...
Sono passati ormai più di vent'anni da quando nel 1976 i militari
argentini assunsero formalmente il potere. Quella mattina del 24 marzo
non furono molti a esserne sorpresi. Non solo per le strade non si videro
i classici carri armati. non solo non ci furono scontri o morti, ma non
si rese nemmeno necessario sparare un colpo. Non furono sfoderate
le armi, non ci fu bisogno di ostentare la forza. Nessuno poteva però
immaginare ciò che sarebbe accaduto.
I militari, prima ancora di occupare il Palazzo, avevano acquisito un
monolitico potere di "persuasione". Un potere in cui non occorreva
alzare la voce per essere assecondati, anzi non era necessario nemmeno
parlare perché si sarebbe stati obbediti prima ancora di comandare,
una costrizione nata nel terrore.
Questo linguaggio, largamente conosciuto in Argentina, frutto dell'ordine
militare sperimentato a lungo nei frequenti colpi di stato che hanno interrotto
- ma prima limitato, condizionato e vincolato - la vita democratica,
questo linguaggio della forza occupò il Palazzo come chi ritorna
dopo una vacanza in una casa che è sempre stata la sua.
In Argentina non ci sono mai stati gli stadi pieni di prigionieri
politici come nel vicino Cile. La lezione di Pinochet era servita a qualcosa.
Non si doveva provocare la condanna internazionale, ma piuttosto dare
un'immagine di moderazione e legalità. Un'immagine difficile
da mantenere quando ciò che si vuole coprire è l'annientamento
di ogni forma di opposizione. L'impunità di cui hanno goduto i
militari argentini risiede nella vastità dei loro progetti:
"Prima uccideremo tutti i sovversivi; poi uccideremose i sequestri si consumavano a poca
distanza dal commissariato. Ma la stragrande maggioranza dei sequestri
avveniva di notte in casa delle vittime. Il commando occupava lapoi trascinata fino alle macchine che aspettavano mentre il resto
del gruppo rubava tutto quello che poteva (in alcuni casi arrivavano
perfino con dei camion) o distruggeva quello che non poteva portarsi via
picchiando e minacciando il resto della famiglia. Anche nei casi in cui
i vicini o i parenti riuscivano a dare l'allarme, la Polizia non arrivava
mai. Si incominciò cosi a capire l'inutilità di sporgere
denuncia. La maggioranza della popolazione era terrorizzata e non era
nemmeno facile trovare testimoni. Nessuno aveva visto nulla.
In questo modo migliaia e migliaia di persone diedero forma a una fantasmatica
categoria, quella dei desaparecidos. Nessun interrogativo trovò
una risposta: la Polizia non aveva visto nulla, il Governo faceva finta
di non capire di che cosa si stesse parlando, la Chiesa non si pronunciava,
gli elenchi delle carceri non registravano le loro detenzioni, i magistrati
non intervenivano. Intorno ai desaparecidos si era alzato un muro di silenzio.
Con i diritti avevano perso anche l'esistenza civile. Dal momento in cui
avveniva il sequestro la persona restava totalmente isolata dal mondo
esterno. Depositata in uno dei numerosi campi di concentramento o
in luoghi intermedi di detenzione dove veniva sottoposta a torture
infernali, e lasciata all'oscuro della propria sorte. Alcuni venivano
perfino abbandonati dalla famiglia, che sotto la pressione di continue
minacce, ricatti e richieste di denaro, viveva nel terrore di rappresaglie
e qualche volta fiduciosa che il silenzio, richiesto dai militari, fosse
il miglior modo per ottenere qualche informazione.
Nei Centri clandestini di detenzione veniva sistematicamente applicata
la tortura. "Se una volta finita la mia prigionia mi avessero
domandato: sei stato torturato molto? avrei risposto: sì, tutt'e
tré i mesi senza sosta. Se la domanda me la facessero oggi direi
che fra poco saranno sette anni di tortura."(nota 1). Nella
quasi totalità delle denunce ricevute dalla Commissione si
constatò l'uso di metodi di tortura. Le "sessioni" erano
sorvegliate da un medico che controllava i limiti di tolleranza della
vittima e determinava il proseguimento o la momentanea sospensione della
tortura se la vittima non era in grado di reggerla.
La valutazione preventiva per capire se la persona da sequestrare
o sequestrata avesse qualcosa da dire d'interessante per i sequestratori
era pressoché inesistente. Questo metodo indiscriminato portò
al sequestro e alla tortura degli oppositori ma anche dei loro famigliari,
amici, colleghi di lavoro e di un numero rilevante di persone senza alcun
tipo di pratica politica o sindacale. Bastava molto poco per essere considerato
sospetto. Un equivoco, un'esitazione, come non ricordarsi a memoria
il numero del proprio documento d'identità se si veniva fermati
per strada, poteva essere fatale. Ciò spiega anche il fatto che
molte vittime, che non avevano niente da dichiarare, denunciassero chiunque
pur di avere una pausa durante la tortura. Veniva così allargata
a dismisura la rete delle persone che "non volevano collaborare"
con gli inquisitori, se non altro perché non sapevano chi denunciare.
Il prigioniero poteva morire sotto tortura, essere fucilato o gettato
in mezzo all'oceano. Il suo cadavere sarebbe stato forse sepolto nelle
tombe comuni di cimiteri clandestini, cremato o buttato in fondo
al mare con un blocco di cemento ai piedi (nota 2).
Anche se la dittatura militare aveva modificato il Codice penale introducendo
la pena capitale, ufficialmente non ci fu nessuna condanna a morte. Nonostante
le migliala di vittime, non fu eseguita in nessun caso una sentenza
giudiziaria ne civile ne militare. Non fu quindi rispettata nemmeno questa
precaria legalità che lo stesso regime aveva stabilito. Passavano
così i giorni, i mesi, gli anni, senza avere mai nessuna notizia,
trovando sempre risposte negative. Nessuno pareva sapere niente di loro.
Erano scomparsi.
Il ritorno della democrazia
Quando il governo di Raùl Alfonsìn cominciò a indagare
sulla sorte degli scomparsi non si trovò nulla: ne prigionieri,
ne cadaveri, ne stanze di tortura, ne documentazione (che tuttavia si
sapeva esserci per ogni caso). Dal materiale sequestrato insieme
alla vittima ai libri considerati pericolosi e, in molti casi, perfino
ai figli dei presunti sovversivi, tutto era svanito, disperso, dileguato.
Il Governo ordinò comunque al Consiglio superiore delle Forze
Armate che procedesse al rinvio a giudizio dei mèmbri delle tré
Giunte militari per omicidio, privazione illegittima della libertà
e applicazione della tortura sui prigionieri. Dopo la sentenza militare
ci si poteva appellare in seconda istanza davanti ai tribunali civili.
La decisione del Governo lasciò tutti un po' perplessi. In primo
luogo non si capiva perché i militari non venissero giudicati direttamente
da un tribunale civile come qualsiasi altro cittadino, in secondo luogo,
si temette che il processo si chiudesse dietro questi nove imputati. È
significativo, per capire le intenzioni di Alfonsin, segnalare che il
progetto di legge che l'esecutivo aveva inviato alle Camere per approvazione
non prevedeva il passaggio a una seconda istanza civile.
Dopo mesi di attesa i tribunali militari non si pronunciarono. Il
Governo si vide infine costretto ad ammettere che il Consiglio superiore
delle Forze Armate non era disposto a processare i propri pari. La causa
passò ai tribunali civili dove finalmente nel dicembre 1985
si arrivò a una condanna mite che lasciò molti insoddisfatti
(nota 3). Ma, forse, il punto più importante della sentenza era
il punto 30, che consigliava il rinvio a giudizio di altri militari di
grado intermedio. Poco tempo dopo si aprirono più di 1500 processi
per violazione dei diritti umani.
Alfonsin volle fermare il processo d'incriminazione delle Forze Armate
e sancì nel dicembre 1986 la legge del Punto finale che, per
"pacificare" il paese, fissò un termine di 60 giorni
oltre il quale non sarebbero state più ammesse denunce per violazione
dei diritti umani. Venne così limitata la possibilità
di apertura di nuove cause. Tré mesi dopo la scadenza dei 60 giorni
un altro arbitrario giuridico vanificò tutti gli sforzi di chi
cercava giustizia. La legge di Obbedienza dovuta assolse da tutti i crimini
già documentati e giudicati lasciando i colpevoli in libertà
e sostenendo che, al di fuori dei mandanti, i quadri intermedi -
non avendo potere decisionale -avevano agito in stato di costrizione.
L'opera fu completata dal presidente Carlos Menem che, nell'ottobre 1989,
dopo tré mesi di Governo, sancì l'indulto per 216 militari
e civili coinvolti nel genocidio e per 64 persone presumibilmente
legate alla sovversione (nota 4). La misura escludeva i mèmbri
delle Giunte militari Videla e Massera che godranno di un nuovo indulto
il 28 dicembre 1990. Dopo cinque anni di prigionia in una villa di proprietà
dell'Esercito dove potevano ricevere amici e camerati, praticare
sport e usufruire della libera uscita durante i fine settimana, gli ergastolani
tornarono in libertà.
La distruzione del passato
I militari abbandonarono il governo nel 1983. Lasciarono il Palazzo non
perché costretti dalla mobilitazione delle forze democratiche,
ma perché avevano portato a termine il compito: l'annichilimento
di un'intera generazione che voleva modificare le strutture del paese.
Ma perché una dittatura con una forza militare schiacciante
ha scelto come strategia quella di far scomparire gli oppositori? Perché
dopo la tortura e l'inumana prigionia queste persone non hanno avuto almeno
il diritto a una condanna a morte? Perché non sono stati sepolti,
perché la distruzione dei corpi? Perché desaparecidos?
Non c'è risposta che possa spiegare questa premeditata violazione
di ogni diritto della persona. Di fronte a queste atrocità ogni
logica decade, diventa inumana, e quando una logica diventa inumana non
è più logica. Non è possibile pensare questi fatti
all'interno del proposito del singolo criminale che cerca di non
lasciare tracce, del delitto perfetto. Obiettivo strategico del progetto
militare era la distruzione del passato.
La Commissione del Governo Alfonsin incaricata d'indagare ha avuto
enormi difficoltà per ricostruire l'accaduto. Interi edifici
erano stati rasi al suolo per poi edificarvi sopra altre strutture.
Tutto era stato cancellato.
La successiva necessità di eliminare in modo sbrigativo il passato
recente, di perdonare coloro che non si ritengono nemmeno colpevoli, di
mettere una pietra sopra la tragedia dei desaparecidos è complico
della stessa strategia dell'annientamento.
Il tentativo di annullare il passato è manifesto. Perché
se non esistesse il passato - in quella particolare forma di esistenza
che è il non esserlo già - non esisterebbe nemmeno il presente
e al futuro mancherebbe la possibilità di proiettarsi. Senza l'assunzione/rifiuto
del passato storico non vi è spazio per il futuro. Ogni tentativo
di annullare il passato, di far scomparire le sue tracce, lascerà
dietro di sé una terribile e leggera debolezza, comporterà
l'assenza di prospettive, un continuo girare a vuoto intorno a un presente
immemore, istantaneo, senza tempo, senza essere, senza la possibilità
di capire il proprio divenire.
I militari argentini lo sapevano e hanno distrutto e fatto sparire tutto
ciò che hanno trovato. I governi democratici che si sono susseguiti
hanno scelto l'oblio. Non assumendo questa pesante ma inderogabile eredità
hanno indirettamente completato la distruzione dell'operato dei militari.
Ma il passato non scompare mai, resta, non passa mai perche è sia
passato. La confessione del capitano Adolfo Franci-sco Scilingo ne è
una prova.
Il volo
Molti desaparecidos sono stati gettati in mezzo all'oceano. Questa è
l'atroce ammissione di Scilingo. Lo si sapeva già, ma fatti come
questi non erano mai stati riconosciuti ne raccontati in prima persona
da uno degli autori. Il volo - un termine così lieve - diventa
qui grave.
Una delle conseguenze di questa confessione è l'unificazione
dei discorsi sulla storia argentina degli ultimi due decenni. Finora
si è parlato di una storia ufficiale e di un'altra raccontata dai
pochi superstiti o dai famigliari delle vittime. Durante i primi anni
della dittatura le Madri di Plaza de Mayo erano infatti etichettate come
Las locas de Plaza de Mayo (le pazze), quale ratifica della scissione
che si era prodotta nella società argentina tra discorso ufficiale
e discorso minoritario. I pochi che testardamente continuavano a opporsi
a quella logica non potevano che essere "impazziti". La prima
storia era documentata dagli atti di un governo dittatoriale, il
loro discorso era omogeneo, il loro agire sembrava incontestabile. La
seconda storia era costruita da un'immensa massa di ombre che non
potevano testimoniare, da interrogativi sulla loro sorte. I desaparecidos
furono con la loro assenza la principale accusa contro il terrore. Dopo
la confessione di Scilingo la storia si unifica. I voli non erano
che la macabra soluzione finale a un'alternativa politica.
Il linguaggio del libro non è facile. L'oggetto di cui si parla
è l'innominabile, anzi lo si vorrebbe nemmeno mai esistito.
I desaparecidos non si trovano da nessuna parte, sono fantasmi che
deambulano e ripercorrono una società che non si decide a cancellarli,
ignorarli, annullarli. Così pure nel modo di esprimersi si parla
di fatti che non vogliono essere riconosciuti come tali. Nessuno
dei carnefici ha il coraggio di nominare, di raccontare, di chiamare
le cose con il loro vero nome. Ognuno tenta di aggirare l'ostacolo
della barbarie di cui è stato parte. Il linguaggio vuoi essere
indiretto, impersonale. Tenta di aggirare il problema, di lasciar capire
senza usare i termini appropriati. Sono parole non dette che, come i desaparecidos,
vogliono essere oggetto di rimozione.
Ciò che viene raccontato da Scilingo nella sua confessione
non è nuovo. Chi veramente voleva sapere quei fatti li conosceva
già da anni. Le stesse autorità militari si erano mosse
per farli sapere, senza però mai ammetterli, per generare panico
e diserzione tra le fila dell'opposizione. I fatti sono stati poi confermati
dal ritrovamento di cadaveri mutilati con evidenti segni di tortura, riportati
a riva dalle onde sulle sabbie dorate di note località turistiche.
Non scorderò mai una donna, il cui figlio era stato gettato vivo
in mezzo al mare, che nel 1995 mi disse: "Sono stata invitata
in vacanza a Villa Gesel, sul mare... ma non ce l'ho fatta, non potrò
mai più fare il bagno in quelle acque".
Tutti i responsabili di questa strage sono in libertà, l'unico
oggi in carcere è l'ex capitano Scilingo accusato di frode (benché
sia stata già dimostrata la sua innocenza) per aver emesso assegni
scoperti.
Claudio Tognonato
Introduzione a "Il volo - Le rivelazioni di un militare pentito
sulla fine dei desaparecidos", Horacio Verbitsky, ed.
Feltrinelli.
nota 1: Testimonianza di Miguel D'Agostino (fascicolo 3901) raccolta
dalla Commissione nazionale per la scomparsa delle persone (Conadep).
La Commissione, creata nel dicembre 1983 dal presidente Raùl Alfonsin,
si occupò di far luce sulla violazione dei diritti umani durante
la dittatura militare.
nota 2: Prendendo in esame le cifre ufficiali delle cremazioni nel
principale cimitero di Buenos Aires si verifica nel periodo una crescita
|