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Il Golpe Militare In Argentina
by IMC Italy Monday, Aug. 26, 2002 at 6:22 AM mail:

...

Sono passati ormai più di vent'anni da quando nel 1976 i militari argentini assunsero formalmente il potere. Quella mattina del 24 marzo non furono molti a esserne sorpresi. Non solo per le strade non si videro i classici carri armati. non solo non ci furono scontri o morti, ma non si rese nem­meno necessario sparare un colpo. Non furono sfoderate le armi, non ci fu bisogno di ostentare la forza. Nessuno poteva però immaginare ciò che sarebbe accaduto.
I militari, prima ancora di occupare il Palazzo, avevano acquisito un monolitico potere di "persuasione". Un potere in cui non occorreva alzare la voce per essere assecondati, anzi non era necessario nemmeno parlare perché si sarebbe stati obbediti prima ancora di comandare, una costrizione nata nel terrore.

Questo linguaggio, largamente conosciuto in Argentina, frutto dell'ordine militare sperimentato a lungo nei frequenti colpi di stato che hanno interrotto - ma prima limitato, con­dizionato e vincolato - la vita democratica, questo linguag­gio della forza occupò il Palazzo come chi ritorna dopo una vacanza in una casa che è sempre stata la sua.

In Argentina non ci sono mai stati gli stadi pieni di pri­gionieri politici come nel vicino Cile. La lezione di Pinochet era servita a qualcosa. Non si doveva provocare la condanna internazionale, ma piuttosto dare un'immagine di modera­zione e legalità. Un'immagine difficile da mantenere quando ciò che si vuole coprire è l'annientamento di ogni forma di opposizione. L'impunità di cui hanno goduto i militari ar­gentini risiede nella vastità dei loro progetti: "Prima uccide­remo tutti i sovversivi; poi uccideremose i sequestri si consumavano a po­ca distanza dal commissariato. Ma la stragrande maggioran­za dei sequestri avveniva di notte in casa delle vittime. Il commando occupava lapoi trasci­nata fino alle macchine che aspettavano mentre il resto del gruppo rubava tutto quello che poteva (in alcuni casi arriva­vano perfino con dei camion) o distruggeva quello che non poteva portarsi via picchiando e minacciando il resto della famiglia. Anche nei casi in cui i vicini o i parenti riuscivano a dare l'allarme, la Polizia non arrivava mai. Si incominciò co­si a capire l'inutilità di sporgere denuncia. La maggioranza della popolazione era terrorizzata e non era nemmeno facile trovare testimoni. Nessuno aveva visto nulla.

In questo modo migliaia e migliaia di persone diedero forma a una fantasmatica categoria, quella dei desapareci­dos. Nessun interrogativo trovò una risposta: la Polizia non aveva visto nulla, il Governo faceva finta di non capire di che cosa si stesse parlando, la Chiesa non si pronunciava, gli elenchi delle carceri non registravano le loro detenzioni, i magistrati non intervenivano. Intorno ai desaparecidos si era alzato un muro di silenzio. Con i diritti avevano perso anche l'esistenza civile. Dal momento in cui avveniva il sequestro la persona restava totalmente isolata dal mondo esterno. Depo­sitata in uno dei numerosi campi di concentramento o in luoghi intermedi di detenzione dove veniva sottoposta a tor­ture infernali, e lasciata all'oscuro della propria sorte. Alcuni venivano perfino abbandonati dalla famiglia, che sotto la pressione di continue minacce, ricatti e richieste di denaro, viveva nel terrore di rappresaglie e qualche volta fiduciosa che il silenzio, richiesto dai militari, fosse il miglior modo per ottenere qualche informazione.

Nei Centri clandestini di detenzione veniva sistematica­mente applicata la tortura. "Se una volta finita la mia prigio­nia mi avessero domandato: sei stato torturato molto? avrei risposto: sì, tutt'e tré i mesi senza sosta. Se la domanda me la facessero oggi direi che fra poco saranno sette anni di tortu­ra."(nota 1). Nella quasi totalità delle denunce ricevute dalla Com­missione si constatò l'uso di metodi di tortura. Le "sessioni" erano sorvegliate da un medico che controllava i limiti di tol­leranza della vittima e determinava il proseguimento o la momentanea sospensione della tortura se la vittima non era in grado di reggerla.

La valutazione preventiva per capire se la persona da se­questrare o sequestrata avesse qualcosa da dire d'interessante per i sequestratori era pressoché inesistente. Questo metodo indiscriminato portò al sequestro e alla tortura degli opposi­tori ma anche dei loro famigliari, amici, colleghi di lavoro e di un numero rilevante di persone senza alcun tipo di pratica politica o sindacale. Bastava molto poco per essere conside­rato sospetto. Un equivoco, un'esitazione, come non ricordar­si a memoria il numero del proprio documento d'identità se si veniva fermati per strada, poteva essere fatale. Ciò spiega anche il fatto che molte vittime, che non avevano niente da dichiarare, denunciassero chiunque pur di avere una pausa durante la tortura. Veniva così allargata a dismisura la rete delle persone che "non volevano collaborare" con gli inquisitori, se non altro perché non sapevano chi denunciare.

Il prigioniero poteva morire sotto tortura, essere fucilato o gettato in mezzo all'oceano. Il suo cadavere sarebbe stato forse sepolto nelle tombe comuni di cimiteri clandestini, cre­mato o buttato in fondo al mare con un blocco di cemento ai piedi (nota 2).

Anche se la dittatura militare aveva modificato il Codice penale introducendo la pena capitale, ufficialmente non ci fu nessuna condanna a morte. Nonostante le migliala di vitti­me, non fu eseguita in nessun caso una sentenza giudiziaria ne civile ne militare. Non fu quindi rispettata nemmeno que­sta precaria legalità che lo stesso regime aveva stabilito. Passavano così i giorni, i mesi, gli anni, senza avere mai nessuna notizia, trovando sempre risposte negative. Nessuno pareva sapere niente di loro. Erano scomparsi.

Il ritorno della democrazia

Quando il governo di Raùl Alfonsìn cominciò a indagare sulla sorte degli scomparsi non si trovò nulla: ne prigionie­ri, ne cadaveri, ne stanze di tortura, ne documentazione (che tuttavia si sapeva esserci per ogni caso). Dal materiale seque­strato insieme alla vittima ai libri considerati pericolosi e, in molti casi, perfino ai figli dei presunti sovversivi, tutto era svanito, disperso, dileguato.

Il Governo ordinò comunque al Consiglio superiore delle Forze Armate che procedesse al rinvio a giudizio dei mèmbri delle tré Giunte militari per omicidio, privazione illegittima della libertà e applicazione della tortura sui prigionieri. Do­po la sentenza militare ci si poteva appellare in seconda istanza davanti ai tribunali civili. La decisione del Governo lasciò tutti un po' perplessi. In primo luogo non si capiva perché i militari non venissero giudicati direttamente da un tribunale civile come qualsiasi altro cittadino, in secondo luogo, si temette che il processo si chiudesse dietro questi nove imputati. È significativo, per capire le intenzioni di Alfonsin, segnalare che il progetto di leg­ge che l'esecutivo aveva inviato alle Camere per approvazio­ne non prevedeva il passaggio a una seconda istanza civile.

Dopo mesi di attesa i tribunali militari non si pronuncia­rono. Il Governo si vide infine costretto ad ammettere che il Consiglio superiore delle Forze Armate non era disposto a processare i propri pari. La causa passò ai tribunali civili do­ve finalmente nel dicembre 1985 si arrivò a una condanna mite che lasciò molti insoddisfatti (nota 3). Ma, forse, il punto più importante della sentenza era il punto 30, che consigliava il rinvio a giudizio di altri militari di grado intermedio. Poco tempo dopo si aprirono più di 1500 processi per violazione dei diritti umani.

Alfonsin volle fermare il processo d'incriminazione delle Forze Armate e sancì nel dicembre 1986 la legge del Punto fi­nale che, per "pacificare" il paese, fissò un termine di 60 gior­ni oltre il quale non sarebbero state più ammesse denunce per violazione dei diritti umani. Venne così limitata la possi­bilità di apertura di nuove cause. Tré mesi dopo la scadenza dei 60 giorni un altro arbitrario giuridico vanificò tutti gli sforzi di chi cercava giustizia. La legge di Obbedienza dovuta assolse da tutti i crimini già documentati e giudicati lascian­do i colpevoli in libertà e sostenendo che, al di fuori dei man­danti, i quadri intermedi - non avendo potere decisionale -avevano agito in stato di costrizione. L'opera fu completata dal presidente Carlos Menem che, nell'ottobre 1989, dopo tré mesi di Governo, sancì l'indulto per 216 militari e civili coinvolti nel genocidio e per 64 perso­ne presumibilmente legate alla sovversione (nota 4). La misura escludeva i mèmbri delle Giunte militari Videla e Massera che godranno di un nuovo indulto il 28 dicembre 1990. Dopo cinque anni di prigionia in una villa di proprietà dell'Eserci­to dove potevano ricevere amici e camerati, praticare sport e usufruire della libera uscita durante i fine settimana, gli er­gastolani tornarono in libertà.

La distruzione del passato

I militari abbandonarono il governo nel 1983. Lasciarono il Palazzo non perché costretti dalla mobilitazione delle forze democratiche, ma perché avevano portato a termine il compito: l'annichilimento di un'intera generazione che vole­va modificare le strutture del paese.

Ma perché una dittatura con una forza militare schiac­ciante ha scelto come strategia quella di far scomparire gli oppositori? Perché dopo la tortura e l'inumana prigionia queste persone non hanno avuto almeno il diritto a una con­danna a morte? Perché non sono stati sepolti, perché la di­struzione dei corpi? Perché desaparecidos?

Non c'è risposta che possa spiegare questa premeditata violazione di ogni diritto della persona. Di fronte a queste atrocità ogni logica decade, diventa inumana, e quando una logica diventa inumana non è più logica. Non è possibile pensare questi fatti all'interno del proposito del singolo cri­minale che cerca di non lasciare tracce, del delitto perfetto. Obiettivo strategico del progetto militare era la distruzione del passato.

La Commissione del Governo Alfonsin incaricata d'inda­gare ha avuto enormi difficoltà per ricostruire l'accaduto. In­teri edifici erano stati rasi al suolo per poi edificarvi sopra al­tre strutture. Tutto era stato cancellato.

La successiva necessità di eliminare in modo sbrigativo il passato recente, di perdonare coloro che non si ritengono nemmeno colpevoli, di mettere una pietra sopra la tragedia dei desaparecidos è complico della stessa strategia dell'an­nientamento.

Il tentativo di annullare il passato è manifesto. Perché se non esistesse il passato - in quella particolare forma di esi­stenza che è il non esserlo già - non esisterebbe nemmeno il presente e al futuro mancherebbe la possibilità di proiettarsi. Senza l'assunzione/rifiuto del passato storico non vi è spazio per il futuro. Ogni tentativo di annullare il passato, di far scomparire le sue tracce, lascerà dietro di sé una terribile e leggera debolezza, comporterà l'assenza di prospettive, un continuo girare a vuoto intorno a un presente immemore, istantaneo, senza tempo, senza essere, senza la possibilità di capire il proprio divenire.

I militari argentini lo sapevano e hanno distrutto e fatto sparire tutto ciò che hanno trovato. I governi democratici che si sono susseguiti hanno scelto l'oblio. Non assumendo questa pesante ma inderogabile eredità hanno indirettamen­te completato la distruzione dell'operato dei militari. Ma il passato non scompare mai, resta, non passa mai perche è sia passato. La confessione del capitano Adolfo Franci-sco Scilingo ne è una prova.

Il volo

Molti desaparecidos sono stati gettati in mezzo all'oceano. Questa è l'atroce ammissione di Scilingo. Lo si sapeva già, ma fatti come questi non erano mai stati riconosciuti ne rac­contati in prima persona da uno degli autori. Il volo - un ter­mine così lieve - diventa qui grave.

Una delle conseguenze di questa confessione è l'unifica­zione dei discorsi sulla storia argentina degli ultimi due de­cenni. Finora si è parlato di una storia ufficiale e di un'altra raccontata dai pochi superstiti o dai famigliari delle vittime. Durante i primi anni della dittatura le Madri di Plaza de Mayo erano infatti etichettate come Las locas de Plaza de Mayo (le pazze), quale ratifica della scissione che si era pro­dotta nella società argentina tra discorso ufficiale e discorso minoritario. I pochi che testardamente continuavano a opporsi a quella logica non potevano che essere "impazziti". La prima storia era documentata dagli atti di un governo ditta­toriale, il loro discorso era omogeneo, il loro agire sembrava incontestabile. La seconda storia era costruita da un'immen­sa massa di ombre che non potevano testimoniare, da inter­rogativi sulla loro sorte. I desaparecidos furono con la loro assenza la principale accusa contro il terrore. Dopo la con­fessione di Scilingo la storia si unifica. I voli non erano che la macabra soluzione finale a un'alternativa politica.

Il linguaggio del libro non è facile. L'oggetto di cui si par­la è l'innominabile, anzi lo si vorrebbe nemmeno mai esisti­to. I desaparecidos non si trovano da nessuna parte, sono fan­tasmi che deambulano e ripercorrono una società che non si decide a cancellarli, ignorarli, annullarli. Così pure nel modo di esprimersi si parla di fatti che non vogliono essere ricono­sciuti come tali. Nessuno dei carnefici ha il coraggio di nomi­nare, di raccontare, di chiamare le cose con il loro vero no­me. Ognuno tenta di aggirare l'ostacolo della barbarie di cui è stato parte. Il linguaggio vuoi essere indiretto, impersonale. Tenta di aggirare il problema, di lasciar capire senza usare i termini appropriati. Sono parole non dette che, come i desa­parecidos, vogliono essere oggetto di rimozione.

Ciò che viene raccontato da Scilingo nella sua confessio­ne non è nuovo. Chi veramente voleva sapere quei fatti li co­nosceva già da anni. Le stesse autorità militari si erano mos­se per farli sapere, senza però mai ammetterli, per generare panico e diserzione tra le fila dell'opposizione. I fatti sono stati poi confermati dal ritrovamento di cadaveri mutilati con evidenti segni di tortura, riportati a riva dalle onde sul­le sabbie dorate di note località turistiche. Non scorderò mai una donna, il cui figlio era stato gettato vivo in mezzo al ma­re, che nel 1995 mi disse: "Sono stata invitata in vacanza a Villa Gesel, sul mare... ma non ce l'ho fatta, non potrò mai più fare il bagno in quelle acque".

Tutti i responsabili di questa strage sono in libertà, l'uni­co oggi in carcere è l'ex capitano Scilingo accusato di frode (benché sia stata già dimostrata la sua innocenza) per aver emesso assegni scoperti.

Claudio Tognonato
Introduzione a "Il volo - Le rivelazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos", Horacio Verbitsky, ed. Feltrinelli.


nota 1: Testimonianza di Miguel D'Agostino (fascicolo 3901) raccolta dalla Commissione nazionale per la scomparsa delle persone (Conadep). La Commissione, creata nel dicembre 1983 dal presidente Raùl Alfonsin, si occupò di far luce sulla violazione dei diritti umani durante la dittatura mi­litare.

nota 2: Prendendo in esame le cifre ufficiali delle cremazioni nel principale cimitero di Buenos Aires si verifica nel periodo una crescita

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