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Omicidio Fava: storia di un normale depistaggio
by killerina Sunday January 05, 2003 at 06:27 PM mail:  

Articolo tratto da "I Siciliani nuovi" - aprile 1993

Giuseppe Fava venne ucciso la sera del 5 gennaio 1984, pochi minuti prima delle 22 davanti all'ingresso del teatro Stabile di Catania, dove si recava sempre alla stessa ora da una decina di sere per prendere la nipotina Francesca, impegnata nelle repliche della commedia "Pensaci Giacomino". Fava aveva appena parcheggiato la sua vecchia Renault 5, e si apprestava a uscirne, quando il killer sparò attraverso il finestrino. Il giornalista venne colpito da cinque proiettili calibro 7,65 al collo e alla nuca, e altrettanti bossoli furono rinvenuti a terra; la precisione di tiro fece pensare all'opera di un killer
professionista. Le ultime ore di vita Fava le aveva trascorse presso la sede de "I Siciliani", in via Umberto 41 a S. Agata li Battiati, un paese a sette chilometri da Catania. Secondo le testimonianze di tre suoi collaboratori egli andò via a bordo della sua auto intorno alle 21,45. L'agguato avvenne un quarto d'ora dopo, il tempo del tragitto fino al teatro. Nel corso delle indagini polizia e carabinieri raccolsero testimonianze su almeno un paio di auto - una Renault 5 e una Mercedes di colore giallo - che avevano stazionato a lungo nei pressi della redazione il giorno del delitto. Gli inquirenti si convinsero che l'intenzione degli assassini fosse quella di uccidere Fava all'interno della redazione. Il piano era poi stato accantonato per la presenza di altre persone. Qualche ora dopo l'omicidio, nel cuore della notte, qualcuno depositò davanti alla sede del quotidiano "La Sicilia" un panettone su cui era stato incollato un biglietto recante la scritta "la pagherete cara". L'autore di quel gesto non fu mai identificato; vennero sospettati i redattori de "I Siciliani", e su di essi vennero eseguite, con esito negativo, una serie di perizie grafiche. Non si indagò invece sui possibili destinatari del messaggio.
Ancora a proposito de "La Sicilia": emerse molti anni dopo il delitto che Salvatore Cortese, l'uomo indicato come autore materiale del delitto dal pentito Giuseppe Pellegriti, era in buoni rapporti con un redattore della Sicilia, Rodolfo Laudani, deceduto qualche anno fa.
Laudani era in possesso, all'epoca del delitto Fava, di una Mercedes di colore giallo, simile a quella notata da alcuni testimoni aggirarsi intorno alla redazione de "I Siciliani" poche ore prima del delitto. La sera del 5 gennaio Laudani, uno dei più anziani cronisti di "nera" de "La Sicilia", non era in servizio, ma si recò lo stesso al giornale, raccolse la telefonata che annunciava la presenza di un uomo in fin di vita in via Dello Stadio, e si recò sul posto, firmando le prime cronache sul delitto Fava. Laudani fu anche uno degli ultimi a lasciare la redazione del suo giornale la notte in cui qualcuno depose il misterioso panettone davanti alla sede de "La Sicilia". Questi elementi
non risultano essere stati approfonditi dall'autorità giudiziaria.
Sessant'anni, giornalista, scrittore e autore teatrale, Giuseppe Fava era un personaggio molto noto in Sicilia. Fra i suoi libri "Prima che vi uccidano", "Gente di rispetto" (da cui Luigi Zampa aveva tratto un film con Franco Nero"), "Mafia, da Giuliano a Dalla Chiesa". Per il
teatro aveva scritto, tra l'altro, "La violenza" e "Ultima violenza". Quest'ultimo spettacolo era stato messo in scena nel mese di ottobre '83 dal teatro Stabile di Catania, ottenendo un grande successo. In esso Fava descriveva alcuni personaggi tipici della Sicilia anni '80:
il politico corrotto, l'imprenditore mafioso, il boss, il piduista.
Nell'editoriale del numero di novembre del suo mensile Fava, dopo aver assistito alla "prima" del suo spettacolo, faceva notare come ad applaudire di più fossero gli stessi personaggi che lui aveva così duramente rappresentato. E concludeva: «Il potere si è isolato da tutto, si è collocato in una dimensione nella quale tutto quello che
accade fuori, nella nazione reale, non lo tocca più e nemmeno lo offende... Egli sta là, giornali, spettacoli, cinema, requisitorie passano senza far male: politici, cavalieri, imprenditori, giudici applaudono. I giusti e gli iniqui. Tutto sommato questi ultimi sono probabilmente convinti di essere oramai invulnerabili».
La carriera giornalistica di Fava era stata sempre caratterizzata da irrequietezza e spirito di indipendenza: redattore e caposervizio di alcuni quotidiani siciliani, tra cui "La Sicilia" di Catania. Era stato anche collaboratore della "Domenica del Corriere", del "Tempo Illustrato" e di altri giornali nazionali. Nel giugno del 1980 era divenuto direttore del neonato "Giornale del Sud", quotidiano che intendeva rompere l'egemonia giornalistica de "La Sicilia" su Catania. Qualche tempo dopo l'apertura un consistente pacchetto di azioni del giornale venne acquistato dall'imprenditore Gaetano Graci, all'epoca non ancora toccato dall'accusa di essere in rapporto con le famiglie mafiose.
Fava impresse alla cronaca del giornale un taglio aggressivo, e per la prima volta i nomi dei boss catanesi, i vari Santapaola, Ferlito e Ferrera, vennero fatti su un giornale. Nei primi mesi del 1980 una bomba distrusse il magazzino della carta del "Giornale del Sud". Nello stesso
periodo cominciarono gli screzi tra Fava e l'editore. Il primo avvenne il giorno dell'arresto del boss Alfio Ferlito. I redattori del giornale prepararono una pagina in cui accanto alla cronaca dell'accaduto si ripercorreva la carriera criminale di Ferlito. La pagina venne
requisita in tipografia e al termine di una riunione a cui
partecipavano gli azionisti del giornale, fu mutilata e rimaneggiata all'insaputa dei redattori e del direttore, che quel giorno si trovava a Roma per lavoro. La seconda definitiva rottura avvenne qualche settimana dopo sulla questione dei missili a Comiso: Fava si schierò per il "no", andando contro gli interessi di Graci, che nel ragusano possiede diversi appezzamenti di terreno. Fava firmò la lettera di dimissioni nei primi mesi del 1981. Il "Giornale del Sud" gli sopravvisse ancora un anno, distinguendosi in una strenua difesa di Nitto Santapaola, uno dei presunti assassini del prefetto Dalla Chiesa.
Nel dicembre del 1982, insieme ad un gruppo di giovani giornalisti suoi soci nella cooperativa "Radar", Fava fonda il mensile "I Siciliani".
Nell'editoriale di presentazione elenca i temi di cui la rivista intende occuparsi: la mafia, la speculazione edilizia che saccheggia le risorse naturali della Sicilia, i missili a Comiso. In quello stesso numero Fava firma un lungo servizio dal titolo "I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa". E' dedicato ai quattro maggiori imprenditori catanesi, Rendo, Graci, Costanzo e, in parte, Finocchiaro. Di loro aveva parlato Dalla Chiesa qualche settimana prima di essere ucciso nell'ormai famosa intervista a Giorgio Bocca: "I quattro maggiori
imprenditori catanesi oggi lavorano a Palermo - aveva detto Dalla Chiesa - lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?". Su "I Siciliani" Fava si pone la domanda che moltissimi altri in quei giorni si fanno: i cavalieri del lavoro sono protagonisti della tragedia mafiosa o soltanto delle
vittime, costrette a scendere a patti con i boss per non veder saltare in aria i loro cantieri? Fava elenca le possibili risposte e scrive tra l'altro: «Se tutti i cavalieri del lavoro di Catania e di Sicilia, tutta l'imprenditoria dell'isola fa parte della struttura mafiosa che la si sradichi e distrugga con tutti i mezzi della giustizia. Se solo alcuni di loro sono dentro la mafia, allora bisogna colpirli implacabilmente, eliminandoli dalla società». E' la prima volta, dopo Dalla Chiesa, che qualcuno parla in maniera così cruda e appassionata degli uomini che detengono le leve dell'economia siciliana. Il primo numero de "I Siciliani" si esaurisce rapidamente e dev'essere ristampato altre due volte per far fronte alle richieste che giungono dalle edicole di tutta la Sicilia. Nello stesso numero compare un servizio sulla magistratura catanese - titolo "Giustizia è sfatta" - in cui si scrive delle "coperture" di cui gli stessi cavalieri del lavoro
hanno usufruito in alcune inchieste giudiziarie in corso presso la Procura della Repubblica di Catania. La mafia imprenditrice, lo stato della Giustizia in Sicilia, i missili a Comiso, sono temi che ricorrono in tutto il primo anno di vita della rivista. Intorno al giornale inizia a formarsi quel nucleo di simpatizzanti, soprattutto studenti,
che formerà in seguito l'ossatura dell'associazione "I Siciliani" e contribuirà alla nascita del movimento contro la mafia nelle scuole.
Ricco di fermenti e lettori - una media di 18 mila copie mensili nel primo anno di vita - "I Siciliani" di Fava non riuscì mai a sfondare sul mercato pubblicitario: gli argomenti trattati dalla rivista scoraggiarono le più importanti agenzie di pubblicità isolane, e lo stesso accadde con enti o imprenditori contattati singolarmente.
Stranamente a farsi avanti furono invece proprio alcuni dei personaggi i cui nomi ricorrevano, malgrado loro, sulle pagine del mensile: il primo fu Gaetano Graci, che poche settimane dopo l'uscita del primo numero fece capire a Fava nel corso di un incontro che forse il "Giornale del Sud" avrebbe potuto essere riaperto, con lui nuovamente come direttore. Fava rifiutò e due mesi dopo si fece avanti Eugenio Rendo, figlio del cavaliere del lavoro Mario: stiamo investendo molto denaro in una televisione privata, spiegò il giovane imprenditore a Fava, e ci piacerebbe affidarne la gestione giornalistica a lei e alla sua redazione. L'ultima offerta si ebbe nel dicembre 1983, ancora ad opera di Gaetano Graci: sull'ultimo numero della rivista era apparso un servizio sui contributi "facili" che l'assessorato all'Agricoltura dal 1976 all'81 aveva concesso a un gruppo ristretto di imprenditori, tra
cui Rendo, Costanzo e Graci. Qualche giorno dopo Fava fu invitato negli uffici di Graci, per risolvere una pendenza economica relativa al suo vecchio incarico di direttore del "Giornale del Sud". Nei giorni successivi Fava parlò di quell'incontro con la figlia Elena, e con due amici, Orazio Torrisi e Graziella Proto. A tutti e tre disse di aver
ricevuto da parte di Graci l'offerta di duecento milioni in cambio della chiusura de "I Siciliani". Fava aveva rifiutato, e l'incontro si era chiuso bruscamente. Un mese dopo, durante le feste natalizie, il direttore de "I Siciliani" ricevette una cassa di bottiglie di champagne, dono del cavaliere Graci. Ai familiari Fava sembrò perplesso
di fronte a quel regalo; non spaventato, ma inquieto. Nei giorni immediatamente successivi all'assassinio di Giuseppe Fava, polizia e carabinieri svolsero perquisizioni a tappeto nelle case di diversi pregiudicati catanesi. Colleghi e familiari di Fava, interrogati, dichiararono che egli non era parso temere per la sua vita, e che non
stava preparando personalmente nessuna inchiesta. Più facile, secondo loro, che Fava fosse stato ucciso per il lavoro di denuncia svolto lungo tutto il corso dell'anno dal suo giornale, o per quello che avrebbe potuto svolgere in futuro. Le indagini iniziarono in un clima difficile. Due giorni dopo la morte di Fava l'onorevole Nino Drago,
proconsole di Andreotti nella Sicilia Orientale, si premurò di lanciare attraverso i giornali un trasparente avvertimento: «E' meglio che le indagini si chiudano in fretta - disse l'uomo politico - perché i cavalieri del lavoro sono stufi di essere sospettati, e potrebbero
decidere di trasferire le loro fabbriche al nord». Un cronista chiese se si trattasse di semplici supposizioni: «Abbiamo avuto contatti personali, e questo ci hanno detto», rispose Drago. La Catania che conta, insomma, teme i contraccolpi di quel primo delitto eccellente e si chiude a riccio. E chi dovrebbe indagare si comporta di conseguenza.
Sembrerebbe ovvio che le indagini debbano indirizzarsi verso quel crocevia tra mafia armata, affari e politica denunciato sulle pagine de "I Siciliani". Ma non è così: Anche se ufficialmente la pista seguita è quella del delitto di mafia, in realtà gli investigatori e particolarmente la polizia, concentrano le forze sulla ricerca di un movente "privato". Si scava nella vita del giornalista ucciso; si osservano al microscopio la sua situazione patrimoniale e sentimentale.
Tutti gli assegni firmati da Fava negli ultimi anni vengono
rintracciati e vagliati. Disposizioni vengono date a tutte le questure d'Italia perché s'indaghi nelle banche «su eventuali movimenti di denaro riguardanti la vittima». E' un lavoro certosino quanto inutile: non una lira del poco denaro guadagnato in vita da Fava viene da altro che dal suo lavoro di scrittore e giornalista. Si passa allora a
indagare nella vita sentimentale dell'uomo. Di certo, è il
ragionamento, un uomo tanto brillante avrà una donna. Ma anche questa pista, minuziosamente perseguita, si rivela infruttuosa.
Dall'interrogatorio di un collaboratore di Fava: «Magrì Salvatore,fotografo, interrogato, dichiarava di essere collaboratore de "I Siciliani", per cui sviluppava i negativi dei servizi fotografici, prodotti personalmente da Fava. Escludeva di avere mai sviluppato per conto del Fava pellicole riproducenti donne in abiti succinti».
Il 10 gennaio, dal delitto sono trascorsi cinque giorni, una fonte della questura dichiara a "Repubblica": «E' vero, hanno cercato di depistarci, di allontanare l'attenzione dei clan mafiosi. Ci hanno suggerito di scavare nella vita privata di Giuseppe Fava, di approfondire i suoi contatti delle ultime settimane. Ma di una cosa restiamo convinti: ad armare il killer è stata l'alta mafia». Da che parte venga il depistaggio il funzionario non lo dice. A condurre
l'inchiesta sul delitto Fava è inizialmente il sostituto procuratore della Repubblica Rosario Grasso. Le indagini sono dirette per i carabinieri dal colonnello Emo Tassi, dai maggiori Monteforte e Noto e dal capitano Guarrata; per la polizia dal questore Conigliaro, dal capo della squadra mobile Beretta, dai funzionari Ganci e Piazza. In seguito
alle dichiarazioni del pentito Salvatore Parisi, che nel novembre dell'86 portarono all'arresto e alla condanna, tra gli altri, di alcuni magistrati collusi con la mafia, il capitano Guarrata venne messo sotto inchiesta e trasferito, mentre i tre funzionari di polizia citati furono semplicemente trasferiti. Il primo rapporto sul delitto, firmato congiuntamente dal dottor Berretta e dal capitano Guarrata, si limita ad elencare una serie di ipotesi: vi si dice, tra l'altro, che gli esecutori del delitto potrebbero essere venuti da Palermo, ma su questa tesi non ci sono riscontri di alcun genere. Si parla anche delle intimidazioni, culminate nella bomba al "Giornale del Sud", che Fava aveva subìto anni prima. Circola voce che gli investigatori stiano attentamente rileggendo le inchieste de "I Siciliani" sul malessere della Giustizia a Catania: vi si parla tra l'altro dell'inchiesta del Consiglio superiore su due magistrati catanesi, il sostituto
Procuratore Aldo Grassi e il procuratore aggiunto Giulio Cesare di Natale. La materia su cui indaga il Csm è corposa: falsificazione di certificati di carichi pendenti necessari al cavaliere del lavoro Carmelo Costanzo e ad altri imprenditori per partecipare a gare d'appalto; illegittimo dissequestro da parte del dottor Di Natale di
materiale pornografico e archeologico sequestrato in una casa di cura catanese (nella vicenda, secondo la commissione referente del Csm, sarebbero coinvolti "vertici politici catanesi"); infine l'insabbiamento di numerosi procedimenti penali riguardanti i soliti cavalieri del lavoro e alcuni politici. "I Siciliani" riportano tra
l'altro una dichiarazione inedita del generale della Guardia di Finanza Vitali: «Avevo motivi soggettivi e oggettivi di dubitare dell'operato della Procura di Catania. Erano sulla bocca di tutti i collegamenti tra alcuni magistrati catanesi e gruppi economici locali». Il servizio della rivista si conclude chiedendo che venga fatta al più presto pulizia. L'auspicio del mensile si avvererà soltanto nel 1985, un anno dopo la morte di Fava, quando uno dei due magistrati, il dottor Grassi, chiederà un tempestivo trasferimento (oggi è tra i componenti della> prima sezione penale della Corte di Cassazione, già presieduta dal dottor Carnevale) mentre il dottor Di Natale verrà trasferito per motivi di "incompatibilità ambientale". Non prima però di aver coordinato, da dirigente della Procura, il lavoro dei magistrati che
via via si alterneranno, in un complicato balletto, alle indagini sul delitto Fava. Tra le mosse del procuratore aggiunto Giulio Cesare Di Natale relative al delitto Fava la più eclatante è datata 26 gennaio 1984. Quel giorno l'alto magistrato utilizzò i suoi poteri per disporre
indagini bancarie su Giuseppe Fava, sui suoi familiari e su alcuni redattori de "I Siciliani". Questi ultimi segnalarono l'episodio al Csm scrivendo che il magistrato «non può in alcuna maniera ritenersi indifferente all'inchiesta in corso» in quanto negli scritti di Fava e dei suoi collaboratori egli viene indicato come responsabile di attività e comportamenti non compatibili con quanto il cittadino può attendersi dal suo magistrato. Di Natale si difese facendo sapere che la sua decisione era nata a seguito ad un esposto anonimo in cui si
parlava di "rapporti d'affari" tra "I Siciliani" e alcuni imprenditori e uomini politici. Ma il Procuratore aggiunto mentiva: la lettera anonima, oggi allegata agli atti del processo Fava, era in realtà rivolta alla redazione de "I Siciliani" e offriva elementi su cui indagare, attribuendo la paternità del delitto a un gruppo di politici e massoni. Comunicazione del dottor Giulio Cesare Di Natale al Comandante del gruppo Guardia di Finanza di Catania datata 26 gennaio 1984 : «Trasmetto l'unita anonima con preghiera di voler condurre, anche al di fuori della giurisdizione, riservate indagini sul conto dei nominativi e delle circostanze riferite nell'anonimo con particolare
riguardo al caso Fava. Vorrà estendere gli accertamenti anche all'ambito bancario, tenendo presente le circostanze nelle quali fu ucciso lo scrittore, vorrà indagare sul conto del defunto, su quelli del figlio Claudio e di altri suoi familiari e comunque su ogni attività bancaria che risultasse di disponibilità del defunto. Vorrà estendere pure l'indagine alla gestione del giornale del sud diretto da Fava e alla rivista "I Siciliani". Qualora la S.V. rendesse utili e necessari altri provvedimenti di carattere giudiziario la S.V. provvederà a richiederli urgentemente». Le disposizioni del dottor Di Natale furono scrupolosamente osservate: dello scarno fascicolo processuale che compendia nove anni di indagini sull'omicidio Fava, ben 14 pagine sono occupate dall'elencazione di tutti i movimenti bancari
effettuati da Giuseppe Fava dal 1978 fino al giorno della morte.
Inutilmente, dal punto di vista del dottor Di Natale: dal momento che nulla fu trovato di men che trasparente nelle attività del giornalista, dei suoi familiari, dei suoi collaboratori. Nello stesso mese di febbraio il dottor Grasso rinunciò a condurre l'inchiesta. Nel fascicolo fin lì raccolto c'erano le deposizioni di numerosi redattori
de "I Siciliani" che offrivano spunti d'indagine concreti e invitavano gli inquirenti a ricercare il movente del delitto nei temi trattati dalla rivista e in particolare tra gli ambienti imprenditoriali e politici toccati dal lavoro di Fava. Ed ecco un significativo stralcio
della informativa inviata il 6 febbraio 1984 dal dottor Grasso al Procuratore della Repubblica:. «Venivano successivamente sentiti alcuni collaboratori del Fava... ma nessuno di essi forniva una traccia, utile circa il possibile movente dell'omicidio». Il rapporto del magistrato
si conclude così: «Comunico infine che presso questo Ufficio non sono pendenti procedimenti penali che allo stato possano apparire o ritenersi connessi a fatti di "mafia"». L'inchiesta passò ad un altro sostituto Procuratore, il dottor Paolo Giordano, che dispose una serie
di perizie balistiche sui cinque bossoli ritrovati sul luogo del delitto, nel tentativo di risalire all'arma usata. Il primo dei tanti colpi di scena del "caso Fava" arriva il 18 luglio sulla cronaca del quotidiano catanese "La Sicilia" . Un titolo su sei colonne: «Un
detenuto pentito della malavita catanese svelerà i nomi degli uccisori di Giuseppe Fava». E' la prima volta che la notizia dell'interrogatorio di un pentito su un delitto di mafia viene pubblicata addirittura prima che l'interrogatorio avvenga. Il servizio è corredato da nome e cognome del pentito, carcere di detenzione, fotografia e persino indirizzo dei familiari a Catania. La "fuga di notizie" è avvenuta evidentemente dall'interno del palazzo di giustizia; i redattori de "I Siciliani", che denunceranno "La Sicilia" per violazione del segreto istruttorio, vengono a sapere che per redarre quel pezzo è appositamente tornato dalle ferie il giornalista Enzo Asciolla, amico del procuratore aggiunto Di Natale. Il pentito si chiama Luciano Grasso, è rinchiuso nel carcere di Belluno e si è già autoaccusato di diverse rapine.
Stranamente, ad interrogarlo non va il dottor Giordano, che conduce le indagini sul delitto, ma un altro sostituto, il dottor Torresi, accompagnato da un ispettore di polizia distaccato presso la Procura di Catania, Pellegrino. E ancor più stranamente il procuratore generale dottor Di Cataldo, inviando Torresi a Belluno, gli raccomanderà di non
far parola, sull'esito di quella missione, col suo diretto superiore, il dottor Di Natale. Dalla requistoria del procuratore della Repubblica di Messina sul procedimento sulla fuga di notizie: «...E' possibile ritenere che il Procuratore Generale dott. DI Cataldo non condividesse
il comportamento istruttorio del Procuratore aggiunto (Di Natale n.d.r.) dato che ha dato incarico di raccogliere le deposizioni del "presunto pentito Grasso Luciano" al dott. Torresi Giuseppe (Sost.Procuratore della Repubblica) dandogli la tassativa disposizione di non dare alcuna notizia al dott. Di Natale sul contenuto della lettera
trasmessa dal detenuto Grasso al Ministero degli Interni». Questo è dunque il clima in cui si indaga sul delitto Fava in quel 1984. Il Procuratore Generale riceve dal ministero dell'Interno notizia che un pentito ha deciso di collaborare. E si preoccupa innanzitutto di fare in modo che il principale responsabile delle indagini sul delitto Fava, il Procuratore Di Natale, non sappia nulla. Il nome del Di Natale accanto a una cifra a sei zeri verrà rinvenuto qualche anno più tardi in una agendina del boss Benedetto Santapaola. All'incontro col dottor Torresi nel carcere di Belluno il pentito Grasso si presenta stringendo
tra le mani una copia de "La Sicilia" del giorno prima, in cui appare la notizia della sua intenzione di collaborare. Qualcuno ha provveduto a fargliela avere in carcere. Dalla sentenza di assoluzione emessa dalla Procura della Repubblica di Catania in favore del giornalista della Sicilia Enzo Asciolla, autore delle "rivelazioni" sul pentito Grasso: «Sul piano delle considerazioni che riguardano certo modo di fare giornalismo, sta il dato, oggettivo e indiscutibile, che la tempestività che ha caratterizzato la pubblicazione della notizia ha
rischiato di pregiudicare l'esito della "missione" affidata al dr. Torresi e di spegnere sul nascere la risoluzione del "pentito" di fornire alla magistratura catanese le preannunciate importanti rivelazioni, talché è lecito esprimere riserve su tale operato». Grasso è terrorizzato, ma decide di parlare lo stesso: comincia dal "Giornale
del Sud", affermando che l'attentato dell'inverno 1981 contro il quotidiano fu commissionato da uno degli editori, nel tentativo di ammorbidire la linea impressa da Fava al settore della cronaca. Grasso riferisce anche di rapporti tra l'imprenditoria catanese e la criminalità organizzata, ed entra nei dettagli di un traffico di valuta che un cavaliere del lavoro avrebbe organizzato con una finanziaria
lussemburghese, servendosi per far passare il denaro oltre confine di gente del clan Ferlito. Infine, le rivelazioni sul delitto Fava: Grasso racconta di una "commissione" che lui stesso avrebbe ricevuto un anno prima del delitto: un giornalista, emissario di ambienti imprenditoriali e buon amico, per sua stessa ammissione, della famiglia
del cavaliere del lavoro Costanzo, gli avrebbe chiesto di uccidere Fava, giungendo anche a mostraglierlo all'uscita da un teatro. Il Grasso in un primo momento aveva accettato, ricevendo dieci banconote da centomila lire in anticipo, ma poi si era tirato indietro. Sempre secondo il suo racconto lo stesso giornalista avrebbe fatto da basista
per alcune rapine compiute dal pentito nella zona etnea. Grasso sostiene anche di aver inutilmente chiesto un confronto con la persona da lui accusata e cita alcuni testimoni degli incontri tra lui e il giornalista. In particolare Grasso racconta di essere stato presentato
al giornalista dal fratello del deputato del Psdi Diego Lo Giudice, Sergio. L'uomo, che fu interrogato ma smentì tutto, venne ucciso in un regolamento di conti nel 1992. Un mese dopo l'interrogatorio del Grasso si verificò un nuovo colpo di scena: un redattore de "I Siciliani", Michele Gambino, venne convocato in questura per un interrogatorio. A condurlo fu il maresciallo Pellegrino, lo stesso che aveva accompagnato il dottor Torresi nella trasferta di Belluno. Dopo un approccio cortese il maresciallo Pellegrino cambiò bruscamente atteggiamento, accusando
all'improvviso il giornalista di essere l'autore, o comunque uno degli artefici, del delitto. I collaboratori di Giuseppe Fava non ebbero difficoltà nel riconoscere nel gravissimo episodio, rimasto per altro senza seguito, una intimidazione nei confronti di tutti i redattori de "I Siciliani", che dopo la morte del direttore non avevano chiuso il giornale ma ne avevano anzi accentuato l'impegno giornalistico di denunzia. Il verbale dell' "interrogatorio" venne integralmente
pubblicato dalla rivista. Successivamente a questo episodio l'inchiesta fu formalizzata e affidata al giudice istruttore Sebastiano Cacciatore. In dicembre, in seguito al blitz scaturito dalle rivelazioni del pentito Salvatore Parisi, il giudice Cacciatore fu raggiunto da una comunicazione giudiziaria. Il giorno 27 dello stesso mese, alla vigilia dell'anniversario della morte di Giuseppe Fava, Cacciatore e il sostituto Giordano incriminarono per l'omicidio Fava Domenico Lo Faro, un giovane di 22 anni detenuto a Catania per rapina. Ad accusarlo erano due lettere anonime, scritte a distanza di mesi l'una dall'altra. Interrogato, Lo Faro "crollò", confessando tutto. Questa nuova "svolta" delle indagini resse per dieci giorni, fino a quando cioè una perizia calligrafica svelò che le lettere erano state scritte dallo stesso presunto omicida. «In carcere mi sentivo isolato, e così mi è venuta la fantasia di scrivere quelle lettere... e poi sono un tossicodipendente, e in carcere soffrivo per la mancanza di droga» spiegò Lo Faro. Il Tribunale per la Libertà revocò il mandato di cattura, ma alcuni dubbi restarono: l'autoaccusa era stata minuziosamente precostituita, con
aiuti dall'esterno: qualcuno aveva portato fuori dal carcere e imbucato le due lettere; in casa di Lo Faro i carabinieri avevano trovato due copie de "I Siciliani" (le avrebbe comprate la madre). Lo Faro venne frettolosamente etichettato dal giudice Cacciatore come un mitomane e
un tossicodipendente, ma non venne disposta nei suoi confronti alcuna perizia né psichiatrica né tossicologica. Un rapporto dei carabinieri indica peraltro il Lo Faro come individuo perfettamente inserito nell'organigramma di una cosca mafiosa catanese. Il 1985 passò senza portare novità nel caso Fava. Dopo il trasferimento del dottor Cacciatore ad altro incarico, l'inchiesta fu affidata al giudice istruttore Francesco Fabiano. Proprio alla vigilia di un viaggio in Usa del giudice Fabiano, sul delitto Fava calarono le rivelazioni del terzo pentito della serie: Francesco Vanaria, 26 anni, che si trovava in carcere per una serie di rapine ma non faceva parte di alcuna "famiglia" mafiosa. Vanaria fa le sue rivelazioni il 28 novembre dell'86 nell'aula-bunker di Palermo, dove si sta svolgendo il maxiprocesso alla mafia. Egli non è tra gli imputati, ma dal carcere di Novara ha scritto una lettera al presidente della corte chiedendo di essere ascoltato. Vanaria fa i nomi dei presunti assassini non solo di Fava, ma anche del generale Dalla Chiesa e del boss catanese Alfio Ferlito, ucciso nel giugno dell'82 sulla circonvallazione di Palermo nel corso di una guerra di mafia col clan Santapaola. A dare l'ordine di uccidere Fava, secondo Vanaria, sarebbe stato proprio Santapaola;
esecutori, Marcello D'Agata e Giovanni di Gaetano, detto "Maristella".
Il primo, gestore di un bar e di un rifornimento di carburanti, è incensurato, ma insieme ad uomini del clan Santapaola è stato prosciolto dall'accusa di aver compiuto una clamorosa rapina (bottino tre miliardi) ai danni delle poste di Catania. Il secondo è pregiudicato per una serie di furti. Entrambi erano in libertà quando Fava fu ucciso. I due naturalmente si dichiarano innocenti e nel giro di un paio di mesi le accuse di Vanaria cadono per mancanza di
riscontri oggettivi. La stessa fine faranno le rivelazioni sui delitti Dalla Chiesa e Ferlito. E arriviamo così al marzo del 1988. Un boss della mafia catanese, Giuseppe Calderone, si decide a raccontare tutto quello che sa: svela i retroscena di numerosi omicidi, traccia un
organigramma delle cosche siciliane, approfondisce la questione dei rapporti tra il boss Santapaola e i cavalieri del lavoro catanesi. Del delitto Fava ammette di sapere poco, ma non rinuncia a dare la sua versione dei fatti: a far uccidere il giornalista sarebbe stato, dal carcere, Luciano Liggio. Movente del delitto sarebbe stata l'intervista rilasciata a "Retequattro" da Fava il 29 dicembre del 1983, una settimana prima dell'omicidio. Il direttore de "I Siciliani" aveva parlato tra l'altro di una vecchia storia, l'omicidio del sindacalista Placido Rizzotto, avvenuto a Corleone nei primi anni '50 e di cui era stato ritenuto mandante, benché in assenza di prove, Luciano Liggio.
Liggio non solo aveva fatto uccidere Rizzotto, aveva detto Fava, ma si era anche preso la sua donna, Leoluchina Solisi. Secondo Calderone sarebbe stato questo racconto, e soprattutto l'accenno ai rapporti di Liggio con Leoluchina Solisi, a spingere il boss a ordinare l'uccisione
> di Fava. Una tesi abbastanza debole, anche perché la vicenda ricordata da Fava era nota da tempo. Liggio, interrogato, negò tutto. Oltretutto, tra la messa in onda dell'intervista a Fava e il delitto erano passati soltanto sei giorni: troppo pochi, probabilmente, per organizzare un
delitto "importante" come quello del giornalista. A riportare il delitto nell'ambito catanese ci pensa Giuseppe Pellegriti, il boss di Adrano, ex alleato di Santapaola, che ha fatto rivelazioni, molto discusse, anche sui delitti Mattarella e Dalla Chiesa. Pellegriti racconta la sua verità sul delitto Fava al sostituto procuratore Giuseppe Gennaro che conduce l'inchiesta sulla mafia di Adrano. Sarebbe stato lui a progettare l'omicidio per fare un favore a Santapaola, che più volte gli aveva detto di considerare Fava e la sua rivista "una spina nel fianco". A compiere il delitto sarebbe stato il "superkiller" della mafia di provincia, Antonino Cortese, di 29 anni. La sera del cinque gennaio, oltre a Fava, Cortese avrebbe ucciso anche due pregiudicati di Adrano, Luigi Bulla e Giuseppe di Marzo, caduti in un agguato davanti alla porta di un bar del paese. Questo episodio si è svolto intorno alle 20, quindi un'ora e tre quarti prima dell'omicidio Fava. A sparare sono state tre o quattro persone, e tra le armi usate ci sono state almeno due calibro 7,65. Adrano dista da Catania una quarantina di chilometri ed è comodamente raggiungibile in tre quarti d'ora attraverso una superstrada. In via teorica quindi Cortese avrebbe avuto il tempo di partecipare a entrambe le azioni. Il killer, latitante dal nove gennaio '89, viene arrestato a Padova l'8 marzo, mentre è forse sul punto di lasciare l'Italia. Messo a confronto con Pellegriti dinanzi al sostituto Giordano, Cortese nega di essere coinvolto in fatti di mafia. Le indagini del magistrato alla ricerca di riscontri oggettivi alle accuse di Pellegriti non hanno fino ad oggi
avuto successo. Alcune parti del racconto di Pellegriti suscitano perplessità: innanzitutto il pentito avrebbe deciso insieme al padre Filippo, ucciso successivamente, di eliminare Fava. Sembra strano che un delitto di questa portata sia stato deciso ed eseguito da esponenti
di un clan di provincia, solo per "fare un favore" a Santapaola.
L'altro punto dubbio riguarda proprio la motivazione addotta: basta sfogliare la collezione dei primi dieci numeri de "I Siciliani", quelli precedenti la morte di Fava, per rendersi conto che di Santapaola si parla solo in due o tre occasioni, e sempre in relazione alle sue frequentazioni con alcuni esponenti della Catania che conta, in particolare con i soliti cavalieri del lavoro Rendo Costanzo e Graci; le stesse frequentazioni che quattro anni dopo il delitto Fava hanno indotto un questore a chiedere per i tre imprenditori la misura del soggiorno obbligato e il sequestro dei beni.

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