movimento, ma di sicuro, per molto tempo non potremo
percorrere la via accidentata della liberazione umana, senza
ricordarci di Genova.
1. Genova: un esercizio di democrazia totalitaria
La tradizione degli oppressi ci insegna che lo "stato
d'eccezione" in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a
un concetto di storia che corrisponda a questo. Allora ci
starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero
stato d'eccezione...
W. Benjamin
Questo è il sale della democrazia. Tutti i cittadini hanno
uguali diritti, uguali doveri, uguali manganellate
lista movimento@ecn.org del 31.7.01
In preparazione del vertice, la città venne smontata e
ricomposta in base a criteri che aggiornavano l'urbanistica
controinsurrezionale del barone Haussmann, l'architetto che,
dopo la rivoluzione del 1848 aveva demolito interi quartieri
di Parigi per prevenire la costruzione di barricate e
consentire i movimenti dell'artiglieria.
In bilico fra l'ostentazione del proprio potere e la
consapevolezza di una crescente impopolarità, i signori
governanti avevano stabilito di asserragliarsi nella "zona
rossa". L'accesso rimase consentito solo a residenti -
invitati in ogni modo a prendersi una piccola vacanza e
diffidati comunque a non stendere antiestetiche mutande (?!)
nelle vie proibite - portaborse, funzionari, giornalisti
accreditati di un "passaporto interno".
Intorno, a dividere in due la città, ventimila tra
poliziotti, finanzieri e carabinieri, tremila militari,
paracadutisti, guardie carcerarie, marines, avieri,
incursori, sommozzatori, e specialisti della guerra
batteriologica, nucleare e chimica.
Nel contempo la temperatura politica veniva alzata
artificialmente grazie a un maldestro remake della strategia
della tensione: lettere-bomba, piccoli attentati, falsi
allarme. Una mossa prevedibile. In Italia, ogniqualvolta
appare un movimento di protesta, i corpi separati dello
stato rimestano nel torbido.
Il 19 luglio, Genova aveva ormai assunto l'aspetto kafkiano
di una città blindata e semiabbandonata: chiuse le stazioni
ferroviarie, chiusi il porto e l'aeroporto, chiusa la strada
sopraelevata lungo il mare come pure il principale accesso
autostradale, chiusi gli accessi alle spiagge, chiusi i
posti di lavoro, sospesi i matrimoni, le operazioni
chirurgiche, i funerali, capillare ed ossessivo il controllo
sul territorio e lo sfoggio di potenza militare. Nemmeno ai
tempi dell'occupazione nazista o durante la grande
sollevazione del luglio 1960, si era giunti a tanto.
Quel giorno, nel corso di una pacifica manifestazione per la
tutela dei migranti (quelli residenti a Genova poco presenti
in piazza, per via delle minacce recapitate dalla polizia,
casa per casa, nelle settimane precedenti), ciò che si poté
constatare fu l'incompatibilità della libera circolazione di
tutti, e non solo dei clandestini, con la sicurezza dei
governanti. Nell'ansia di difendersi dalle migliaia di
assedianti giunti dai cinque continenti, e per verificare
l'efficacia di nuovi dispositivi di dominio, essi avevano
sospeso per decreto la rassicurante cappa della normalità
sociale.
La città era a tal punto intasata da reti metalliche
barriere, percorsi obbligati e labirinti ossessionanti, che
il suo attraversamento a piedi da Ovest a Est - d'abitudine
una bella passeggiata per il centro storico più grande
d'Europa - avrebbe richiesto un percorso di varie ore
attraverso i monti !
Il 20 luglio, quando tra calici di vino e linguine al pesto
(rigorosamente senz'aglio, per compiacere le idiosincrasie
alimentari del satrapo Berlusconi) l'élite globale - il
senato virtuale del mondo, secondo la definizione di Noam
Chomsky - si fu riunita infine a Palazzo Ducale per
ragionare amabilmente del destino dell'umanità, poco
lontano, al di là delle barriere protettive, una parte di
quell'umanità decise di riprendere in mano il proprio
destino.
La reazione non si fece attendere. Il cielo fu solcato da
assordanti elicotteri da combattimento da cui - come nel
film Apocalypse Now - si affacciavano, minacciose, le sagome
dei gorilla di stato armati fino ai denti. Più sotto,
squadracce di poliziotti e carabinieri sfogavano i loro
istinti sadici contro manifestanti inermi e seminudi,
arretrando di fronte ai Black Blocs i quali, altrove,
colpivano con efficacia carceri, banche, commissariati e
supermercati.
La sera del 21 gli sbirri, ansiosi di scrollare dai
manganelli la polvere di troppi anni di quiete sociale,
devastavano due scuole dove si trovavano centinaia di
manifestanti. In una di esse, aveva sede il centro
multimediale del movimento.
Gli arrestati, per la maggior parte sorpresi nel sonno,
vennero massacrati al canto di Faccetta nera, la vecchia
canzone fascista. Le violenze continuarono negli ospedali,
nelle caserme, nelle carceri, scandite da slogan
inequivocabili "Un, due, tre, evviva Pinochet, / quattro,
cinque, sei, diamo fuoco agli ebrei, / sette, otto, nove, il
negretto non commuove".
Più ancora di questo misero folklore, se vi è un elemento
nella condotta del governo italiano che davvero richiama il
fascismo, è l'inquietante modo di dare la caccia ai
manifestanti, non già perché facessero qualcosa di proibito
o si astenessero da qualcosa di obbligatorio (non ci furono
né intimazioni di sgombero, né ordini di scioglimento; la
polizia, semplicemente, assalì il corteo), ma, come dei
nuovi ebrei, per la semplice colpa di esistere.
Il bilancio fu di proporzioni belliche: più di 300 arresti,
600 feriti, decine di teste fracassate, braccia e gambe
spezzate, un numero imprecisato di torturati in caserma,
forse qualche desaparecido, e l'odore acre del sangue di un
morto sull'asfalto ardente.
Fu un esperimento di controguerriglia freddamente
pianificato nelle alte sfere dell'élite mondiale o,
semplicemente, una bravata del centrodestra nazionale
ansioso di consumare sui "rossi" la vendetta per la cacciata
di quarantun anni prima?
La tempestiva proposta tedesca di creare una forza europea
antisommossa, l'insistenza che si leva da ogni parte per la
creazione di un'anagrafe internazionale dei sovversivi,
farebbero propendere per la prima ipotesi, però la questione
rimane aperta.
A Genova si trovava riassunto il peggio di due anni di
repressioni globali: le torture e i canti nazisti a Praga e
a Napoli, la rete metallica a Quebec, il blocco delle vie di
fuga ancora a Napoli, l'assalto alle scuole concesse al
movimento e i colpi di pistola ad altezza d'uomo a
Goeteborg.
Mentre Berlusconi non arrossiva proclamando: "Il G8 ha
lavorato bene e, per la prima volta, si è aperto alla
società civile", da parte sua, il fiammeggiante vice primo
ministro, Gianfranco Fini, avvertiva: "il nostro è uno stato
democratico dove nessuno ha il diritto di pensare che vi
siano soppressioni di libertà".
Il messaggio è chiaro: il nostro è il migliore dei mondi
possibili, nessuno si azzardi a sollevare obiezioni. E,
giustamente, il ruolo di polizia del pensiero, i neofascisti
al governo - eredi proprio di chi il vocabolo
"totalitarismo" lo inventò - lo reclamano per sé.
2. Elogio del provocatore
Carlo Giuliani non era "vestito di nero". Non era un
anarchico insurrezionalista. Non era uno squatter. Non era
un punkabbestia. Era solo un ragazzo arrabbiato contro
questo mondo, che si è difeso uccidendolo. Non era uno dei
pochi, era uno dei tanti
Genova: pochi o molti? Comunicato firmato Alcuni anarchici
24.7.01
Mentre le polizie ed i governi del mondo - in special modo
quello italiano - riesumavano il logoro fantasma
dell'anarchico bombarolo, stampa e televisione scoprirono un
nuovo filone su cui campare: il misterioso Black Bloc,
ultimo antieroe della guerra sociale.
Poiché la verità non si annovera tra le aspirazioni dei
giornalisti, un elenco delle loro menzogne risulterebbe
lungo e tedioso. Con modeste varianti, il ritornello è
questo: da Seattle in poi, gruppi di manifestanti buoni
protestano in maniera civile contro la globalizzazione
neoliberale. Organizzano seminari, gruppi di studio,
incontri. Hanno delle proposte. Vorrebbero essere ascoltati.
E magari lo sarebbero anche se alcuni parassiti non ne
approfittassero per compiere atti di vandalismo
sconsiderato.
Il loro nome è Black Bloc, vestono di nero e, come ninja,
appaiono e scompaiono con grande rapidità. Silenziosi e
misteriosi, vengono da lontano: Stati Uniti, Germania,
Inghilterra, Paesi Baschi (e qui si evocava il fantasma di
ETA...), Grecia, Europa Orientale.
C'erano tutti gli elementi per costruire il mostro: il
cattivo anarchico non è, di preferenza, un prodotto
nostrano. Un'idea questa, del male in genere e
dell'anarchico in particolare, di chiaro stampo
statunitense: il nazionalismo nordamericano contemporaneo si
forma, fra l'altro, intorno alla campagna contro i
sovversivi stranieri.
"Zanzare agili e veloci, prive di consenso, che
rappresentano una disgrazia per tutti" - li definirà la Tuta
Bianca Marco Beltrami, portavoce del "Laboratorio del
Nord-Ovest", dimenticando che, prima di Genova, in
un'intervista con un esponente dei BB americani, la rivista
Carta, vicina al suo gruppo, aveva addirittura manifestato
un interesse a diventarne l'interlocutore privilegiato in
Italia.
Inoltre, in giugno, a Goeteborg, Tute Bianche e BB si erano
trovati in piazza insieme, senza particolare conflitti. Fu,
solo dopo il 20 luglio, che le Tute individuarono nei BB il
capro espiatorio ideale.
"Perché non li hanno fermati alla frontiera?", tuonarono
tutti i quotidiani, compresi Liberazione e Manifesto, che
fino al giorno prima avevano strepitato a favore della
libera circolazione dei manifestanti.
Nelle ore successive alla morte di Carlo Giuliani
circolarono tutte le ipotesi, comprese le più stravaganti.
Hooligans? Infiltrati? Tifosi diffidati cui era stata
garantita l'impunità? Agenti al servizio di interessi
oscuri? Di sicuro, comunque, provocatori.
Ogniqualvolta ci si imbatte nella parola "provocatore",
emerge inevitabilmente una mescolanza di rabbia e di
simpatia. Rabbia perché chi non abbia interamente abdicato
alla memoria non può proprio sopportare la riscoperta del
linguaggio sinistro - "provocatore anarchico" - che reca
l'impronta sanguinosa di Stalin. Simpatia perché, a ben
guardare, le esperienze rivoluzionarie più significative del
Novecento non avrebbero avuto luogo se non ci fossero stati
dei "provocatori" a provocarle.
Provocatori furono di volta in volta gli insorti di
Kronstadt; gli anarchici e i comunisti libertari nella
Spagna del 1937; gli operai in rivolta nei paesi chiamati
socialisti, a Berlino, Budapest, Danzica; i ribelli di
maggio in Francia e quelli del 1977 in Italia.
Forse non tutti ricordano che, nel gennaio 1994, la medesima
etichetta fu affibbiata anche agli zapatisti messicani per
essersi azzardati a tagliare, con la loro pretesa di vivere
nella libertà e nella dignità, la fallimentare strada verso
il potere della sinistra elettorale.
2. Black Blocs. Demolitori di vetrine. Demolitori di
menzogne.
Signori il tempo della vita è breve, e se viviamo, viviamo
per calpestare i re
William Shakespeare -Slogan del Network per i diritti
globali. Genova- luglio 2001
Chi intende sondare il mistero che circonda i BB, scopre in
breve che tale mistero esiste solo nella menzogna dei
confusionisti interessati: al riguardo, decine di
testimonianze, analisi ed articoli, sono da tempo
disponibili su Internet, riviste, libri.
La rivista belga Alternative Libertaire illustrava, ad
esempio, già nell'ottobre 2000, come sul tema circolassero
equivoci e falsificazioni in quantità. Recentemente, il
Circolo Freccia Nera di Bergamo (CP 15, 24040 Bonate Sotto,
BG) ha pubblicato un'interessante antologia di materiali in
gran parte pescati sui siti infoshop.org, ainfos.ca,
indymedia, ecn.org, radiogap e tactitalmedia.
Innanzi tutto è sbagliato dire Black Bloc, si dovrebbe dire
Black Blocs, al plurale, perché non è mai esistito un
singolo gruppo con questa etichetta, bensì una vasta
costellazione di persone, organizzazioni e collettivi
genericamente appartenenti all'area libertaria e che
rivendicano una pratica radicale.
Quindi non si è del Black Bloc, ma si fa un Black Bloc. E
infatti sono proprio le azioni, che si distinguono sempre
per l'alto grado di combattività, fluidità e solidarietà, a
rendere i BB visibili e singolari. L'uso di maschere e
passamontagna vale a mantenerli anonimi, proteggendoli dalla
repressione. "Non è romanticismo", spiega un loro documento,
"il Grande Fratello ci osserva!". Dopo Genova, l'indagine
giudiziaria sui tatuaggi visibili nei filmati, per
incriminare qualcuno fra gli arrestati, indica che la
precauzione non è affatto superflua.
La loro prima apparizione pubblica risale a una decina di
anni fa, negli Stati Uniti, quando centinaia di individui
mascherati si scontrarono con la polizia in occasione delle
manifestazioni contro la guerra del Golfo. Presenti alla
marcia "Millions for Mumia" dell'aprile 1999 a Filadelfia,
conquistarono l'attenzione internazionale a Seattle (30
novembre/2 dicembre 1999), dove, fra l'altro, misero a segno
delle azioni spettacolari contro compagnie multinazionali
già da tempo oggetto di boicottaggio, come McDonald's e
Nike, banche, supermercati e negozi di lusso. Già allora,
alcuni dirigenti di Ong (in quel caso Global Exchange e
Public Citizen) organizzarono una catena umana per
proteggere tali negozi, arrivando al punto di invocare
l'intervento della polizia contro gli "anarchici
distruttori", esattamente come poi successe a Genova,
Altri denunciarono le solite infiltrazioni. I BB furono
tuttavia difesi da alcuni conosciuti ricercatori
universitari del gruppo WIN: "non emarginiamo questo
movimento", diceva un loro documento diffuso si internet il
2 dicembre 1999.
Poi, il 16 e 17 aprile 2000, migliaia di persone
manifestarono a Washington, contro una riunione della Banca
Mondiale e del FMI. Qui un BB di circa 1000 persone adottò
una nuova tattica: invece di attaccare la proprietà
concentrò i propri sforzi sulla polizia forzando
sbarramenti, facendola arretrare, e riuscendo a liberare
alcune persone arrestate (un obiettivo meritevole della
massima cura, forse trascurato troppo nelle giornate di
Genova).
Seguirono altre apparizioni nel corso delle Convenzioni del
Partito Repubblicano a Filadelfia (1/2 agosto 2000), e di
quello Democratico a Los Angeles (14/17 agosto). In
quest'occasione i BB furono anche protagonisti di
interessanti manifestazioni tra cui un esperimento di teatro
di strada chiamato gioiosamente clown bloc. Un'altra volta,
per irridere quei giornalisti che li avevano definiti trash
(spazzatura), assunto il controllo di un'area urbana
mediante l'erezione di barricate, organizzarono precisamente
la raccolta della spazzatura...
Secondo numerose testimonianze, i BB cercarono, in tutte
queste circostanze, di rispettare quanto più possibile la
volontà dei manifestanti pacifici, e di agire anzi come
scudo protettivo tra il grosso della manifestazione e la
polizia.
In Europa la pratica dei BB trovava un antecedente, e
probabilmente le sue radici originarie, nei gruppi autonomi
tedeschi degli anni settanta e ottanta: dopo Seattle,
allorché il movimento traversò l'Atlantico, si produsse un
inevitabile effetto di reciproca contaminazione. Da quel
momento, in tutto il mondo (a Praga, a Melbourne, a Londra,
a Nizza, a Quebec, a Davos e a Goeteborg), le proteste
furono fortemente influenzate dalle tattiche dei BB
americani.
In particolare a Quebec City, non solo i BB, demonizzati
appena due anni prima a Seattle, ricevettero l'applauso
della popolazione locale mentre attraversavano l'Esplanade
des Ameriques Françaises, ma tutti i manifestanti presero
spunto dalle loro tecniche, nell'assalto al muro della
vergogna - un piccolo assaggio di ciò che si sarebbe visto a
Genova - che fu poi distrutto in più punti e assediato per
l'intera giornata.
A Goeteborg, durante le manifestazioni di giugno, un BB di
alcune centinaia di persone sfilò dietro un grande
striscione che diceva Smash Capitalism. Particolare
importante: anche in quest'ccasione, il BB, si impegnò a
rispettare le manifestazioni pacifiche.
Ciò fu reso possibile da precisi accordi fra le varie
componenti del movimento, accordi che però non sempe sono
realizzabili, conducendo fin da Praga (settembre 2000) alla
creazione di tre distinti spezzoni, rosa (limitato alla
nonviolenza rigorosa), giallo (limitato alla disubbidienza,
escludendo atti offensivi), blu (senza autolimitazioni).
Giudicando la soluzione di Praga insoddisfacente, il Genoa
Social Forum (GSF) - l'alleanza che si fece carico
dell'organizzazione delle manifestazioni - scelse di
introdurre le cosiddette piazze tematiche (Manin, Verdi,
Dante, Paolo da Novi), ciascuna delle quali gestita con
criteri indipendenti da diversi spezzoni del movimento.
L'intento comune doveva essere quello di assediare, ed
eventualmente violare, la zona rossa seguendo tattiche
rigorosamente nonviolente.
Tuttavia, in un documento copiato di sana pianta dagli
scritti zapatisti (senza nemmeno citarli), dei membri del
GSF, le Tute Bianche, diffusero, il 20 luglio,
un'incredibile dichiarazione di guerra che aveva fra gli
altri destinatari il governo italiano e l'ambasciata
americana seminando la confusione e introducendo una nota di
ipocrisia nelle ripetute affermazioni di adesione al
pacifismo.
Poiché la meta era raggiungere il traguardo mediatico di
mille associazioni partecipanti, il GSF, oltre a
contabilizzare ogni singola sezione di partito e di
movimento, incluse anche le organizzazioni raggrupate nel
Network per i Diritti Globali - ovvero i sindacati di base,
Cobas, e molti Centri Sociali - le quali, se erano disposte
ad agire pacificamente, non si opponevano però ad altre
linee di condotta.
A ciò bisogna aggiungere che, mentre il GSF poteva trattare
con il governo per garantire l'agibilità delle piazze, i BB,
nemici coerenti della delega e della gerarchia, non
disponevano di incaricati da spedire ai tavoli di
spartizione della visibilità mediatica.
Come notava, con impressionante candore, una Tuta Bianca
bolognese (lista ecn.org): "peccato che il Black Bloc, per
sua stessa scelta ideologica, non abbia capi, né leader
carismatici, né portavoce, e agisca esclusivamente per
piccoli gruppi di affinità autorganizzati. Lorsignori sono
anarchici duri e puri e provano schifo davanti a
qualsivoglia figura anche solo lontanamente gerarchica".
Il risultato di tutto ciò fu che nonviolenti e BB agirono
senza coordinarsi, esponendosi, tutti indistintamente, alla
furia della polizia. E ancor di più che i BB, i quali
facevano parte del movimento fin dal principio (in verità
c'erano prima di molti membri del GSF), vennero consegnati
al riflettore malevolo delle televisioni, dei poliziotti e
dei calunniatori come provocatori e violenti sbucati dal
nulla.
Eppure nei loro documenti - da anni disponibili in rete -
non vi è traccia di una retorica della violenza; vi si
trovano, al contrario, riflessioni serene e niente affatto
banali sulle varie tattiche di protesta urbana e riferimenti
teorici condivisi da altri, quali le Temporary Autonomous
Zone (TAZ) di Hakim Bey, la critica radicale del lavoro di
Bob Black, l'ecologismo municipalista di Murray Bookchin o
l'anticapitalismo primitivista di John Zerzan. I BB si
limitano inoltre a realizzare azioni simboliche contro le
cose e non contro le persone.
No, questa non è violenza da stadio e neppure disagio
esistenziale, come vorrebbe Rossanda Rossanda (Il Manifesto,
6 agosto). È una modalità di protesta criticabile finché si
vuole, e qualche volta anche controproducente, ma non
irrazionale né illegittima. Inoltre, nonostante le calunnie
di cui continuano ad essere oggetto, al movimento contro la
globalizzazione i BB hanno apportato energia, coraggio,
intelligenza tattica, e una pratica antiautoritaria.
A Genova, mentre i ricercatori indefessi della visibilità
televisiva lanciavano le loro farneticanti dichiarazioni di
guerra e annunciavano di marciare sulla zona rossa senza
esserne capaci, essi se ne allontanavano in silenzio per
agire fuori portata delle forze repressive. In realtà, ciò
che non si perdona loro è di avere demolito, insieme con le
vetrine, anche le menzogne dei politicanti.
Travolti dagli avvenimenti, nelle ore successive alla morte
di Carlo Giuliani, alcuni leader del GSF fecero circolare la
voce (subito ripresa dai media) che i BB erano degli
"anarchici".
E tuttavia, solo con enorme mala fede si possono
identificare i Black Blocs con gli anarchici (o, a maggior
ragione, con punk ed animalisti come si è tentato di fare).
Un BB può essere anarchico, ma non necessariamente un
anarchico condividerà le azioni dei BB. Anzi, una buona
parte del movimento anarchico, non solo in Italia, ma nel
mondo intero, è su posizioni rigorosamente pacifiste. Tanto
è vero che, presi da uno zelo senza dubbio eccessivo, subito
dopo i fatti di Genova, alcuni anarchici emisero un duro
comunicato contro i BB.
Altri fecero di peggio. Francesco Berardi, l'inaffondabile
Bifo della Bologna ribelle del 1977, li definì "centinaia di
psicopatici vestiti di nero che il Ministro degli Interni ha
infiltrato, aizzato e utilizzato contro il movimento" e
Alfio Nicotra, rappresentante del Partito della Rifondazione
Comunista nel GSF, ammise di aver denunciato alla polizia,
fin dal 17 luglio (prima di qualsiasi violenza, dunque) la
presenza di autobus carichi di sospetti (Corriere della
Sera, 29 luglio). Luca Casarini (Tute Bianche) e Vittorio
Agnoletto (GSF) non furono da meno: "abbiamo le prove".
"Siete contenti di aver provocato la brutalità poliziesca?
Siete contenti di avere infine un martire?" ruggì Susan
George, vicepresidentessa di Attac (Association pour une
Taxation des Transactions financières pour l'Aide aux
Citoyens). Bernard Cassen, presidente della stessa
organizzazione e inoltre direttore generale di Le Monde
Diplomatique, rincarò la dose: "la complicità della polizia
italiana con il Black Bloc è evidente". Il tutto in un
paginone dal titolo suggestivo: Los tentáculos del
terrorismo internacional dove insinuava anche l'esistenza di
un Internazionale nera dei servizi segreti della quale i BB
sarebbero il pezzo forte (El País, 29 luglio 01).
In perfetta consonanza, Karl Schwab, fondatore ed
organizzatore del famoso World Economic Forum di Davos, dopo
aver intessuto l'elogio dei manifestanti pacifici "i quali
possono influenzare positivamente il mondo degli affari e i
governi" aggiungeva che "purtroppo tutto ciò viene
sistematicamente sabotato dalle azioni di una piccola
minoranza il cui unico obiettivo è la violenza" (Liberation,
30 luglio).
Ora, è evidente che la polizia fa il suo lavoro, cercando di
ottenere il massimo di informazione sui meccanismi interni
dei movimenti di protesta, e di seminare nel contempo il
massimo di disinformazione. Da sempre, l'infiltrazione è uno
dei metodi più usati per controllare o manipolare; però, chi
può dirsene immune?
A Genova è stata denunciata la presenza di infiltrati non
solo tra i BB, ma anche tra le Tute Bianche (Il Secolo XIX,
1 settembre). Nulla prova che i primi siano più esposti di
altri a questo pericolo: semmai, il loro strumento
organizzativo, il gruppo d'affinità - fondato su una
conoscenza approfondita fra tutti i partecipanti - appare il
meglio indicato a contrastare infiltrazioni e
strumentalizzazioni.
La colossale operazione di polizia montata prima degli
scontri fa pensare ad un esperimento di low intensity war in
versione metropolitana. È chiaro che il governo cercava la
violenza con o senza BB. L'operazione attirò, probabilmente,
anche la curiosità di un gran numero di agenti segreti,
stranieri e nostrani, con l'idea, magari, di influenzare gli
avvenimenti in base ai rispettivi interessi nazionali. Ma
queste sono solo speculazioni.
Ciò che di sicuro accadde, è che, fin dal tardo pomeriggio
di venerdì, la presenza degli infiltrati fu denunciata dalla
loro stessa goffaggine, riferita dai giornalisti, filmata
dagli operatori, smentita senza convinzione dai questurini.
Nei giorni successivi, gli stessi BB misero in chiaro che
polizia e carabinieri, vestiti di nero e con passamontagna,
avevano costituito squadre di casseur travestiti. Gli
infiltrati c'erano dunque, ed erano lì soprattutto per
diffondere la sensazione paralizzante che la polizia è
ovunque, che non esiste via d'uscita; e per indurre ciascuno
a diffidare del proprio compagno appena conosciuto, e a
confidare, invece, nei partiti, nelle bandiere, nei leader
che tutti credono di conoscere davvero, giacché appaiono con
tinuamente alla televisione.
La presenza di questi intrusi, per quanto provata, non
spiega tuttavia la portata degli scontri di Genova. Secondo
numerose testimonianze, delle circa 300.000 persone
presenti, almeno 30.000 parteciparono ad atti violenti, e
molte di più cercarono di agevolarli in tutti i modi,
individualmente oppure organizzati come Pink Blocs (ad
esempio, gli americani di Tactical Frivolity), presenti nel
movimento fin da Seattle, i quali non impiegano in prima
persona la violenza, ma si impegnano a favorirla
tatticamente.
Di tutti costoro, solo una minoranza, senz'altro inferiore
al 10 per cento, poteva definirsi BB: gli altri erano
individui che, in quella situazione, condivisero e magari
anticiparono il loro cammino. Non pochi erano Tute Bianche,
o aderenti ad organizzazioni nonviolente, sfuggiti al
controllo dei loro dirigenti. Altri ancora erano genovesi
indignati che presero parte attiva negli scontri oppure
manifestarono la loro simpatia offrendo acqua e riparo ai
manifestanti.
E a ben guardare tutto ciò non è poi così strano: invece del
consueto effetto paralizzante, l'arroganza dei governanti,
ebbe per una volta l'effetto di causare un'esplosione di
collera generalizzata che sfociò nella rivolta sociale più
violenta degli ultimi 40 anni.
Di fronte a ciò, alcuni ritennero di difendere i "veri" BB
che non sarebbero andati a Genova, dai provocatori che
agirono al loro posto. Altri ancora ammisero che i "veri" BB
c'erano ma li accusarono di non avere riflettuto sulle
conseguenze dei propri atti, di essersi sottratti al
confronto con gli altri appartenenti al movimento, di
essersi rivelati, in sostanza, degli irresponsabili (si veda
Liberazione, 8 e 10 agosto, e il sito internet di
Rifondazione Comunista, Reds).
Roberto Bui, ideatore di Luther Blissett, aspirante nuovo
leader delle Tute Bianche, scrisse in rete che, "nel
momento in cui le pratiche del BB sono state usate contro di
noi, dobbiamo dire con forza che queste persone sono
politicamente morte. E se avessero un minimo di intelligenza
dovrebbero essere i primi a fare l'esame di coscienza e
suicidare un'esperienza che si è, di fatto, conclusa a
Genova" (23 luglio, movimento@e...).
Qui, come osservò Oreste Scalzone, bisognerebbe chiedere
agli pseudostrateghi della disobbedienza civile se è forse
più responsabile dichiarare guerra all' "impero", gridare ai
quattro venti "sfonderemo la zona rossa", usare un
linguaggio aggressivo per poi dire, a quelli che a sfondare
ci vanno con le pietre, oppure fanno riots, che sono dei
rozzi o degli infiltrati. Ed infine gestire tutti insieme la
morte di Carlo Giuliani. Da vivo, col suo estintore in mano,
Carlo chi era ? A chi disobbediva?
4. La lunga marcia delle Tute Bianche
"sapevano cosa volevamo fare e avrebbero potuto permetterci
di violare la zona rossa. La verità però è che sono stati i
carabinieri a far saltare tutto"
Luca Casarini, Il Nuovo, 27.8.01
"Non conta aver dato la propria parola. E' a chi l'hai data,
che conta"
Dutch - Ernest Borgnine, nel film "Il mucchio selvaggio",
1969, di Sam Peckinpah
Le Tute Bianche amano presentarsi come un movimento di tipo
nuovo, creativo, nonviolento. Sebbene provengano da
esperienze operaiste ed ultra leniniste piuttosto truculente
la cui espressione teorica è l'opera di Toni Negri,
ripudiano adesso l'idea della conquista del potere,
rifiutano i modelli monolitici e ostentano l'influenza degli
zapatisti messicani e, più precisamente, l'influenza del
subcomandante Marcos.
L'immagine è falsa. Infatti, aldilà delle apparenze, le Tute
rassomigliano più ad un partito tradizionale con tanto di
leader - ora chiamati portavoce -, una separazione netta tra
dirigenti ed esecutori, un'ideologia che si allontana sempre
più dalla pratica, un raffinato lavoro di lobbying
istituzionale, e perfino candidati a cariche elettive nelle
amministrazioni comunali e regionali.
Le Tute Bianche sono violente o nonviolente? Diciamo che
difendono violentemente le ragioni della nonviolenza.
Mentre, ad esempio, i Black Bloc, attaccano la proprietà, le
Tute amano spaccare la testa di coloro che contravvengono le
loro regole.
I paradossi non finiscono qui: nonostante l'antipatia
sovente manifestata in Italia nei confronti dei libertari e
delle loro idee, essi coltivano all'estero la fama di essere
anarchici. In Messico, dove hanno fatto molto chiasso, sono
considerati degli irresponsabili. Ed in Italia sono riusciti
a gettare il discreto sul tentativo, nobile all'inizio, di
creare un movimento neozapatista nel nostro paese.
In realtà, la pratica delle Tute Bianche nasce all'interno
dell'Associazione Ya Basta, creata nel 1996 dall'alleanza di
centri sociali definita nella cosiddetta Carta di Milano: il
Pedro di Padova ed il Rivolta di Mestre, il Leoncavallo di
Milano, il Corto Circuito e il Forte Prenestino di Roma, lo
Zapata e il Terra di Nessuno della Liguria e altri ancora.
I centri sociali (spesso menzionati con la sigla CSOA, dove
O sta per occupato e A per Autogestito), nati da esperienze
locali negli anni 70, nell'area generalmente conosciuta come
Autonomia Operaia, costituirono vere e proprie isole di
socialità alternativa strappate al grigiore dei ghetti
metropolitani, che si dimostrarono capaci di una certa
resistenza al riflusso degli anni ottanta.
Aggiungiamo che non sono mai stati una realtà omogenea, ma
piuttosto una serie d'esperienze locali che si sono venute
diversificando - a volte contrapponendo - nel corso del
tempo.
Verso l'inizio degli anni novanta, una parte di essi prese
la decisione, molto criticata, di allacciare rapporti di
collaborazione con autorità ed enti locali, con l'obiettivo
di legalizzare il possesso degli edifici, ottenere
riconoscimento istituzionale ed accedere a finanziamenti
pubblici.
Non è nostra intenzione scagliare anatemi per questo, né
entrare nella merito di una storia complessa e accidentata.
Il problema non è trattare con lo stato, ma come e perché si
tratta. In Messico, ad esempio, gli zapatisti hanno mostrato
che è possibile farlo, mantenendo, allo stesso tempo, un
ragionevole margine di autonomia e senza venire meno a due
principi irrinunciabili: la trasparenza e la verità.
In quanto all'Italia, la profonda frattura che si era venuta
creando all'interno dei centri sociali tra antagonisti e
negoziatori venne in parte colmata proprio in seguito alla
massiccia ondata di entusiasmo suscitata dalla ribellione
degli indigeni messicani il primo gennaio 1994. Si apriva la
possibilità di cominciare da capo e di costruire un nuovo
grande movimento, non più sul modello della solidarietà, ma
su quello, ben più appassionante, del coinvolgimento e della
condivisione.
Seguì una tappa unitaria, di breve durata, culminata nel
Primo Incontro Intercontinentale per l'Umanità e contro il
Neoliberalismo, celebrato in Chiapas nell'agosto 1996, su
invito del sub comandante Marcos. Quell'incontro può essere
considerato come l'atto di battesimo dell'attuale movimento
contro la globalizzazione.
I problemi ricominciarono quando, in seguito alla proposta
zapatista di organizzare un secondo incontro in Europa, si
avviarono i dibattiti sulle modalità e i percorsi del nuovo
appuntamento.
Le future Tute Bianche fondarono allora l'Associazione Ya
Basta presentando la proposta di organizzare l'incontro a
Venezia con l'appoggio del comune (il sindaco era Massimo
Cacciari una persona non certo affine agli zapatisti, né, ad
esempio, alla problematica degli immigrati clandestini), più
quello di Rifondazione (che allora sosteneva il governo
neoliberista dell'Olivo) e de Il Manifesto.
Il viaggio di Bertinotti in Chiapas, insieme con alcuni
esponenti del CSOA Corto Circuito di Roma, - organizzato con
gran fragore pubblicitario nel gennaio 1997 - siglò la nuova
alleanza, di cui gli zapatisti erano solo un pretesto,
mentre ciò che realmente contava erano le dinamiche interne
italiane e il difficile equilibrio tra forze molto
eterogenee.
Per Rifondazione, partito con un occhio puntato sui
movimenti e l'altro sui sondaggi elettorali, era vitale
mettere radici in quel grande serbatoio di voti che sono i
giovani; e per questi centri sociali era importante
proseguire la lunga marcia nelle istituzioni. La coalizione
dell'Ulivo, da poco insediata grazie alla somma dei voti
degli ex comunisti e degli ex democristiani, offriva nuove,
inaspettate, opportunità all'operazione.
Tanto in Europa come in Italia, però, il grosso del
movimento bocciò la formula veneziana, preferendo la
proposta presentata dai collettivi spagnoli di un incontro
autorganizzato ed autofinanziato in cinque località della
Spagna.
A quel punto Rifondazione e Ya Basta scelsero la via dei
rapporti diretti e privilegiati con il comando zapatista,
boicottando l'incontro spagnolo con il significativo
pretesto che gli organizzatori non erano altro che ... un
mucchio di anarchici, e spedendo in Chiapas Gianfranco
Bettin, prosindaco di Venezia, per invitare gli zapatisti a
un incontro concorrenziale, messo in piedi in gran fretta
per la fine di settembre.
In seguito, gli aderenti a Ya Basta, non esitarono a
proclamare sé stessi Comunità Zapatiste, dando luogo a
equivoci grotteschi. Infatti, una cosa è il proclamarsi
ribelle di una comunità india a partire da una pratica reale
di rottura ed autonomia ed un'altra, molto differente, è
che un gruppo di persone si autoproclami "comunità", senza
che a ciò corrisponda nulla di autentico.
Nei mesi successivi, il Messico continuò ad essere al centro
delle preoccupazioni di tutti in Italia. Il massacro di
Acteal (23 dicembre 1997) aprì una nuova fase unitaria il
cui punto culminante fu la grande manifestazione di gennaio
a Roma: 50.000 persone in piazza per protestare contro la
politica genocida del governo messicano.
Su iniziativa dei collettivi che avevano sostenuto
l'Incontro in Spagna, in febbraio vi fu l'iniziativa della
Commissione Civile Internazionale per l'Osservazione dei
Diritti Umani.
Poiché la Costituzione messicana prevede l'espulsione degli
stranieri che si intromettono negli affari interni, la
commissione si muoveva sul filo del rasoio. Per visitare le
zone del conflitto, come a gran voce chiedevano le comunità
maya colpite dalla repressione, era necessario ottenere il
permesso delle autorità, il che imponeva evidenti
limitazioni. Anche la pretesa di essere degli osservatori
"neutrali" era un assurdo, però erano in gioco molte vite
umane e ne valeva la pena.
L'iniziativa ebbe successo. La Commissione, alla quale
parteciparono anche alcuni membri di Ya Basta, riuscì ad
intervistare centinaia di persone, scrivendo poi un rapporto
dettagliato che fu di grande utilità per tutti coloro che
lavoravano sul Chiapas.
Un paio di mesi dopo, in aprile, Ya Basta tornò in Messico,
questa volta senza l'ingombro di altra gente. Se in Italia
proseguiva a gonfie vele la politica di avvicinamento al
governo di centro sinistra, il Chiapas offriva un terreno
ideale per dare sfogo alla spinta rivoluzionaria che
continuava a venire dalla base.
Il 6 maggio 1998, 135 militanti di Ya Basta forzarono un
posto di blocco tenuto da cinque agenti della polizia di
frontiera in piena Selva Lacandona. Seguiti da uno stuolo di
giornalisti, essi irruppero nel villaggio di Taniperla, uno
dei più conflittuali della regione, dove il gruppo
pamilitare Movimiento Indígena Revolucionario Antizapatista
(MIRA) terrorizzava da tempo la popolazione civile.
Dopo alcuni spintoni e un paio di momenti drammatici, i
militanti di Ya Basta tornarono a San Cristobal, non senza
rilasciare dichiarazioni incendiarie. Seguirono il rituale
dell'espulsione, ed un grottesco viaggio a Strasburgo a
bordo di un aereo noleggiato dal governo messicano. È dubbio
il beneficio che ne trassero gli indigeni di Taniperla i
quali vivevano un dramma autentico. Inoltre, l'incidente
servì da pretesto per ridurre ancor più l'erogazione di
visti agli osservatori, però l'obiettivo di Ya Basta, far
parlare di sè e creare scandalo, era raggiunto.
Più recentemente, in occasione della marcia zapatista del
marzo 2001, le Tute Bianche monoplizzarono la sicurezza
dell'EZLN, comportandosi come Hell's Angels a un concerto,
ed agendo in maniera violenta ed autoritaria nei confronti
degli altri membri della carovana.
Queste prodezze messicane illustrano bene la doppiezza del
gruppo: essere intransigenti e rivoluzionari all'estero, ma
accettare tutti i compromessi, compresi i più disonorevoli,
a casa propria.
Anche l'idea della tuta, messa per la prima volta a Milano
verso la fine del 98, si ispira esplicitamente agli
zapatisti. Infatti, gli "invisibili" metropolitani vestono
di bianco, così come gli indigeni del Chiapas si coprono il
volto di nero: per essere visti.
Tuttavia, se il fine è di essere ripresi dai telegiornali,
invitati ai talk show e magari stipendiati da qualche
istituzione, l'oro delle comunità diventa piombo volgare,
mentre le poetiche immagini dei maya ("camminiamo
interrogandoci", "esercito di sognatori") si convertono in
fastidiosi e vuoti ritornelli.
E, per risultare più telegeniche, le contestazioni stesse
finiscono per essere concordate con la polizia e gestite
come vere e proprie performance teatrali (Guerriglia urbana?
Ma vi prego..., Il Manifesto, 1 febbraio 2000). A Milano si
è arrivati al punto di presentare come una grande vittoria
la chiusura di un lager per immigrati che era già stata
decisa dalle autorità.
In occasione del G8 di Genova, nonostante Berlusconi
offrisse una sponda assai meno rassicurante dei governi
"amici" che lo avevano preceduto, pare ormai accertato
esistesse un accordo più o meno esplicito per consentire al
corteo dei disubbidienti (altro nome delle Tute Bianche) di
operare uno sfondamento simbolico della Zona Rossa in piazza
Verdi, seguito da altrettanti simbolici fermi, che sarebbero
dovuti cessare la sera.
Ma il nubifragio della notte di giovedì impose alle Tute di
posticipare al mattino successivo la "prova generale"
dell'attacco, e di partire quindi con più di due ore di
ritardo sulla tabella di marcia concordata. Come per
Napoleone a Waterloo, la pioggia si doveva rivelare fatale:
prima che il corteo potesse infine raggiungere il punto
prestabilito, si trovò davanti "alla violenza della Storia"
(Marco d'Eramo, Il Manifesto, 24.7.01).
E così la lunga marcia è arrivata al traguardo. Partiti
dalla contestazione totale e dal brivido voluttuoso del
passamontagna di negriana memoria, essi sono pervenuti a
pretendere sconti, treni speciali, aerei e alberghi per
andare a contestare, esattamente come i sindacati di regime.
Loro li chiamano "rapporti di concretezza con le
istituzioni", però collaborare non è lo stesso di trattare.
Si tratta quando si è differenti, mentre quando si collabora
si è omologhi. Ne era ben consapevole, già il 23 aprile
1998, un Casarini ancora poco noto che dichiarava al
quotidiano Il Gazzettino "Lo Stato non è più, d'ora innanzi,
il nemico da abbattere, ma l'omologo con cui dobbiamo
discutere".
Tale collaborazione, che li ha condotti, di volta in volta,
ad intrecciare relazioni con Rifondazione, i Verdi e gli
stessi DS (Casarini è stato consulente retribuito di Livia
Turco, ministro degli affari sociali del governo Amato), a
ricevere sponsorizzazioni da grandi aziende, a presentare e
talvolta far eleggere rappresentanti nei consigli comunali
di Venezia, Roma, Milano, ha ormai superato tutti i limiti.
Più volte e in differenti luoghi (Bologna, Aviano, Treviso,
Rovigo, Roma, Venezia, Padova... ) le Tute hanno fatto le
veci della polizia, aggredendo fisicamente anarchici,
autonomi, o semplicemente persone che non condividevano le
loro indicazioni.
Istruttivo è anche il loro "breviario della disobbedienza
civile", in cui spiccano istruzioni quali: "7. Qualunque
iniziativa va concordata con le tute bianche; 8. Non ci deve
essere né lancio di alcunché né altro che non sia concordato
con gli organizzatori; 11. Durante il corteo nessuna
iniziativa personale o di gruppo deve essere messa in atto;
12. Si prega di segnalare alle tute bianche qualunque cosa
succeda".
Esasperati da questi comportamenti, alcuni anonimi compagni
dell'area antagonista diffusero a principio di luglio, un
violento documento contro le Tute che recava il titolo
significativo di "Pompieri della rivolta" (lista ecn.org).
L'ultimo episodio vergognoso è avvenuto a Venezia, pochi
giorni dopo i fatti di Genova, allorché un gruppo di Tute
appartenenti al CSOA Rivolta di Mestre ha aggredito un
gruppo di persone intente a un banchetto di solidarietà con
gli incarcerati.
5. Un nuovo mondo è possibile: basta farlo. Noi. Oggi.
Dal piacere di creare al piacere di distruggere non c'è che
un'oscillazione, che distrugge il potere.
Raoul Vaneigem
Il 21 luglio, all'indomani dell'assassinio di Carlo
Giuliani, le 300.000 persone sfilate a Genova, nonostante
gli evidenti pericoli, hanno risposto affermativamente alla
domanda in sospeso fin dai giorni Seattle: questo movimento
esiste e, come sottolineano i compagni della rivista
Vis-à-vis, "non cerca legittimazioni di sorta: semplicemente
impone la propria presenza, riprende la parola, pratica il
proprio rifiuto".
Eppure, quella medesima forza che si è espressa con tanto
vigore ha condotto ad un conflitto preoccupante tra le
diverse tendenze che, fin dal principio, convivono al suo
interno, seminando profondi interrogativi per ciò che
attiene il futuro.
Contro l'opinione di coloro che cercano l'unità a tutti i
costi, bisogna prendere atto che il movimento contro la
mondializzazione ha molte anime. Fin dal principio ne è
esistita una pacifista, ed una propensa all'azione diretta,
con un'infinita gamma di variazioni intermedie.
La sua forza potrebbe risiedere proprio in questa dimensione
plurale e nella molteplicità delle sue espressioni
internazionali. Oggi il mondo è in subbuglio dal Karnakata
alla Tailandia, da Seattle a Genova, dalla Selva Lacandona a
Puerto Alegre.
In un intervista recente, il sub-comandante Marcos ha
recentemente affermato: "Crediamo sinceramente che a livello
mondiale i nostri 'no' si sommino semplicemente con tutti
gli altri che provengono dal resto del pianeta, mentre i
'sì' debbano ancora essere individuati. (...) Non crediamo
che tutti questi 'sì' possano articolarsi in un unico corpo
mondiale. Anzi, non consideriamo questa eventualità
auspicabile. Non crediamo, insomma, che alla globalizzazione
si debba opporre una nuova internazionale" (rivista Linus, 6
luglio 01).
Il problema è che mentre la tendenza radicale non pretende
di esercitare egemonia alcuna, ed anzi ammette apertamente
la possibilità di altri approcci, non si può dire
altrettanto di molti, anche se non tutti, i pacifisti.
Questi hanno sovente criminalizzato i primi, impiegando
...la violenza, la calunnia, e perfino la delazione con
esiti sono sovente grotteschi. Era già accaduto a Seattle ed
è accaduto di nuovo a Genova. Al direttore di Liberazione,
Sandro Curzi, che in TV, contestava alla polizia di non
avere agito preventivamente contro i violenti, un
funzionario ha dovuto rispondere imbarazzato: "dottor Curzi,
questo non è uno stato di polizia, quel che ci chiede noi
non lo possiamo fare".
A tutti costoro è bene ricordare il monito di Orwell: "la
differenza importante non è tra violenza e nonviolenza, ma
tra avere o no appetito di potere. Vi sono individui che
disprezzano la polizia e l'esercito, ma si rivelano poi
molto più intolleranti ed inquisitori di coloro che
ammettono la necessità di usare la violenza in circostanze
determinate" (Inside the Whale and Other Essays, Penguin
Book, 1962, pag. 118).
Sebbene il problema esista, le contraddizioni principali non
sono tra violenti e nonviolenti e forse neppure tra chi
cerca alternative al capitalismo e chi, invece, vorrebbe
semplicemente abbellirlo o limitarne i danni.
La malafede nelle accuse di alcuni autoproclamati portavoce
contro chi agisce in maniera indipendente indica che la
posta in gioco è, appunto, il potere. Calunniare è grave:
gli stalinisti lo hanno fatto a Barcellona nel 37 ed ogni
qualvolta si sono sentiti minacciati nei loro interessi.
Occorre inoltre tenere presente che, come fanno notare i BB
la violenza risiede, prima di tutto, nelle relazioni sociali
stesse. Chi fu il primo a scatenarla a Genova? Il governo
italiano che blindò la città? Le multinazionali che in nome
del libero commercio depredano l'umanità e la madre terra?
Gli stati che le proteggono? I Black Bloc? Il carabiniere
che sparò? Carlo Giuliani che gli ributtò addosso
l'estintore?
Quanto alla nonviolenza, lo stesso Gandhi affermò più volte
che, sebbene la considerasse superiore alla violenza sia da
un punto di vista tattico che etico, non si poteva fare di
ciò un dogma e che, in ogni caso, era preferibile essere
violenti che codardi. La nonviolenza - diceva - è una
scelta valida solo se praticata da chi rinuncia a una
violenza che avrebbe la forza di praticare. E non è certo la
pratica del topo che fugge di fronte al gatto.
Oggi una tale pratica corre il rischio di essere immiserita
da comportamenti addomesticati e condiscendenti. Se il
movimento deve crescere, nonviolenza non può voler dire
astensione, neutralità o, peggio, collaborazione, ma
disobbedienza, determinazione, azione, costruzione di altro.
Se l'aspetto propositivo della violenza vandalica pratica
dai BB, consiste proprio nel mettere in crisi la pretesa
neutralità delle relazioni sociali e nel ricondurre al
centro dell'attenzione la loro precarietà storica, ogni
gesto inscritto in questo registro rischia di rimanere
prigioniero di una negazione simbolica dell'esistente. "Il
fine non giustifica i mezzi", ci mandano a dire gli
zapatisti dal Messico. E gli anarchici replicano: "da due
secoli lo sappiamo" e non può dirsi casuale il numero
crescente di bandiere rosse e nere in tutti gli appuntamenti
del movimento che cresce.
Con o senza violenza, l'essenziale è che ciascuno individui
la propria strategia e il proprio percorso; perché la
rivoluzione questo è: liberazione, scatenamento dei
percorsi, movimento centrifugo, non centripeto.
Non è necessario, avere obiettivi ambiziosi ne prefiggersi
la distruzione del capitalismo per essere disponibili, qui e
subito, a lottare contro la barbarie neoliberista. Oggi, non
vi è più un palazzo d'inverno da conquistare e il vecchio
dibattito tra "rivoluzionari" e "riformisti" appare
obsoleto.
Accantonando questa terminologia, molti preferiscono
definirsi semplicemente "ribelli", parola che sottolinea
l'assenza di un programma compiuto nel senso inteso dai
vecchi partiti comunisti. Ed anche per ciò che riguarda i
nostri vecchi sperimentati nemici, il capitalismo e lo
stato, forse, più che di distruzione, converrebbe forse
parlare di accantonamento, di dismissione, di soffocamento,
di abbandono.
È merito degli zapatisti aver attirato l'attenzione su tali
questioni e, in particolare, su quella del potere. Più volte
essi hanno ripetuto di non essere interessati a governare
né a sedere in parlamento. Ciò che li distingue dai partiti
e dalle guerriglie tradizionali non è l'impiego (o
l'accantonamento) delle armi, ma il tentativo di andare
oltre i vecchi modelli tanto bolscevichi come
socialdemocratici.
Un tale superamento implica la creazione (non facile) di un
terreno nuovo di lotta politica, non certo trasformarsi in
un gruppo di pressione o in una lobby.
Fanno sorridere le dichiarazioni del solito Cassen, il quale
annuncia, niente meno, l'imminente iscrizione del sub
comandante Marcos, senza più passamontagna ed in versione
"civile" (...e l'EZLN?) ad Attac (La Repubblica, 20 agosto).
Così, il fuoco della prima rivoluzione del secolo XXI
dovrebbe essere spento con lo straccio bagnato della Tobin
Tax...
Ancor più fanno sorridere le affermazioni del medesimo Tobin
il quale, smentisce i suoi discepoli, dichiarando di essere,
da sempre, un fervente sostenitore della globalizzazione e
di avere proposto a suo tempo, quella tassa...per "favorire
il libero mercato", di cui, dice "sono, come tutti gli
economisti, un fautore".
Attac e il gruppo di intellettuali raccolti intorno a Le
Monde Diplomatique rappresentano oggi l'ultima versione
della vecchia e fallimentare utopia socialdemocratica.
Coloro i quali pensano di risolvere la disgrazia dei poveri
tassando i ricchi non paiono consapevoli di fondare il
futuro sulla permanenza precisamente dei ricchi, e dello
sfruttamento che li produce, delle produzioni assassine che
li alimentano, dello stato che li garantisce.
No, non ci accontenteremo di fare petizioni, né diventeremo
una Ong con voto consultivo all'Onu. A Seattle, come a
Genova e nella Selva Lacandona, la scommessa era un'altra.
"Un nuovo mondo è possibile: basta farlo. Noi. Oggi." Questo
è un altro dei tanti messaggi che ci arrivano dalla Selva
Lacandona. Oggi l'importante è creare situazioni di rottura,
aprire il cammino a una socialità diversa, intessere reti,
stimolare incontri, favorire l'autonomia dei soggetti.
L'apporto di tutti è necessario, quello dei popoli indigeni,
delle loro civiltà, della loro capacità di resistenza,
prezioso.
Il movimento è giovane e non ha ancora obiettivi definiti.
Non importa, questi si chiariranno al momento opportuno.
L'importante è non ripetere gli errori del passato, imparare
a navigare in acque agitate, tra gli uragani della
repressione e le risacche istituzionali.
Il momento è appassionante. Organismi come l'FMI, la Banca
Mondiale o il G8, che prima ritenevano di poter agire
indisturbati, sono adesso sulla difensiva e si trovano
costretti a organizzare i loro incontri dietro mura
invalicabili o in luoghi inaccessibili. Accordi che prima
erano discussi in gran segreto e al riparo dalla furia
popolare sono adesso sottoposti a dibattito pubblico.
Dopo Genova, meno gente nel mondo crede che la
globalizzazione capitalista promuova la democrazia e la
distribuzione della ricchezza. Tuttavia questo "stato
d'emergenza", questo "momento del pericolo" faticosamente
riemersi, non ammettono ripetizioni. Non conviene rincorrere
una volta ancora il calendario dei signori governanti,
riproponendo semplicemente quello che Tony Blair ha chiamato
con spregio "il circo itinerante degli anarchici".
Anche il futuro delle manifestazioni di piazza solleva un
gran numero di interrogativi. Il movimento è oramai, in
maniera irreversibile, internazionale: questo fatto che dà
corpo come mai prima a centocinquant'anni di sogni e di
speranze degli internazionalisti, impone però a tutti un
grande salto di qualità dal punto di vista
dell'organizzazione e della comunicazione.
Chi ha vissuto l'avventura degli incontri zapatisti del 1996
e 1997, che tanta parte hanno avuto nel condurci dove ora ci
troviamo, sa quanta fatica, sia pure entusiasmante, costi
comunicare fra persone che non si conoscono, e che neppure
parlano la medesima lingua. Il rischio dell'incomprensione,
come pure quello dell'appiattimento a slogan di ogni
ragionamento è sempre in agguato.
La bastonata che un BB ha assestato a un compagno dei Cobas
che ragionevolmente invitava "non partite ancora, aspettate
che tutti siano pronti" può certamente essere ascritta in
buona misura a questo oggettivo ritardo.
Sgombrato il campo dalle calunnie, il più urgente e
irrisolto dei problemi rimane: come armonizzare la violenza
offensiva di alcuni con la nonviolenza di molti altri?
I Black Blocs, con buona pace dei calunniatori, non sembrano
orientati al suicidio, ma nel futuro non sempre sarà loro
possibile fare come a Washington o a Quebec City.
Genova mostra già ora un salto di qualità nella strategia
repressiva. La scelta da parte delle forze repressive di
concentrare gli attacchi sui manifestanti pacifici ha dato
buoni risultati ed è facile prevedere che continuerà ad
essere usata, spingendo alla ritirata chi non ama o non ha
la possibilità di battersi e imponendo il terreno dello
scontro militare, su cui non potremo, per molto tempo
ancora, giocare al rialzo, quand'anche lo volessimo.
Alcuni ripropongono la vecchia piaga dei servizi d'ordine,
una soluzione che, oltre a suggerire una spiacevole
identificazione con i repressori in uniforme, è
profondamente estranea a un movimento che trae la propria
forza dal disordine, dagli innumerevoli approcci della
creatività individuale.
Né bisogna avere illusioni sull'orientamento politico dei
governi. A Goteborg, un governo socialdemocratico ha
ordinato di sparare sui manifestanti e a Genova un governo
postfascista ha fatto il morto. A Parigi, in agosto, i CRS
di Jospin e Chirac, hanno fermato, identificato e
maltrattato i partecipanti a una pacifica manifestazione sui
fatti di Genova.
Occorre che tutti, anche coloro i quali per mille legittimi
motivi non hanno desiderio di militarizzare la propria
azione, né di contrapporre la mazza al manganello, o la
molotov al lacrimogeno, comprendano che arriva un momento
in cui il percorso dell'autonomia individuale e collettiva
si scontra inevitabilmente con il potere e con la sua
violenza e che le conseguenze di ciò sono spesso tragiche.
A loro volta i "violenti", cui non può più essere negata la
possibilità di presentare liberamente le proprie tattiche e
i propri punti di vista, devono affinare, perfezionare,
graduare la portata delle loro azioni per meglio
salvaguardare la vita e la libertà di tutti.
Se di sicuro non è possibile combattere l'alienazione con
forme alienate, non è possibile neppure cancellare la
violenza stupida dei potenti con qualcosa che non sia in
certo qual modo un "antiviolenza" le cui forme rimangono in
buona misura ancora da inventare con la collaborazione di
tutti.
Il futuro di questo movimento sta tutto qui: le sue anime
devono imparare ad agire in maniera fraterna. Se no,
un'altra occasione sarà perduta...
Parigi, agosto/settembre 2001
Ringrazio i compagni del Comitato di Solidarietà con la
Lotta dei Popoli del Chiapas in Lotta a Parigi; e Paolo
Ranieri, vecchio amico, complice, e testimone appassionato
degli avvenimenti di Genova.
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