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Le vite spezzate dei Territori
by LEONARDO COEN Sunday, Aug. 04, 2002 at 10:30 AM mail:

Le vite spezzate dei Territori nozze e funerali in guerra Il successo di un'opera teatrale sul dramma dei due popoli

GERUSALEMME - In scena le due ragazze entrano coi polsi legati l'una all'altra. Cos?, sono obbligate a sedersi una a fianco dell'altra. Ori Goldstein interpreta una ragazza ebrea. Rabab Badran una palestinese. Improvvisamente, la ragazza ebrea si alza di scatto. L'altra no, resiste. "Non hai sentito il fischio della caffettiera?" chiede irritata l'ebrea alla palestinese. "Non mi interessa. Quando c'è stato il sibilo dell'aspirapolvere tu non ti sei alzata", replica scocciata la palestinese. Da quel momento comincia un lungo battibecco che porterà le due ragazze a litigare, a cercare di separarsi, a tentare di allontanarsi, ma non ci riescono perché restano sempre legate ai polsi, simbolo del vincolo indissolubile e di una situazione disperata che lega i due popoli di questa terra. Ad un certo punto, le due si ritrovano schiena contro schiena. E sembrano soddisfatte, finalmente. Ma anche l'apparente momento di tranquillità si spezza, si dimostra illusorio. La vicinanza fisica diventa un fastidio. Convivere non possono. Separarsi non possono. Non sanno più come fare. Allora, si rivolgono al pubblico. In arabo. In ebraico. In inglese. In francese: "Qualcuno sa come aiutarci?". E dal pubblico una vocina esile esile suggerisce: "Shalom". Un'altra: "Salam". Una terza: "Peace". Una quarta: "Paix". Pace. Le due si guardano disgustate. Pace? Perché? Per gli ebrei shalom e per gli arabi salam non vuol dire solo pace. Vuol dire anche ciao, arrivederci, addio. Con la corda che le lega i polsi se la passano attorno al collo e s'impiccano col dito puntato contro il pubblico.

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? la metafora del malessere esistenziale, della colpa e dell'impotenza collettiva. Prima l'hanno presentata al teatro Kahn, vicino alla Cinemateque, davanti ad un pubblico misto di arabi israeliani ed ebrei. Poi, al Teatro Nazionale Palestinese "Al Hakawati", dietro l'Orient House, e l? il pubblico era composto solo di studenti palestinesi. A Gerusalemme Ovest "Testa e croce", lo sketch recitato da Ori e da Rabab ha fatto ridere, per? il messaggio è stato subito condannato: ma come, cara Ori, ti sei venduta al nemico? "Io non volevo far ridere, ma provocare perché la gente pensasse a questa vita assurda". A Gerusalemme Est, il pubblico ha assistito in tensione e con un iniziale sospetto che si è trasformato in dolorosa serietà. Perché? "Perché da noi non è più neanche possibile pensare di fare certe cose". La vita nei Territori è una vita spezzata. Interrotta. Sospesa sull'inferno. A Ramallah c'era un bel locale dove i ragazzi andavano a divertirsi, come il Blue Moon. Ora è chiuso, devastato dall'occupazione.

A Gaza, oltre i reticolati elettrici, i fili spinati, i plinti di cemento, i posti di blocco, le torrette, e le varie fortificazioni - un catalogo completo del settore messo in opera per isolare la striscia di Gaza - si pu? entrare solo da Erez, mentre le mercanzie passano da Kissufim. Il cartello che ti accoglie è beffardo: Welcome to the Erez Crossing. E dall'altra parte la realtà è uno sprofondo. Non solo c'è l'opprimente angoscia dell'assedio, dello strangolamento economico. O frequenti le associazioni islamiche che ti indottrinano, o ti appisoli davanti alla tv, o stai al caffè senza consumare perché in tasca non hai che spiccioli. Cinema? A Gaza? Non ce n'è mai stato uno, figuriamoci ora, l'unico tentativo di aprirne uno, qualche anno fa, fin? con un bel rogo da parte degli estremisti islamici. I quali, invece, sono molto attivi sul fronte delle colonie estive - che loro per? che chiamano "campi di vacanza" al mare. Sono gratis e superaffollati, naturalmente. Quelli proposti dai privati hanno prezzi insopportabili: 400 dollari, la metà del reddito pro capite annuale. I più ricchi se la spassano - si fa per dire, sempre col terrore dell'incursione addosso - alla spiaggia Rimal, la più chic di Gaza, dove la gioventù dorata ma ormai squattrinata di questa città prigione si ritrova al Beach club dell'hotel omonimo. La cosa tremenda è leggere cartelli che escludono la gran parte degli abitanti locali dal frequentare alcuni tratti di spiaggia, riservata ai personaggi stranieri delle Nazioni Unite e a qualche privilegiato della buona società palestinese.

L'autorità palestinese ha dovuto tagliare i salari a 140mila impiegati. Ai 120mila che hanno perso il lavoro in Israele, viene dato un assegno di sussidio di 600 shekels (130 dollari). "Cosa ci fai quando devi sfamare una famiglia?". Il 66 per cento della popolazione palestinese è al di sotto del livello di sussistenza. I profughi di Jenin sono costretti a mandare i loro figli - anche quelli che hanno meno di dieci anni - a mendicare per le strade di Nazareth, la più grande e ricca città araba israeliana. Li vedi ai crocicchi. Vendono pacchetti di fazzolettini di carta, chewing gum, matite. Dieci, dodici ore al giorno, sotto al sole che qui non scherza. Col terrore di trovare la strada del ritorno bloccata dai soldati. Qualche volta sono malmenati dagli automobilisti israeliani che sfogano la loro rabbia contro i palestinesi.

Houlud è una brunetta carina di 21 anni. Vive a Betsahour, periferia maggioritariamente cristiana di Betlemme. Fino a due giorni prima di sposarsi non sapeva quando avrebbe potuto celebrare le nozze con Tarek Shomoli, di 31 anni, il fidanzato. Domenica scorsa gli altoparlanti delle jeep israeliane hanno annunciato che il coprifuoco sarebbe stato tolto marted? dalle 9 alle 14. Allora Houlud ha chiamato il parrucchiere e ha fissato l'appuntamento per le 5,30 del mattino, sfidando il divieto di circolare a quell'ora. Poi si è messa d'accordo col pope della chiesa ortodossa. Il prete è riuscito ad infilare il matrimonio fra due battesimi ed un funerale, e tutto a velocità sostenuta. Un'umiliazione in più, perché tradizionalmente i matrimoni arabi durano non ore ma giorni.

(4 agosto 2002)

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Quella scheggia di Israele persa in fondo alla Siberia
by Corriere della Sera Sunday, Aug. 04, 2002 at 10:34 AM mail:

Nel Birobidjan, ai confini con la Cina, Stalin trasferì gli ebrei sovietici Oggi il sogno di una «patria autonoma» resiste tra pochi sopravvissuti


BIROBIDJAN (Regione Autonoma Ebraica) - Non hanno un rabbino vero e proprio, non hanno una sinagoga dove pregare: quella vecchia è inagibile, ha bisogno urgente di restauri; quella nuova, in costruzione da tempo, è a buon punto, ma ci vorrà ancora qualche mese prima di arrivare al tetto. Una situazione che non si addice a Birobidjan, la capitale della Regione Autonoma Ebraica, situata nell’Estremo Oriente russo, in una taigà siberiana al confine con la Cina. Sembra d’essere alla periferia del mondo. Ma nessuno qui è disposto a credere che si debba mettere la parola fine a una storia così straordinaria come quella degli ebrei che negli anni Venti lasciarono le loro case nelle province occidentali dell’impero (Ucraina e Bielorussia, soprattutto) e, accogliendo l’invito del governo sovietico, approdarono in questa landa disabitata, remota e selvaggia, per costruire quello che sarebbe stato un loro Stato, una loro patria permanente. La vicenda, certamente molto nota alla comunità internazionale ebraica ma ignorata dai Paesi occidentali, è tornata alla ribalta negli ultimi tempi, dopo che, in seguito al collasso del comunismo e alla disintegrazione dell’Urss, l’esodo in massa degli ebrei russi da Birobidjan sollevò il timore che la Regione Autonoma Ebraica corresse il rischio di estinguersi. Forse non era proprio così, ma comunque il dubbio andava sciolto. Ed eccoci in questa città dal nome arcano, ottomila chilometri a est da Mosca, nata intorno a una piccola fermata della Transiberiana. Il suo nome, sopra l’ingresso della stazioncina, è scritto in ebraico oltre che in cirillico: e così gran parte delle insegne sugli edifici pubblici. Negli anni Trenta lo yiddish - l’idioma parlato dagli ebrei dell’Europa orientale - era la lingua ufficiale della città: tanto che gli stessi russi dovettero apprenderla per non rimanere isolati.
Secondo i dati più recenti (che qualcuno ritiene poco attendibili), gli ebrei rimasti nella capitale della Regione non sarebbero oggi più di tremila, contro una popolazione di circa 85/90 mila. «È vero, molti se ne sono andati, ma altri ritornano - dice Lena Sarashevskaja, redattrice del quotidiano La stella di Birobidjan , fondato nell’ottobre del ’30, che una volta la settimana esce ora con due pagine in yiddish -, aspettiamo il prossimo censimento in autunno per avere statistiche meno approssimative». Nella decade tra il ’28 e il ’38 arrivarono a Birobidjan circa 40 mila uomini, colmi d’entusiasmo e di speranza: bene, entro la fine del ’38 quasi i due terzi (28 mila, per l’esattezza) erano già sulla via del ritorno: esausti, delusi, disperati. Sarà invece la crisi economica, seguita al crollo dell’impero sovietico, a ridurre ulteriormente la presenza ebraica tra le rotaie della Transiberiana e la sponda settentrionale dell’Amur: dei 9.000 coloni, quali si contano nell’89, più di 7.000 prenderanno il volo entro il ’96.
Benché il suo governo condannasse apertamente l’antisemitismo, il problema degli ebrei è stato sempre una spina nel cuore del «piccolo padre»: in un primo tempo Stalin pensò di avvicinarli all’agricoltura offrendo loro vaste aree coltivabili in Ucraina, Crimea e Bielorussia.
Ma avrebbe provocato la reazione violenta delle popolazioni locali, che odiavano i «sionisti». Meglio optare per una zona completamente deserta, quel «territorio selvaggio» al confine con la Cina, su cui vigilavano i cosacchi. La promessa di una terra libera e ricca avrebbe dovuto attrarre gli ebrei animati da spirito pionieristico. Il governo sovietico li avrebbe agevolati in tutti i modi: viaggio gratis, cibo e provviste per il viaggio, più 600 rubli per ogni colono. L’altro vantaggio, per Mosca, sarebbe stato quello di incanalare gli ebrei verso l’ideale socialista e farne, insomma, dei contadini modello, risucchiandoli nel sistema. «In realtà - dice David Waiserman, portavoce del governo locale - essi sono venuti qui perché non avevano nulla da perdere».
Erano passati sei anni dall’arrivo dei settemila pionieri venuti dall’Ovest ed ecco che Birobidjan e il suo territorio (36 mila chilometri quadrati) vengono proclamati Regione Autonoma Ebraica. È il 1934 e in qualche modo gli ebrei hanno una «patria», 14 anni prima dello Stato d’Israele.
«È il più grande evento nella storia del popolo ebraico», titola un giornale. Scatta l’euforia del mecenatismo e dall’estero piovono centinaia di migliaia di dollari sulla taiga siberiana per garantire e sostenere la crescita nel neo-Stato. Albert Einstein diventa presidente onorario del Comitato Americano di Birobidjan, provocando ovunque, negli States, impeti di generosità e qualche momentanea follia.
Trentadue famiglie californiane (ovviamente di origine ebraica) vendettero le loro lussuosissime ville in quel di Los Angeles e calarono in carovana verso l’estremo Oriente russo, via Vladivostok.
Ma il paesaggio lungo la Transiberiana non fu di loro gradimento, e neanche la vita d’accampamento nel clima malsano delle paludi e nel tormento quotidiano di moscerini e zanzare: per cui, dopo neanche un anno, decisero di tornare sull’altra sponda del Pacifico.
A Birobidjan, nel ’37, ci sono 16 scuole yiddish frequentate da 2.000 studenti; e lo yiddish diventa materia d’obbligo in tutte le scuole, anche in quelle dove il russo è la prima lingua. C’è invece una certa resistenza a incoraggiare le pratiche religiose: cosa che non stupisce visto che tra gli ebrei quaggiù approdati non pochi giurano ancora fedeltà al Partito Bolscevico e al Grande Stalin. Atteggiamento confermato con disinvoltura da Oleg Shavusky, giovane insegnante di religione e quasi rabbino, quando parla della nonna materna: «È ancora viva e arzilla - confida -, ha appena compiuto 87 anni. Ah, tra lei e la sinagoga non c’è rapporto. Arrivò qui nel ’29, dall’Ucraina. È sempre stata marxista-leninista convinta e crede ancora nei miti di Lenin e Stalin. In realtà non sono pochi, nelle nostre file, quelli che hanno conservato l’ideale comunista».
Se proprio si vuole un cantore dell’epopea di Birobidjan, oltre che un cronista meticoloso, lo si può trovare alla Casa di Riposo per anziani.
A 78 anni, Efim Josirovich Kudish è la storia stessa di questa enclave asiatica alla fine del mondo. L’ha raccontata in 15 libri, dopo un passato da ufficiale dell’Esercito, che lo ha visto sul fronte di Stalingrado dove ha riportato due ferite. Decorato al valor militare, esibisce sulla camicia una medaglia e le mostrine delle campagne di guerra sostenute. I suoi genitori erano arrivati a Birobidjan nel ’32, dall’Ucraina, insieme a tanti altri che venivano dalla Palestina, dalla Germania, dal Canada, dall’Argentina: lui vi approda dieci anni dopo, nel ’42, ma ha già 18 anni, c’è la guerra, e lo spediscono direttamente al distretto militare: «Ho fatto il soldato per cinque anni - racconta -: tornato dal fronte nel ’45, mi mandarono a combattere fino al ’47 contro i nazionalisti ucraini: da allora non mi son più mosso. Questa è la mia casa e la mia terra».
Ciò che Kudish soprattutto ricorda, di quegli anni, è un’intensa attività letteraria, la presenza di scrittori e poeti di grande prestigio come Boris Miller, Ljuba Wasserman, Isac Bronfman, Emmanuel Kazkjevich: «Dal ’28 al ’48 - dice, mostrandomi foto, copertine e reperti custoditi nelle bacheche - vennero pubblicati più di 300 libri di letteratura ebraica. E c’era anche uno splendido teatro, dove venivano rappresentati lavori di Sholom Aleichem e di altri drammaturghi russi-yiddish. Insieme riuscirono a creare un clima magico, una grande tensione poetica e culturale».
Ma l’incanto non può durare. Nella seconda metà degli anni Trenta, Josef Stalin dà il via alle sue purghe cruente per liberarsi dei rivali della vecchia guardia bolscevica, tra cui ci sono anche molti ebrei. «Fu un periodo spaventoso della nostra vita. In pochi mesi spazzarono via grandi uomini, letterati, artisti, filosofi, il meglio dell’intellighenzia. La grande poetessa Ljuba Wasserman, suo marito direttore del teatro yiddish, lo scrittore Boris Miller, direttore della Stella di Birobidjan , furono arrestati e spediti nei "gulag" per più di dieci anni: da cui uscirono sfasciati nel corpo e nell’anima».
Bisognerà attendere la «glasnost» e la «perestroika» di Gorbaciov perché le organizzazioni ebraiche di Birobidjan ricomincino a ricostituirsi.
E a questo punto scomodiamo pure Shakespeare: «we few, we happy few», noi pochi, noi pochi felici, per sottolineare l’orgoglio di chi non ha gettato la spugna ed è rimasto, nonostante tutto. È il caso del già citato Efim Kudish, che dice: «Ne valeva la pena. Volete mettere la soddisfazione di dichiarare ufficialmente le proprie origini senza temere punizioni? O di scrivere sul passaporto o su qualsiasi altro documento la parola "ebreo" invece che russo, ucraino, lituano?». O di un contadino della Lituania, Mikhail Gefen, arrivato qui nel ’29, quando aveva 8 anni, e che adesso incontro, a 82, nel museo del villaggio di Wadheim, seduto davanti allo stendardo dello «zio» Lenin: «Mi feci due settimane di treno per raggiungere mio padre che s’era installato qui l’anno prima - ricorda -: a Vilnius, dov’ero nato, l’antisemitismo non ci lasciava più vivere. Qui c’era da sgobbare, la sera crollavi di schianto sulla branda dalla fatica, ma vivevi in pace. Non ricordo, in tanti anni, un solo episodio di razzismo. Non ho mai voluto andare in Israele perché pensavo che, anche lì, ci consideravano degli emigranti. Mio figlio invece c’è andato, ma ha fatto subito marcia indietro»
Oleg Shavuski, l’insegnante di religione (quasi rabbino) che solo recentemente s’è tagliato la barba, fitta e nera come il catrame, non è solo nella sua missione: si fa aiutare da un «collega» più anziano di lui, Boris Kaufman, che invece la barba se l’è tenuta, candida e folta. Lo incontro un sabato mattina nel suo appartamento, al terzo piano di uno stabile che potrebbe crollare da un momento all’altro, mentre sta leggendo la «Torah» a una dozzina di vecchine accartocciate tutt’intorno. Ha 53 anni, è piuttosto basso, rotondetto, fatica a tenersi in piedi e tuttavia la sua voce e i suoi occhi sono pieno di allegria.
Abbiamo saputo che il signor Kaufman desta qualche perplessità tra i fedeli di Birobidjan perché tra le scritture sacre, oggetto della sua quotidiana attenzione, c’è anche il Nuovo Testamento: e lui, trascinato da mistico entusiasmo, tira ogni tanto in ballo anche Gesù Cristo («Io sono la via, la verità e la vita») cui dev’essere molto affezionato.
Shavuski lo sa e molto caritatevolmente commenta: «Boris è un bravo ebreo. Solo un po’ confuso».
Boris Kaufman è nato qui, nel villaggio di Birofeld, da genitori venuti dalla Bielorussia. In giovinezza non leggeva né la «Torah» né Marx e Lenin: ma era un comunista convinto, membro del Komsomol, l’organizzazione giovanile: «Ho scoperto dio - racconta - solo a 34 anni e ho visto l’abisso dov’ero sprofondato». Dice di non essere mai stato in Israele («costa troppo») ma che, tra un paio d’anni, conta di andarci: «Ma se ci vado - aggiunge - sarà per sempre. È la nostra vera patria». Vuole sapere qualcosa dell’Italia e a un certo punto butta lì una domanda, che suppongo scherzosa ma assolutamente esilarante: «E a Roma - chiede serio - c’è sempre quel polacco?».
Ora che sta per cominciare il riordino amministrativo della regione, qualcuno si chiede se Birobidjan riuscirà a conservare l’impronta che gli è stata data con l’arrivo dei pionieri nel ’28. «La città rimarrà ebraica - risponde senza esitazione Michail Klimenkov, redattore capo della tv statale, un russo -. Per me sarà sempre la seconda Odessa, l’Odessa dell’estremo oriente, senza il mare. Se ritorno agli anni dell’infanzia, respiro ancora quell’atmosfera che era tipicamente ebraica e che ho assorbito in tutto. Anche le canzoni ebraiche mi piacevano - e mi piacciono - di più della musica popolare russa. È un fatto che gli ebrei si sono insediati molto bene e hanno fatto di Birobidjan un posto unico al mondo. Intolleranza? Conflitti razziali? Mai, che io ricordi. Gli stessi cosacchi, noti per il loro antisemitismo, li accolsero con entusiasmo».
Per me è il momento di partire. È tornato il sole dopo giorni di pioggia, che tuttavia non hanno intristito la città, ingentilita ovunque da una selva di ombrellini variopinti. Questa è stata una trasferta più nel passato che nel presente e, andandomene, mi porto dietro una storia che mi sembra di aver vissuto in prima persona, da umile comprimario.

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