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Lula superstar, è la volta buona
by Maurizio Matteuzzi (post by blicero) Wednesday, Oct. 02, 2002 at 10:24 AM mail:

Vola nei sondaggi, sfiora quel 50% che vuol dire vittoria al primo turno, due outsider starebbero per mollare e votare per lui. Al quarto tentativo Luiz Inacio da Silva, in una nuova versione «light», sembra avere la vittoria in tasca. E un Brasile a terra pare pronto a dire addio al neo-liberalismo in America latina

Quest'anno in Brasile, dall'altra parte del mondo, la primavera è cominciata presto. E domenica prossima, 6 ottobre, potrebbe già esplodere l'estate. Quel giorno si voterà nel grande paese di 170 milioni di abitanti e Lula da Silva ha ottime possibilità di essere eletto presidente della repubblica. Tutti i sondaggi lo danno non solo primo alla lontana sugli altri tre candidati con qualche ambizione di successo ma in crescita così continua e costante che a volte pare irrefrenabile. Ieri sera (notte alta in Italia) il Jornal Nacional della Globo, il tg più visto, doveva darne un altro. Per annunciare forse, numeri alla mano, quel che ormai tutti - fra corna e scongiuri - si aspettano, sanno, sentono: Lula ha toccato il 50%. La sensazione è netta. Gli avversari sono in rotta, si squagliano, cercano di salire ora sul treno di colui che appare il vincitore per contrattare meglio future posizioni di potere. Circolano voci insistenti: Garotinho e Gomes, i due outsider distanziatissimi, potrebbero gettare la spugna anche prima della domenica elettorale, dando indicazione di voto per Lula. Semmai fanno paura - e anche Lula deve averne - i possibili eccessi. Eccesso di euforia, eccesso di vittoria, eccesso di aspettative.

I numeri più recenti, di appena un paio di giorni fa (i brasiliani adorano i sondaggi, che generalmente azzeccano, ancor più di quanto li ami Berlusconi) danno Lula al 49% e il suo avversario più prossimo, José Serra, il candidato del presidente Fernando Henrique Cardoso e «del mercato», lontanissimo e in calo (dal 19 al 18%). Ancor più staccati, fra il 12-15%, Anthony Garotinho, l'ex governatore evangelico-populista dello Stato di Rio de Janeiro, e Ciro Gomes, l'ex governatore socialdemocratico (lo stesso partito di Cardoso e di Serra da cui però se ne è andato) dello Stato nordestino del Cearà. La pletora di tutti gli altri «candidati nani» non mette insieme l'1%.

Si dice in Brasile che per l'esito finale della corsa, sia la eventuale vittoria di Lula al primo turno sia lo sprint per il secondo posto nell'eventuale ballottaggio del 27 ottobre, sarà decisivo l'ultimo dibattito televisivo a quattro, fissato per giovedì sera sulla Globo.

In un paese come il Brasile, sterminato (8 milioni e mezzo di km quadrati) e sottosviluppato (nonostante figuri come l'ottava o nona potenza industriale del mondo), la televisione gioca un ruolo decisivo anche in politica. E la Rete Globo e il suo padre-padrone (grazie ai favori resi ai generali durante il regime militare), il quasi centenario Roberto Marinho, sono stati tradizionalmente i king makers o, al contrario i distruttori di presidenti, della recente storia politica brasiliana. Ne sa qualcosa Lula, che nel ballottaggio dell'89, fu scippato di una vittoria ormai alla vista nel ballottaggio con il ladrone Collor de Mello, proprio a causa del gioco sporco della Globo. Che poi tre anni dopo decretò la morte politica della sua creatura abbandonandola alla piazza che ne chiedeva la testa (sotto forma di dimissioni) per le smodate ruberie.

Questa volta, e per la prima volta - insieme una novità un sintomo - la Globo anziché sparare ad alzo zero contro Lula e gettare tutto il suo peso mediatico su Serra, l'uomo della continuità e del Fondo monetario, è stata «neutrale». Così che il metalmeccanico senza un dito - perso sotto un tornio quando era operaio in una fabbrica della cintura industriale di San Paolo - e senza la laurea ha potuto concentrarsi sulla sua proposta e sui suoi concorrenti. A detta di tutti, dal punto di vista (anche) televisivo, la campagna di Lula è stata la migliore, i dibattiti li ha vinti, gli spot - sostenuti da attori e star delle telenovelas, dai più popolari interpreti della musica brasileira, da campioni dello sport - sono stati i più efficaci.

Anche la stampa scritta questa volta, e per la prima volta, non si è lasciata andare agli attacchi grossolani del passato. Quando cercava di screditarlo senza neppure entrare nel merito delle proposte politiche e scriveva che non è degno di un paese come il Brasile avere un presidente senza uno straccio di laurea che non parla un portoghese erudito (immaginarsi quando si dovrà confrontare con quel fine letterato texano che è George W. Bush). Ma i giornali, in Brasile, pur di qualità eccellente, arrivano a meno del 20% della popolazione.

Il fatto è che il grande paese non ne può più. Come il resto dell'America latina devastata da un quindicennio di neo-liberalismo e dalle delizie del mercato.

Ma se Lula vincerà domenica 6 o domenica 27 ottobre (anche nel ballottaggio i sondaggi lo danno in grande vantaggio su chiunque dei tre che lo seguono), sarà prima di tutto per un altro dato. Il 70% dei brasiliani vuole «un cambio», la popolarità del presidente Cardoso, fine intellettuale e grande pavone collezionista di lauree honoris causa in giro per il mondo, non cessa di cadere. Dopo otto anni filati al palazzo di Planalto di Brasilia si lascia dietro una situazione desolante. E' vero, e gli va riconosciuto, che il suo Piano Real del `94 ha stroncato l'iper-inflazione ma le cinque sfide, cinque come le dita della mano che mostrava al tempo della sua prima campagna elettorale, le ha tutte perdute: salute, educazione, casa, infrastrutture, lavoro (il lavoro soprattutto, che sempre i sondaggi indicano come la principale preoccupazione dei brasiliani indignati di fronte alle statistiche ufficiali della disoccupazione al 7.2%). La sua politica economica neo-liberale anche se lui lo nega - ma è l'insospettabile Wall Street Journal a smentirlo, elogiandola e auspicandone la continuità -, le sue miliardarie privatizzazioni a spron battuto - banche, telecomunicazioni, petrolio... - non sono servite ad abbassare lo spaventoso debito estero (240 miliardi di dollari), il tremendo debito pubblico (intorno ai 400 miliardi di dollari), i tassi di interesse (i più alti del mondo in termini reali). Né ad alleviare le miserabili condizioni sociali che fanno del grande Brasile ricco di tutto un paese che non si trova sulle carte geografiche ma reale e chiamato Belindia. Un misto di Belgio per la sua minoranza di super-ricchi, di benestanti, di colti e di poveri da primo mondo, e di India per i cento milioni di brasiliani esclusi dal mercato e dall'economia formale, di cui fra i 30 e 40 milioni alla fame. Spinti o lasciati all'informalità, alla marginalità, alla criminalità organizzata o di sopravvivenza, all'esclusione, all'apartheid.

E, prima di tutto, a questo Brasile che Lula si rivolge, che dovrà rispondere se e quando, il primo gennaio del 2003, l'antico migrante nordestino costretto ad andare a cercare fortuna a San Paolo, metterà piede a Brasilia, il simbolo avveniristico realizzato dai grandi Oscar Niemeier e Lucio Costa. Ma non è solo questo. Prima ancora che un politico nuovo e un uomo di sinistra, Lula è un simbolo. E per i simboli la vita è ancor più difficile.

Se Luiz Inacio da Silva sarà presidente la sua elezione segnerà la fine del neo-liberalismo in un America latina già in piena recessione e sarà l'avvio di un nuovo corso pieno di incognite. Di speranze - forse troppe - ma anche di rischi - certo grossi. Perché è vero che «Lula è cambiato». Che ha ammorbidito o annacquato il suo discorso, il suo programma, i suoi obiettivi. Che si è affinato nel linguaggio e nell'immagine. Che ha rimandato il socialismo a data da destinarsi per concentrare il tiro sul bersaglio della «fame zero». Che ha aperto al centro scegliendo come vice José Alencar che è un grande industriale tessile e un leader del Partido Liberal. Che ha definito il suo Partido dos trabalhadores un «partito di centro-sinistra». Che è andato a parlare - in molti casi convincendoli - ai banchieri, agli imprenditori, agli operatori della Borsa di San Paolo. Che, mantenendo i consolidati rapporti del Pt con la chiesa cattolica, ha lanciato un ponte alle potentissime sette evangeliche, le stesse che in passato lo chiamavano «l'incarnazione del demonio». Che ha richiamato all'ordine i Senza Terra di João Pedro Stédile ammonendoli che con lui presidente «basta con le occupazioni delle terre» perché la riforma agraria si farà con altri metodi più soft e istituzionali. Che è ha solleticato il nazionalismo dei militari parlando dell'Amazzonia su cui troppi occhi sono puntati. Che ha rinunciato all'idea di aprire inchieste parlamentari e giudiziarie su dove sono andate a finire le decine di miliardi di dollari piovuti con le privatizzazioni e di rinazionalizzare alcune delle compagnie vendute o svendute. Che ha garantito il rispetto degli accordi internazionali del Brasile, anche quelli di agosto con l'Fmi che ha sì concesso 30 miliardi di dollari di aiuti avvelenati ma condizionando il prossimo presidente per tutto il suo mandato. Che ha detto di volere perseguire un rapporto «di mutuo rispetto» con gli Stati uniti.

Ma è difficile credere che abbia qualche fondamento la speranza nutrita da molti, in Brasile e fuori, che vede nel Lula light o diet di oggi il Felipe González del 1982, quando i socialisti vinsero per la prima volta le elezioni in Spagna e mutarono di pelle.

Perché Lula, prima ancora che un leader di sinistra è, appunto, un simbolo. Il simbolo dell'etica in un quadro politico corrotto. Il simbolo del rilancio di una produzione nazionale che ha pagato dazio all'apertura economica. Il simbolo dell'inclusione anziché dell'esclusione di decine di milioni di brasiliani. Il simbolo del lavoro come mezzo di sostentamento e di dignità. Il simbolo del nazionalismo inevitabilmente rilanciato dall'unilateralismo - non si chiamava imperialismo? - degli Stati uniti specie dopo l'11 settembre. Il simbolo della resistenza contro gli obiettivi di Washington in America latina, siano essi il Plan Colombia o l'Alca, l'Accordo di libero commercio delle Americhe che lui continua a definire «una annessione».

Un compito che mette paura. Con l'Argentina e il Venezuela sotto gli occhi di tutti.

La sensazione è che abbia già vinto e che le amare sconfitte dell'89, del `94 e del `98 non si ripeteranno. Il Fondo monetario sembra rassegnato; le banche fanno buon viso; le élites brasiliane, per il momento, non fanno muro (anche perché le amministrazioni del Pt alla testa di Stati e municipi si dimostrano le più efficienti e le meno corrotte); l'America di Bush mantiene un diffidente silenzio. Anche Cardoso, impegnato in un estremo tentativo di rianimazione del suo candidato Serra, sembra ormai convinto che la partita sia persa.

Noi speriamo abbia ragione.

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