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INTERVISTA A WU MING
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Wumingtorino Wednesday, Apr. 30, 2003 at 2:06 PM |
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Intervista a Wu Ming : mitopoiesi e azione politica - Da Carmilla on Line
http://www.carmillaonline.com/archives/2003/04/000213.html#000213
"Le storie sono il carburante ecologico delle comunità in cammino. Ma possono anche diventare strumenti oppressivi e paralizzanti. Il patrimonio di storie condivise e di prospettive, l'immaginario, forniscono una base di coesione comunitaria, ma basta poco perché dalla coesione, dal senso del percorso che si sta compiendo, si passi alla costruzione di un'identità fissa, da mantenere e preservare dalle contaminazioni esterne". Un'intervista di Amador Fernandez-Savater a Wu Ming 4, che uscirà in spagnolo sul prossimo numero della rivista El viejo topo di Barcellona (n.179, giugno 2003). Ringraziamo Wu Ming per il permesso di pubblicazione.
Da Luther Blissett a Wu Ming, la vostra attività politica e letteraria è ruotata intorno alla nozione di mitopoiesi: la creazione collettiva di miti, racconti o storie strettamente vincolate a una comunità. In molti hanno scritto cose molto diverse sulla funzione sociale dei miti. Durkheim diceva che i miti hanno il compito di dare coesione alle collettività umane attraverso la creazione di un linguaggio comune per nominare le cose e i comportamenti. George Sorel diceva che piuttosto dirigono le energie, ispirano un'azione che supera lo stato di cose presente e generano entusiasmo per affrontare questo compito. Altri autori sostengono che i miti eliminano la paura e allo stesso tempo ridanno a una comunità la fiducia nelle proprie possibilità. In Esta revolución no tiene rostro (Acuarela Libros, 2003) voi dite che i miti ci aiutano ad attraversare la "notte nell'ignoto (il deserto, le fasi di incertezza nel conflitto sociale)". Cosa significa questo? In generale, che funzione esercitano per voi i miti in una comunità data?
Tutte le funzioni che hai citato sono fondamentali per la nascita e la sopravvivenza di una comunità. Quindi anche per una comunità in cammino e in lotta. Il problema è il mantenimento di un equilibrio tra quelle funzioni, perché prese in se stesse possono anche produrre processi fortemente "identitari". I miti, le storie, mantegono il senso di una comunità e a sua volta la comunità mantiene vivi i miti, rispecchiandosi in essi e producendone di nuovi. Nel momento in cui la comunità si irrigidisce, anche i miti cominciano a sclerotizzarsi e retroagiscono negativamente su di essa in un circolo vizioso pericolosissimo. Allora è il momento di cercarne altri. Le storie sono il carburante ecologico delle comunità in cammino. Ma possono anche diventare strumenti oppressivi e paralizzanti. Il patrimonio di storie condivise e di prospettive, l'immaginario, forniscono una base di coesione comunitaria, ma basta poco perché dalla coesione, dal senso del percorso che si sta compiendo, si passi alla costruzione di un'identità fissa, da mantenere e preservare dalle contaminazioni esterne. Basta pensare a un popolo nomade e assolutamente "meticcio" come quello ebraico. Esso ha potuto viaggiare, confrontarsi con altre culture, incrociarsi con esse e allo stesso tempo sopravvivere ai vari tentativi di cancellazione, grazie a un fortissimo bagaglio mitico e di storie. Il suo mito più forte, quello della Terra Promessa, portato in giro per il mondo, è stato un propulsore incredibile per tutto il tempo in cui la cultura ebraica ha contribuito allo sviluppo dell'Europa. L'Ebreo Errante con la sua Terra Promessa nello zaino è stata una delle figure più affascinanti e dirompenti della storia e ha prodotto personaggi come Mosé Maimonide, Baruch Spinoza, Isaac Newton, Karl Marx, Sigmund Freud, Albert Einstein, Hanna Arendt... Woody Allen! Nel momento in cui quel mito è stato tolto dallo zaino per essere concretizzato e legato a un'identità territoriale chiusa, ha finito con il produrre uno stato militarizzato, discriminante, bellicoso. Allo stesso modo i miti propulsivi, prometeici, di lotta, che hanno una funzione indispensabile per spingere le comunità a cambiare il mondo, possono diventare l'altare su cui sacrificare la diversità, la "devianza", la contaminazione, assumendo una forma teologica. E' il caso del mito della rivoluzione proletaria, che ha guidato due secoli di lotte, coinvolgendo comunità estesissime nel processo di superamento delle proprie condizioni di vita e ottenendo risultati impensabili. Ma ha poi prodotto regimi totalitari aberranti che si sono impossessati di quel mito utilizzandolo contro la comunità che l'aveva coniato. La funzione che i miti svolgono in una comunità non è mai svincolabile dal rapporto che la comunità instaura con essi. Ecco perché l'attività dei "cantastorie" diventa importantissima. Perché continuare a raccontare i miti, a modificarli, a scoprirne nuove accezioni, ad adattarli alla contingenza del presente, è l'antidoto alla loro sterilizzazione o alienazione. E quindi anche alla sterilizzazione e alienazione della comunità.
La vostra attività politica e letteraria si iscrive direttamente in una comunità, in lotta e costruzione permanente: il movimento globale o "movimento dei movimenti". Concretamente, quali miti circolano nel e per il moviento globale? Quali linee di forza mitopoietica riscontrate in questo "mare inquieto e ribollente" che è la moltitudine del movimento globale? A quale materiale simbolico danno forma? Quali di queste linee promuovete e quali no?
Possiamo provare a individuare alcune linee mitopoietiche tra le tante. Prima di tutto l'immagine del "levantamiento" contro i Grandi della Terra, un numero incalcolabile di persone che si leva in piedi e pretende di allargare l'ambito decisionale sulle questioni di interesse planetario. A questo momento ne segue un altro: l'assemblea costituente mondiale (il Forum Mondiale di Porto Alegre, quello europeo di Firenze), dove si individuano concretamente le linee guida dell'altro mondo possibile. Le immagini che vengono alla mente ricordano il Giuramento della Pallacorda, una sorta di secessione in cui le moltitudini si incontrano e promettono che non desisteranno finché non avranno ottenuto di essere prese in considerazione dai poteri costituiti. Un'altra narrazione fondamentale è quella della "rete", la rete globale della condivisione, della comunicazione orizzontale, della migrazione, che si contrappone a quella del commercio, del profitto, dello sfruttamento. Poi c'è la questione dell'America, a cui si vorrebbe contrapporre il mito di un'Europa più forte, in grado di sostenere la guerra fredda tra le due entità geo-politiche, inaugurata dall'attacco all'Irak. Questa è una linea pericolosa. Innanzi tutto perché un movimento nato a Seattle non può essere "anti-americano", e solo se negli Stati Uniti si recupererà quella rottura del fronte interno sarà possibile mettere in crisi il modello della guerra permanente. Quindi sarà molto più importante e interessante andare a riscoprire tutti i miti dell' "altra America", della storia libertaria di quel paese, dalla Rivoluzione anticoloniale al "diritto alla felicità", da Toro Seduto all'IWW, da Martin Luther King a Malcolm X, dal Battaglione Lincoln ai Beatnik. In secondo luogo perché di una Nazione Europa non sapremmo cosa farcene. La storia a cui il movimento allude è un'altra, parla di "pianeta", quindi l'Europa è interessante nella misura in cui è un'entità tratteggiata e in via di formazione, in cui i giochi sono ancora aperti. L'Europa è un terreno privilegiato d'azione, ma solo come laboratorio di un'apertura verso l'esterno, di una connessione con le popolazioni che attraversano il mondo e che lo abitano. Questa, e non quella della "Vecchia Europa" (che è in gran parte storia di colonialismo economico e culturale), è la storia che può interessare al movimento.
I miti sono sempre stati vincolati alla figura dell' "eroe" e al racconto delle sue "azioni esemplari". Così concepiti, i miti non corrono il rischio di generare una percezione servile rispetto ad alcuni esseri straordinari e di associare eroismo e martirio (autoabolizione in nome di una causa)? Credo che voi non tralasciate la nozione di "eroismo", come una lotta quotidiana per una vita libera e degna contro i regimi di sottomissione e umiliazione, ma la ridefinite radicalmente. Come è possibile rappresentare un eroismo collettivo e anonimo, per il quale ciò che è veramente straordinario sia precisamente ciò che è più comune e che allo stesso tempo non elimini le singolarità né l'ambivalenza (come poteva fare Sorel con la sua omogenea nozione di "proletariato indistruttibile" nel mito dello "sciopero generale")?
Esistono una visione e un utilizzo "di destra" del mito. Jünger sosteneva l'efficacia propulsiva del mito subordinandola alla figura di un eroe mitico, un "nuovo Teodorico" o un "nuovo Augusto", ossia un grande personaggio in grado di raccogliere su di sé i destini storici e portarli a compimento, sfidando il proprio tempo. Hitler era un abilissimo utilizzatore di miti in questa accezione. Questa è una lettura reazionaria e superomistica del mito, che rimpiange e vuole far tornare in auge i presunti fasti del passato, l'età dell'oro dei re e degli eroi, prima della "caduta" degli uomini nei pantani dell'epoca presente. Ma esiste anche una lettura reazionaria del mito partorita dalla tradizione della sinistra storica, che secondo Horkheimer e Adorno va fatta risalire allo sviluppo dialettico dell'Illuminismo. Se per Jünger la rivalsa del mito sulla corruzione del presente passa attraverso la volontà, nel caso della tradizione illuministico-socialista essa nasce dal principio opposto, dalla fede assoluta nella razionalità e nella capacità dell'uomo di plasmare il mondo secondo un progetto. E' una visione che si basa sull'idea di una "necessità" intrinseca alla storia, necessità inevitabilmente ipostatizzata dalla razionalità umana. Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale. Questa frase di Hegel definisce la tragedia verso cui sono corse le concretizzazioni illuministiche nel corso degli ultimi due secoli, dal Terrore rivoluzionario francese fino allo stalinismo e al maoismo. Non è un caso che anche qui ci si imbatta in grandi condottieri, timonieri della rivoluzione che finiscono con l'alienarsi dalle classi delle quali sono espressioni e retroagire su di esse, diventando icone chiuse, non più collettive, simboli onnivori che si allargano a dismisura fino a racchiudere in se stessi tutto il reale. La domanda quindi è questa: come è possibile impedire che i miti si cristallizzino, si alienino dalla comunità che li vuole usare per raccontare la propria lotta di trasformazione del mondo, ritorcendosi contro la comunità stessa? La nostra risposta (e non può che essere una risposta parziale, per non ricadere nell'errore assolutistico di cui sopra) è: raccontando storie. Non bisogna mai smettere di raccontare storie del passato, del presente o del futuro, che mantengano in movimento la comunità, che le restituiscano costantemente il senso della propria esistenza e della propria lotta. Storie che non siano mai le stesse, che rappresentino snodi di un cammino articolato attraverso lo spazio e il tempo, che diventino piste percorribili. Quello che ci serve è una mitologia aperta e nomadica, in cui l'eroe eponimo è l'infinita moltitudine di esseri viventi che ha lottato e che lotta per cambiare lo stato delle cose. Scegliere le storie giuste significa orientarsi secondo la bussola del presente. Non si tratta dunque di cercare una guida (sia essa un'icona, un'ideologia, un metodo), un Mosé che possa condurci attraverso il deserto, né una tribù di Levi all'avanguardia delle altre. Si tratta di imparare a leggere il deserto e tutte le forme di vita che lo abitano, scoprire che in realtà non è affatto "deserto" e che il punto d'approdo dell'esodo non è una fantomatica Terra Promessa, ma un reticolato di "vie dei canti" tracciabili nel deserto stesso, che finiscono col modificarlo e ripopolarlo continuamente.
Un filosofo che stimate, Paolo Virno, descrive la nostra epoca come quella del "cinismo, dell'opportunismo e della paura". In un senso apparentemente simile, Richard Sennet, descrive la corrosione del carattere nel contesto della "nuova economia (non solo nella rete)": la precarietà estrema del lavoro, la mobilità forzata o le incertezze della flessibilità rendono difficile la costruzione di una vita che si possa raccontare (ai più e a ciascuno). Abbiamo quindi, da un lato, una base soggettiva di indifferenza e nihilismo avversa a qualunque epica (che invece esige piuttosto una predisposizione alla fiducia attiva e non allo scetticismo paralizzante). E, dall'altro lato, un desiderio generalizzato di appartenenza e di comunità che non ha motivo di trovare il suo focolare in alcuna religione o "piccola patria". Non esiste creazione collettiva di miti se i racconti non si sintonizzano con le cavità più profonde della soggetività della gente, smuovendo la sua immaginazione e le sue passioni. Quale analisi fate delle soggetività che volete raggiungere? Qual è l'humus soggettivo in cui oggi si deve sviluppare inevitabilmente la mitopoiesi?
Esistono due soggetti storici, tanto frammentari e irriducibili a categorie rigide quanto dirompenti, che stanno attraversando il mondo vivendo sulla propria pelle le sue trasformazioni più radicali. Il primo è la nuova figura del lavoratore immateriale, che poi immateriale non è, ovvero il lavoratore dell'epoca post-fordista. Costui è protagonista attivo e passivo allo stesso tempo della dissoluzione del vecchio patto sociale e della precarizzazione della vita. Attivo, nella misura in cui promuove la propria instabilità, optando per una liberazione dal vincolo fordista che attribuiva al lavoro un'unità di tempo luogo e azione. Passivo, nel momento in cui subisce la messa al lavoro di ogni ambito e momento della vita e vede parassitata dal capitale la propria creatività, inventiva, intraprendenza, ideazione. La figura portatrice di questa contraddizione non può che pretendere la rottura del legame stretto tra reddito e lavoro erogato, lottando per un'estensione generalizzata dei diritti a prescindere tanto dallo status giuridico, quanto dalla contrattualizzazione del lavoro stesso. Questo nuovo cittadino del mondo - che si sposta, cambia professione, acquisisce e condivide conoscenze, mette in produzione le proprie capacità individuali in una rete connettiva globale - allude inevitabilmente a un redditto universale di cittadinanza, come soluzione anche per le vecchie forme del lavoro, sempre più private di diritti e deregolarizzate. Proprio questo lo mette in stretta relazione con il secondo soggetto storico, che è anch'esso una figura socialmente "instabile" e mutevole: il migrante. Non meno del lavoratore immateriale, il migrante è per antonomasia protagonista della globalizzazione, portatore e connettore di storie, saperi, culture, idee. Non meno del lavoratore immateriale è oggetto dello sfruttamento neoliberista globalizzato. Il suo lavoro e la sua vita portati in giro per il mondo diventano fattore dirompente del vecchio ordine giuridico basato sui concetti di nazionalità, status, appartenenza, così come dei contesti culturali da cui proviene. Entrambi questi soggetti incarnano il meticciato planetario e condividono la dimensione del viaggio, dello spostamento, dell'esodo, come condizione irreversibile. Entrambi questi soggetti mettono in crisi il proprio "punto di partenza", retroagiscono su di esso, dirigendosi altrove e dando vita ad altre comunità, altre interazioni, altre forme sociali. Entrambi questi soggetti sono schiacciati tra due spinte: una di tipo reazionario e identitario, ovvero quella del vecchio mondo che non vuole cedere terreno davanti al cambiamento; l'altra, quella neoliberista, che pretende di sfruttare e costringere la trasformazione dentro i parametri di un profitto capitalistico sempre più onnivoro e inclusivo. Le due tendenze possono anche andare insieme e rappresentano esattamente ciò contro cui stiamo lottando. La via d'uscita da questa strettoia è rappresentata dalla spinta "meticciante", che mette in relazione le due condizioni come parti della stessa trasformazione globale, dando vita a esperienze, lotte, comunità operose, in grado di alludere già a un altro mondo possibile: prerequisiti di qualcosa di meglio e di diverso. Si tratta di scommettere e raccontare questa via d'uscita contro le altre. Le storie e i miti che andremo a cercare avranno inevitabilmente quest'immaginario di riferimento.
A Madrid avete parlato del pericolo che il processo di mitopoesi si interrompa e si cristallizzi in forme e figure alienanti che bloccano l'immaginazione e la riflessione (da mito a "lingua di legno" o gergo per iniziati). Alla luce della vostra esperienza diretta, come è possibile evitare in concreto questo rischio, questa tentazione di costruire feticci?
C'è qualcosa di specifico che fa approdare alla lingua di legno: è la tentazione identitaria. E' ancora la paura della mescolanza e del confronto, che in fondo è paura della diversità di cui è composta la moltitudine. Il feticcio e la coazione a ripetere sono il rifugio più semplice davanti alla paura che il cambiamento incute, davanti al timore di vedere diluita la propria identità nell'oceano delle comunità in movimento. Questo rinculo identitario è perdente, porta con sé una carica sconfittista che impedisce di essere all'altezza della storia. Quindi porta a barricarsi dietro poche parole, magari concetti che si vorrebbero complessi, ma che nessuno capisce più. Abbiamo dato una definizione, ancorché approssimativa, di "moltitudine". Abbiamo detto che essa è la mappa delle vie dei canti sul planisfero del mondo globalizzato. Sicuramente le definizioni potrebbero essere tante. L'importante è che questo concetto, "moltitudine", non diventi una parola vuota, che non allude a niente, un nuovo tic linguistico che sostituisce quelli vecchi. Lo stesso potremmo dire di un concetto come quello di "Impero". Cos'è oggi l'Impero? Una tendenza? Una realtà in potenza? Un progetto? Continuare a raccontare storie significa anche continuare a esplorare linguaggi e parole senza accontentarsi di quelli già in uso. E se quelli che usiamo non ci suonano chiari o non ci convincono, è inutile conservarli. Cerchiamone altri. Se non saremo in grado di mantenere questa attitudine finiremo inevitabilmente con il parlarci addosso e suonare via via più incomprensibili. Non c'è proselitismo dei concetti o delle parole d'ordine che tenga, ogni incontro lungo le vie delle comunità in movimento non può che dar vita a una ridefinizione e a un arricchimento del linguaggio. Avere paura di questo significa condannarsi alla regressione.
Non vi convince la metafora di Matrix per illustrare la realtà attuale. Vi ricorda troppo, forse, la nozione ipostatizzata e paranoica di "spettacolo" coniata dai situazionisti. Potreste rispiegare il vostro punto di vista sulla cultura di massa, quello che pensate della relazione tra "cultura pop" e "cultura mediatica"?
E' profondamente sbagliato pensare che la cultura "pop" coincida con quella mediatica. La cultura popolare e di massa è infinitamente più ricca e si nutre di un numero incalcolabile di spunti e di fonti. I situazionisti assegnavano alla capacità spettacolizzatrice del capitale un potere infinito. Questo era forse dovuto all'epoca in cui si trovavano a vivere, quella del boom economico post-bellico che vedeva la diffusione della televisione, dei giornali, delle riviste, dell'industria musicale e culturale, etc. I situazionisti si spaventarono e svilupparono un'attitudine paranoide rispetto all'industria dell'immagine, riducendo tutto a una sola categoria: lo Spettacolo. Il capitale spettacolarizzato era onnipotente, poteva recuperare qualunque espressione umana, soprattutto quelle ribelli, neutralizzandole. Dire che lo Spettacolo recupera tutto è come non dire niente. La definizione che Guy Debord dà di spettacolo non significa nulla: "Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediato da immagini". I rapporti sociali tra gli esseri umani sono mediati da immagini fin da quando il primo Homo Sapiens dipingeva scene di caccia sulle pareti di una grotta perché qualcun altro potesse "leggere" e raccontare quelle storie. E questo non ha mai impedito che nel corso dei millenni gli uomini vivessero intensamente la propria vita, amassero, odiassero, si riproducessero, si ribellassero, partorissero idee, concezioni del mondo, filosofie. Il pensiero paranoico situazionista porta dritti all'inazione, o tutt'al più a un'azione per sé, che teme di essere comunicata, di farsi comunicazione, perché "apparire" è già tradire la propria genuina intenzione. Il pensiero situazionista quindi è del tutto inutile e potrebbe forse essere definito come l'ultimo esasperato punto d'approdo del pensiero dialettico hegeliano, "negativo", interpretabile in chiave psicoanalitica in termini di nevrosi estrema. Esiste anche un altro filone di pensiero che sovrappone la cultura pop alla proliferazione mediatica. E' il cosiddetto pensiero post-moderno, che nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso scambiò erroneamente la crisi delle ideologie otto-novecentesche con la fine delle grandi narrazioni. Oggi le narrazioni sono tornate a essere protagoniste della storia, si tratti di quelle "imperiali" neoliberiste o di quelle moltitudinarie che raccontano un altro mondo possibile, e il pensiero di Lyotard viene spazzato via. La verità è che la cultura mediatica è soltanto una parte della cultura popolare, o meglio, essa ne rispecchia soltanto alcuni aspetti, ma non potrà mai ridurla a se stessa. Inoltre questo incredibile movimento dimostra di avere acquisito la capacità di rapportarsi ai mass media, di utilizzarli e non solo di farsi raccontare e fotografare da essi. A questo va aggiunto che il movimento ha creato i propri mass media, utilizzando le tecnologie telematiche come un tam-tam che attraversa il pianeta. Ma bisogna dire di più. Davanti a manifestazioni che fanno affluire in tutte le piazze del mondo decine di milioni di persone, non ci sono mass media che possano reggere il confronto. E' la moltitudine stessa il mass medium, forse il più grande e potente che la storia abbia mai conosciuto. Perché quei milioni di persone torneranno a casa e racconteranno quello che hanno visto e vissuto, lo scriveranno su messaggi e-mail, lo telefoneranno, lo canteranno in pezzi musicali, lo descriveranno su fanzine, riviste, libri. Oggi è proprio lo strapotere dei vecchi mezzi di comunicazione di massa a essere messo in crisi dall'appropriazione comunicativa da parte della massa stessa, che si fa medium a sua volta. Esiste già, sta circolando per il mondo, un'epica del movimento dei movimenti. E' un romanzo popolare scritto a centinaia di migliaia di mani che viaggia su tutti i canali comunicativi del pianeta e permea di sé la cultura pop. Quello che deve interessarci è la sperimentazione di forme e modi che rendano sempre più ampiamente recepibile il messaggio. Scegliere i modi migliori per essere efficaci, per sfruttare e allo stesso tempo potenziare la forza della comunità. E' l'aspetto più interessante e strategico del tempo che viviamo.
Per un certo periodo avete preso parte all'esperienza delle Tute Bianche, che praticavano la "guerriglia comunicativa" su vasta scala. Ora fate parte di uno spazio politico definito? Come influisce questo sulla vostra pratica narrativa?
La tuta bianca è stata una meravigliosa icona aperta, che chiunque poteva indossare per praticare una particolare forma della rappresentazione del conflitto politico. Era come il passamontagna degli zapatisti. Le azioni delle tute bianche giocavano tutto sul piano comunicativo, simbolico e ovviamente mediatico. Oltre ai blitz nello stile di Greenpeace, esse mettevano in scena degli "assedi", la rappresentazione dello scontro con le forze dell'ordine che difendevano i "Grandi della Terra" riuniti a consiglio in qualche amena località del mondo. C'era un richiamo epico formidabile, era puro cinema. E infatti il messaggio passava, veniva veicolato dai media medesimi, affascinati dalla pratica della disobbedienza civile protetta, che escludeva l'uso di oggetti contundenti e prestabiliva un teatro di impatto fisico con la polizia. Era come una sfida all'OK Corral senza pistole. E infatti sono state necessarie le pistole - a Genova - per inficiare quel piano della rappresentazione simbolica assolutamente vincente. Le tute bianche sono state la forma mediaticamente più efficace che ha segnato la fase iniziale di questo movimento. In Italia le tute bianche si sono sciolte a Genova, nel luglio del 2001. Si sono "sciolte nella moltitudine". La moltitudine tante volte evocata, chiamata, appellata, proprio a Genova, all'indomani dell'uccisione di Carlo Giuliani, si è materializzata a salvare le (ex-) tute bianche dalla mattanza che i carabinieri avevano in serbo per loro. Quell'apparizione, quell'epifania, dimostrò che la scelta di togliersi la tuta bianca era stata giusta. Quel ruolo di propulsione simbolica del movimento era finito, avevamo ottenuto il nostro scopo, la moltitudine era finalmente arrivata. E da allora ha continuato a crescere di numero esponenzialmente, senza più fermarsi. Di fronte a questo nuovo scenario l'impresa più avvincente è capire quali forme e modalità simboliche e comunicative servono per relazionarsi alle mille provenienze del movimento. Una bella sfida per l'immaginazione. Questo è quello che interessa anche noi, tanto da un punto di vista narrativo, quanto da quello politico.
Migliaia di persone hanno dato inizio a questo movimento (diciamo) a Seattle. Adesso, il movimento contro la guerra, che ha lo stesso DNA, unisce milioni di persone in tutto il mondo. Sorgono problemi sull'organizzazione di questo movimento, che danno parecchio di cui parlare al calore dei Fori Sociali (Porto Alegre o Firenze): avanguardie, vecchi apparati, ecc. Vedete con preoccupazione questa tensione tra la capacità di autorganizzazione delle moltitudini e la volontà egemonica delle componenti socialdemocratiche (e altre) del movimento che continuano a pensare al conflitto in termini di mediazione e rappresentanza politica?
Tutte le strutture politiche preesistenti al movimento scontano un gap di inadeguatezza di fronte alla generale discontinuità con il passato che esso rappresenta. Questo vale tanto per gli apparati "socialdemocratici", quanto per la sinistra radicale. Un cambio di paradigma politico, quasi antropologico, non si dà dalla sera alla mattina e la velocità degli attuali tempi storici mette tutte queste strutture a rischio di obsolescenza. Di conseguenza il conflitto, o la contraddizione, sono impliciti e non necessariamente negativi. Sappiamo che i movimenti non durano all'infinito e che ad essi seguono fasi di sedimentazione. Con questa consapevolezza dobbiamo scommettere sul movimento fino all'ultimo minuto. Questo movimento può ribaltare, permeare, trasformare le vecchie forme della politica, e di conseguenza i vecchi apparati, ma il rischio che rientri nei ranghi del passato è sempre in agguato. Se riuscirà a imporre un nuovo modo di pensare la politica allora si potrà aprire una prospettiva storica che ancora non riusciamo nemmeno a immaginare. Questo si può ottenere solo attraverso un confronto diretto con le strutture organizzative preesistenti, non da una posizione di subalternità né da un'angolo marginale, bensì giocando la partita al suo livello più alto. Il movimento sta forzando la sinistra storica al cambiamento, e questo significherà anche scontro, perché le parti più conservatrici di quegli apparati non accetteranno di diminuire il proprio ruolo in favore di una concezione aperta e orizzontale della politica e della rappresentanza. E del resto, una sinistra socialdemocratica fino a ieri ipnotizzata dal mantra neoliberista non può limitarsi né ad un'autocritica né a una marcia indietro. Essa va rifondata da capo. Sarà essa stessa che dovrà cambiare, non potrà essere il movimento a fare da sponda alla sua cattiva coscienza. Ma questo non significa non approfittare di questa cattiva coscienza per insinuare il germe del cambiamento. Un esempio tra i tanti possibili: se la sinistra storica dice di voler riformare l'ONU, perché il Forum Sociale Mondiale non potrebbe rilanciare e chiedere di essere ammesso nella nuova ONU con un ruolo consultivo?
Si è discusso e si discute molto all'interno del movimento sulla difficoltà di superare la dimensione simbolica del conflitto e radicare le lotte nei territori esistenziali, concreti e materiali. Bifo, per esempio ha posto sempre molta enfasi sulla difficoltà e la necessità che il movimento strappi "vittorie concrete" allo stato di cose presente. Cosa pensate in proposito? In particolare, come si può attualizzare la consegna "conflitto e consenso" delle Tute Bianche contro la guerra globale permanente?
Senza vittorie materiali non si va avanti. Questo movimento ne ha già ottenute e deve spingersi ancora oltre. Qualcuno dice che nonostante la mobilitazione incredibile contro la guerra, Bush e Blair hanno comunque invaso l'Irak. Ma senza le mobilitazioni degli ultimi tre anni e l'80% della popolazione europea che si esprime contro la guerra, avremmo avuto le prese di posizione della Francia, della Germania, dell'ONU? Il risultato è che Bush e Blair la guerra la fanno da soli, senza più il paravento dell'umanitarismo e della democratizzazione che ha coperto le guerre dell'Occidente nel corso degli anni Novanta del secolo scorso. Questo non è la pace, certo, ma è comunque un grosso cambiamento del quadro politico internazionale, nel quale il movimento può inserirsi e continuare a esercitare un'enorme pressione. E pensiamo che senza gli appuntamenti mondiali del movimento a Porto Alegre, Lula avrebbe vinto le elezioni in Brasile e potrebbe oggi spostare gli equilibri economici del subcontinente latinoamericano verso il MERCOSUR invece che verso il NAFTA? Basta guardarsi intorno per rendersi conto che questo movimento sta già cambiando l'ordine del mondo. Bisogna però essere in grado di riconoscerlo. Il 15 febbraio 2003 oltre cento milioni di persone hanno manifestato in contemporanea in oltre 600 piazze del mondo contro la guerra globale permanente. Davanti a un evento storico di questa portata qualcuno sente ancora il bisogno di discutere di "conflitto e consenso"? Il problema, caso mai, sarà ipotizzare, proporre, inventare, delle forme d'azione efficaci che possano essere adottate da questa marea sconfinata di persone. Azioni condivisibili, generalizzabili, praticabili dalla moltitudine, che vadano anche oltre la semplice manifestazione di piazza: dai boicottaggi al trainstopping, dagli scioperi generalizzati ai pellegrinaggi e chi più ne ha più ne metta. Altrimenti perché diavolo continuiamo a parlare di moltitudine?
Dicevate a Madrid che si sono prodotti due fenomeni inediti e promettenti nel "movimento dei movimenti" in Italia: l'irruzione sulla scena del movimento studentesco (dotato, dicevate, di un senso comune intuitivo) e la "crisi" (non so come chiamarla) della CGIL. Potreste descriverli e analizzare il loro significato politico per la lotta in Italia e in Europa?
In Italia non si può parlare di un vero e proprio movimento studentesco, simile a quello degli anni Sessanta e Settanta. Possiamo dire invece che la spinta del movimento dei movimenti è giunta a coinvolgere anche la generazione più giovane e l'ha portata nelle piazze. Questo dato "anagrafico" è molto importante, perché quelli che oggi hanno diciotto o vent'anni sono politicamente figli di questo movimento, non hanno esperienze pregresse alle spalle e possono guardare alla politica con occhi radicalmente nuovi, anche meglio di coloro che hanno contribuito ad avviarlo. Tante delle battaglie che abbiamo condotto nell'arco dell'ultimo decennio e che hanno trovato piena espressione nel movimento neo-globale sono assunte intuitivamente dai più giovani. Questo fa ben sperare per l'immediato futuro e ci fa capire che abbiamo camminato nella direzione giusta. Occorrerà tenere le orecchie bene aperte e ascoltare questa generazione di ventenni se non vogliamo a nostra volta diventare un tappo per loro. Tra l'altro, proprio questo ascolto è uno degli antidoti migliori alla patologia della lingua di legno di cui dicevamo. L'altro smottamento interessante che il movimento ha prodotto in Italia riguarda i grandi apparati della sinistra storica. Se da un lato i partiti politici arrancano dietro il movimento, in certi casi inseguendolo, in altri guardandolo con terrore, la più grande confederazione sindacale italiana, la CGIL, ha aperto una fase di riflessione e trasformazione al proprio interno, sposando in pieno la lotta del movimento stesso. Il governo di centro-destra, che non gode di alcuna legittimazione sociale, sta attuando un piano di aggiramento ed esclusione del sindacato dalle scelte giuridico-economiche. Una struttura pachidermica come la CGIL (5 milioni di iscritti), che per tutti gli anni Novanta ha condotto politiche consociative con i governi di centro-sinistra, avallandone le scelte liberiste, si è ritrovata completamente spiazzata dalla scelta destabilizzante della destra. Sostanzialmente il sindacato vede messa in discussione la propria stessa esistenza, nel momento in cui il piano della trattativa non viene più preso in considerazione dalla controparte. Se dall'altro lato aggiungiamo che i partiti di centro-sinistra non riescono più a rappresentare un argine politico alla rottura del patto sociale prodotta dall'attuale governo, il risultato è che l'unica scelta possibile per la CGIL è stata quella di scendere direttamente in politica a tutto campo. E l'unico modo per farlo era legandosi a filo doppio con il movimento reale già esistente. Questo ha portato la CGIL all'adozione di scelte politiche e di lotta impensabili fino a qualche anno fa. Ed è innegabile che negli ultimi grandi appuntamenti del movimento italiano il sindacato ha svolto un ruolo importante, soprattutto sul piano della mobilitazione. Ma più profondamente, a fronte di questo "istinto di sopravvivenza", è vero che una parte del mondo sindacale italiano ha capito che la trasformazione post-fordista porta con sé la necessità di un cambiamento radicale di prospettiva, ovvero che l'intera cultura sindacale formatasi in un'epoca ormai tramontata deve essere rinnovata e adeguata alle sfide del presente. Senza questo cambiamento il sindacato perderà la sua funzione storica e morirà. E' fondamentale riuscire a sfruttare questa crisi, per portare la parte più intelligente del mondo sindacale a discutere di certi argomenti e a guardare la questione del lavoro e dei diritti da un'angolazione diversa. E' l'occasione per trascinare fuori dalla marginalità un dibattito, quello sul post-fordismo, che in tutti questi anni è rimasto appannaggio di cerchie ristrette, dandogli finalmente la legittimità che deve avere e cominciando a ragionare sulla possibilità di risposte pratiche sostenute collettivamente. Anche in questo caso è necessario rapportarsi a questa "antica" struttura della sinistra in via di svecchiamento senza alcun timore reverenziale, ma a testa alta, da pari a pari, e senza nascondere il proprio percorso politico, anche quando è molto diverso. Non si tratta di andare incontro al sindacato, ma al contrario, di far prendere atto al sindacato stesso delle nuove problematiche a cui è chiamato a dare una risposta adeguata. Più in generale credo che questa attitudine vada adottata anche su una scala più ampia, quella europea. Lo spazio politico europeo, che è stato inaugurato nelle piazze il 15 febbraio 2003, è il campo d'azione su cui è possibile iscrivere una lotta per i diritti di cittadinanza che coinvolga quante più forze sociali possibili. L'Europa, un'Europa aperta, denazionalizzata e deterritorializzata, è il tavolo verde su cui scommettere. Se non altro perché è un tavolo su cui la partita è ancora aperta. Si tratta di lottare perché lo rimanga. Nel 2000 le tute bianche italiane cercarono di raggiungere il vertice europeo di Nizza che doveva varare la Carta dei diritti europea. Furono bloccate a Ventimiglia e non poterono valicare la frontiera, furono caricate dalla polizia e rispedite indietro. In quell'occasione non sarebbero andate a Nizza per contestare il vertice, bensì per portare un corposo suggerimento: l'introduzione di tre articoli nella Carta. Il primo recitava più o meno così: "Sono cittadini europei tutti coloro che, da qualunque parte del mondo provengano, hanno scelto di vivere e dimorare sul territorio europeo". Il secondo diceva: "Tutti i cittadini europei, indipendentemente dal lavoro che svolgono, hanno diritto a un redditto che consenta di condurre un'esistenza libera e dignitosa". Il terzo: "L'Europa ripudia e contrasta la guerra, senza condizioni, in ogni parte del mondo". Questo è un buon punto da cui ripartire nel rinnovato scenario politico continentale.
A vostro parere gli schemi concettuali che cercavano di descrivere la situazione attuale in termini di "impero" (Negri e Hardt) già non riescono più a cogliere le trasformazioni in corso e dal punto di vista del rigore critico sono pertanto fonti di miraggi e illusioni. Senza dubbio, credo, il linciaggio dell'Irak non è una'aggressione imperialista come quelle dei secoli passati: la guerra si iscrive nelle dinamiche del capitalismo globale che i movimenti hanno analizzato da Seattle in poi (autonomia dei poteri finanziari dalla sovranità degli stati-nazione, inclusi gli Stati Uniti, ruolo delle multinazionali, ecc.). Come descrivete la situazione attuale? Quali "sistemi di immagini" possono aiutarci a pensare in maniera diversa, a "immaginare giusto"?
Forse ancora non riusciamo a intravedere quale immaginario e quali immagini potrebbero essere più utili per rappresentare il nuovo scenario mondiale. L'unica cosa certa è che quelle che abbiamo scelto finora sembrano insufficienti. La tendenza "imperiale" all'omologazione e integrazione del sistema politico-economico mondiale in una sorta di macro-istituzione di fatto, l'Impero appunto, che sembrava lo scenario più verosimile nel corso degli anni Novanta, oggi si è bruscamente interrotta. La "banda dei texani" che si è impadronita del vertice della più grande potenza militare sta usando quella stessa potenza per imporre la sua legge al resto del pianeta. Questa gang rappresenta un interesse ben preciso: quello bellico-petrolifero. Bush è il paladino della morente civiltà degli idrocarburi e la sua politica ne rappresenta l'isterico colpo di coda in vista della dissoluzione. Più in generale forse potremmo dire che l'attuale asse anglo-americana rappresenta il tentativo di ritardare la fine della supremazia anglosassone sul mondo. Questo putsch dentro l'Impero ha invertito la tendenza omologante e ha fatto tornare alla ribalta un'entità politica che ormai davamo tutti per morta e sepolta: lo stato nazionale. Che altro sono la Francia e la Germania se non nazioni forti, con forti economie nazionali e finanziarie che si candidano a essere l'asse portante di un intero continente? Per non parlare della Russia, nazione transcontinentale che sembra giocare il ruolo del terzo attore. E che dire della Cina? La costituzione imperiale sembra essere soggetta a molte forze centrifughe. A questo dobbiamo aggiungere che la banda dei texani sta dando vita a veri e propri protettorati militari e politici in Medio Oriente e in Asia centrale, lungo la via del petrolio, con la pretesa di salvaguardare l'american way of life, ovvero l'economia nazionale statunitense e il suo predominio sulle altre. E sembrano dire: "Tutti gli altri vadano a farsi fottere". Di fronte a tutto questo possiamo ancora pensare che il futuro ci riserverà uno spazio politico-economico omologato e unificante, un "Impero"? I dubbi sorgono spontanei. Certo non possiamo ritornare ai vecchi schemi, al concetto di "imperialismo" e via dicendo. La verità è che una risposta ancora non l'abbiamo. Però c'è un'immagine che questo momento storico mi fa venire in mente. E' la "marcia del sale". Ma potrebbe anche essere la "Marcia della dignità indigena". Proviamo a ipotizzare una marcia europea, che abbia molti punti di partenza. Da ogni punto parte una carovana, un percorso attraverso il continente, che tocca luoghi politicamente e storicamente simbolici. Ogni percorso è una mappa cantata, che canta la storia meticcia d'Europa, un'Europa che dall'Andalusia al Caucaso non ha mai avuto confini fissi, e che li ha visti mutare costantemente nel corso dei secoli e dei millenni. Le origini della nostra civiltà sono in Mesopotamia. Cipro, le cui coste sono a poche centinaia di chilometri dal Libano, è appena entrata nell'Unione. E Grozny, la città fantasma rasa al suolo dalle bombe, si trova sul limite orientale del continente. Quei percorsi e quelle canzoni canterebbero la storia delle rivolte e delle lotte, antiche e recenti; la storia dei popoli che non hanno mai smesso di attraversare questa terra, provenienti dall'Africa (l'altra sponda del "Lago" Mediterraneo) e dall'Asia (di cui l'Europa non è che una propaggine); la storia di un luogo deterritorializzato che mantiene aperto e mobile il proprio confine; di una terra dei diritti generalizzati e della coabitazione possibile. La marcia stessa allude e mette in pratica tutto questo, dispiegando la potenza delle comunità. Immaginiamo che queste carovane si incontrino in un punto casuale al centro di questa terra: la piana di Frankenhausen, o Norimberga, o Praga, o Sarajevo… Questa immagine, di popolazioni in cammino che lungo il percorso raccolgono storie, memorie, simboli, e si fanno portatrici di un'idea diversa d'Europa, che è un'idea diversa del mondo, è l'immagine di una riappropriazione dal basso di ogni ambito decisionale e politico, ciò per cui stiamo lottando da anni, forse da sempre. La convergenza verso un luogo preciso, verso un "atto" collettivo, sancisce il protagonismo e l'imprescindibilità delle comunità umane che in questi anni hanno scritto la storia del movimento. E' un atto che allude all'attraversamento del deserto e al suo ripopolamento lungo le vie dei canti dell'umanità, senza il miraggio di una terra sacra a cui l'umanità stessa debba essere immolata. E' bello pensare che possa essere questa l'immagine e la potenza mitopoietica da evocare nel tempo che ci attende.
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levati i baffi ti abbiamo scoperto
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lippolis Wednesday, Apr. 30, 2003 at 4:28 PM |
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"Wer hat Luther Blissett gesehen?": Farce in vier Aufzügen
Warnung: Jeder Verweis auf Ereignisse, die sich wirklich zugetragen haben, oder auf existierende Personen ist keineswegs zufällig. Diese Rekonstruktion beansprucht nicht die absolute Echtheit der Namen, Vornamen und Begebenheiten, vielmehr jene der Personen, Milieus und Zusammenhänge, sowie der sich daraus ergebenden Handlungen.
(...)
Rückkehr in die Zukunft oder Wie dafür gesorgt werden kann, dass eine Geschichtslektion für unser Leben einen Nutzen hat
Unter der Bezeichnung Holzwege. Krise der Darstellung und Bildersturm in der Kunst von den Fünfziger Jahren zum Ende des Jahrhunderts (Sentieri Interrotti. Crisi della rappresentazione e iconoclastia nelle arti dagli anni Cinquanta alla fine del secolo) hat das Museum für zeitgenössische Kunst in Bassano di Grappa von Mai bis September 2000 eine Ausstellung organisiert. Die Etappen der Ausstellung (hier nach Vorlage des von DeriveApprodi im November 1999 gedruckten Vorkataloges analysiert) durchqueren die Geschichte der künstlerischen Avantgarden nach dem Zweiten Weltkrieg und nehmen, ganz beiläufig, einen identischen Verlauf wie die Gegengeschichte von Stewart Home: In beiden Fällen wird der Anfang mit dem Lettrismus von Isidore Isou gemacht, man kommt zur Truppe M.I.B.I.(Internationale Bewegung für ein bildnerisches Bauhaus)/Nukleare Bewegung/Pataphysik um zuletzt bei Fluxus, Mail Art und Neoismus anzukommen. Den einzigen wesentlichen Unterschied macht die Situationistische Internationale, die in allen Etappen der Schau reichlich zitiert, jedoch als eigenständige Sektion absichtlich ignoriert wird. Im Gegensatz zu den karrieristischen Erfordernissen von selfmade-men wie Home und den Luther Blisset, die gezwungen sind, die Geschichte zum eigenen Gebrauch und Frommen umzuschreiben, und die deshalb die Situationisten soweit wie nur möglich diskreditieren, verhelfen die von Kultur und Gesellschaft offerierten Beschäftigungsgarantien den Kuratoren der Ausstellung von Bassano zum Verständnis davon, wie man an offizieller Stelle (genau dasselbe geschieht an den Universitäten) die Situationisten besser vollständig verschweigt als schlecht über sie redet.
Die "Holzwege" der Ausstellung - ein vom "schwachen Denken" des heideggerschen Existentialismus entlehnter Begriff, der diesem kulturellen Mikrokosmos gut ansteht - sind solche, die von den künstlerischen Bewegungen eingeschlagen wurden, die sich in den letzten dreissig Jahren eine Protestrolle gegen die bestehende Ordnung angemaßt haben.
Doch die Sinn"krise", mit der die sich radikal dünkende Kunst vorgibt, ihre Rolle in der Welt zu reflektieren, dient nur dazu, die eigene Selbsterhaltung zu nähren. Im selben Augenblick, in dem sie damit Ernst machen würde, könnte die Kunst nicht umhin, den zum ersten Mal vor vierzig Jahren von den Situationisten betretenen Weg einzuschlagen, der sie aus jenem "Walddunkel" heraus führen würde, in dem sich die Ihren ständig verlieren. Um es einmal mit anderen Worten auszudrücken, die nicht die "üblichen" situationistischen sind, greifen wir auf diejenigen zurück, mit denen Alain Jouffroy bereits 1970 den Gedanken eines Kunststreiks kommentierte: "Machen wir uns nichts vor: Der Großteil der "Kunstkritiker" wird weiter machen, als wäre die Kunst nicht abgeschafft; der Großteil der "Künstler" wird weiterhin an den "künstlerischen" Charakter ihrer Produktion glauben; fast alle Galeriebesucher, Kunstliebhaber und, selbstverständlich, Käufer werden es ignorieren, dass sich die Abschaffung der Kunst tatsächlich in der realen Raumzeit einer vorrevolutionären Situation, vergleichbar mit der des Mai '68, ereignen kann (A. Jouffroy, What's To Be Done About Art?, 1970)"(1). Und eben deshalb, weil sie ihnen diesen beschwerlichen und unwegsamen Pfad wiesen, haben sich die Situationisten in der Tat verdientermaßen vor existentialistischen Ehrungen der postmodernen Kunst bewahrt und sich den Hass ihrer Repräsentanten zugezogen.
Neben einem Artikel von Enrico Baj und verschiedenen Beiträgen des italienischen Ideologen der "Protest"kunst Gianni-Emilio Simonetti bietet der Vorkatalog der Schau von Bassano eine historische Fahraufnahme der Avantgarden, die, ganz beiläufig, mit einem Beitrag von Baroni über die Kombination von Mail Art und Internet sowie mit einem Beitrag von Bui und Ciani über Luther Blissett und den Neoismus abgeschlossen wird. Als wolle man damit sagen, dass die von Isous Lettrismus eröffnete Strecke einer Wiederbelebung des Leichnams der Protestavantgarden von vielen anderen treulich zurückgelegt wurde - in diesem Jahrhundert zuletzt von den Neoisten und Luther Blissett. Einwandfrei.
In der Eigenschaft des selbst ernannten "Königs der Transmanischen"(zum Konzept s. Mind Invaders pp.65-71) (2) war Roberto Bui von Beginn an Teil der Bologneser Luther Blissetts. Heute ist, laut seiner eigenen Behauptung, Wu-Ming Yi, oder Ohne-Namen Einer, einer der fünf geheimnisvollen (freilich namenlosen) "Literaturdesigner"(3) , die zum finalen Sturm auf die bestehende Ordnung ansetzen, indem sie einen Roman pro Jahr veröffentlichen. Er und die anderen Bologneser Luther Blissett verdanken anerkanntermaßen sehr viel Baroni und Ciani, insbesondere deren Pilotprojekt eines multiplen Namens, jenem bereits erwähnten Trax (4), der sich als eine "internationale Verschwörung" (Mind Invaders pp.25-26) darstellte und gleichzeitig seine umstürzlerische Tätigkeit in den Verkauf von Kassetten, Erzählungen, T-shirts, Postkarten u. dgl. aufteilte. Es überrascht nicht, dass solche Voraussetzungen einen Luther Blissett hervorbrachten, der die Werbemittel aus der Mitte der achtziger Jahre verfeinert hat: Die Erzählungen wurden zu umfangreichen Romanen, die Kassetten zu compact discs (5) und an die Stelle von Postverbindungen der mail art sind die telematischen der "net art" getreten.
Es überrascht genauso wenig, dass sich Luther Blissett bei der Ausstellung in Bassano als ein sich selbst in die Kunstwelt injizierter Virus darstellt (s. Sentieri Interrotti, pp.129), und dass Piermario Ciano zur Einführung des Neoismus schreibt: "Der am meisten intelligente neoistische Exponent ist tENTATIVELY cONVENIENCE, Musiker, Performer, Schriftsteller und Meisterschwimmer, der auf seinem Schädel eine 3D Tätowierung trägt, eine detaillierte Abbildung des menschlichen Hirns (aus Sentieri Interrotti, p.150)." Zur Beschreibung der supremen Intelligenz von t.c. (alias Michael Tolsen, für jemand, der mit einer guten Verwendung der Kenntnis wirklicher Namen und Vornamen vorlieb nehmen will) gibt es, verfasst von dessen Freund Home, einen Bericht der Performance, die ihn zum obersten Exponenten des Neoismus erhoben hat: "tENTATIVELY cONVENIENCE machte national Schlagzeilen, als er mit seinem Pee Dog/Poop Dog Copyright Violation Ritual auftrat. tENTATIVELY, nackt und völlig geschminkt, wurde von mehr als zwanzig bewaffneten Polizisten verhaftet, als er gerade auf zwei, an der Decke eines Eisenbahntunnels aufgehängte, verwesende Hundekadaver einschlug. Er war von 35 Subgeistern umgeben, die zum pulsierenden Rhythmus eines Thunder Sheet tanzten (einer Blechplatte, die angeschlagen wurde, um das Donnergeräusch zu imitieren)...Das Resultat der Aktion war, dass tENTATIVELY eine Anzeige bekam (S. Home, Assalto alla Cultura, p.116)." Seitdem hat sich nichts geändert: Zehn Jahre danach erfand Coleman Healy das Luther Blissett Projekt zwischen einer Performance, bei der er sich selbst verstümmelte und einer anderen, bei der er die Körper von einigen HIV-Positiven anritzte. Und kurz darauf enthüllten die italiotischen Blissett zum ersten Mal ihre Existenz, indem sie auf den Strassen von Bologna Eingeweide von toten Tieren verstreuten...
Was gibt es zum finalen Angriff auf das Herz der bestehenden Ordnung zu sagen, der vom revolutionären Projekt der Bologneser Luther Blisset ausgeht, von Q also, dem Roman, mit dem sie sich für den Premio Strega (dem Nonplusultra der erhabenen italienischen Verlagskultur) beworben haben, und zu dessen Bekanntmachung sie genötigt waren, sich einer aufreibenden Tour mit vierzig Vorstellungen zu unterziehen...Neben einer leidenschaftlichen Story, die vorgibt in den Wendungen der Geschichte des Mittelalters und der Renaissance geheimen Verläufen der Revolte nachzuspüren, scheint Q ein politischer Schlüsseltext zu sein, der Mittel an die Hand gibt, die Herrschaftssysteme der gegenwärtigen Macht zu interpretieren. Leider muss man, um diese revolutionäre Auslegung kennenzulernen, erneut in die Buchhandlung gehen und weitere 27000 Lire zum Kauf von Nemici dello Stato (Staatsfeinde, DeriveApprodi, Roma 1999) hinblättern, dem unverzichtbaren politischen Lexikon, ohne das - laut dem Hinweis von A. Cortelessa im "L'indice dei libri del mese" (s. den Aufsatz Ipocalittici o integrati in der No.7 Juli/August 1999, p.8) - es nicht einmal dem gewitztesten Leser gelingen wird, diesen Grad der Lektüre zu erklimmen. Auf den Seiten 55ff. dieses Buches stoßen wir auf die im Roman enthaltene Blissett'sche Theorie, dass "die gegenreformerische inquisitorische Methode der Repression hier als Entsprechung des modernen "Notstandsstaates" bezeichnet wird (ibidem)", oder, laut einer nervtötenden Kreuzung zwischen den "dekonstruktivistischen" Theorien von Deleuze und den "decodifizierenden" des cyber, dass uns das gegenwärtige System mittels einer Strategie der Ausnahmezustände beherrscht, die zwar in der Form verschieden ist von derjenigen, die von der Inquisition benutzt wurde, dieser in der Substanz jedoch gleicht. Wenn also damals die Ausnahmezustände "molar" waren - groß und permanent wie die Hexerei - sind diese heute "molekular", also kleine, zyklisch aufgebauschte Ausnahmezustände wie die Pädophilie, der Satanismus etc.
Der kybernetische Wahn des ursprünglichen Blissetdenkens (s. insbesondere Mind Invaders) lässt sich mit den Worten erledigen, mit denen Debord 1966 den Brief eines ihrer Vorgänger beantwortet hat, der so interessante "Situationen" vorschlug wie "die biologisch denkbare Fabrikation von Frauen mit zweimal zwei Brüsten" und "die Erfindung von 1, 2, 3, n verschiedenen Geschlechtern neben den beiden konventionellen" die sich mathematisch kombinieren ließen, um "eine schnell riesig anwachsende Zahl von Liebessituationen" zu erzeugen (6) : "Wir brauchen nicht zu wissen, ob Dein Brief treu den durchschnittlichen Grad Deiner Tölpelei wiedergibt oder ob Du es ab und zu auf einen Scherz abgesehen hast. Ein falsches Problem, da alles, was Du je tun kannst, für uns diesen gemeinen und überschwenglichen Scherz mit einschließt - Deine bloße Existenz (Korrispondenz mit einem Kybernetiker in Internationale Situationniste No. 9, auf deutsch im Bd. 2, S. 137 der Gesammelten Ausgabe des Organs der SI, 1977 bei Edition Nautilus verlegt)." Auch der neue theoretische Apparat, den sich die Bologneser nach dem glücklichen Abschluss ihres Plans zulegen mussten (seitdem ihnen die Werbestrategie den kommerziellen Erfolg und intellektuellen Rang verschafft hat, nach dem sie gestrebt haben), verdient nach wie vor keine großen Analysen. Die gesamte radikale Theorie Blissett'scher Prägung (zum Grossteil in Nemici dello Stato enthalten) zerlegt sich nämlich in eine Rekuperierung eines multiplen schwachen Denkens: Der Operaismus des Toni Negri (7), der Postmodernismus der Deleuze und Guattari, die Theorien des späten Bordiga und die des frühen cybergestilten Decoder...Nicht nur ihr postmodernes Geschwafel über den Stil und über die Natur der Macht (mit all dem Theoriengepäck über Desubjektivierung, Dekodifizierung etc., das sich daraus ableitet) ist ein Herumfischen in einem längst abgestandenen ideologischen Gebräu. Doch selbst, wenn man es ernst nimmt, es verhält sich zum intellektuellen Snobismus (demselben, dessen LB stets die Situationisten bezichtigt hat) umgekehrt proportional wie die situationistische Kritik des Alltagslebens zu einem leichten und "zweckdienlichen" Verständnis der Gegenwart. Ständig den immerzu auf den neuesten Stand gebrachten Manifestationen der "Regierungsmethoden" nachzulaufen, bedeutet nämlich, die Substanz derselben Regierung zu ignorieren, eine Substanz, die - obschon die Luther Blissett dies nicht kapieren können - dieselbe geblieben ist, die bereits von den Situationisten denunziert wurde: "L'ordre regne et ne governe pas."
Leonardo Lippolis
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Debord chi?
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Erodoto d'Alicarnasso Wednesday, Apr. 30, 2003 at 7:50 PM |
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Debord chi? Quello che ci ha lasciato queste perle di chiarezza, che solo a leggerle mettono fervore rivoluzionario?
"L'impostura dell'appagamento deve denunciarsi da sé rimpiazzandosi"
"Coloro per cui è esistito il tempo irreversibile vi scoprono contemporaneamente il memorabile e la minaccia dell'oblio"
"Il pensiero dell'organizzazione sociale dell'apparenza è esso stesso offuscato dalla sottocomunicazione generalizzata che difende"
"L'avvento del soggetto della storia viene differito, ed è l'economia che tende sempre più largamente a garantire la necessità della propria negazione futura".
Right on, brother!
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x O.S.
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Angela Friday, May. 02, 2003 at 1:19 AM |
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Ciao O.S., tu parli di "stizza" e "ormai", mi potresti segnalare cosa hanno scritto prima i WM su Debord? Io sono iscritta a giap da tre anni e non l'ho mai visto nominato una sola volta, pensavo che proprio lo ignorassero o non fossero interessati (e infatti dall'intervista si vede che il disinteresse, piu' che la stizza), poi tu mi hai incuriosito, mi dai dei link o qualcosa?
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wu ming 1 su "Impero"
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fra Friday, May. 02, 2003 at 1:34 AM |
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dal blog di quintostato.it ---
...trovo che non ci siano "prolegomeni" (o meglio, rattoppi) che tengano, l'analisi geopolitologica di *Impero* era non solo sbagliata, era una vera allucinazione. Al meglio, un tentativo di mitopoiesi, di costruzione di un immaginario vincente, ma scalzato dagli eventi.
Questo che si dispiega sotto i nostri occhi è imperialismo, punto e basta. Poi possiamo dire che non è l'imperialismo "tradizionale", "classico", "novecentesco", spaccare il capello sugli attributi, ma nel momento in cui si mira esplicitamente a un protettorato su tutto il Medio Oriente (anche per congiungere i giacimenti petroliferi del Caspio/area Turanica con quelli del Golfo Persico e del Mediterraneo, e infatti il ruolo del petrolio va relativizzato ma non certo dimenticato né sminuito) cos'è questo se non imperialismo?
E non è nemmeno un "backlash imperialistico sull'Impero", dato che la strategia è stata messo nero su bianco nell'era pre-Clinton, nel famoso documento Wolfowitz del '92.
Certo, quello di oggi non è l'imperialismo di uno stato-nazione, ma solo perché gli States NON sono un semplice stato-nazione, sono un'anomalia, vorrebbero essere uno stato-civiltà, uno stato-ecclesia, uno stato-karma... Da questo punto di vista, il loro è un progetto coloniale (quindi "imperiale" in un senso molto più terra-terra di quel che intendevano Negri & Hardt), da nuovo "white man's burdern". Un progetto che molto probabilmente è destinato a fallire (per ignoranza ed eccesso di semplificazione), ma tant'è.
Quello che Negri ci propone somiglia al gioco dei tre bussolotti; citando Polibio ci dice che l'Impero ha una "costituzione mista", che poggia su una triade: l'elemento monarchico, l'elemento aristocratico e l'elemento democratico. In questo momento, ci dice Negri, c'e' un "contraccolpo" dell'elemento monarchico. Se le cose dovessero cambiare, ci dirà prontamente che c'e' stato un "riassestamento" per mano dell'elemento democratico, e via così. Ma così non si spiega niente, si rimane prigionieri delle allegorie e si fa di tutto per conservarle anche quando si rivelano inadeguate.
L'Impero (entità multipolare, "democratica", potenzialmente inclusiva e deterritorializzata) semplicemente non c'è, era un abbacinante trompe l'oeil, una ipostatizzazione degli elementi dell'era Clinton, fase transitoria descritta come fosse il paradigma definitivo del nuovo capitalismo globale.
E se il sorgere dell'Impero "sotto i nostri occhi" (per citare l'incipit del libro) era una difficile scommessa per il futuro (oggi Negri ci dice che "dobbiamo combattere per l'Impero contro gli imperialisti) beh, ci poteva anche stare, perché azzardare è importante, ma sono i rattoppi di oggi a non convincere, meglio sarebbe stato rimettersi in discussione.
Oltre al fatto che mi sembra un errore politico, non solo filosofico, rimproverare agli imperialisti di non essere conformi alla teoria, di non essere à la page con quanto si era anticipato. Come a dire: "Buzzurri, ve lo spiego io come dovete fare..."
Non mi soddisfa più il triplice postulato tipicamente negriano: "Tutto ciò che esiste è una conquista dei movimenti, tutto ciò che mi affascina è sovversivo, tutto ciò che attraverso è una potenzialità". Perché non c'è Spinoza che tenga, si torna sempre lì, al Divino Hegel, a dire che tutto cio' che è reale è razionale, che è andata così perché (dio can!) *doveva* andare così, quindi la realtà è rivoluzionaria a prescindere.
In fin dei conti, l'Impero è uno dei tanti "miraggi" hegeliani avvistati dal Prof e da altri intellettuali post-operaisti nel corso degli anni. Basti ricordarne uno: Forza Italia come l'autorappresentanza del postfordismo in politica, "il Partito del General Intellect". Sono passati nove anni e oggi mi sembra che Forza Italia incorpori molti elementi di arcaismo politico, vetero-peronismo, clientelismo di valvassini e valvassori che fa molto Prima Repubblica, subalternità alle solite lobbies mondiali dell'industria pesante bellica/petrolifera... Dov'è mai il "tempo nuovo"?
E' comprensibile che nelle fasi di scarso protagonismo dei grandi movimenti, si dovesse per forza fare l'apologia paradossale di qualchecosa. Ma oggi no, cazzo. Dirò di più: secondo me, da Seattle in avanti i primi a rimanere spiazzati siano stati proprio Negri & Co. Gli scritti d'occasione del Prof negli ultimi due anni sono molto poveri (quello su Genova, intitolato "Così comincia la caduta dell'Impero", rasentava l'inverecondo). L'editoriale di Hardt sull'ultimo Global è di una semplicioneria che fa quasi paura. Badate che Michael Hardt mi è molto simpatico, non c'è proprio niente di personale in quello che scrivo.
E qui arrivo al punto: non soddisfa nemmeno più il luogo comune "Il Prof è un brillante teorico ma un pessimo politico". Poiché, da materialista, sono convinto che la teoria sia generata dalla prassi e non viceversa, e che la prassi retroagisca *sempre* sulla teoria, ritengo sia ora di far retroagire gli errori che fa il Prof in politica sulle sue "brillanti" teorizzazioni. Perché se dopo avermi fatto l'elogio del potenziale sovversivo di questa cosa e di quell'altra finisce che ti riduci a far comunella coi disobbedienti e nobilitare a colpi di paroloni la povertà di quell'opzione politica, mi vengono seri dubbi anche su tutto il resto.
Prendetelo come un frammento, uno sfogo buttato giu' in due minuti, senza alcuna pretesa d'organicità (non sono mai stato un teorico, sono soltanto un cantastorie).
E' semplicemente una testimonianza della mia delusione nei confronti di diversi filoni del post-operaismo/pensiero critico post-fordista etc.
Inviato da Wu Ming 1 at Aprile 19, 2003 09:08 PM
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il sassolino del ricupero
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Paolo Ranieri Friday, May. 02, 2003 at 4:28 PM |
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Per chi vuol conoscere il corpus del, si fa per dire, pensiero blissettiano, c'é sempre Guy Debord é morto davvero, che non so come trovarlo, ma circola. Beninteso, dice più ampiamente, le stesse cose scritte qui, l'incubo hegeliano, la fissazione del ricupero, l'onnipotenza dello spettacolo (onnipotenza che in realtà i situazionisti mettevano praticamente in discussione) e altre cose di questa medesima consistenza, che paiono scritte da uno che l'IS l'ha letta dieci minuti prima di presentare un esame in cui prendere 18 e non essere esclusi dal presalario (ora lo chiamano diversamente, credo, ma gli studenti si riconoscono sempre). Per chi voglia capire le radici del rancore profondissimo che i situazionisti ispirano a WuMing n, credo risultino illumionanti queste righe di Cesarano e Collu (Apocalisse e rivoluzione, 1973) "...per chi abbia acceduto al ruolo - ritardatario - di intellettuale d'avanguardia e qui si voglia fermare, altro non resta che porsi in corsa disperata e biliosa con le onnipotenti centrali della produzione di immagini: farsi scritturare come attore o comparsa.", oppure (medesimo libro) "L'uomo del risentimento é il falloforo più spettacolare: sembra uscire da un film, anzi non ne é mai uscito. Ma la sopravvivenza può sembrare un film solo a chi sta dalla parte del proiettore"... Alla fine é la solita storia dello spettatore che, a furia di vedere film, si figge in capo di essere capace di fare il regista, lo scenggiatore, il protagonista. E il bello é che ci riesce pure, tanto degradati sono i tempi. E il nulla appare già una ventata di fresco al posto del pieno di stronzate che ci passa il governo... E Infine Wu Ming 1 raffrontato col povero Negri, ci fa pure la sua porca figura, anche se, per parlare male di quel libraccio fetuso, finisce per prendere sul serio il concetto di imperialismo, che sempre fu floscio e ingannevole...
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secondo me
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fra 2 Friday, May. 02, 2003 at 5:22 PM |
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A me sembra che i wu ming rispondano annoiati alle domande sui situazionisti proprio perche' c'e' ancora in giro gente che li definisce tali, e qui integro Paolo: c'e' gente che l'I.S. non l'ha letta nemmeno dieci minuti e usa la parola "situazionista" assolutamente a sproposito, applicandola soprattutto a cose che non c'entrano, compreso il percorso di Blissett / Wu Ming, che e' probabilmente la cosa piu' estranea all'I.S. e a Debord oggi in circolazione. Nei libri dei wu ming (buoni o cattivi che siano, a me alcuni sono piaciuti altri proprio ma proprio no) dell'I.S. non ve n'e' traccia, e' innegabile- E' come se a me, che sono traduttore tecnico dal tedesco, continuassero a farmi domande sull'influenza che ha avuto sul mio lavoro il sindaco di Iesolo, che parla quella lingua- Io risponderei: "Che cazzo me ne frega a me del sindaco di Iesolo?" E cosi' fanno i wu ming: "Che cazzo ce ne frega a noi dei situazionisti?", poi, se uno insiste, spiegano quali sono i motivi per cui dei situazionisti non gliene frega niente, e non gli interessa approfondirne lo studio. Certo, lo spiegano a grandi linee, proprio perche' se ne fottono- Quello che mi sfugge e' perche' poi si dica che "ce l'hanno" coi situazionisti e con Debord in particolare. Piu' che altro mi sembra proprio che se ne fottano, e che da piu' parti li si voglia tirare per la giacchetta a esprimere giudizi su un argomento che li annoia. Non ci si puo' interessare a tutto- Devo dire che anche secondo me i situazionisti sono un po' un soggetto da maniaci, persone che se li bevono e poi cominciano a scrivere (e parlare) in quel modo del tutto incomprensibile, ma ogni hobby e' legittimo-
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x paolo ranieri
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oliver Friday, May. 02, 2003 at 5:46 PM |
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Una domanda per Paolo Ranieri, che mi sembra di capire sia un situazionista: qual e' l'influenza di Debord su Toni Negri? In "Impero" lo cita e se non erro lo definisce "grande filosofo". Sono tutti e due hegeliani, no? Negri legge in positivo tutto quello che Debord legge in negativo, e i WuMing non sono d'accordo in toto con nessuno degli approcci. E' giusta questa considerazione secondo te?
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"profondissimo rancore"
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fra Friday, May. 02, 2003 at 6:15 PM |
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Piu' che del rancore di WM verso i situazionisti, sarebbe interessante parlare del rancore dei situazionisti verso WM. Questo era sul sito della rivista Invarianti. A parte la confusione tra skin e naziskin, che e' piu' da stampa scandalistica che da rivista di movimento, a parte che il tutto e' un po' molto incomprensibile (ma si puo' scrivere cosi', sant'iddio???), a parte che non ho mai sopportato le sfilze di nomi cacciate li' per far vedere che "si sa", belìn, questa non e' "stizza"? Bui sara' spocchioso e a volte dira' anche cazzate, ma qui lo si mette sullo stesso piano di chi ammazzava gli antifascisti. Adesso capisco perche' i WM rispondono in quel modo a una domanda sui situazionisti.
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E' comprensibile che l'ex naziskin transmaniaco pusher di Faurisson, in seguito "Luther Blissett", scrittore di fama e tuta bianca, adesso tuta grigia, eccetera, di nome Roberto Bui deplori la confusione "dei destini delle avanguardie artistiche con quelli dei movimenti sociali". Ma non siamo del tutto sicuri che Adorno, Horkheimer e Debord abbiano sbagliato a confondere l'assassinio di Durruti (o anche di Jaurès, di Matteotti e dei fratelli Rosselli), le pallottole nella nuca di Camillo Berneri e i carri armati sovietici a Budapest o a Praga (nonché tutto quello che ne è seguito, giù giù fino alla Polonia, alla Cambogia e all'Afghanistan post-11 settembre) con la carriera mediatico-parastatale di Roberto Bui, con i festival di poesia di Nanni Balestrini e con i "momenti di spettacolarizzazione" dell'Associazione Mediaterra, cioè con i surrogati del dadaismo di Stato che ha sostituito l'avanguardia da quando l'arte è morta. L'esistenza e persino la semplice possibilità di questi presuppone infatti il successo e la continuazione di quelli, sotto altri nomi, - terrorismo internazionale, per esempio, - se il vero nome spiace. In compenso, come potremmo non vedere anche noi l'inattualità delle teorie che denunciano "l'onnipotenza e la voracità", cioè, in realtà, la miseria e l'impotenza, di un sistema che è stato capace di sopravvivere solo attraverso lo sfruttamento economico-politico supplementare dei proletari da parte dei loro rappresentanti, reali o immaginari, e attraverso l'autovalorizzazione sociale di costoro come burocrati o almeno, una volta fallito quel prestigioso obiettivo, come manutengoli, servi, scribacchini, tecnici, funzionari e quadri dei loro apparati? Come notava ancora Marx a proposito del "crasso materialismo" (cioè del materialismo volgare) burocratico di cui il social worker Roberto Bui è un discreto specimen virtuale, per il "burocrate preso singolarmente, lo scopo dello Stato diventa il suo scopo privato, una caccia ai posti più alti, un far carriera. [...] egli considera la vita reale come materiale, poiché lo spirito di questa vita ha la sua esistenza separata nella burocrazia" (Critica della filosofia del diritto di Hegel). Quanto al concetto di spettacolo, è in effetti abbastanza fluido, unificando e spiegando un gran numero di fenomeni apparentemente disparati, da essere buono anche per la presente stagione del capitalismo: e dunque si può capire che Roberto Bui desideri sbarazzarsene. Negli anni Sessanta il cattolico progressista Jean-Marie Domenach, lo stalinocristiano Louis Althusser e gli operaisti Mario Tronti (PCI) e Toni Negri (Azione Cattolica, PSI, Classe Operaia, Potere Operaio... catalogo Benetton) volevano fare lo stesso con quello di alienazione, della quale lo spettacolo non è che la riproduzione allargata: la sua accumulazione illimitata e pianificata, contemporanea al precipitare delle contraddizioni reali rimosse del capitalismo. Con queste note abbiamo dimostrato ad hominem il contrario: che tali concetti e la loro "dialettica negativa" sono il cuore stesso della teoria del proletariato. Lo spettacolo, come l'alienazione, può portare a tutto; a patto di uscirne. Solo allora si potrà dire che siamo usciti, purtroppo tardi e male, dal Ventesimo secolo.
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per fra2 (avvocato dei Wuming?)
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enpassant Friday, May. 02, 2003 at 6:17 PM |
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ho letto l'elefantiaca intervista, ma mi sembra che questi abbiano parlato spontaneamente di Debord, con giudizi anche pesanti, che mi sembrano celare qualcosa di più che non sia solo noia. in ogni caso, il giudizio dei wu ming non mi influenza, tanto per precisare
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trnaquillo
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fra 2 Friday, May. 02, 2003 at 6:21 PM |
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Macche' avvocato dei wu ming, figurati, e comunque mica mi riferivo a quest, di intervista- Sara' capitato anche a te di leggere articoli su LB e sui wu ming dove li si definisce "situazionisti", cosi', un tanto al chilo. E' una domandina che ci scappa piu' o meno sempre. Del resto c'e' gente che chiama "situazionista" qualunque azione un poco carina, e adirtitura "Striscia la notizia"- E' interesse anche di chi i situazionisti li apprezza fare chiarezza, o mi sbaglio?
Franco
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e la libertà di pensiero?
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Anticlericale fino in fondo Friday, May. 02, 2003 at 6:30 PM |
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Ma si puo' pensarla come cazzo si vuole sui situazionisti senza che arrivano i nuovi pretini a romperti le tasche? Dice: dichiarazioni "pesanti". E che ci sta il reato di "lesa maesta'", gia' l'hanno fatto santo, Ghidebòr? Come Stepinaz, come Padrepìo. Solo che almeno Padrepìo li guariva, questo invece pare che li fa star peggio, mannaggia.
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Bravi
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Squalo Friday, May. 02, 2003 at 6:59 PM |
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nevrosi estrema non sarà mica una dichiarazione pesante Bravo Wu Ming, per Debord (è ancora vivo, spero) una scossetta di Cassano e un po' di litio per tutti gli altri che così se per caso siete un pochino filo-corradopenna, non avete effetti collaterali, tipo disturbi extrapiramidali o distonie varie ciao Squalo
ps: wu ming....cam to cam?
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una risposta a oliver
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paolo ranieri Friday, May. 02, 2003 at 8:05 PM |
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Non sono un situazionista, o meglio non lo ero quando l'IS esiteva, fino al 1971. Sul tema che proponi non so se ho tutta la competenza che ci vorrebbe. Provo a dire qualcosa, comunque. Il suggerimento di Blissett che l'hegelismo sia per certi versi il "peccato originale" di una certa fase di Debord e, meno, dell'IS, non é da buttar via. Secondo me però un'intuizione interessante come questa é stata affogata in un mare di banalità (ad esempio lo sconfittismo, che è concetto che si direbbe diessino), nemmeno tutte gratuite (la critica al concetto di ricupero, liquidato come paranoia, sembra un poco un mettere le mani avanti da parte di chi ambisce a mettersi in commercio, come in parte infatti é stato), e ormai ripetute cento volte. Di Negri é certo che hegeliano non vorrebbe essere, ma Bui sostiene che, hai voglia, ci sta impantanato fino al collo. Se é sicuramente vera la inveterata fissazione di Negri di vedere positivo tutto ciò che accade (e che gli deriva direttamente dall'ideologia operaista, o trontista da cui prende le mosse), secondo me la negatività assoluta di Debord é un po' un riflesso condizionato. Chi legga l'IS e non i suoi commentatori (tipo quel pover uomo di Marelli, per dire) o addirittura detrattori, secondo me non si trova dinanzi a una lettura rassegnata, ossidionale, paranoica. Anzi. Almeno questo non é mai stato in tanti anni l'effetto che i situazionisti hanno fatto a me. E ad altri: infatti il loro peso cresce continuamente, nei movimenti di tutto il mondo
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Trovato!
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Luther Blissé 2003 Friday, May. 02, 2003 at 8:12 PM |
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da "Guy Debord è morto davvero", di Luther Blissett, dicembre 1994:
Alla morte di Guy The Bore (1) la stampa progressista italiana ha reagito con necrologiche ovvietà e fraintendimenti che ormai nulla hanno di clamoroso. Lo stesso tritarifiuti lib-lab che aveva ingoiato e ruminato le opache filippiche di Karl Popper sulla TV, ha poi celebrato The Bore come un profeta della discesa in campo di Berlusconi. Da anni l'Ignoranzhia di sinistra confonde lo "spettacolo" con la protervia dei media di regime, coi ciclici avventi delle Letizie Moratti, con la telerissa degli Sgarbi e dei Ferrara... Non c'è da sorprendersi allora che, in nome di una metonimia (l'effetto per la causa e il contenuto per il contenente), si disinneschi una teoria critica che attaccava direttamente la forma-merce e un modo di produzione che ha trasformato CIASCUNO DI NOI in un protervo medium di regime. È pur vero che il disinnesco è stato facilitato dalla difettosità della bomba, comunque The Bore non merita di finire nel pantheon della Memoria Storica di Sinistra, assieme a Pajetta e Berlinguer, dove vorrebbero collocarlo - seppur come "eretico" - i necrofori intellettuali clerico-togliattiani. L'abuso dell'epiteto "situazionista" e dell'assurdo termine "situazionismo" (2) deriva dall'aver posto l'accento solo sulla analisi debordiana dello spettacolo, a scapito del "savoir vivre", della sovversione della vita quotidiana, della psicogeografia e dell'Urbanismo Unitario, insomma di tutte le forme d'azione immediate e concrete approntate dai situazionisti. Era inevitabile che "situazionista" diventasse un attributo vaghissimo; i cronisti culturali decisero poi di appiccicarlo a qualunque personaggio o corrente estetica le cui espressioni fossero abbastanza nichiliste da sembrare "estreme" e abbastanza spettacolari da permettere l'esercizio di un po' di massmediologia d'accatto. È stata così "situazionista" la programmazione di Italia 1 decisa da Carlo Freccero, è "situazionista" Striscia la notizia, era "situazionista" la TV-verità della Raitre di Guglielmi, è "situazionista" qualunque testo dallo stile schizo-epigrammatico, and so on. La maggior parte di codesti etichettatori selvaggi conosce - poco e male - solo La società dello spettacolo, e da quel Talmud della critica radicale (da quell'apparente ridda di definizioni cruciverbali) potrebbe fingere di inferire qualsiasi cosa. "Situazionista" è divenuto un passepartout che apre ora la porta del dadaismo rimasticato ora quella del facile millenarismo tecnologico. In un mondo nichilista, tutto ciò che è reale è "situazionista". Ma non è stato The Bore in persona a trasformare la propria reputazione in quella di una rancorosa Cassandra? Non è stato il suo atteggiamento a far sì che il suo più celebre saggio fosse considerato un Talmud? Non è forse vero che due anni fa, per spiegare il crollo del socialismo reale, non poté fare altro che rimandare a due striminzite tesine sulla burocrazia, vergate 1/4 di secolo prima e contenute nel saggio in questione? Negli ultimi dieci anni della sua vita, The Bore aveva indirizzato gran parte dei suoi sforzi ad un'infinita auto-storicizzazione; come i condannati del racconto "Nella colonia penale" di Kafka, egli si era infilato in una macchina che gli incideva sul corpo, assieme ai suoi scritti (Considerations sur l'assassinat de Gérard Lebovici, Panegyrique, Commentaires sur la societè su spectacle, Cette mauvaise reputation...), la Legge. La Legge, in quel caso, doveva essere la Giusta Ermeneutica, contro le calunnie, contro la passiva contemplazione dell'esperienza storica dell'I.S., contro la disinformazione pro-situ (3). Dietro quel continuo rimando ipertestuale da una riga all'altra del Testo-Corpo, pare esserci stata la disperata intenzione di puntellare una ADEGUATA cattiva reputazione, di favorire una ADEGUATA contemplazione, di diffondere una ADEGUATA disinformazione, insomma di non tradire lo stile e mantenere il controllo. Un'impresa del genere ha dimensioni sistemiche, e necessita di una strategia collettiva: se a tentarla (o anche solo a marcarla) è la volontà di un singolo individuo, costui o costei otterrà l'esatto contrario dell'esito sperato. Dove si difendeva lo stile, si arriva a salvare l'Identità, ossia proprio ciò che fissa e uccide lo stile, rafforzando lo spettacolo. Così, dopo il suicidio di The Bore, ciò che "ereditiamo" è una precettistica che non si voleva tale, oltre a un insieme di soliloquenti profezie. Ci rimangono insomma dei testi sacri, e coi testi sacri si può agire in due sole maniere: o li si interpreta alla lettera, da fondamentalisti, o si fa dir loro ciò che si vuole, sovente senza neppure leggerli. Ma da cosa deriva, a sua volta, questo stato di cose? Deriva, crediamo, dal fallimento inappellabile dell'Internazionale Situazionista, fallimento che non data dall'autoscioglimento del 1972, ma da almeno un decennio prima, dalla presa del potere nell'I.S. della sua sezione francese, proveniente dal Lettrismo. Prima che s'apra il cielo e ne piovano gli insulti dei pro-situs, converrà spiegarsi. [...] L'impressione che l'I.S. abbia avuto maggiore influenza della 2aI.S. sul '68 e sulle esperienze degli anni successivi deriva da un effetto di prospettiva, il classico "Post hoc, ergo propter hoc". Il celebre "scandalo di Strasburgo" del 1966 ispirò certo molti di coloro che due anni dopo avrebbero disselciato le vie di Parigi, ed è vero che i situazionisti coniarono alcuni degli slogans più belli del Maggio, tuttavia si è sopravvalutato l'impatto della loro critica pratica sugli eventi di quei giorni. Se davvero i situazionisti fossero stati cosìç determinanti, risulterebbe difficile spiegare il vasto rigurgito maoista o trotskista dei mesi successivi, nonché l'entrata dell'I.S. in una crisi irreversibile, fino allo scioglimento di tre anni dopo. In realtà, allo scoppiar del Maggio, l'I.S. era già da un pezzo in fondo al maelstroem dell'inconseguenza, strutturalmente incapace di venirne fuori. I compagni francesi dell'Encyclopédie des Nuisances, la cui critica dell'I.S. è comunque molto diversa da quella che andiamo sviluppando in queste note, hanno magistralmente sintetizzato tale inconseguenza: "Criticando la politica senza curarsi troppo dei mezzi della sua realizzazione rivoluzionaria (se non sotto la forma alquanto lontana dei Consigli Operai), la teoria situazionista è rimasta sottosviluppata in tutto quello che riguarda la tattica, la ricerca delle mediazioni necessarie tanto esterne (il processo d'incontro tra una teoria radicale in formazione ed una pratica radicale essa stessa frammentaria ed incompleta) quanto interna (i metodi di organizzazione che favoriscono l'appropriazione coerente della critica). Il mito di una fusione totale della teoria e della pratica, ritenuta effettivamente realizzata all'interno dell'I.S., assieme al suo contrappunto 'storico', il mito di una rivoluzione che realizzerà in un colpo solo questa fusione su scala sociale, ha pesantemente gravato sullo sviluppo di una comprensione precisa di ciò che i situazionisti dovevano realmente fare insieme" (12). [...] Affrontare e DECOSTRUIRE le "Thèses sur l'Internationale Situationniste et son temps" (che aprono le macabre danze de La véritable scission...) è necessario per capire la fossilizzazione dello stile debordiano in un'incarognita poetica del risentimento, e la conseguente involuzione di Debord in The Bore. Va detto innanzitutto che le "Thèses..." sono un testo kitsch. Usiamo questo termine nell'accezione classica, ritematizzata da Tommaso Labranca nel suo Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash (Castelvecchi, Roma 1994): l'I.S. post-'68 e Debord/The Bore erano kitsch perché volevano rimuovere la miseria e la merda dal territorio dell'autostoricizzazione, territorio segnato da continui riferimenti alla Prima Internazionale di Marx e Bakunin (lo stesso titolo della "circulaire publique" è uno di questi riferimenti). Tendendo ad emulare un modello "alto", ma fallendo clamorosamente nell'emulazione (s'è mai vista un'internazionale composta da due sole persone?), l'I.S. ottenne un risultato trash (emulazione, incongruità, massimalismo... Le componenti c'erano tutte); ma per il terrore di essere identificata coi propri fallimenti (con il trash, con la misére), essa imputò ad altri e ad altro tutto ciò che considerava basso e misero: la stupidità dei pro-situs, l'impotenza degli ex-membri dell'I.S., il "ritardo" del movimento reale rispetto al programma situazionista, etc.). Senza possibilità d'equivoco, il risultato fu il kitsch, che nasce proprio dal tentativo -non riuscito- di eliminare la merda dalla propria vita, tentativo compiuto da chi è "circondato, sommerso, soffocato dalla merda (il trash) e combatte ogni giorno un'estenuante battaglia per nasconderla" (Labranca, cit.). Le "Thèses..." sono un CAPOLAVORO del kitsch, e scivolano lungo quella "china dogmatica che porta a giudicare la storia secondo una norma collocata al di fuori di essa (teleologia consiliarista, ad esempio) [che] condusse troppo spesso, nell'I.S. ed intorno ad essa, a considerare il movimento di sovversione allora largamente attivo sotto l'esclusivo angolo visuale del suo ritardo rispetto al programma storico situazionista, senza voler vedere che ne era al tempo stesso la critica (critica della sua generalità divenuta astratta), come se questo in futuro dovesse soltanto riempire il quadro che quello aveva tracciato: in breve, come se la teoria della rivoluzione non avesse più nulla da imparare dal movimento rivoluzionario reale" (18). Appunto, il kitsch. La tesi n.2 afferma che "mai un progetto così estremista, divampando in un'epoca che sembrava essergli ostile, aveva affermato in così poco tempo la propria egemonia nella lotta delle idee, prodotto della storia delle lotte di classe. Non solo la teoria, lo stile e l'esempio dell'I.S. sono oggi adottati da migliaia di rivoluzionari nei principali paesi avanzati ma, ben più in profondità, è l'insieme della società moderna che sembra essersi convinta della verità delle prospettive situazioniste, sia per realizzarle sia per combatterle". La n.3 precisa che "l'I.S.è riuscita semplicemente in quanto ha espresso il 'movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti', e in quanto ha saputo esprimerlo; vale a dire che essa ha iniziato a far comprendere alla parte soggettivamente negativa del processo, al suo 'lato cattivo', la propria teoria inconscia [...] Non si tratta dunque di una teoria dell'I.S., ma della teoria del proletariato". La n.6 aggiunge che "[per la Santa Alleanza dei proprietari della società] come per i suoi associati, è cominciato un altro tempo. Si scopre che il movimento delle occupazioni aveva, sfortunatamente, delle idee, e che erano idee situazioniste". Terminata la prima fanfara, le tesi che vanno dalla 10 alla 20 introducono alcune lucide considerazioni sullo stato dell'Economia, sull'inquinamento, sui "sintomi della crisi", sulle lotte dei lavoratori. Ad esempio la tesi 17, con mirabile sintesi, enuncia che "l'inquinamento e il proletariato sono oggi i due lati concreti della critica dell'economia politica". Ma è dalla tesi 21 che entriamo nel kitsch (e non ne usciremo più): "quando cambiano tutte le condizioni della vita sociale, l'I.S., al centro di questo cambiamento [sic], vede le condizioni in cui ha agito trasformarsi più velocemente di tutto il resto. Nessuno dei suoi membri poteva ignorarlo, né pensava di negarlo, ma di fatto molti tra essi non volevano che l'I.S. fosse toccata. Non è dell'attività situazionista passata che essi si facevano custodi, ma della sua immagine". Da qui fino alla tesi 44 c'è la lunga tirata contro i pro-situs, contro i membri (ormai ex-...) "contemplativi" dell'I.S. e in particolare contro Raoul Vaneigem. L'avvio è promettente: "un'inevitabile parte del successo storico dell'I.S. implicava che essa fosse a sua volta contemplata, e che in una tale contemplazione la critica senza concessioni a tutto ciò che esiste venisse ad essere apprezzata positivamente da un settore sempre più esteso dell'impotenza, divenuta essa stessa filo-rivoluzionaria". Ma già la tesi 22 è rivelatrice; dopo averla letta rimane in bocca un retrogusto di excusatio non petita: "nessun pensiero storico può pensare di garantirsi in anticipo da qualsiasi incomprensione o falsificazione. Come esso non pretende di imporre un sistema definitivamente coerente e completo, tanto meno si aspetterebbe di presentarsi in modo così perfettamente rigoroso da interdire la stupidità e la malafede a ciascuno di quanti avranno a che fare con esso, così da imporne universalmente un'interpretazione vera. Una pretesa così idealistica può essere sostenuta solo da un dogmatismo sempre votato al fallimento; e il dogmatismo è già la sconfitta inaugurale di un tale pensiero. Le lotte storiche, che correggono e migliorano ogni teoria di questo genere, sono il terreno delle interpretazioni errate e riduttive e degli interessati rifiuti di ammettere il senso più univoco. La verità non può qui imporsi senza divenire forza pratica". Il ragionamento si conclude con la convinzione che la teoria dell'I.S. [vale a dire la teoria del proletariato, cfr. la tesi n.3], sebbene spesso incompresa o distorta, "saprà ritornare in tutta la sua autenticità ogni volta che, storicamente, sarà la sua ora, a cominciare da oggi. Siamo usciti dall'epoca in cui potevamo essere falsificati o cancellati senza appello, perché la nostra teoria beneficia ormai, nel meglio e nel peggio, della collaborazione delle masse". Il "successo storico" dell'I.S. sarebbe dunque consistito nel convincere le masse a "collaborare" con la propria teoria, ergo con sé stesse. L'I.S. poneva fine per decreto all'alienazione e all'autofraintendersi proletario. La "teoria del proletariato" era stata ESTERNA allo stesso, ma alla fine esso era arrivato a co-elaborarla. "Co-" significa "insieme"... Insieme a chi? chi era il co-protagonista di questa elaborazione se non l'I.S.? Riecco la vecchia "coscienza portata dall'esterno" e, intraluce, la decrepita figura dell'"intellettuale separato" che "va al popolo". Con cos'era traducibile dunque il genitivo "del", se non con un complemento di argomento? Si trattava di una teoria "sul" proletariato, di una teoria "riguardante" esso. E non solo: a dispetto degli accenni alle "lotte storiche", la teoria si rivelava essere trans-storica, pronta a rivelarsi a sé stessa ogni volta che fosse giunta l'ora. Ma poiché l'I.S., al livello più conscio della costruzione del testo, rifiutava tutto ciò (le separazioni, la trans-storicità...), e poiché Debord e Sanguinetti sembravano percepire questo scarto, ecco l'excusatio non petita: "È OVVIO che noi, NATURALMENTE, non abbiamo mai creduto che...". Si cercava di nascondere il trash, e appena ne usciva anche un solo lembo ci si affrettava a dire: "Noi non siamo questo!". Davvero molto kitsch. Ma entriamo nel vivo della critica ai pro-situs, che "fanno sapere che approvano integralmente l'I.S., e non sanno fare nient'altro", e che "possiedono soltanto le loro buone intenzioni". Compare il primo accenno esplicito all'autoscioglimento dell'I.S.: "...se l'I.S. avesse continuato, imperturbabile, ad agire come prima, avrebbe potuto divenire l'ultima ideologia spettacolare della rivoluzione, e servire da pilastro a tale ideologia. L'I.S. avrebbe dunque rischiato di ostacolare il movimento situazionista reale: la rivoluzione" (tesi 26). Si dice poi che i pro-situs contemplano l'immagine di un'"aristocrazia situazionista" a cui vorrebbero avere accesso, e si imputa il formarsi di questa "apparenza di valorizzazione gerarchica" a quelli che sono ormai ex-membri dell'I.S. (soprattutto a Raoul Vaneigem), i quali rivendicavano uno "statuto mistico" per il solo fatto di appartenervi. Così, tanto i pro-situs quanto i "vaneigemisti" sono "il prodotto della generale debolezza e inesperienza del nuovo movimento rivoluzionario" (tesi 32). Segue un'analisi "sociologica" dell'ambiente pro-situ, che contiene anche spunti interessanti (la differenza tra i nuovi "quadri" e i vecchi "piccoli borghesi") e che si conclude alla tesi 38 lasciando il posto ad una critica della "malcomposizione" dell'I.S. e dell'"incapacità" di alcuni suoi membri. La tesi 42 inizia così: "I contemplativi nell'I.S. erano i pro-situs acquisiti, perché vedevano la loro attività immaginaria confermata dalla storia e dall'I.S.". La 44 getta più luce su quell'affermazione: "coloro che, anziché affermare e sviluppare le loro personalità reali nella critica e nella decisione di quanto l'organizzazione fa o potrebbe fare in ogni momento, sceglievano pigramente l'approvazione sistematica, hanno solo voluto nascondere quest'esteriorità per mezzo dell'identificazione immaginaria al risultato". Qui finisce la "tirata". Le ultime tesi, dalla 45 alla 61, servono a concludere: si riconosce che l'I.S. non ha saputo essere egualitaria, tuttavia essa è riuscita ad evitare di divenire un potere, ed è tra le poche organizzazioni rivoluzionarie della storia a "non essersi bruciata col fuoco della gerarchia" (tesi 52). La tesi 53 dice che "i situazionisti sono ormai dappertutto, ed è dappertutto il loro scopo [...] Noi non dobbiamo più garantire se questi individui sono o non sono situazionisti, perché non ne abbiamo più bisogno, e perché non ci abbiamo mai provato gusto [...] Il termine stesso 'situazionista' è stato usato solo per far passare, nella ripresa della guerra sociale, un certo numero di prospettive e di tesi...". Dopo alcune variazioni su questo tema, la tesi 58 afferma perentoriamente: "la vera e propria scissione nell'I.S. è la stessa che dev'essere attualmente operata nel vasto e informe movimento di contestazione: la scissione tra l'intera realtà rivoluzionaria dell'epoca e tutte le illusioni al suo riguardo". Infine la conclusione: "Che si smetta di ammirarci come se potessimo essere al di sopra del nostro tempo, e che l'epoca si terrorizzi da sola, ammirandosi per ciò che è" (tesi 60); "Chi consideri la vita dell'I.S., vi troverà la storia della rivoluzione. Nulla ha potuto renderla cattiva" (tesi 61). Le "Thèses..." si concludono col botto, come un capodanno a Partenope, e anche qui - finita la sbornia - si contano i morti e i feriti, e ci si accorge che l'1 gennaio non è dissimile dal 31 dicembre, che non c'è stata alcuna catarsi, nessun palingenetico ingresso in un nuovo tempo. Le frasi roboanti servivano solo a convincersi di non dover pagare il fio della propria massimalistica pochezza, e non valevano nemmeno a puntellare la critica ai pro-situs: non era "una parte del successo storico dell'I.S." ad implicare la "contemplazione" dell'I.S. e l'adesione ideologica al suo programma, ma proprio la défaillance dei situazionisti al momento di congiungere teoria, prassi e organizzazione. Il riprodursi dei pro-situs e la passività di alcuni membri dell'I.S. erano inevitabili, codificate nel DNA del gruppo, modificato e fatto aberrare all'epoca delle "epurazioni" (e non con perizia biotecnologica, ma con la naiveté di un Josef Mengele che inietta fenolo nelle pupille dei giudei per arianizzarne lo sguardo). Patetica e tardiva, inoltre, l'affermazione che l'I.S. non poteva "essere al di sopra del proprio tempo", dopo che per anni ci si era comportati come se fosse l'epoca a caracollare dietro le anticipazioni situazionisti, come se tutto quanto accadeva non potesse che confermare la giustezza della teoria. Per concludere: l'I.S. aveva fatto di tutto per essere contemplata, poi aveva finto di non gradire le profferte dei suoi spasimanti, allo scopo di frustrare e riattizzare il desiderio, di prolungare il gioco. Di quest'erotismo da fotoromanzo (indicibilmente trash) Raoul Vaneigem s'era stancato nel 1970, e s'era dimesso scrivendo: "...Mi basta constatare la mia insufficienza nel far progredire un movimento che ho sempre considerato condizione della mia radicalità [...] Preferisco dunque rifare la scommessa che la mia adesione all'I.S. aveva rinviato: perdermi totalmente o totalmente ricostruire la mia coerenza, e farlo solo per ricostruirla col maggior numero di persone" (20). Da buon gaudente, egli aveva capito che dopo il Maggio erano arrivate in città nuove fanciulle da corteggiare, e che il costume era cambiato; anziché aspettare a concedersi finché le sue carni non fossero state solcate dalle rughe, la gioventù trascorsa, i vecchi pretendenti fuggiti, tanto valeva gettarsi nella mischia del "nuovo sesso". Le comari di quel club dell'uncinetto che l'I.S. s'avviava a diventare ripiegarono sulla favola della volpe e dell'uva: "E chi li vuole, gli spasimanti? Non eravamo certo noi a provocarli, semmai era miss Vaneigem! Comunque, piacenti come eravamo, era ben normale che qualcuno ci corteggiasse...". Allegorie irriverenti, senz'altro, ma non per questo inveridiche. Ad ogni modo, l'annuncio dello scioglimento dell'I.S. non fece tremare il mondo. [...] Le conclusioni sono già chiare nello sviluppo stesso del nostro ragionamento, costantemente suggerite nel testo e nelle sue lacune. Non c'è epilogo che non si legga già nei titoli: Guy Debord è morto davvero, nunc est bibendum! Sul "Manifesto" di domenica 4/12/1994, Enrico Ghezzi (persona di qualche merito) scriveva: "...la notizia della morte di Guy Debord mi è apparsa un inganno, une leurre. Una truffa sublime, come quella che in molti hanno sospettato dietro la morte di Moana Pozzi. Riuscire a détourner la propria stessa morte. A renderla ancor più inapparente di quanto già non sia, sfidandola sul suo terreno, calandosi nella fossa mediatica [...] Porre fine alla propria durata, non al proprio tempo. Terminarsi". Chi sta scrivendo ha avuto una impressione molto diversa: The Bore non aveva più scelta, aveva già scelto più di tre decenni fa, preparandosi con cura al momento in cui, finito il suo tempo e montata la deboredom (Cavalla Cavalla, 1993), non gli sarebbe rimasta che la propria durata, a cui prima o poi porre fine.
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una risposta ad Angela
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paolo ranieri Friday, May. 02, 2003 at 8:13 PM |
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Sei un'esegeta migliore di me delle cose blissettiane: certo é che le cose scritte lì, ripetute da Bui in varie occasioni, e da WM 4 ora, son sempre le stesse. E francamente sono inadeguate alla questione, secondo me. Il concetto di spettacolo io non so dirti se loro non l'hanno capito o fanno finta, ma dire che i situazionisti erano rimasti impauriti dal diffondersi delle televisione, etc. ispira dei dubbi legittimi, non credi? dire che le immagini c'erano già nelle caverne, e perciò? ti paion cose profonde, intuizioni acute, risolventi? a me leggere cose così mi fa pensare che si volgano a un esercito di gente con l'anello al naso
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ancora x paolo ranieri
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oliver Friday, May. 02, 2003 at 8:18 PM |
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grazie della risposta, ci rimugino sopra. toglimi una curiosita', Paolo: a giudicare solo dai due tuoi brevi interventi in questo thread, ho l'impressione che la tua posizione su Blisset, WM e su Bui sia piu'... "moderata" (equilibrata?) di quella del frammento da Invarianti citato qui sopra. Pare che comunque tu abbia rispetto per quell'esperienza e quelle persone, anche senza condividerne molte cose...
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Scusa se ti assillo
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Angela Friday, May. 02, 2003 at 8:21 PM |
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Non voglio farla sembrare un'intervista, ma in attesa che rispondi all'altra mia domanda (su I.S. e movimenti di oggi), volevo chiederti cosa pensi degli stralci quassopra, da "Guy Debord e' morto davvero". Un'intervista trascritta dal discorso orale e' una cosa, nello scritto di nove anni fa (ma non so se e' dei WM o no) mi sembra ci sia una maggiore argomentazione.
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dimenticavo una nota fondamentale
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Luther Blissé 2003 Friday, May. 02, 2003 at 8:34 PM |
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[...] Guy The Bore (Guy "il noioso") è il doppio di Guy Debord, è Debord giunto a un tal grado di autocontemplazione da divenire pura immagine. A nostro parere la deboredom (la noia causata da Debord) ha preso pieno possesso del personaggio dopo il film "In girum imus nocte et consumimur igni" (1979), in cui l'autocontemplazione rispondeva ancora ad un'esigenza lirica, e non riusciva tediosa, (de)boring. Da allora in avanti, come spieghiamo più sotto, ogni testo di The Bore è stato troppo intriso di risentimento (di quel sentire che si ripiega su sé stesso, che si attorciglia e cortocircuisce). La deboredom era già operante ai tempi dell'I.S., ma risultava mitigata dal riconoscimento di bisogni e desideri rivoluzionari collettivi. [...]
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moderato? giammai
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Paolo Ranieri Friday, May. 02, 2003 at 8:35 PM |
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Forse é che ho molti più anni di chi ha scritto quelle righe (e che peraltro é persona che mi é cara e che stimo molto); e tutti i coinvolti mi paiono così giovani...escluso Negri che infatti odio mortalmente. Forse si riesce a odiare solo quelli del tuo tempo (se ben che io non venga dal passato come il vile Professore)... Di persona conosco il solo Bui, che a me non é antipatico (io sospetto di stargli discretamente sul culo) e che mi pare uno che é stato sopravvalutato anzi tempo, e che finisce per avere le solite difficoltà dell'enfant prodige dopo che principia a perdere i capelli. Parlando seriamente: i difetti blissettiani, trasmutati direi pure in WuMing, sono i seguenti. Mancato ripudio della sinistra specie resistenziale e delle sue esauste pompe; rottura tardiva e insufficiente con le stronzate dell'autonomia specie padovana; mito del successo (vittorismo, diciamo, per contrapporlo allo sconfittismo che contestano agli altri)immediato, di massa, pure mediatico; propensione ad abboccare (vedi il flirt con i Disobbedienti) per poi scoprire ciò che era possibile sapere con anticipo. Presunzione e prosopopea eccessive, che finisce per ottundere anche le intuizioni centrate. Non ci metto, perché sono buono, la scandalosa puttanata di Nemici dello Stato. Concludendo, hanno fatto parecchio per non farsi rispettare, ma io non gliela dò vinta
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goccine?
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Squalo Friday, May. 02, 2003 at 10:09 PM |
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direi che nessuno di voi in ogni caso soffre di depressione bipolare, Debord è l'alter ego di wu ming che non lo accetta ovviamente e questo oltre a creargli ansia lo fa molto incazzare Invece gli avvocati di Debord sono da TSO cinque gocce di Entumin invece per Luther Blissett
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un caso di disoccupazione intellettuale
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lucignolo Friday, May. 02, 2003 at 10:10 PM |
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Sto facendo uno sforzo immenso per non capirne nulla. Immagini,figure,simulacri.Ogni mattina andando al lavoro,mi fermo a quel non-luogo per eccellenza che e' il bar di via Catanelli,bevo il mio solito caffe' ristretto e faccio due chiachiere col signor Hegel.Discutiamo del rovescio d'ogni dritto,e del dritto di ogni rovescio;ma la discussione s'infuoca davvero solo quando arriviamo a discutere del rovescio di ogni rovescio.Poi dato che ognuno deve correre alla sua pena qotidiana trascendiamo ognuno fermo sull'insondabilita' del proprio rovescio
"A domani!- una confezione di alterita' radicali alla menta/liquirizia".-Grazie!-Pago e scappo via.
La rivoluzione creava un nuovo linguaggio e aveva nuove cose da dire:ai dirigenti bastava dire con parole nuove le cose vecchie e insieme al padrone divorarono quel discorso di liberta',lo digerirono' e lo restituirono in veleno.
Poi la nostra mobilita' nel linguaggio non ebbe piu' limiti. La comunicazione si trasformo nell'organizzazione dell'isolamento di tutti.I problemi della vita quotidiana divennero clandestini.Gli ossimori proliferarono senza posa.
Tra il mito della coca-cola e maturbatori elettronici gratuitamente forniti dalle unita' sanitarie locali: Gli incubi si realizzarono tutti
Un certo gioco di prestigio e' sempre necessario.
"L'usura delle strutture mitiche e il loro ritardo nel rinnovarsi che rendono possibile la presa di coscienza e la profondita' critica dell'insurrezione,sono anche la causa del fatto che passati gli "eccessi"-eccessi rivoluzionari-la lotta contro l'alienazione viene proiettata su un piano teorico,come prolungamento della demistificazione che prepara alla rivoluzione.E' l'ora in cui la rivolta nel suo aspetto piu' vero,e il piu' autenticamente capito,viene iesaminata e liquidata dal "noi non volevamo questo" dei teorici incaricati di spiegare il senso di un'insurrezione a coloro che l'hanno fatta,a quelli che vogliono demistificare coi fatti,non soltanto con le parole-(demistificare con le azioni)(R.Vaneigem )
Il potere gerarchizzato non si concepisce senza trascendenze,senza ideologie,senza miti...
Ah!amerika-America!!!pax americana;segmentarieta' rigida dell'impero,con la sua geometria,i suoi acquartieramenti... E i Nomadi che escono dalla steppa quando io vado in pizzeria,fluenti,attivi (in tuta bianca.?)
E quelli di sinistra vanno e vengono,passano e ripassano le frontiere... a volte s'infiltrano nell'Impero,si fanno mercenari o federali,a volte vincono le elezioni ,si fissano occupano delle poltrone e si fanno essi stessi Stato. Pero'... menomale che c'e Casarini e Wu-Ming...e il signore degli anelli versione post-moderna. Un'identita' aperta;lo sviluppo sostenibile;l'impero dal volto utile;i compilatori di compendi di utopia..le prime donne che cantano come uccelli...i fabbricanti di salsicce che insegnano a scuola...l'analisi della fase;
Mi dia un mito senza filtro e un pacchetto di minerva.
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Troppa roba
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Paolo Ranieri Friday, May. 02, 2003 at 10:38 PM |
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carissimi, troppe domande e il tempo é poco, il formato é scomodo, le domande di un'ampiezza spropositata. Non sono "contro la resistenza", penso corrisponda a uno dei momenti di minore autonomia del proletariato in Europa, per un'infinità di motivi. Perché Nemici dello Stato é una puttanata: perché é il manifesto della teoria dello sconfittismo, dell'autoghettizzazione, fino al punto di dire che in ultima analisi chi viene represso non solo se l'è un po' cercata, ma é proprio lui che cerca il martirio per un'ossessione identitaria. Raccoglie il materiale di cui poi si abbofferanno i vari no global compatibili: che bisogna "sporcarsi le mani", meticciarsi con l'esistente, stare "dentro e contro" e non "fuori e contro", non aver paura della nootrietà e dei media, ma utilizzarli e volgerli a proprio favore, etc. Ma leggilo, circola, poi mi saprai dire: il merito del testo e di Blissett é di avere per certi versi prevenuto lo scontro materiale che sta alla base della questione. Per ciò che attiene la crescente centralità dei temi situazionisti: - la critica della vita quotidiana é questione oggi pacificamente al centro dell'attenzione di quasi tutti (anche se in modo tuttora insoddisfacente) - la costruzione di situazioni (anche se non la si usa chiamare così) é pratica corrente in un sacco di ambiti, pensa solo agli zapatisti; - il metodo consiliare (revocabilità costante dei delegati, mandato operativo, tutto il potere all'assemblea...) é quasi l'unico sopravvissuto in tutti gli ambiti; - la critica dell'urbanismo é questione di grande attualità - il rifiuto del lavoro (non lavorate mai) ancor di più - la critica congiunta di tutte le forme di potere separato sia capitaliste sia sedicenti socialiste, é ora addirittura una banalità - la questione della contemplazione e della passività che sta alla base della nozione di spettacolo, é avvertita da mezzo mondo - il deperimento dell'arte e della politica, sono cose di cui nemmeno si parla più, tanto sono risapute... e potrei proseguire
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mah
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Andrea Saturday, May. 03, 2003 at 1:16 PM |
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Io ho letto Nemici dello Stato e non ci ho trovato assolutamente quello che dici tu, forse solo nel capitolo sugli squatter ma en passant, ma il resto e' una ricostruzione (che non ho trovato da nessun'altra parte) delle leggi d'emergenza e delle responsabilita' del PCI, oltre a uno smascheramento di cosa si nasconde dietro le isterie sui pedofili e sulle sette satanistiche..... Siamo sicuri che parliamo dello stesso libro?
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impeccabile
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Leo Malicius Saturday, May. 03, 2003 at 1:21 PM |
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l'analisi di Debord di "Guy debord é morto davvero" mi sembra impeccabile, e se penso che é stata scritta quasi dieci anni fa quando i situazionisti erano gli "intoccabili", dico che c'é anche voluto coraggio, in più c'entra poco con quel che dice di averci letto Ranieri. forse era negli stralci non riportati?
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i consigli
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L'aquila e le galline Saturday, May. 03, 2003 at 1:32 PM |
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Il metodo consiliare non l'hanno inventato i situazionisti, l'hanno praticato spontaneamente gli operai, e ne ha fatto una bandiera qualcuno che ha avuto un po' piu' rilevanza di loro, svariati decenni prima, durante rivoluzioni VERE, non fatte da tizi che si mettono in posa perche' i loro gesti diventino di culto e li si adori ancora quarant'anni dopo. Mai sentito parlare dei consigli nella Russia rivoluzionaria, del linkekommunismus, di Pannekoek, Ruhle eccetera? Anche nel '68 gli operai adottarono spontaneamente il metodo consiliare, senza nemmeno sapere chi fossero i situazionisti. Da almeno una quindicina d'anni e' in corso un'operazione di revisionismo storico "di movimento" che tende ad attribuire tutto cio' che e' successo di radicale ai situazionisti e alla loro influenza che resta presunta e non provata, tra un po' lo faranno anche retroattivamente, vedrete che si parlera' di "precursori dei situazionisti", di "pre-situazionisti"... E' una operazione tanto demenziale che sta riuscendo, e cosi' un gruppo di pochi intellettuali borghesi diventa il vero e unico nucleo di rivoluzionari, e le classi in lotta vanno a finire sullo sfondo.
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Oddìo
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Angela Saturday, May. 03, 2003 at 1:51 PM |
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53 messaggi per commentare una cosa che WM4 dice a margine, di passaggio, e neanche una riga per commentare quel che dice quest'intervista sul movimento, su come portarlo avanti, su come ridefinirne l'immaginario, su quali sono stati i limiti. Mi sembra di sognare. E' anche un po' colpa mia, ma adesso mi piacerebbe rimediare.
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?
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Vetril Saturday, May. 03, 2003 at 2:50 PM |
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cosa c'entra a quale epoca o corrente di pensiero si può risalire? c'è molto già scritto in quello che si raccoglie oggi e se un concetto sembra sensato perchè non riprenderlo, non sembra se ne rivendicasse la paternità, l'importante è che il situazionismo abbia raccolto quei concetti Angela: la marginalità di un argomento la decide il dibattito, forse, in ogni caso se vuoi rimediare puoi sempre iniziare tu :-)
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pensala come vuoi
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ancora l'Aquila e le galline Saturday, May. 03, 2003 at 3:02 PM |
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Il punto è che la persistenza nei movimenti di oggi di tratti distintivi come il rifiuto del lavoro o l'organizzazione per consigli non puo' in alcun modo essere interpretata come influenza situazionista, per due motivi: uno- quei tratti distintivi pre-esistevano alle teorizzazioni dei situazionisti, e sono stati tramandati di movimento in movimento ignorando i situazionisti medesimi, e sono presenti in zone del mondo dove nemmeno un compagno su un milione sa chi siano stati costoro; o mi si vuol dire che gli indios analfabeti del Chiapas sono avidi lettori di Debord? due - i situazionisti sono stati la frangia di una corrente marginale della minoranza di uno schieramento esistito solo in poche grandi citta' di alcuni dei paesi piu' industrializzati dell'occidente, per un breve lasso di tempo durante il quale sono stati ben poco cagati. Tutta la loro "influenza" e' ricostruita post mortem dai reduci e dai fans. Voi pensatela come volete, per me questa è un'operazione disonesta di riscrittura della storia delle lotte sociali, che toglie protagonismo ai soggetti collettivi per darlo a un pugno di artisti.
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Oddìo?
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Paolo Ranieri Saturday, May. 03, 2003 at 3:19 PM |
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Se non fosse per quella polemichetta, e di qui i messaggi, che cosa volevi dire? anche se mi rendo conto che l'atteggiamento che quelle righe rivelavano ha una propria "base sociale", a giudicare dal numero non esiguo di commenti favorevoli a quell'approccio. Per motivi che mi sfuggono, ma che sono intimamante legati a questi tempi disgraziati, pare che l'aggressività, la supponenza e l'inconsistenza siano ormai senza freno. L'idea pare essere che, vigendo la libertà di parola, dire cazzate sia divenuto non solo possibile, non solo legittimo, ma cosa degna di essere rivendicata. E, come nel film "I vestiti nuovi dell'imperatore" la copia non si perita di farsi beffe dell'originale, il plagiario e il falsificatore dell'inventore. Si tratta della "democrazia dell'impotenza e del risentimento" da tempo preconizzata e ora pienamente dispiegata. Provo a dire solo un paio di cose: ignoro quanto Marcos abbia preso in esame i situazionisti quando si trovava a Parigi (certe sue uscite farebbero pensare che non ne ha compreso troppo, la prossima volta che lo vedo glielo chiedo...Certo é che la costruzione di situazioni é pratica corrente nel Chiapas zapatista, utilizzando visibilmente gli strumenti delle antiche confraternite della festa, ma anche con una revisione critica di grande portata...é un discorso lungo, ma siamo sicuri di conoscere bene il Chiapas, di non aver letto solo Zulù, o le favolette del Sup? I consigli non li hanno inventati i situazionisti, ed é vero che ritornano spontaneamente (anche in Algeria e in Argentina) ogni qual volta i proletari si sollevano; ma é del pari vero che i consigli così come avanzati dall'IS, il concetto di "autogestione generalizzata" (vedi "Avviso ai civilizzati..."ad esempio), non sono una semplice riproposizione. Forse sono stato io ad essere stato troppo raffazzonato: ho tutt'altre cose in ballo che fare la storia dell'IS. Mi pare però che molti di coloro che ne parlano (soprattutto quelli che ne parlano male) ne sappiano poco, nel senso che non conoscono un sacco di fatti, e di testi, etc. Ad esempio non ci vuole molto per sapere che il rifiuto del lavoro é cosa che viene di lontanissimo. Ciò non toglie che il rifiuto del lavoro, come superamento dell'arte, dell'economia e della politica, nella maniera indicata dai situazionisti contiene parecchie novità. Per nemici dello stato, certo, mi riferivo al capitolo sugli Squatter, che é, anche se implicitamente, la chiave di volta del testo, quello che ha fatto dire a mezzo mondo che gli autori sono pure e semplici carogne, e il fatto che io non lo dica (fra i pochissimi che conosco e frequento) mi ha fatto passare per un cuor d'oro, disposto ad ogni magnanimità. Quanto a Guy Debord é morto davvero, a me pare un testo proiettivo, in cui si accusa l'IS di voler essere contemplata, perché l'autore non sa andare oltre la contemplazione (in questi casi, comprensibilmente, la contemplazione finisce per farsi risentita), di essere un'internazionale di due persone, allorchè tanti, quanto più numerosi, non han fatto una particola di ciò che l'IS (che poi era allora di due persone, che poi erano un po' più di due, anche se solo due hanno firmato - e in realtà ha scritto tutto Debord) ha fatto, per tacere di ciò che ha detto. Che l'operazione sia coraggiosa, poi, in quale senso? insolentire oggi (come dieci anni fa) non costa nulla, in nessun ambito. Come ci spiega il sergente di Full Metal Jacket: tutte le opinioni sono libere oggi, perché non conta niente nessuno. Infine, sì, spesso mi firmo Pkrainer: perché me lo chiedi? Ti preoccupa l'idea che esistano due soggetti così? uno ti pareva pure troppo?
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per l'aquila
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paolo ranieri Saturday, May. 03, 2003 at 3:27 PM |
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Bada che gli indios saranno analfabeti, ma hanno orecchie ben capaci di ascoltare, e in Chiapas non passa solo Riccardino. Marcos poi i situazionisti sapeva chi fossero ben prima di lasciare il DF. Il rapporto fra teoria e soggetti collettivi é molto difficile da dipanare. Che cosa c'é degli operai rivoluzionari del suo tempo nel Manifesto del partito comunista? Considerando comunque i fatti, liquidare i situazionisti come un pugno d'artisti, si spiega solo con un'insufficiente conoscenza o con una supponenza smisurata, o le due cose insieme, come farebbe supporre il nick che ti sei scelto. perché l'aquila reputi d'essere tu, non é così?
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aho Leo
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littlemitopoiesi Saturday, May. 03, 2003 at 5:01 PM |
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analisi impeccabile? é un'analisi, condivisibile o meno. coraggiosa...mmmm.... ma non lo sai che per far fuori un mito e diventarlo tu stesso serve dissacrarlo? hanno usato ancora il povero Debord, che mi sembra più vivo che mai. gnam gnam...mangiano ancora tutti da lì, anche qui mi sembra il più gettonato, nel bene e nel male
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x vetril e x paolo
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oliver Saturday, May. 03, 2003 at 5:43 PM |
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vetril, come fai a criticare i WM se dici che il discorso sulla mitopoiesi non e' determinante? A me sembra che il loro percorso passi tutto da li', ma io stesso ammetto che ci sto ancora pensando sopra quindi non mi inoltro. Paolo, non sono soddisfatto delle tue risposte (anche a domande che non ho fatto io). A me non sembra proprio che il capitolo sugli squatter sia la "chiave di volta" del testo, non e' che hai letto soltanto quello? Quanto al "mezzo mondo", boh, io fino a ieri sera di quel libro ne avevo sentito parlare solo bene e anche un po' piu' di bene. A me e' servito, degli anni settanta e dell'emergenza non sapevo nulla, dopo di quello ne ho letti altri sul tema ma li ho trovati piu' sbrodolosi o retorici, ma forse me ne puoi consigliare qualcuno. Poi, non vedo perche' offendere chi esprime la sua opinione dando a intendere che quelli che non la pensano come te sono tutti cialtroni o ignoranti o disinformati. Uno puo' aver letto e visto le stesse cose che hai visto tu e dare una interpretazione opposta. Non capisco il riferimento alla resistenza e alla "minore autonomia del proletariato": i momenti piu' alti della resistenza non sono forse stati i grandi scioperi operai a Milano e a Torino? Sugli zapatisti sospendo il giudizio, non ne so abbastanza, ma mi sembra che tu accetti ed esalti in Marcos quello che condanni in tutti gli altri, cioe' il sapiente uso dei mezzi di comunicazione, la visibilita' mediatica ecc. Infine su "Guy Debord è morto" in questo thread ho letto solo letture psicoanalitiche su chi lo ha scritto, ma niente di concreto, e sì che in quel testo vengono citati testi e avvenimenti precisi, e c'è una analisi dettagliata, mi faresti il favore di commentarlo un po' di più? Lo chiedo a te perché mi sembri il più tranquillo, qui.
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oliver e non solo
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Paolo Ranieri Saturday, May. 03, 2003 at 7:36 PM |
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Non é che volessi far intendere che qualcuno fosse disinformato: é proprio l'impressione che ho avuto (da un pezzo, mica solo qui) che i testi originali, specie la rivista (che pure é disponibile in italiano), siano proprio poco letti. Su Nemici dello stato, posso anche ammettere che l'ho letto perché mi era stato segnalato QUEL capitolo, e magari quindi la chiave di volta ce l'ho vista io, perché è da quella porta che sono entrato. Comunque, che tu abbia sentito parlare solo bene di qul libro, mi fa pensare che tu non sia di Torino e non frequenti l'ambito degli squatter... Il momento più alto della resistenza gli scioperi del marzo 1943? se lo affermiamo é come dire che tutta la resistenza (che principia in quei giorni) é un "calare", non trovi? Una perdita di autonomia: non ci avevo mai pensato, ma mi pare un punto di vista anche interessante... Sugli zapatisti di cose da dire ce ne sarebbero un sacco (fa un po' pubblicità, ma ci ho pure scritto un libro): no, non trovo determinanti né l'uso dei media né la figura di Marcos, che é in certo modo il portavoce mediatico degli zapatisti. E' un uso interessante e abile (con qualche falla, ma in nove anni...) ma non mi pare la questione principale. Comunque non é che io stigmatizzi per principio l'uso dei media: il punto consiste nell'uso dei media che é stato CONCRETAMENTE fatto nelle diverse circostanze, e sopratttutto nella pretesa di far aderire spesso non l'immagine alla realtà (o almeno tentare), ma la realtà all'immagine. Ogni azione é un apparire e un reciproco apparirsi. Ma non ogni immagine che appare ha dietro un'azione, o, se ce l'ha, non sempre le due cose corrispondono. Pensa ai Disobbedienti, per dire. UN Disobbediente (di origine Ya basta é appunto Riccardino, divenuto molto noto per uno sciagurato special tv, dove si vedeva una giornata genovese, il 20 luglio, sua, di Tassio il bottegaio del disco, di un celerino, di don Gallo e forse basta (ma di sicuro avanza). Quanto a Guy Debord é morto davvero, ti pare questo é il luogo? é breve ma é tuttavia uno scirtto ampio, e qui si scrive in una finestrina schifosa...si fa una fatica...comunque i difetti di fondo per me sono due (più un tono fastidioso da personaggio che l'IS l'ha superata da un pezzo e si sarebbe curiosi di sapere come): innanzi tutto considerare il peirodo finale come sbocco e SPIEGAZIONE di tutto ciò che c'era stato prima, come voler dedurre una biografia da un apietra tombale (il grosso delle citazioni e dei riferimenti é da Le vere scissioni...); e poi. e questo é un errore madornale, tendere a ridurre l'IS a Debord, sempre per un surplus di biografismo (Debord é l'unico fra i fondatori a pervenire fino alla liquidazione), trascurando sia il progetto collettivo e la sua pratica che non é fatta di soli scritti, e l'opera successiva di alcuni, da Vaneigem che ha scritto diverse cose di un certo peso, a Riesel che é oggi un importante guerrigliero contro il transgenico, etc. In sostanza mi é parso un testo più abile del famoso Situazionismo di Bonanno (quello che principia "Il situazionismo é un cane morto...") ma di consistenza non molto differente. Comunque visto che vedo che la mia tesi dell'influenza determinante dei situazionisti sui presenti movimenti, non incontra adesioni, vi propongo la domanda capovolta: che cosa dei movimenti attuali vi pare nuovo, estraneo, autonomo rispetto alla teoria e alla pratica situazionista? che cosa c'é di qualitativamente nuovo rispetto al Movimento delle Occupazioni di Parigi 1968? Io direi che qualcosa di nuovo c'é, ma visto che qui ci son tanti professori, le risposte per ora le tengo per me. Se permettete giocare in contropiede é molto, ma molto più comodo. A voi la prossima mossa, se vi garba.
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abbozzo di risposta
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oliver Saturday, May. 03, 2003 at 8:03 PM |
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Provo a buttare lì qualche spunto, ma non pretendo di dare una risposta esaustiva, perché io negli anni Settanta non c'ero (c'ero a malapena anagraficamente, visto che sono del '76) anche su questo thread la mia linea è stata che le risposte le dobbiamo cercare tutti assieme: questo ciclo di lotte si è impelagato meno dei precedenti negli scazzi tra gruppi (o tra gruppi e "antigruppi"), che pure ci sono, ma è come se il movimento avesse uno "sfogatoio" in cui chiuderli, e proseguire nella marcia. Scusami, ma a me sembra che invece i situs e i post-situs negli "scazzi" ci sguazzassero, e anche in Italia quello che ho letto, qualche vecchia brochure e poco più, fosse all'80% scazzi, ingiurie, invettive e solo al 20% effettiva voglia di creare qualcosa; questo ciclo di lotte dà meno importanza ai leader e leaderini, e anche alle sette e ai guru (e Debord molti lo vedono come un guru, questo va detto, e ormai c'è insofferenza anche per Negri); questo ciclo di lotte non si basa su un'unica teoria né sulla pretesa che debba esserci un'unica teoria, quindi anche lo stile un po' "talmudico" (per dirla con Blisset) con cui si propongono le interpretazioni situazioniste stona non poco, o almeno questa è la mia impressione; questo ciclo di lotte è più incline alle autocritiche sentite (e non coercitive), ai ripensamenti, alla disponibilità ad ammettere gli sbagli. E' interessante a questo proposito l'articolo di Fratoianni sul penultimo numero di Carta, e anche il pezzo di WM1 su Impero; questo ciclo di lotte dura da un sacco di tempo, siamo al quarto anno e io non ci sputerei sopra, perché più dura e più ci sono possibilità che i più giovani crescano in un contesto più stimolante di quello in cui siamo cresciuti noi quasi-trentenni; questo ciclo di lotte ha generalizzato pratiche di comunicazione che prima erano patrimonio di frange e avanguardie (so che non sarai d'accordo ma LB prima e le tute bianche poi hanno qualche merito in questo, e lo si capisce se si evita di confonderli coi disobbedienti), a te magari non piaceranno ma tutti questi siti, e le radio su web, e le tv di quartiere... C'è ancora impaccio e un po' di afasia, ma mi sembra innegabile che questi mezzi siano una ricchezza; questo ciclo di lotte è variegato, eterogeneo e non generazionale; questo ciclo di lotte, mi dice qualcuno che c'era trent'anni fa, è un po' meno dogmatico e un po' più aperto mentalmente, oltre a essere DAVVERO mondiale, e non solo nelle dichiarazioni di principio; questo ciclo di lotte non si basa su illusioni in nessun regime esistente né in alcun movimento di liberazione nazionale, e quindi c'è meno bisogno di concentrare l'attenzione nella polemica contro tali regimi etc. Ecco, vedi: l'ho scritto fuori dalla finestrella, poi ce l'ho incollato dentro.
P.S. Scusa ma non resisto alla tentazione di farti notare che se per te "mezzo mondo" si riduce alla scena squatter torinese, hai un'idea del pianeta un poco ristretta :O)
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x Ranieri
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R. Sassi Saturday, May. 03, 2003 at 8:55 PM |
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Più che un giocare in contropiede mi sembra un ciurlare nel manico: visto che non riesco a dimostrare che i movimenti di oggi sono influenzati dai situazionisti, ditemi voi in cosa siamo andati oltre. Che c'entra? Puo' darsi che i situazionisti fossero i piu' fighi e i piu' avanzati di tutti (non lo credo, ma facciamo conto che te lo concedo), ma non vuol dire che son stati anche influenti e che noi ci si sia evoluti nella direzione che volevan loro. E' una teleologia da grulli, da vecchia "storia delle idee" da manuale del liceo. Ti rovescio la domanda con un altro esempio: dando per scontato che se oggi possiamo trombare è perché l'hanno fatto le generazioni precedenti, significa forse che non c'è più la topa di una volta?
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Trappole identitarie
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Alberto Saturday, May. 03, 2003 at 9:01 PM |
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Il discorso più interessante che trovo in questa intervista a Wu Ming 4 è quello riguardante i miti. Permettetemi di annotare il circolo vizioso in cui si è andato a cacciare Wu Ming 4. Egli da una parte avverte la tensione tra concetti di Identità, Comunità, pensiero Nomade e che egli vorrebbe risolvere all’interno del discorso sul mito. Il mito come levatrice. A mio parere nn tiene. In effetti, anche Wu Ming 4 si accorge che qualcosa nn funziona, che la logica identitaria, comunitaria può essere un cerchio chiuso dove ci si può rimanere intrappolati. Eppure, egli insiste con la mitopoiesi, con le storie mitiche, senza fare cenno sull’episteme, sulla genealogia del discorso sul “mito”. Così facendo percorre la strada più facile, cioè: annotato che esiste nella società il “mito”, il mito stesso è causa di cambiamento o di regressione. Ma come avviene questo? Perché in alcuni casi è parte in causa del cambiamento, mentre in altre situazioni diventa oppressione? Egli dice che l’unica cosa che possiamo fare è raccontare storie, testimoniare. Stop. Francamente, in Wu Ming 4 ravviso uno strisciante “trascendentalismo” e cioè la catena causale si muove dall’alto verso il basso. Certo a volte (nn sempre) si possono ravvisare una pluralità di miti in una data realtà, i quali possono essere in contrasto tra di loro, ma il concetto di mito è sempre centrale e si parte sempre dall’alto per andare in basso. Le lotte di emancipazione diventano difficoltose, problematiche se inserite in un modello di causalità dall’alto verso il basso, possono essere una trappola, e lo sono davvero diventate nella realtà nel caso di movimenti a forte connotazione identitaria sfociati in totalitarismi belli e buoni (nn mi riferisco solo ai soliti totalitarismi). Le cose nn stanno così! Il trascendentalismo è fallace. Per uscire da questo impasse, bisogna partire dal basso per arrivare in alto, partendo perfino dai neutroni, dai protoni, passando per i geni, arrivando al genere umano. Chomsky ci ha provato ed altri lo hanno seguito e altri lo hanno fatto prima di lui.
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Wu Ming e miti
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Fabio di Rieti Saturday, May. 03, 2003 at 9:30 PM |
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I Wu Ming hanno criticato molte volte quello che tu chiami "trascendentalismo" nell'approccio verso il mito, pur dovendo fare i conti anche con quel tipo di tentazione. sul loro sito web ci sono diversi testi interessanti al riguardo. Curioso, quando ho visto il tuo messaggio stavo facendo un copia e incolla per una lista di filosofia, un thread su Kérenyi. Lo ripropongo qui:
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WM1, 2002: Quando i nuovi movimenti parlano di "miti" e di "mitopoiesi" [creazione di miti] non intendono, come molti sembrano credere, proporre una versione "più a sinistra" del pensiero reazionario e "sapienziale", che vede nel mito (al singolare) la narrazione statica di un tempo che sta sopra il nostro, tempo di un ordine ancestrale, "puro", "autentico", che la nostra civiltà avrebbe abbandonato e alle cui immagini dovrebbe riattingere (evitando di modificarle) per trarne lezioni univoche. Per la destra culturale (da Eliade a Guénon) il mito è una dimensione in cui tutto è già stato narrato. Al contrario, noi crediamo che i miti (al plurale) siano narrazioni dinamiche e spurie, racconti che ci permettono di superare la quarantesima notte nell'ignoto (il deserto, le fasi di incertezza del conflitto sociale). La mitopoiesi consiste nel manipolare i miti, nel "farli a pezzi" e ricostruirli, per estrarre la consapevolezza dall'entropia, senza rinunciare alla ragione (come nell'uso strumentale del materiale mitologico da parte del nazismo) né all'emozione (cioè limitandosi ad analizzare). L'approccio giusto possiamo trovarlo solo raccontando.
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WM1, 2001: Secondo Sorel, lo sciopero generale era una rappresentazione che permetteva ai proletari di figurarsi "la loro prossima azione sotto forma di immagini di battaglie in cui [fosse] certo il trionfo della loro causa". Tale immagine, o meglio tale gruppo di immagini, non doveva essere analizzato "allo stesso modo in cui scomponiamo una cosa nei suoi elementi", bensì andava "presa in blocco" come una forza storica, senza fare paragoni "tra gli effetti conseguiti e le immagini accettate dai proletari prima dell'azione" (Lettera a Daniel Halévy, 1908). In parole povere, il mito sociale dello sciopero generale era "in grado di evocare istintivamente tutti i sentimenti corrispondenti alle diverse manifestazioni della guerra mossa dal socialismo contro la società moderna". Lo sciopero generale raggruppava tutti questi sentimenti in "un quadro d'insieme e, raggruppandoli, [portava] ciascuno di essi al suo massimo d'intensità [...] In tal modo [ottenendo] quest'intuizione del socialismo che il linguaggio non poteva restituirci con chiarezza e perfezione - e [ottenendola] in un insieme percepito all'istante". ("Lo sciopero proletario", 1905). Il discorso di Sorel stava nel contesto di una weltanschauung tradizionalmente eroica, sacrificale e moralistica, dalla quale staremo ben lontani. Ovviamente i proletari tenevano gli "effetti conseguiti" (cioè la lotta per mangiare, per la casa, per la salute e la dignità qui e ora, non solo dopo la rivoluzione) in maggior conto di quanto facesse Sorel. Eppure è vero che non si prosegue la lotta contro lo stato di cose presente se non si è ispirati da una qualche narrazione. Negli scorsi decenni i rivoluzionari si sono lasciati sballottare qui e là, da un'alienante "iconofilia" e subalternità ai miti (vedi il culto cristologico di Che Guevara) a un'attitudine iconoclastica che impedisce di comprendere la natura del conflitto.
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WM2, 2001: Abbiamo paragonato il mito a una strana fanghiglia, su cui gettare continuamente acqua, per impedire che si indurisca e diventi inservibile. Centinaia di studiosi si sono chiesti quali sia la sostanza di questo fango. E' importante toccare questo argomento dal momento che mi parli della pericolosità del mito, citando l'uso che ne è stato fatto dai regimi totalitari di destra. Quando si ha a che fare con la sostanza del mito, occorre scegliere tra due alternative fondamentali. Kerényi ce le ha indicate una quarantina d'anni fa. Da una parte, si può sostenere che tale sostanza è metafisica, qualcosa di extra-umano che si rivela nell'uomo e nella storia; dall'altra, si afferma invece che è l'uomo a far echeggiare il mito e che dunque il mito esprime sempre anche lui, l'uomo. La scelta pericolosa è la prima: dichiarare che è il mito ad echeggiare nell'uomo, esprimendo così il suo segreto. Da questa premessa dottrinale, infatti, si passa con facilità a soggiogare l'uomo di fronte a forze che lo trascendono e quindi, al passo successivo, di fronte ai veggenti/manipolatori che possiedono la chiave d'accesso a quelle Verità. Tutte le volte che si separa il mito dall'uomo, anche su posizioni tutt'altro che naziste, si corre questo pericolo. Succede nelle celebrazioni della Resistenza come nei testi delle BR. "Modellare il fango del mito" è una facoltà tipica degli esseri umani, paragonabile alla musica. Kerényi la considera una facoltà molto positiva perché comporta "un ampliamento della coscienza raggiungibile non soltanto da visionari e rende possibile una visione più intensa degli uomini nella loro concretezza - e incita quindi un umanesimo più concreto - di quella che possono offrirci la scienza e la filosofia" Ora, avendo chiaro il pericolo, non si può abbandonare il campo, spaventati da vecchi fantasmi. Occorre giocare la partita del mito, e con schemi diversi da quelli avversari. La risposta all'apologia metafisica non può essere solo negativa, pura demitologizzazzione. Forse allora il vero pericolo è nel porsi stesso del problema. Meglio sarebbe accantonare la sostanza, con tutte le sue subdole fascinazioni, per interessarsi piuttosto alla questione del funzionamento: Come si usa la macchina mitologica? Cosa fare se si blocca? Di che manutenzione ha bisogno? Come si sostituisce un pezzo rotto? Dove si trovano i ricambi? Quanto costano? Questa conoscenza non è necessaria per "modellare il fango", come non lo è conoscere la storia della musica, l'armonia e il pentagramma per suonare il piffero alla festa del paese. Tuttavia ci aiuta a rintracciare storie che vale la pena di raccontare, asce di guerra che bisogna disseppellire, incrostazioni che occorre sciogliere, elementi da rimodellare. Sempre Kerényi distingueva tra una mitologia genuina, spontanea, disinteressata, fatta di contenuti emersi dalla psiche ed una tecnicizzata, evocazione ed elaborazione interessata di materiali utili per un certo scopo. Distinzione superata. Non si tratta più di scegliere tra umanesimo e ideologia. E non è la ricerca di una presunta purezza che ci salverà dalle insidie del "fare mitologia". Non ci interessa l'esegesi, la mitologia va usata, oggi. Raccontare è un atto politico. Le storie sono armi, il mito è un campo di battaglia, ma la partita non si gioca, come nelle recenti polemiche sulla Resistenza, usando il linguaggio senza parole della politica per reinterpretare il mito, ma rintracciando, anche grazie al mito, il senso del gioco e della partita.
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WM1, 2001: Non si può prescindere dai rituali come non si può prescindere dai miti, poiché entrambi danno forma alla vita, ma ci si deve sforzare perché i rituali e i miti non si svuotino né si autonomizzino. "Ricordare insieme" non è per forza di cose un atto impoverente, alienato e sclerotizzato (sclerotizzazione di cui è magnifico esponente il presidente Ciampi). La co-memorazione può anche essere testimonianza civile dal basso, azione propositiva nello spazio pubblico, manifestazione di una "eccedenza" simbolica che spiazza continuamente i poteri costituiti. Un iconoclasma banale, inutile e senza fondamento porta i falliti eredi di certe avanguardie estetiche e/o politiche a demonizzare l'idea stessa di "cerimonia", salvo poi agire essi stessi secondo una ritualità misera e deteriore (vedi il micro-corteo dei "duri" il 20 luglio scorso a Genova). A costoro ha già risposto fin troppo bene Joseph Campbell, sommo studioso di mitologia; in una conferenza del 1964 sulla "importanza dei riti", Campbell diceva: "Tutta la vita è struttura. Nella biosfera, più elaborata è la struttura, più elevata è la forma di vita. La struttura di una stella marina è considerevolmente più complessa di quella di un'ameba, e la complessità aumenta risalendo lungo la linea evolutiva, diciamo fino allo scimpanzè. Avviene la stessa cosa nella sfera culturale umana: la grossolana convinzione che l'energia e la forza possano essere rappresentate o interpretate abbandonando o rompendo ogni struttura è confutata da tutto ciò che sappiamo dell'evoluzione e della storia della vita".
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sui miti, dal lontano 1995
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Luther Blissé 2003 Saturday, May. 03, 2003 at 9:41 PM |
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Il discorso sulla mitopoiesi parte da piu' lontano. Da "Mind Invaders" di Luther Blissett, 1995:
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[...] In una puntata di Star Trek - The Next Generation, intitolata "Darmok"(data astrale 45047.2) l'equipaggio dell'Enterprise s'imbatte nei criptici e misteriosi Tamariani, il cui modo di esprimersi è totalmente incomprensibile agli umani e agli altri popoli della Federazione dei pianeti. I Tamariani sembrano comunicare tra loro enumerando nomi e date, nessuna loro frase segue una consequenzialità logica o linguistica. Ai nostri eroi occorre un po' di tempo per capire che i Tamariani citano episodi della loro storia e mitologia, episodi che costituiscono dei veri e propri "precedenti segnico-linguistici"a cui ricondurre la situazione in cui ci si trova. Ad esempio: "Shàkah quando caddero le mura" può significare "Fallimento", "Ho sbagliato!", oppure "Che sfortuna!"; "Tembàh, le sue braccia aperte" si può tradurre con "Generosità", "Prendi questo dono", o "Grazie di questo dono"; "Miràh, le sue vele spiegate" sta per "fuga", "Andiamo via !"o "Io me ne vado"; "Il fiume Temark durante l'inverno" significa più o meno "immobilità", "Fermo!" o "Stai zitto!"; "Sindah, la sua faccia nera e gli occhi rossi "significa "morte", "moribondo", "sto per morire" etc. Il linguaggio tamariano non è logico-referenziale ma immaginativo-simbolico, iconico, analogico, ed evolvendosi non ha dato luogo a quella che noi chiamiamo "identità". Da quel poco che lo spettatore riesce a capire, non si tratta di una "omologazione" totalitaria all'interno di una società intesa in maniera organicistica, o (in parole più povere) di un livellamento delle differenze individuali in nome di una tradizione, di una memoria acritica e monumentale. Al contrario, i tamariani attingono collettivamente ad un patrimonio di storie e di immagini che si modifica costantemente, e i loro rapporti interpersonali sono una specie di gioco di ruolo nel quale il singolo si appropria e/o si sveste di tutti i ruoli e di tutte le "identità"; la condivisione delle esperienze, la comunanza e la compartecipazione emotiva, sono per loro tutt'uno con l'essere "singoli", in quanto prescindono dal concetto di in-dividuo: l'Io dei tamariani è molteplice e multiverso, la loro soggettività è decentrata. Per questo non c'è una vera e propria distinzione tra soggetto, predicato e complemento oggetto: nelle frasi che ho riportato ci sono, genericamente, un "non riuscire", un "donare", un "andare via" e un "non-agire", azioni di cui si ammettono serenamente la complessità, la ricchezza di significati e l'irriducibilità ad una analisi logica. La situazione che si crea non viene definita e intrappolata nel linguaggio [7]. Il linguaggio tamariano non è segreto né esclusivo, non è un argot che la comunità crea per difendersi dal mondo esterno. Anzi, i tamariani vogliono condividere il loro immaginario e la loro memoria, vogliono ampliarli e contaminarli per capire e farsi capire. Difatti, poiché è impossibile capirsi senza conoscere gli stessi miti, occorre crearne assieme di nuovi, così Datohn, il capitano della nave tamariana, si fa teletrasportare assieme al capitano dell'Enterprise Jean-Luc Picard su El-Adrel IV, un pianeta disabitato e inospitale, dove essi devono collaborare per sopravvivere e difendersi dalle irradiazioni di una energia distruttiva. Questa situazione si ispira a quella definita "Darmok e Djalad a Tanagra"(due eroi della mitologia tamariana, intrappolati su un'isola abitata da una Bestia pericolosa). Resta scolpito nella memoria dello spettatore il grido d'esultanza di Datohn allorché Picard inizia a capire i suoi messaggi: "SUQAT, I SUOI OCCHI NON PIÙ COPERTI!". Dei due si salva solo Picard, ma ormai il precedente è stabilito: d'ora in poi, tamariani e federati potranno manifestare l'intenzione di comunicare dicendo: "Picard e Datohn su El-Adrel". Potrei accontentarmi di affermare che il Multiple Name è uno scudo contro i tentativi del potere costituito di identificare e individuare i suoi nemici, un'arma in mano a quella che Marx definiva ironicamente "la parte cattiva" della società: nel film Spartacus di Stanley Kubrick (USA 1960), tutti gli schiavi sconfitti e catturati da Crasso dichiarano di essere Spartaco, come gli zapatisti sono tutti Marcos e io siamo tutti Luther Blissett. Ma non mi accontento, perché il nome collettivo ha anche una valenza fondativa, in quanto mira a costruire un mito aperto, elastico e ridefinibile in un network tamariano degli eventi i cui prodromi vengono illuminati retrospettivamente dalla morte di Ray Johnson. Occorre però intenderci su cosa sia il mito. Comunemente la parola "mito" si usa per designare una cosa non vera. Gli enunciati che gli antropologi chiamano miti descrivono eventi mai avvenuti; difatti chi narra i miti non si aspetta certo che si ripetano: essi appartengono ad una remota "era dei miracoli", prima che il mondo andasse come va ora. È tuttavia un errore guardare al mito solo come ad una storia mistificata: esso è il più delle volte un atto istitutivo, la storia della prima esecuzione di quell'atto che il rituale ancora perpetua e che convalida un certo diritto nei rapporti sociali. Le narrazioni della venuta del capostipite di una stirpe reale, che reca con sé tutti gli strumenti della civilizzazione, o i miracoli compiuti dal primo antenato di una autorità rituale o il primo uomo che ha usato un certo tipo di magia, sono miti perché convalidano il diritto dei discendenti di esercitare l'autorità politica o spirituale, o a detenere il monopolio nella pratica della magia. Ci sono poi i "miti delle origini", che raccontano come la morte e il lavoro (più o meno la stessa cosa) si siano introdotti nel mondo e come la terra fu separata dal cielo per punire chi aveva disobbedito agli ordini divini. Questi miti cercano di rispondere a dei "perché" universali. I miti con cui la cultura giudaico-cristiana ha maggiore dimestichezza sono comunque quelli escatologici, vale a dire poggianti su una concezione lineare del tempo e proiettati verso il futuro, come i miti apocalittico-millenaristici o i miti di rinnovamento sociale. Nel 1962 il situazionista Raoul Vaneigem scriveva: "Nato dalla volontà degli uomini di sopravvivere alle forze incontrollabili della natura, il mito è una politica di salute pubblica che si è mantenuta al di là della sua necessità, e si è confermata nella sua forza tirannica riducendo la vita all'unica dimensione della sopravvivenza, negandola come movimento e totalità."
La convivenza col mito è certo scomoda, tuttavia è inevitabile, come è stato inevitabile che, nel fuoco-e-sangue delle rivolte e delle guerre di classe, ci si affidasse a questa cristallizzazione dell'immaginario collettivo che illude nell'incanalarsi di ogni azione in un divenire lineare e predicibile. Edgar Morin afferma: "Non dobbiamo operare una semplificazione, credendo che i miti siano mentitori. Essi sono in grado di creare illusioni e di consentire menzogne proprio perché sono 'veri', veri nel senso in cui il grande mito porta, concentra e traduce in sé le aspirazioni profonde non soltanto di un'epoca o di una società, ma più in generale anche dell'umanità. Questo vale per i miti democratici della libertà, dell'eguaglianza, della fraternità e per i miti socialisti, comunisti, libertari".
Il problema non è la presunta "mendacia" del mito, bensì la sua sopravvivenza oltre le forme storiche delle necessità e aspirazioni che raccoglie e dirige. L'immaginario sistematizzato e ritualizzato diviene immagine sociale del potere costituito. Il mito di trasformazione sociale diventa mito fondante della comunità fittizia costruita e rappresentata dal potere: il "Progresso" fonda la cosiddetta "Umanità"- protagonista della "Storia"-, l'atto istitutivo fonda la "Nazione", etc. Tutte soggettività astratte, da scrivere con la maiuscola reverenziale. Il mito fondante degli USA (di evidente derivazione apocalittica e millenaristica) non fu forse quello della "Frontiera", risoltosi poi nello sterminio dei popoli nativi e divenuto infine il collante ideologico dell'imperialismo yankee novecentesco? Per non parlare dei guasti provocati dal mito del "Proletariato": anziché porre le basi della sua AUTONEGAZIONE in quanto classe, il movimento comunista esaltò fin quasi al misticismo il suo ruolo nel presente, le sue "mani callose", il suo onore e la sua "dirittura morale"; qui si mescolavano la spazzatura pauperistica cristiana e una sopravvissuta fiducia nell'attendibilità delle scienze sociali borghesi: il proletario veniva identificato sociologicamente con l'operaio in sé (mentre Marx aveva scritto che "il proletariato è rivoluzionario oppure non è nulla"), oppure fatto combaciare col "povero" delle Sacre Scritture, o addirittura tutte e due le cose assieme. Risultato: il "realismo socialista", il puritanesimo dei comunisti, la morale sessuale coercitiva contro la "decadenza" borghese e tutta l'altra merda, da Kim Il Sung all'italiano Aldo Brandirali. Ma le relazioni sociali umane non potranno mai poggiare su un'impossibile rimozione del fantastico e del simbolico in nome di una razionalità astratta, quindi l'immaginario collettivo continuerà a produrre mitologie. Non può dunque trattarsi di "distruggere i miti": dobbiamo convogliare i nostri sforzi in un'altra direzione: mantenere l'immaginario in continuo movimento, non lasciarlo raggrumare, capire quando e come il mito va smembrato, rielaborato o lasciato cadere del tutto, prima che la pluralità di immagini torni ad essere "assoluto unitario". [...]
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Fisica del mito
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Alberto Saturday, May. 03, 2003 at 11:52 PM |
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Di certo, la materia "mito" è problematica e questo se ne accorgono Wu Ming e quant'altri. E' già punto che avevo riconosciuto a Wu ming precedentemente ed è già una buona base di partenza per nn scivolare nei terreni "reazionari" del "mito". Comunque, il problema rimane insoluto, quando si ritiene di conoscere un "mito" solo con un approccio "olistico". E' neccessario come è stato riportato in alcuni passi qui sopra, smontare la scatola nera "mito", però poi più avanti, si dice, facendo alcune analogie nn corrette a mio parere. di rimanere nel globale, nel totale. Bisogna scegliere l'approccio olistico o la fisica del mito.
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popof La censura di indymedia con la scusa del copia-incolla, ha chiuso il topic sulla spi
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popof Sunday, May. 04, 2003 at 1:55 PM |
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La censura di indymedia con la scusa del copia-incolla, ha chiuso il topic sulla spiritualità. Un nuovo topic è stato riaperto con lo stesso titolo: "La nuova spiritualità del terzo millennio 2". maf.
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x ... su WM ed Empire
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maiale da tartufo Sunday, May. 04, 2003 at 2:03 PM |
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Ho fatto una ricerca approfondita sul sito dei WM, non c'e' nessuna recensione di Empire, nessun commento specifico sul libro, ma c'e' una critica "linguistica" risalente al dicembre 2001:
-------------begin text------------ ........un messaggio spedito da Wu Ming 1 sulla mailing list di Ya Basta! Bologna, il 28 novembre 2001, che non suscitò commenti né ebbe risposte. Si trattava di una critica a quelle che erano solo le prime avvisaglie di un'involuzione linguistica (e quindi comunicativa e strategica). Tale involuzione riguardava quell'area del movimento che - abbandonato il simbolo aperto della tuta bianca - proprio in quei giorni si rapprendeva in una realtà organizzata ben precisa, i cosiddetti Disobbedienti.
LINGUA DI LEGNO
...continuo la mia riflessione (auto)critica sul finire per credere alla propria retorica e sui "tic linguistici" che finiscono per diventare concetti. Ci tengo a precisare che negli appunti che seguono non parlo di cose "astratte": il linguaggio è produzione, è potere, è rete di relazioni, è stare-nel-mondo.
- "Disobbedienza civile" - "Impero" - "Disobbedienza sociale". - "Disobbedienza" tout court. - "Moltitudine"
Finché la parola "disobbedienza" era associata a "civile" rimandava all'idea di cittadinanza (la disobbedienza del cives) , a un percorso ben noto ai più, indicava il momento preciso in cui si decide di varcare il limite della legalità e inoltre, nella nostra particolare interpretazione dava al tutto una torsione "biopolitica", si sposava bene con l'espressione "Impero".
"Disobbedienza sociale" nasce come escamotage per raccapezzarsi nell'immediato post-Genova, è stato come posare una pietra miliare, segnare una discontinuità anche se non si aveva la minima idea di cosa ci attendesse.
Trovo discutibili il perdurare di quest'espressione, la sua graduale sostituzione con la parola "disobbedienza" senza attributi e il suo fissarsi come nome di un soggetto politico ancora tutto virtuale ("area dei disobbedienti").
Tutto questo è successo parallelamente al deteriorarsi dell'espressione "Impero", usata (sempre a sproposito) da tutti i commentatori, come sinonimo di "imperialismo", come metafora per lo stato-nazione USA, come metonimia per "l'Occidente" e chissà cos'altro.
Ciò che di buono aveva l'espressione giace sepolto sotto una discarica di cazzate. Forse non è nemmeno più utilizzabile come mito o metafora da contrapporre a quella della "moltitudine che disobbedisce". Perlomeno non nel modo zapatisteggiante a cui siamo abituati.
Tanto più che non c'è dicotomia tra impero e moltitudine. La seconda fa parte del primo. L'Impero siamo anche noi. L'Impero è anche l'erede (per quanto scriteriato) di secoli di estensione del diritto di cittadinanza.
Dal punto di vista retorico, la "disobbedienza" rimane priva di un'efficace polarità negativa.
Si disobbedisce al padre-padrone, o allo stato-padrone. E' un'espressione che riporta alla vecchia società disciplinare, che invece è diventata qualcos'altro, qualcosa di più sottile e integrato: la società del controllo, un fitto reticolo di classificazioni, controlli, autocensure, criteri di accettabilità, macchine che vedono. E' una società basata principalmente sulla biopolitica, ergo sulla prevenzione e la gestione a distanza dei corpi, dimensione che ingloba e metabolizza la repressione. Il comando è più subdolo, mellifluo, spesso è esso stesso extra-legale, o trans-legale (le nuove mafie ne sono l'espressione più avanzata).
Anche qui, il concetto di "disobbedienza" si ritrova a fare la boxe con la propria ombra.
Ma poi, chi è che "disobbedisce"?
Risposta: la "moltitudine".
Anche qui, la parola è ormai logora, è stata stiracchiata da tutte le parti per aderire a qualunque tipo di consesso, di aggregazione, di comunità e - ahime'! - di massa (che in teoria sarebbe il suo opposto). Personalmente, non riesco più a pronunciarla senza mettermi a ridere.
Anche perché la moltitudine, quella reale, non è fatta delle migliaia di persone che la evocano a ogni pie' sospinto, ma di milioni di persone che noi stiamo intercettando solo per caso, come il 10 novembre [manifestazione nazionale contro la guerra in Afghanistan, N.d.R.].
Insomma, la moltitudine non è certo quella del "laboratorio Carlini", che tutto era fuorché un laboratorio, visto che tra urgenze, acquazzoni, sovraffollamento, repressione e infine voglia di scappare non si è elaborato alcunché.
In francese esiste l'espressione "langue du bois", lingua di legno. E' il linguaggio ufficiale dello stalinismo del PCF (ma anche del PCI), coi suoi concetti sempre più vacui, fatto di richiami rituali a un "socialismo" senza contorni e a un "popolo lavoratore" di cui non si conosceva più la fisionomia. Un linguaggio che produceva continuamente anatemi e bislacchi epiteti infamanti ("opportunisti", "avventuristi", "estremisti", "deviazionisti" etc.)
Anche la vecchia Autonomia aveva la sua "langue du bois", fatta di "soggettività antagoniste", "ricomposizioni del proletariato metropolitano", "sussunzioni reali" e reiterazione ossessiva di slogans e immagini.
Negli ultimi dieci anni noi abbiamo dato alle fiamme quel linguaggio che allontanava l'esperienza.
Sarebbe assurdo sostituirlo con un altro non meno alienante.
----end text---------------
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i cantastorie
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R. Sassi Sunday, May. 04, 2003 at 7:51 PM |
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Perche', i cantastorie che sono, classe dirigente? Da che mondo e' mondo, in tutte le societa' e in tutte le epoche storiche, i cantastorie sono espressi dai ceti popolari e sono integrati nelle comunita', non ne stanno fuori. Certo, nelle comunita' hanno un ruolo preciso, come ce l'hanno il ciabattino, il falegname, l'arrotino, il fontaniere e il saltimbanco, ma questo non li pone "in alto".
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siamo tutti cantastorie
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E. Mascelloni Sunday, May. 04, 2003 at 8:02 PM |
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Per i WM siamo tutti quanti dei cantastorie, quello e' il punto. http://www.wumingfoundation.com/italiano/Giap/nogiap240702.html#carta La differenza tra quel che fanno loro e quello che facciamo tutti la spiegavano tre anni fa nella "Dichiarazione dei diritti e dei doveri dei narratori":
"Raccontare storie è un?attività fondamentale per qualunque comunità. Tutti raccontiamo storie, senza storie non saremmo consapevoli del nostro passato né delle nostre relazioni col prossimo. Non esisterebbe qualità della vita. Ma il narratore fa del raccontare storie la propria principale attività, la propria ?specializzazione?; è come la differenza tra l?hobby del bricolage e un impiego da falegname."
Diciamo insomma che ci sono dei dilettanti e dei professionisti, anche se la distinzione e' sfumata.
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eh si..
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* Sunday, May. 04, 2003 at 8:03 PM |
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mi sono sbagliat*, un piccolo lapsus, me ne sono accort* anche io. a parlare con gli avvocati di wuming (dai, in senso buono) sembra di parlare con loro, ne. che dire intendevo che non tutti i ciabattini hanno gli strumenti per recepire i vostri scritti, ma forse neppure i laureati. ma d'altronde se il canta storiecanta un mito giusto, si tramanda...
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non sono d'accordo
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Vetril Sunday, May. 04, 2003 at 8:19 PM |
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é dai tempi dei tempi che si sa che cultura=potere. il ciabattino non ha lo stesso potere d'influenzamento del cantastorie (che le canta bene,), e anche se lui stesso fosse bravo a cantare storie, sarebbe sempre svantaggiato rispetto ai "professionisti" in ogni caso, condivido il fatto che se una storia non tocca il sentire comune, lascia indifferenti.
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ma vaffanculo va'
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R. Sassi Sunday, May. 04, 2003 at 8:22 PM |
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Avete un poco sfranto i coglioni con 'sta storia idiota degli "avvocati di wu ming", sembra quasi non si voglia lasciar discutere liberamente, se tu fai una domanda e io credo di avere la risposta perche' non te la debbo dare? O era una domanda retorica? Me ne cale assai a me dei wu ming, ma io a differenza di altri prima di spararle grosse leggo, e guarda che qua dentro son tutti avvocati, ci sono gli avvocati del black bloc, gli avvocati di Stalin, gli avvocati di quel pirla di casarini, gli avvocati di Che Guevara, gli avvocati degli ultras livornesi, gli avvocati di Indymedia e via andare.
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...
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Vetril Sunday, May. 04, 2003 at 9:25 PM |
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la dichiarazione dei Wu Ming è condivisibile e anche affascinante. ma si rivolge al cantastorie e non a chi non lo è niente può contro l'asservimento emotivo che il "ruolo" di cantastorie (pensate a quello del medico) crea nella gente "comune" che continua a vedere questi personaggi come entità superiori. non vuole essere polemica, ovviamente, ma per me i miti costruiti dai cantastorie sono miti costruiti ad hoc e dall'alto.
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una risposta
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Wu Ming 1 Sunday, May. 04, 2003 at 10:23 PM |
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giap@wumingfoundation.com |
Vetril, quella che sollevi (e che sollevava anche Alberto, con altri ragionamenti) e' una questione pertinente, ma cerchiamo di girarle intorno, di vederla da più lati. Ragionando in astratto sarà anche possibile dividere in modo netto tra ciò che "viene dall'alto" e ciò che "viene dal basso", ma nella vita reale, nella cultura viva, questo discernere è di complessità sovrumana.
Da dove vengono le storie? Da dove vengono le barzellette, le leggende urbane? In che direzione procedono? In che stagione migrano, in che stagione ritornano? Ogni storia combina elementi e riferimenti che vengono da diverse direzioni, da nord e da sud, da est e da ovest, da un "alto" e da un "basso".
Non credo sia un'impresa realizzabile rimuovere proprio tutto ciò che sospettiamo venire "dall'alto". In concreto: non credo possa esserci una *condivisione* delle storie senza l'elemento della fabulazione, e quindi della *fascinazione* che il cantastorie esercita. Per essere perfettamente anarchici dovremmo forse NON fare le cose al meglio, per avere narrazioni perfettamente orizzontali dovremmo forse impedire a qualcuno di raccontare le storie meglio che può, dedicandoci tempo ed energie?
Un cantastorie che canta "bene" (per ora lascerei da parte che colore vogliamo dare all'avverbio), uno scrittore che scriva "bene"... Costoro esercitano sì una qualche forma di potere, ma deve restare un potere temporaneo e rinegoziabile, anzi, immediatamente rinegoziato: quando racconto una storia la regalo a chi mi sta ascoltando, e devo cercare di fornirgli tutti gli elementi possibili perché possa raccontarla a sua volta.
Insomma, la barriera è valicabile, la differenza è relativa, o almeno io la vivo come tale.
Chiaro che in questa societa' ci sono forze il cui scopo è stabilire una differenza assoluta, alzare una barriera vera e propria, anzi, una grande muraglia, tra cantastorie "professionisti" (preferirei dire "dedicati") e cantastorie "dilettanti" (ma anche i "dedicati" lo fanno per diletto, sennò farebbero altro).
Il copyright e la proprieta' intellettuale servono anche e soprattutto a questo, anche lo star system serve a questo. Ma da qualche tempo stiamo facendo tutti dei passi avanti, abbiamo il tritolo, le tecnologie adeguate, e stiamo aprendo brecce nella grande muraglia.
Le storie hanno una particolarita': possono essere date ad altri senza che chi le dà se ne privi, possono arricchire tutti senza impoverire nessuno. E' come il miracolo dei pani e dei pesci: le storie si moltiplicano.
Bisogna salvaguardare questa loro caratteristica, e l'unico modo è mantenere in movimento, combattere l'influenza di chi vuole appropriarsene per centellinarle dall'alto cercando (anche con l'aiuto degli sbirri) di limitarne la moltiplicazione.
P.S. Ho trovato questo thread quand'era gia' bello che avviato, cinquanta-sessanta messaggi. Ho letto qualcosa ma adesso sono più di cento, mamma mia... Mi sembra che, dopo un avvio stentato, abbia preso una piega interessante. Con tutti i limiti di tempo, che e' poco, e di RAM biologica, che e' tutta occupata, mi/ci (includo i miei compadres) interesserebbe parlare con chiunque voglia di storie e di mitopoiesi, magari partendo dall'intervista a WM4 e dai nostri testi postati qui dentro. Se non riesco a tornare qui provate a scrivermi all'e-mail nell'intestazione. Ciao.
www.wumingfoundation.com/
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fuori tempo ma per non lasciare troppe cose sospese
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Paolo Ranieri Monday, May. 05, 2003 at 12:02 AM |
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per Sassi: ho troppo rispetto per la topa per disperderla in metafore (che comunque mi sono un po' sfuggite). Il nesso fra teoria e prassi rimane sempre oscuro: come si fa a dire quanto dell'opera di Marx é prodotto del movimento rivoluzionario del suo tempo e quanto questo movimento si é indirizzato in base all'influenza di Marx? A me pare che in buona misura il presente sia già leggibile nei situazionisti (tieni conto che io ho il dubbio privilegio, in causa dell'età, di avere conosciuto i situazionisti mentre agivano, e non dopo; quindi per me la conclusione di quell'esperienza l'ho vissuta come una delle possibili conclusioni,e non come la spiegazione, la chiave per comprendere a ritroso - vedo che c'é proprio un abisso fra chi condivide la mia esperienza e chi l'IS magari l'ha conosciuta vent'anni dopo, e parzialmente perché alcuni dei testi decisivi (il Trattato in particolare) ha circolato pochissimo) A proposito anche il mio (e di Albertani e Boldrini) libro (...e vennero come il vento - Massari editore 1997) ha circolato pochissimo, sicuramente perché era caro, e magari anche perché non appariva utile. Fatto si é che degli zapatisti tutti credono di sapere le cose più strampalate... Per Oliver: mezzo mondo per me significa la metà della gente che conosco, in quel contesto del discorso. Comunque, l'intero mondo della gente che frequento (e che non é poca) non ha simpatia né per il libro né per i Blissett-WuMing, credo di essere forse il meglio disposto o poco ci manca... Gli scazzi sono minori che in passato? sì (anche se proprio i LB-WM sono fra i più cimentini dell'intero panorama, e ad esempio il Guy Debord é morto davvero e altre cose successive non paiono ramoscelli d'ulivo). E' un bene? sì. L'ossessione delle rotture é un limite dell'IS? ancora sì, anche se in certi casi forse no. Però a te sembra molto rilevante? a me no. C'é insofferneza per leader e guru? sì, e figurati se me ne dolgo. Devo però rilevare che in buona misura si tratta di una rivendicazione a un rpesunto diritto alla se,plificazione, alla banalità e alla mediocrità. Cioé: una cosa é rifiutare i leader perché ciascuno ha volontà e capacità di guidarsi da sé stesso, perché si porta all'ìaltezza di qualsiasi interlocutore; altra, e la trovo molto nel movimento attuale, é rivendicare "che nessuno ha la verità in tasca", che si navga nella nebbia, che sono uno che non sa e enmemno cerca di sapere nulla, embé? non siamo liberi? non siete libertari? non ci sarà un'unica teoria ma non é che si possa andar dietro alla prima stronzata che frulla pel capo, altrimenti, ed é un rischio derto dei disobbedienti, am un po' dell'intero movimento, di fare una riedizione di lotta Continua, dove tutte le ideologie sono messe alla pari, purché ci sia la lotta...E ogni dibattito, ogni analisi si riduce in slogan, in sound system, in gioia ribelle. E contemporaenamente senti una lagna continua che non ci si capisce una fava, che non si ditinguono le cose giuste dalle cazzate, ma al tempo stesso non solo si dice che é palloso discutere, ma ogni cosa di più di dieci righe é pallosa, specialistica, etc. Per cui molto del rifiuto dei guru, mi pare anche scelta del premasticato, e non ci sto. Ciò detto, non sputo affatto su questo movimento, che mi pare tuttora promettente, e in cui reputo di avere fatto la mia parte, e anche di continuare a farla (che cazzo scriverei a fare qui, con le tante cose che ho da fare?) Assolutamente non vorrei lasciarti con l'impressione che io abbia nostalgia delle cose di trenta o trentacinque anni fa (anche se avevo altrettanti anni di meno, il che mi rende fatalmente un poco partigiano...): penso che le cose abbiano camminato tantissimo, penso che il peso della teoria radicale (in cui i situazionisti hanno un ruolo centrale, ma nient'affatto esclusivo) sia stato molto importante e continui ad esserlo. Vuoi un esempio, e anche una piccola vanagloria personale: al Secondo Incontro zapatista, in Spagna nel 1997, io e Albertani presentammo un piccolo contributo sul concetto di rete nel processo rivoluzionario mondiale. Se ti va di leggerlo, basta che richiami Ranieri su qualsiasi motore di ricerca. Dopo qualche mese la rivista di studi strategici della Cia vi faceva riferimento come indice di uno dei pericoli principali per il sistema mondiale nel nuovo secolo... Per dire che poi chi sia cagato e chi influisca, e chi lascia il segno e chi no, son tutte cose che non sono facili da definire; uno dei sistemi per capire ciò che conta comunque é ad esempio che risulterà invisibile sulle pagine del Manifesto, per riapparire carsicamente dopo qualche decennio, rivendicato come cosa che il giornale ha sempre sostenuto
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gli errori dell'IS
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Paolo Ranieri Monday, May. 05, 2003 at 6:33 PM |
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Come dicevo, io c'ero già a quei tempi;e , ripensandoci, considerando la qualità del dibattito, e la maturità del movimento rivoluzionario, che si risveglivano dopo decenni di vita sommersa, mi pare sempre miracoloso ciò che l'IS ha fatto di buono e in anticipo sui tempi. Tuttavia, oggi non siamo più in anticipo e molte cose si vedono chiare: alcuni compagni che provengono da eseperienze differenti dalle mie, anarchiche principalmente, mi hanno fatto notare, magari pure con ragione, che alcune intuizioni circolavano già e che i situazionisti, oltre a non averle colte, le hanno anche sommerse con la propria impostazione. Cito solo due aspetti: escluso l'ultimo testo (per altri versi così infelice)"Le vere scissioni...", non solo la questione ambientale non é intuita, ma addirittura il progresso industirale viene percepito e affrontato come fattore di liberazione, in particolare di liberazione dalla schiavitù del lavoro. Per altriversi, la lettura della storia dei situazionisti porta molte tracce di quello che nei medesimi anni sarà l'equivoco dell'operiamso. La convinzione che i proletari, in quanto produttori, sono i reali soggetti della storia, e che il capitale li recupera post festum. Il non comprendere a fondo la natura del dominio reale del capitale (il capitolo sesto era allora davvero inedito...) e l'urgenza di una rivoluzione assai profonda, biologica. Il non avere compreso in sostanza fino in fondo ciò che tuttavia veniva pure affermato: che la lotta di classe passa oggi all'interno degli individui, che il proletariato non coincide con la classe operaia da un bel pezzo, che la critica della vita quotidiana é la forma che la lotta di classe assume nell'epoca del dominio reale. I pezzi del rompicapo erano già stati ritagliati, i situazionisti non li hanno tutti assemblati a pieno (ma lo sarebbero stati di lì a poco, per opera di alcuni di loro o di altri compagni, come ad esempio Cesarano) Ci sono poi i pettegolezzi grandi e piccoli, sulle miserie di tizio e le piccinerie di caio, e posso convenire che Debord ha messo del suo per alzare il livello del pettegolezzo, conducendosi più d'una volta in maniera desolante (o diavoletta, come scriverebbe Fourier). Ma queste mi paiono cose stravecchie, che davvero non meritavano di sopravvivergli
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fisica... "microfisica"?
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Wu Ming 1 Monday, May. 05, 2003 at 7:52 PM |
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giap@wumingfoundation.com |
Credo che Alberto intendesse dire la necessita' di scomporre il mito nei suoi elementi, di smontarlo per capirne il funzionamento, la meccanica, insomma di non guardarlo come un Uno (approccio "olistico") ma come una molteplicità, non il Mito ma i miti, anzi, le storie che formano i miti, anzi, i soggetti che raccontano i diversi pezzi che formano le storie, e gli equilibri e i rapporti di forza tra quei soggetti. Sono d'accordo, chiaramente, basta che questo approccio venga *interiorizzato* e divenga un automatismo: se ogni volta che ascolti o racconti una storia ti concentri solo sugli incastri e non sull'insieme, nel primo caso non te la godi, nel secondo finisce che la racconti male.
www.wumingfoundation.com
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miti/sogni
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duemilaenigmineljazz Monday, May. 05, 2003 at 9:54 PM |
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"I sogni aprono una porta sulla mitologia, poichè i miti sono della stessa natura del sogno. Come i sogni emergono da un mondo interiore sconosciuto alla coscienza di veglia, così avviene per i miti. Cosiìavviene, in verità per la vita stessa" J. Campbell "Le figure del mito"
che ne pensi, Wu Ming 1?
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su Campbell, il mito, il sogno
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Wu Ming 1 Monday, May. 05, 2003 at 10:17 PM |
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giap@wumingfoundation.com |
Campbell era un grande classificatore di miti, un eccezionale divulgatore di antropologie comparate, oltreché un affabulatore come pochi ce n'è, ma le sue interpretazioni vanno dallo junghiano al new age spinto, e chiaramente è diverso dal nostro. Quello di Campbell è un "trascendentalismo gentile", umanistico, *illuminato* (non è un trascendentalismo autoritario e violento, da estrema destra filosofica), ma è pur sempre trascendentalismo.
Può anche essere interessante paragonare il mito a un sogno fatto dalla collettività, ma non è proprio indifferente il fatto che il mito sia prodotto durante lo stato di veglia: non è un mero prodotto di libere associazioni dell'inconscio durante il sonno, è una costruzione intenzionale, concordata o combattuta, negoziata, che cerca di imporsi e vive vittorie e sconfitte. Un mito risponde anche e soprattutto a interessi materiali, il modo in cui lo si racconta dipende dai rapporti sociali o dalla volontà di cambiarli. Basti vedere com'è stato più volte ripreso e ri-narrato il mito di Robin Hood, o il mito della rivoluzione, o il mito dell'apocalisse... Il mito non è un sogno, è un'arma.
Ho seri dubbi sulla fondatezza concetto di "inconscio collettivo", e in realtà anche sul funzionamento dell'inconscio individuale descritto da Freud in giù. Però ne verrebbe fuori un dibattito pesante e non credo sia questa la sede. In ogni caso, trovo sia limitante e fuorviante analizzare i miti con gli strumenti della psicanalisi, lo stesso Freud sul mito di Edipo ha scritto cazzate assurde (come ha dimostrato Jean-Pierre Vernant, consiglio il suo "Edipo senza complesso. I problematici rapporti tra mitologia e psicanalisi", Mimesis 1996).
Il problema è che anche l'interpretazione dei sogni è una costruzione culturale: il significato che si dà a un simbolo onirico cambia col cambiare della cultura, della società, dell'economia, dell'istituzione-famiglia. Noi non viviamo più nella famiglia asburgica in cui è cresciuto Freud. Vedere il sogno come realtà a-storica che si può interpretare allo stesso modo da un'epoca all'altra, poi applicare lo stesso metodo al mito, portò Freud a interpretare con la mentalità del 1900 una storia nata in tutt'altro contesto culturale, e giustamente Vernant lo stronca.
http.//www.wumingfoundation.com
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il mito un arma?
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duemilaenigmineljazz Monday, May. 05, 2003 at 11:14 PM |
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"Per quanto tu cammini, e percorra ogni strada,non potrai raggiungere i confini della psiche,tanto ampio si estende il suo lógos" Ho appena letto quest'aforisma (che strana coincidenza...o inconscio?) :-) quindi lasciamo stare Freud (leggi nn me lo toccare) ma..il mito un'arma..mmmm...io continuo a vederlo come un sogno collettivo stai "mitopoietizzando" pure i miti?
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mitopoiesi, mito, armi
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Wu Ming 1 Monday, May. 05, 2003 at 11:37 PM |
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giap@wumingfoundation.com |
I miti sono sempre stati armi, perché raccolgono aspirazioni collettive, desideri di rivalsa, indirizzano le energie, vengono risemantizzati a seconda di come va il conflitto. Il mito ha una base materiale e sociale, il modo di raccontarlo cambia insieme alla lotta tra le classi.
La lettura di Sorel del mito dello sciopero generale è l'esempio più classico.
Ancora più emblematico è l'uso dei miti dell'apocalisse fatto da Thomas Muentzer e dai contadini tedeschi in rivolta negli anni venti del 16esimo secolo.
E l'uso della mitologia e della favole Maya fatto dal subcomandante Marcos?
Potrei anche citare il riemergere, nella storia del movimento operaio, della figura dello schiavo ribelle Spartaco (dagli Spartachisti tedeschi al romanzo "Spartacus" del comunista Howard Fast, poi divenuto un film di Kubrick, sceneggiatura del comunista Dalton Trumbo, protagonista un *immenso* Kirk Douglas). Di Spartaco la storia coeva non ci racconta quasi niente, a essere rielaborato è il materiale mitico, le storie inventate su di lui nei secoli e millenni successivi. Su questo "mito della rivolta" ha scritto cose molto belle Furio Jesi.
Grandi operatori di mitopoiesi sono poi stati Simon Bolivar e José Marti, come anche lo stesso Marx.
La "mitopoiesi" è la costruzione continua, collettiva e dal basso di miti che indirizzino gli sforzi di una comunità in conflitto, e mettano il conflitto nel contesto di una narrazione che dia senso alle vittorie e alle sconfitte. Non è un ghiribizzo di Wu Ming, è una cosa che le classi subalterne hanno sempre fatto, solo che le loro dirigenze politiche non ci hanno riflettuto abbastanza.
www.wumingfoundation.com
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refusi
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Paolo Ranieri Tuesday, May. 06, 2003 at 12:15 AM |
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Un po' paranoico, eh? No, é che non rileggo, qui non c'é nemmeno il correttore automatico, e io ho sempre un po' la nevrosi di finire gli scritti, magari nella speranza o nell'illusione di fare qualche cosa di meglio. Chiedo scusa, a me leggere le cose come le posto io, lo facess un altro, mi darebbe il supernervoso. Devo dare atto a tanti di avere una pazienza notevole
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mitopoiesi e Impero
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Fabio di Rieti Tuesday, May. 06, 2003 at 12:19 AM |
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Quindi è un po' quello il problema con "Impero", che quella narrazione, quel quadro di riferimenti simbolici, si sta irrigidendo, perde duttilità, perché chi l'ha raccontata in quella forma (facendola per altro calare dall'alto, con atteggiamento un po' da profeta più che da cantastorie) non è disposto a decostruirla anche se non si adatta più alla realtà materiale che stiamo vivendo.
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WM vs resto del Mondo
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robin Tuesday, May. 06, 2003 at 8:23 AM |
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WU ming contro il mondo insomma. Il mito del mito adirittura. E x fare questo l'unico metodo in mano ai WM è la distruzione dell'opera altrui.
WM vs Debord WM vs Negri WM vs Campbell
facciamo piazza pulita .....e poi al loro posto ci mettiamo.....
Il problema sono i contenuti 54 è uno dei libri + brutti apparsi sulla scena letteraria italiana ultimamente. Come può da una siffatta schifezza uscire il MIto dei MIti?
Parlate di massimi sistemi e dopo scivolate su queste scaramuccie da bottega. Siccome non avete argomenti atti.... la distruzione dell'avversario è l'unica arma in vs possesso.
Io dico ... prima con le vs qualità (di WM) diventate allo stesso livello di Debord,Negri,Campbell poi magari se ne avete ancora voglia iniziate pure l'opera di distruzione.
Così sbattete solo la testa contro chi ce l'ha + dura di voi.
Il mito di Debord,Negri,Campbell esce di sicuro rinforzato da questo threads....senza fra l'altro aver proferito parola.
Dell'IS ancora oggi c'è gente che pubblica manuali, ci si accapiglia su a 32 anni dallo scvioglimento. Qualcuno crede che tra 32 anni ci sarà qualcuno che farà lo stesso con le Tute Bianche? Il mito delle TB non è mai esistito nemmeno quando erano in vita. Se WM1 uscisse ogni tanto dai circuiti usuali che frequenta x sentire cosa ne pensano anche gli altri , lo saprebbe già da un pezzo. Nelle piazze italiane tutti(a parte le TB)vi hanno riso dietronon solo i compagni ....poroprio tutti). Infatti il mito di quelle azioni si è già perso
Un consiglio....sceglietevi avversari + alla vosta altezza
Brizzi,Evangelisti,De cataldo,Filopat:) poi se tra questi riuscirete ad emergere e ripeto: se ne avrete ancora voglia potreste finalmente confrontarvi con quelli che al momento dovreste solo studiare.ciao
Campbell(lo dico xchè da ste parti è il meno famoso dei tre) è l'autore di un libro(La bianca Dea) attorno al quale è cresciuto uno dei miti + ...intriganti e consistenti dalla fine del secolo scorso fino ad oggi. Il mito della "Bianca Dea" la dea che dal meditterraneo arrivava nel nord Europa. Mito da cui sono nati altri miti. Si potrebbe dire che tutti i movimenti neo pagani e le streghe moderne debbano qualcosa alla visionarietà di quel libro "La bianca dea" ed Adelphi è un libro di sogni, guerre tra alberi,saghe primordiali alfabeti arborei che escono dall'inizio dei tempi....
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Joseph Campbell
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R. Tuesday, May. 06, 2003 at 10:02 AM |
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Prima che lo faccia qualcun altro devo prendermi a calci nel culo da solo. Troppa maria troppo lavoro....il cervello perde colpi..
La Bianca dea è di Robert Graves.
Ah fare il saputello di prima mattina.....
Meriterei la pubblica gogna .
Anzi potrebbe essere un idea... una sezione del forum dedicata alla pubblica gogna di chi spara cazzate troppo evidenti:)
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be'
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duemilaenigmineljazz Tuesday, May. 06, 2003 at 12:36 PM |
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che i wuminghi DISTRUGGANO il mito di Impero a me non può fare che piacere forse la vera sfida sarà vedere quale mito regge e quale no le tute bianche, condivido, erano un inganno, non sono mai state mitiche per la maggior parte della gente forse è per questo che sono morte in fretta e non come dice wm che "dovevano morire"
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per robin sul mito dei miti
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duemilaenigmineljazz Tuesday, May. 06, 2003 at 12:44 PM |
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guarda che si parlava di ridiscutere il mito dei miti non di fare uscire un mito del mito :-) ma forse Wu Ming 1 te lo spiegherà senz'altro meglio Negri, insisto, io non riesco a leggerlo, i Wuminghi si, sanno scrivere, al di là dei contenuti ciao
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Robin, che dici?
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oliver Tuesday, May. 06, 2003 at 1:08 PM |
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Che dici, Robin? Non hanno attaccato Campbell, anzi, e WM1 non ha fatto nessuna polemicuccia da bottega, su questo thread ha parlato solo di gente che APPREZZA e STIMA, Sorel, Martì, Marx, Kubrick, Fast, Trumbo, perfino Ranieri! Anche la critica a Negri è tranquilla e concede attenuanti :) Mi ha addirittura stupita, questa calma olimpica.
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construens uber alles
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Wu Ming 1 Tuesday, May. 06, 2003 at 5:00 PM |
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giap@wumingfoundation.com |
L'approccio non può essere la distruzione del "pensiero altrui", semplicemente perché non esiste un "pensiero altrui" come non esiste "un pensiero mio", il pensiero è di tutti. Ciascun "pensatore" contribuisce in ogni momento con una sintesi precaria, ai flussi di immaginazione e di informazione, e non deve pretendere di appropriarsi delle idee che rielabora, anzi, deve mantenere il tutto *aperto* e in costante movimento. A rigore, non esiste un "mio" pensiero, né un pensiero "di Negri" o di chiunque altro, sono contro la proprietà privata delle idee.
L'approccio non può nemmeno essere la "distruzione" di un mito, siamo sempre stati contrari a quest'impostazione, fin dai tempi del LBP (cfr. il frammento di "MInd Invaders" che qualcuno ha postato qui sopra). Un mito non può essere distrutto, perché è il prodotto di forze storiche, di spinte concrete, è la "risultante" (si direbbe in fisica) di innumerevoli spinte da parte di soggetti reali. Può però essere smontato e ricostruito, raccontato in maniera diversa, e diviene necessario farlo nel momento in cui non risponde più alle esigenze per cui fu raccontato la prima volta, nella fase in cui le forze storiche che lo hanno creato diventano apparati conservatori.
*Adoro* Campbell, l'ho citato talmente tante volte da sembrare un suo fan. Eppure non sono d'accordo con la sua ideologia, lui (e anche Robert Graves, che pure ho letto con piacere) pensa al mito come a qualcosa che viene dalla Grande Psiche, cioè dall'alto, dall'altrove e dal profondo. E' un idealista e un trascendentalista. La mia impostazione, per quanto "mutagena", resta ancorata al materialismo storico, sono cioè un "immanentista": credo che il mito non trascenda la società in cui si forma e in cui viene raccontato, ma ne rimanga parte e si modifichi con l'evolversi di quella società. Ci sono forze che vogliono impedire tale evoluzione (della società e quindi del mito), e contro queste bisogna combattere.
Al di là delle critiche, l'apporto storico di Negri rimane essenziale, per la mia formazione personale, per il LBP e anche per Wu Ming. La "Dichiarazione d'intenti" di Wu Ming, scritta nel gennaio 2000, si concludeva con una citazione da "Spinoza sovversivo". La differenza tra noi e i suoi "piccoli fans" è che noi, qualora incontrassimo il Buddha per la strada, lo uccideremmo. Non crediamo nei santoni e pensiamo che le stanze dell'edificio negriano abbiano bisogno prima di tutto di una rinfrescata e di una ritinteggiatura, dopodiché l'edificio dev'essere occupato e cambiato d'uso.
Infine, da parecchio tempo ormai ci concentriamo sulla pars construens, sulla valorizzazione anche testarda di ciò che di positivo sta avvenendo nel movimento, nella Rete, nel mondo. Chiunque affermi che il nostro approccio è "distruttivo" mostra semplicemente di non conoscerci e non aver letto niente di nostro. Certo non lesiniamo critiche anche aspre a chi secondo noi le merita, ma sono critiche espresse nel contesto di una caparbia, cocciuta valorizzazione delle comunità operose, delle collettività, delle tendenze al "comune" che oggi si stanno esprimendo.
www.wumingfoundation.com
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Cesarano
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Paolo Ranieri Tuesday, May. 06, 2003 at 6:54 PM |
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Era un nostro compagno, che si suicidò nel 1975, fra i fondatori di Ludd-Consigli Proletari, autore da solo o con altridi vari libri (Apocalisse o rivoluzione; Manuale di sopravvivenza, Critica dell'utopia capitale; Cronaca di un ballo mascherato, etc). La cooperativa Colibrì sta curando l'edizione dell'opera omnia.
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dubbio
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Angela Tuesday, May. 06, 2003 at 8:03 PM |
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Ma non state confondendo le t.b. coi disobbedienti? mi sembra che i disobbedienti abbiano ripensato, se non proprio rinnegato, le strategie delle tute bianche, e x es. gli stessi wu ming hanno collaborato con le t.b. ma dopo genova non sono entrati nei disobbedienti, anzi li hanno criticati duramente, e pare non siano i soli, visto che in un altro thread su Indy, ieri, un portavoce dei disobbedienti accusava le ex-t.b. di bologna di essere i mandanti della torta in faccia a casarini, e un'ex-t.b. di new york di essere l'esecutrice. insomma, non e' superficiale giudicare tutte le ex-t.b. per quello che fanno oggi i disobbedienti?
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per wu Ming 1
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Vetril Wednesday, May. 07, 2003 at 5:25 PM |
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L'approccio non può essere la distruzione del "pensiero altrui", semplicemente perché non esiste un "pensiero altrui" come non esiste "un pensiero mio", il pensiero è di tutti. Ciascun "pensatore" contribuisce in ogni momento con una sintesi precaria, ai flussi di immaginazione e di informazione, e non deve pretendere di appropriarsi delle idee che rielabora, anzi, deve mantenere il tutto *aperto* e in costante movimento. A rigore, non esiste un "mio" pensiero, né un pensiero "di Negri" o di chiunque altro, sono contro la proprietà privata delle idee. ____________________________________
condivido, ma la realtà non è questa se negri e hardt scrivono impero, per fare un esempio, è a loro che viene attribuito il pensiero e di conseguenza fama, popolarità, POTERE
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+per vetril
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Paolo Ranieri Wednesday, May. 07, 2003 at 6:35 PM |
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Ma non é appunto quella fama, quella popolarità, quel potere che si va ripudiando? Perché, se ci pensi, di quale materiale sono composte queste cose, di cui si nutre, per fare un solo nome, Berlusconi? E d'altra parte che potere ha, per stare al tuo esempio, Negri cge noi non abbiamo? E ha una fama o una popolarità tale da essere invidiata o non piuttosto temuta? La pretesa di coagulare intorno a sé una proprietà abusiva, come quella di un'opera, non implica anche in qualche maniera il condannarsi a morire con essa? Insomma, se nell'esempio che fai, credo che la parte migliore di Impero siano i dirtti d'autore, come per i libri della Tamaro, a livello generale, mi pare piena d'attrattive l'idea di praticare un'oipera, ideandola, sviluppandola, moltiplicandola, capovolgendola, deturnandola, appunto, piuttosto che farsene imprigionare con il cappio di un curriculum o di un estratto conto
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x Paolo Ranieri
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Vetril Wednesday, May. 07, 2003 at 8:24 PM |
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nn ho afferrato bene il senso del tuo discorso :-( ma mi sembra in ogni caso che ti rivolgi allo scrittore no? io intendevo dire che hai voglia di spiegare alla gente, alla "moltitudine" che il pensiero non è unico e di proprietà, ma i caproni lo attribuiscono comunque dai se tu scrivi un libro chi lo compra non va a fare tutto il ragionamento sottile del pensiero collettivo e tutte le minkie ma dice "bravo -o pessimo- scrittore, belle idee e minke varie"
comprì?
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x vetril
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Wu Ming 1 Wednesday, May. 07, 2003 at 9:02 PM |
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Non e' solo colpa del lettore/acquirente che ha il riflesso condizionato: c'e' un intero sistema che lavora per continuare a riprodurre e imporre ad nauseam lo stereotipo del Genio, dell'ispirazione individuale, del Grande e Brillante Scrittore (o Teorico/Filosofo/Poeta etc.) e c'e' una complicita' diffusa degli scrittori medesimi, anche di quelli che sono esclusi dalla ridistribuzione dei proventi generati da questo meccanismo. Noi lo abbiamo piu' volte definito "crumiraggio".
Pero' - e lo facciamo notare in tutti i nostri scritti su copyright etc. - ci sono fortissime controspinte verso una creazione libera, multiforme, decentrata, collaborativa. C'e' la nuova economia del dono tipica della Rete, c'e' l'estetica del cut-up e della ricombinazione, c'e' il "reverse engineering" comunitario del software libero, c'e' la "pirateria", la condivisione peer-to-peer, c'e' l'accesso a tecnologie che permettono riproduzione senza calo di qualita' e infinite possibilita' di ricombinazione/modifica/stravolgimento...
Sarebbe un grave errore sottovalutare tutto questo. L'esito della guerra e' ancora aperto, spalancato e anzi, diverse battaglie le stiamo vincendo.
www.wumingfoundation.com
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per vetril
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Paolo Ranieri Wednesday, May. 07, 2003 at 11:01 PM |
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Lascia strae l'ipotetico caprone: la sostanza della teoria del proletariato, proprio il suo fondamento, é che i proletari pensano, capiscono e spiegano il mondo; che non esiste il caprone ma la capronaggine delle relazioni per cui non ci si intende a vicenda. Altrimenti si scivola in un pensiero di tipo studentesco, per cui noi fighi certe cose le comprendiamo, ma la massa...la massa siamo noi, un po' capiamo e un po' no, un po' subito e un po' dopo, e soprattutto anche qeullo che capiamo finiamo per non tenerne e per asoltare piuttosto il verbo della merce. Questo lo fanno tutti i caproni, e noi insieme con loro. Una cosa giusta, fra le moltissime, che dicevano i situazionisti: le nostre idee sono in tutte le teste. Ma si tratta di dar loro il modo di produrre eco, di creare situazioni dove il dialogo possa far vincere le proprie condizioni. Non é semplice, ma credo che il presupposto sia pretendere in ogni dibattito. da noi stessi e dagli altri, un po' più del massimo raggiunto fino ad oggi.
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Togliersi la scimmia dalla schiena
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Alberto "Moses" Wednesday, May. 07, 2003 at 11:09 PM |
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Mi pareva! Ora Wu Ming è stato più chiaro o sono io che son scemo! Giusti i Miti bisogna smontarli, proprio come faceva Leibniz nel suo Monadologie, osservare i pezzi che s'interscambiano. Ciò che esiste sono solo meccanismi meccanici, materiali, nn esiste una res cogitans, esiste solo una res extensa, la materia. Nn esiste un "ghost in the machine". Il copyright è un furto. Nn esiste un intelligenza individuale esiste solo un'intelligenza collettiva. Come diceva un famoso antropologo americano tale Harris, per fare una analisi materialistica è necessario togliere la scimmia (Hegel) dalla schiena di Marx.
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grazie, zio Carlìn!
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Vetril Thursday, May. 08, 2003 at 7:17 PM |
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molto interessante. Ne approfitto per chiedere a Wu Ming 1, visto che si lamenta dell'accoppiata spontanea e dal basso :-P di LB-Wuminghi/situazionismo, che c'entra "In girum imus nocte et consumir igni" col pezzo che lui ha scritto (quello che ho segnalato io poco sopra) grazie ciao
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brevi cenni sul mondo
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Wu Ming 1 Thursday, May. 08, 2003 at 9:25 PM |
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No, non mi dispiace, fai pure. Non mi mettero' certo li' a fare lo sbirro SIAE della teoria antagonista.
Non convince nemmeno me il cut-up fine a se stesso, tanto per farlo, pero' ognuno ha il diritto di non considerare un testo *sacro*.
Quando parlo di "estetica del cut-up" parlo di una tendenza generale alla ricombinazione, alla manipolazione, allo smontare e rimontare, che partendo dalla natura cangiante e *aperta* delle ballate popolari e delle canzoni di lotta, passa attraverso il collage surrealista, il do-it-yourself della controcultura e del punk, il cut-up di Burroughs, i campionamenti dell'hip-hop, ai "bootleg remix" tanto diffusi in rete, porta dritti dritti al "reverse engineering" del software libero, al rifiuto di massa della proprieta' intellettuale etc.
Parlando di "estetica del cut-up" ricorro a una sineddoche, figura retorica che indica la parte per il tutto.
Questo rifiuto di genuflettersi di fronte al Testo e' un atteggiamento salubre, porta direttamente a quella voglia di smerdare i santoni a cui accennavo in un commento poco sopra.
Mi sorprende che uno come te, che credo apprezzi le indicazioni lettriste/situazioniste sul detournement, sia all'oscuro di tutto questo percorso, o perlomeno non ne colga l'importanza al contempo sovversiva e fondativa, e lo liquidi con battutine.
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a parte che...
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Vetril Thursday, May. 08, 2003 at 9:31 PM |
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io i situazionisti (e nn solo) li conosco davvero poco, le poche (ma davvero poche) robe che ho capito mi piacciono e spero di riuscire a comprenderli meglio, primo. secondo, non era una battuta, perchè se non c'è un nesso col titolo del film di debord e il tuo scritto non vedo perchè uno non possa metterci "gelato al cioccolato" come premessa a un tuo scritto.
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si...
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Vetril Friday, May. 09, 2003 at 12:27 AM |
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vero, il sito riporta lo stesso "esametro palindromo" (ma non si legge esattamente al contrario però, solo un po', pensavo già Debord fosse pure satanista) in tutte le pagine, io avevo aperto solo quella e l'effetto era stato come una presentazione del tuo pezzo... strano vero? mi ha ricombinato la mente, con un'associazione che in realtà non aveva modo di esistere ciao
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da clarence.com su Spartaco, Jesi e il mito della rivolta
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oliver Friday, May. 09, 2003 at 2:53 PM |
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04. Rassegna Stampa: Furia Jesi
Chissà cosa sarebbe stata la cultura italiana se Furio Jesi non fosse morto anzitempo. Inutile chiederselo, anche perché la risposta la conosciamo bene: avremmo avuto una formidabile fenomenologia interpretativa dell'apparato simbolico tradizionale, sottratto al monopolio degli indagatori alla De Turris. Furio Jesi è ben più del nostro Coulianu: è il nostro Eliade. La filosofia, la letteratura e la critica italiana sarebbero restate conturbate dalla riemersione guidata di un patrimonio anideologico, che deposita salinamente la sostanza stessa del pensiero e che quindi è la materia medesima della letteratura e della filosofia. Come già affermato in precedenza, in Italia abbiamo dovuto attendere lo sdoganamento della letteratura di genere per tornare a disporre di un repertorio allegorico e simbolico fuori dalle brume destrorse: soprattutto grazie a Valerio Evangelisti, a Tommaso Pincio, ai Wu Ming e, su piani generativi diversi, ad Antonio Moresco. Però bisogna ricordare Furio Jesi: è il genio delle nostre possibilità non perdute. Ripubblichiamo un articolo di Franco Volpi apparso sulla Repubblica il 15 maggio di tre anni fa, in occasione dell'uscita presso Bollati Boringhieri di Spartakus, Simbologia della rivolta, un inedito anni Sessanta di Jesi.
Travolti da un insolito ribelle L'indagatore di miti, amico di Kerényi e Calvino, autore di una storia della cultura di destra, scrisse negli anni '60 un saggio dedicato a Spartakus e alla rivolta di Franco Volpi
Colpiti dalle intuizioni di cui è ricca la sua "opera interrotta", saremmo davvero tentati, proiettandoci con l'immaginazione oltre il destino che spense anzitempo il suo genio, di porci questa domanda: che cosa sarebbe diventato Furio Jesi - precocissimo egittologo, germanista e studioso del mito - se la morte non lo avesse strappato, non ancora quarantenne, al febbrile e tumultuoso lavoro che andava compiendo? Un libro inedito scoperto di recente tra le sue carte, e pubblicato a cura di Andrea Cavalletti (Spartakus, Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, pagg. 136, lire 35.000) alimenta ulteriormente queste immaginazioni. Un po' come nel caso di un altro precoce studioso del mito e delle religioni, Ioan P. Culianu, anch'egli strappato da un assurdo destino a un lavoro scientifico molto promettente. Mentre Culianu aveva però incanalato e urbanizzato il suo talento nell'alveo della ricerca accademica, il genio di Jesi era una forza naturale troppo genuina, troppo spontanea e originaria per sottomettersi ai canoni abituali del lavoro scientifico. Troppo imprevedibile per dire che cosa ancora avrebbe potuto dare. Una nuova testimonianza della sua prorompente genialità è questo libro su Spartakus, che Jesi aveva consegnato all'editore Silva per la stampa alla fine del 1969, ma che non fu pubblicato per le sopraggiunte difficoltà economiche dell'editore. Assolutamente originale la impostazione. Non si tratta di una storia del movimento spartachista di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, dalla scissione dal partito socialdemocratico fino alla rivolta dell'inverno 1918-'19 e all'assassinio dei due capi. Jesi studia il movimento tedesco solo come caso paradigmatico di "rivolta" da cui ricavare - è questo che gli sta veramente a cuore - conclusioni generali, ossia antropologiche, sociologiche, teorico-politiche, teorico-mitologiche, concettuali e filosofiche. Ma che cosa presenta di tanto singolare e interessante il fenomeno della rivolta? Per Jesi esso mette in crisi la concezione marxiana della storia e la sua capacità di intrepretare gli eventi: lo specifico della "rivolta", nella sua radicale differenza dalla "rivoluzione", sfugge alle maglie della spiegazione storico-dialettica. E' soprattutto la scarsa considerazione della simbologia del mito a privare la visione marxista dell'azione politica di quel potenziale esplicativo che invece la mitologia, con i suoi simboli, può sviluppare. L'agire politico ha bisogno di trovare rappresentazione, di cagliare in un'idea, nella parola o nel gesto che la esprimono, in un progetto. E il mito ha essenzialmente questa funzione, sia come mito- fonte che come mito-strumento, secondo la precisazione di Jesi che riprende la distinzione di Kerényi tra mito genuino, veritativo, e mito strumentale, tecnicizzato. Da qui la spiegazione del movimento spartachista: "L'assunzione del nome di Spartaco da parte dell'ala estrema dell'opposizione separatasi dal Partito socialdemocratico tedesco allo scoppio della prima guerra mondiale è un rimando al mito o - in altri termini - una cristallizzazione strategica del presente storico tale da evocare l'epifania del tempo mitico: dei giorni in cui l'antico Spartaco guidava la rivolta degli schiavi". Ma, al di là del movimento storico, la "simbologia" di Jesi intende portare alla luce i caratteri generali del fenomeno della rivolta, proponendosi come alternativa alla comprensione storicista. E ciò in anni in cui lo storicismo marxista era il riferimento metodologico dominante nelle scienze umane. Jesi, insomma, intona un controcanto a Lukács e illumina in modo nuovo la scena: "Non i grandi teorici del marxismo", scriveva minando alla base i blocchi compatti dell'ortodossia, "ma gli ultimi maggiori rappresentanti della cultura borghese hanno fatto luce spesso con estrema franchezza... E' sintomatico che i chiarimenti maggiori vengano non tanto dagli economisti, dai sociologi, dai filosofi, quanto dagli ultimi e più alti esponenti borghesi dell'arte letteraria". Quindi più che Scheler, Weber o Sombart, Jesi prende come suoi riferimenti Dostoevskij, Storm, Thomas Mann e perfino il "triviale" Eliade, come rimarca preoccupato il mitologo Kerényi (a sua volta considerato "grafomane" dal sobrio e raffinato Walter P. Otto). Già la perentoria definizione con cui Jesi esordisce imprime alla sua analisi una decisa virata rispetto alla tradizionale svalutazione storico-dialettica della rivolta, intesa in subordine alla rivoluzione: "Usiamo la parola rivolta per designare un movimento insurrezionale diverso dalla rivoluzione". La differenza tra rivolta e rivoluzione non va però cercata nella presunta diversità dei fini dell'una e dell'altra, giacché entrambe possono perseguire il medesimo scopo, cioé impadronirsi del potere. La vera differenza è data, sostiene Jesi, da una diversa esperienza del tempo. Se la rivolta è "un improvviso scoppio insurrezionale", che di per sé non implica una strategia a lungo termine, e la rivoluzione è invece "un complesso strategico di movimenti insurrezionali coordinati e orientati a scadenza relativamente lunga verso gli obiettivi finali", allora la differenza potrebbe essere fissata in questo modo: mentre la rivoluzione è interamente calata nel tempo, la rivolta sospende il tempo storico e instaura un tempo in cui tutto ciò che si compie vale per se stesso; mentre la rivoluzione si inserisce nell'attualità lungo un arco temporale continuo, teso tra il passato e l'avvenire, tra la storia e l'utopia, la rivolta è invece radicalmente inattuale. Come ogni esperienza-limite, come lo stato d'eccezione, essa cambia l'esperienza del tempo, sospende il ritmo normale della vita, instaura l'attesa (della vittoria, della pace, della salvezza) e quindi produce una dilatazione d'animo: ogni scelta decisiva, ogni azione irrevocabile crea l'accordo col tempo; ogni indugio mette fuori tempo. Quando lo scontro è finito, quando l'esperienza del limite è riabitualizzata e lo stato di eccezione tolto, ritorna il tempo quotidiano, la regola, la sincronia con l'orologio universale della storia e della produzione. Si affollano a questo punto associazioni pericolose e probabilmente non volute da Jesi, ma inevitabili: con la concezione jungeriana del Ribelle, che "passando al bosco" sospende il tempo della quotidianità borghese, le sue regolarità e le sue norme; con le forme e le opposizioni estreme che caratterizzano lo stato d'eccezione secondo Carl Schmitt, ammirato da Walter Benjamin, a sua volta amato da Jesi; con l'attimo di Kierkegaard e la temporalità autentica di Heidegger. Con questo libro Jesi apre un singolare ma illuminante itinerario transdisciplinare che ci fa vedere il legame dell'agire politico con la sua rappresentazione, connettendo teoria dell'azione e teologia politica, antropologia e letteratura, analisi sociale e studio del mito. Era probabilmente uno dei molti lavori di avvicinamento all'Introduzione alla scienza del mito che Jesi aveva in animo di scrivere. E nel quale egli avrebbe certamente sviluppato quella che potremmo chiamare l'analisi dell'uomo "eterno mitologo" e la storia della sua cacciata dal "paradiso degli archetipi", in particolare quel folgorante capitolo, qui solo accennato, che racconta come e perché il deus absconditus ebraico-cristiano, entità senza volto, abbia spezzato la fiducia umana nella veridicità del mito, riducendolo a favola da cui non scaturisce- salvezza. Sono ormai passati vent'anni dalla scomparsa di Furio Jesi, ma, davvero, dovremo rammaricarci ancora a lungo per tutto ciò che egli ci avrebbe dato se la morte non avesse tragicamente spezzato il filo della sua ricerca.
Inviato da giuseppe genna , Giovedì 8 Maggio 2003 |
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x Angela
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Vedetta lombarda Saturday, May. 10, 2003 at 5:13 PM |
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Se pensi che sull'ultimo numero della rivista mega-flop "Global" (loro dicono di aver venduto 7000 copie del primo numero, che gia' sono poche, e sicuramente sono pure di meno) Luca Casarini attacca "i profeti senza nome che scrivono cose poco serie sulle riviste del pacifismo non-governativo" e fanno parte della "sinistra retorica che confonde il conflitto/consenso con la corruzione e il bizantinismo" (ci credete che lo ha davvero scritto Casarini, con 'sti vocaboli??), credo sia resa l'idea del rapporto tra i disobbedienti e i WM.
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le parole e il loro senso
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oliver Saturday, May. 10, 2003 at 5:17 PM |
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Non entro nel merito perche' non lo conosco ne' mi interessa, ma quest'uso della parola "bizantino" e' un retaggio razzista risalente alle crociate, quando tutto quello che era orientale, "di Bisanzio", cioe' turco e islamico, era retoricamente associato alla falsita', alle cose torbide e losche etc., mentre cio' che era occidentale era associato alla lealta' e all'onesta', e infatti il contrario di "bizantino" era "franco" (le crociate le facevano soprattutto i franchi, cioe' i francesi).
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ok
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Giovannino Saturday, May. 10, 2003 at 8:13 PM |
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provo ad invertire la domanda per capire di più.. ho letto una mail di Wu Ming 1 in cui criticava l'involuzione linguistica della disobbedienza, ma, io immagino, le motivazioni della rottura non possono essere soltanto queste, o sì? forse ha contato pure il fatto che questa critica non ebbe (ma parlano solo davanti ai media questi?) né commenti, né risposte?
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x giovannino
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Wu Ming 1 Saturday, May. 10, 2003 at 8:24 PM |
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La disobbedienza un mito? Se ho inteso la domanda, e parli della "Disobbedienza"-marchio-registrato, rispondo - spassionatamente e in assoluta tranquillita' - che credo di no.
Io penso sia un concetto privo di forza, perché privo di una chiara connotazione.
A mio parere, questa vaghezza non la rende un concetto *aperto* e liberamente adottabile, la rende semplicemente un concetto insipido, incolore, tedioso nel suo auto-evocarsi.
Queste caratteristiche della "Disobbedienza", associate al modo - che mi sembra un po' ricattatorio - con cui la si propone (senza spiegarla), finiscono per farla identificare non con l'intero movimento o con le moltitudini, bensì con la precisa e strutturata organizzazione di chi la cita e la sbandiera.
Questa non è la comunicazione per contagio che serve a noi tutti/e, prova ne sia che produce una "lingua di legno".
Se qualcuno pensa che questa impostazione stia avviando processi di mitopoiesi sostenibile, e fertilizzando le menti di comunità aperte, si tratta di un'opinione legittima, ma non è la mia.
Di recente, qualcuno ha scritto che quando un termine "viene usato per indicare tutto e il suo contrario [...] esso è semplicemente inutilizzabile" (Piero Bernocchi su Carta del 24 aprile scorso - è la prima volta che lo cito in vita mia perché è la prima volta che concordo in toto con una sua affermazione).
Puo' invece essere materia mitica utile, duttile, malleabile, l'immaginario legato alla disobbedienza *civile*, concetto di pubblico dominio, senza copyright ne' marchio registrato.
Tuttavia (occorre tenerlo presente) e' anch'esso un immaginario contraddittorio e da ridefinire/riassemblare, soprattutto perche' e' di chiara matrice liberal-democratica (da Thoreau a Gandhi a M.L. King) o al massimo radical-democratica, quindi soffre della crisi di *tutti* i modelli del pensiero democratico/illuminista occidentale, e soffre delle condizioni oggettive che oggi rendono difficile la vita di chiunque voglia formare un immaginario *aperto* e non-identitario.
Oltre al problema violenza/non-violenza, dicotomia che le tute bianche - pur tra molti errori ed equivoci - avevano cercato di superare in avanti, con una pratica non incasellabile, e che oggi si ripresenta col suo solito effetto paralizzante.
A scanso di equivoci, io non sono mai stato un non-violento e continuo a non definirmi tale.
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compagni di merende
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la zietta di Debord Thursday, May. 15, 2003 at 5:58 AM |
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Volevo solo dire che la recensione di clarence è a firma G.Genna,il quale è il tipo che tiene il sito Carmilla(Evangelisti)da cui è uscita anche questa intervista.
+ che una critica mi sembra un elogio preconfezioinato.
Non dimentichiamo che Evangelisti e Wu ming(busetta e botòn)appartengono tutti e 2 alla stessa scuderia.
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Genna,io
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giuseppe genna Thursday, May. 15, 2003 at 4:09 PM |
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genna@clarence.com |
Gentilissimi, perdonate l'intrusione. Qualche parola di chiarimento rispetto alle cose dette circa il sottoscritto e Carmilla, soprattutto. Anzitutto, per Padre Teresa, io non sono il tipo che tiene Carmilla: tutta la redazione di Carmilla gestisce il sito. Chiunque posta liberamente, con un'allegria sconcia e una serietà profonda che mi hanno fatto amare da subito i carmilli tutti (i quali, purtroppo, sono più carmilli che carmille, e includono personaggi che nemmeno da omosessuale vorrei ritrovarmi nel talamo, tipo Sandrone Dazieri... ;-P). Quanto all'intervista rilasciata da Wu Ming 4 al Viejo Topo, garantisco che la redazione di Carmilla tutta è orgogliosa di avere avuto da Wu Ming il permesso di pubblicarla (come scritto nella breve nota iniziale). Io sono poi per la massima diffusione, la più vasta possibile, di idee come quelle espresse da WM4 nell'intervista che, a mio modo di vedere, è eccezionale. Eccezionale soprattutto in un contesto storico, radicalmente rivoluzionario, come quello che stiamo vivendo da almeno cinque anni. Qui arriviamo alla recensione che ho fatto di GIAP!, l'antologia dalla newsletter storica dei Wu Ming che Einaudi sta per fare uscire in libreria (il 20 maggio). Comprendo benissimo che facciano sollevare i sopraccigli certi toni entusiastici che ho adottato: e meno male! Peraltro e per correttezza, vorrei rimandare alla recensione che, sempre su Clarence (http://www.clarence.com/contents/cultura-spettacolo/societamenti/archives/000736.html#000736), avevo pubblicato all'indomani dell'uscita di 54 e di cui riporto un significativo passo: "Ambizioso secondo premesse e riuscito secondo le stesse, 54 è un testo epico: da un lato, in quanto attesta una svolta epica che avviene tutta nel nostro tempo e alla nostra latitudine; d'altro canto, poiché la materia stessa di questo pluriromanzo di Wu Ming è esattamente l'epica stessa, la fascinazione mitologica che resta la più clamorosa delle avance che la letteratura fa all'uomo. In quanto romanzo epico, 54 è tutto: lirica e canto corale, indagine e suspence, mito e storia, invenzione e realtà, attacco e difesa, favola e reportage". Per riprendere la questione delle mie scuse a Wu Ming, sottolineo che quella recensione era stata scritta un bel po' prima che tali scuse venissero pubblicate. Specifico inoltre che non sono uso concordare i miei entusiasmo su disposizione di alcunchì. Quanto all'appartenenza alla medesima scuderia da parte di Evangelisti e Wu Ming, rimando alla discussione che si è sviluppata sul sito di Wu Ming medesimo: http://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/mondadori.html . Infine una dichiarazione più emotivamente libera di quanto non sia cognitivamente accorta: ho atteso per più di un decennio che in Italia si allargasse una consapevolezza sociale politica e culturale come è quella che stiamo vivendo. Mi sembrerebbe ingiusto non riconoscere a Wu Ming, soprattutto sul versante che a me moltissimo interessa, cioè la letteratura nel suo rapporto con la realtà, un ruolo fondamentale, eversivo e propositivo. E allora cosa dovrei fare? Applaudire con fruscio di guanti di raso o fare schioccare anche rozzamente i palmi callosi? Per formazione storica personale, inclino più alla seconda che ho detto. Scusate ancora l'intromissione.
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:)
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pokerface Thursday, May. 15, 2003 at 4:36 PM |
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Non ti dico neanche le risate che mi sono fatto con l'articolo di clarence. Da tenersi la pancia. Uah uah uah.
Tutto li'?
E ora lascia che ti dica una cosa. Ogni generazione ha la sua disgrazia. Alla mia sono toccate le pagine delle lettere di lotta continua. Sta' a vedere che a questa generazione sei toccato tu.
Maledetta entropia!
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chi manteneva Debord?
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Paolo Ranieri Thursday, May. 15, 2003 at 7:59 PM |
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Vero, qunad'era ragazzo era la nonna, poi hanno rpovveduto parecchi altri, d'ambo i sessi. Va detto che lui non lavorava mai (programmaticamente) ma anche la maggioranza di chi lo manteneva non lavorava, e nemmeno chi chi maneteneva chi lo manteneva. Capisco che per i più giovani possa riuscire strano, ma ai tempi milioni di persone si mantenevano le une con le altre senza lavorare. A Parigi più e meglio che altrove. Poi tutto (o quasi) é finito: e poi vi chiedete perché uno sia così avvelenato contro il capitale e il suo dominio reale?
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x Ranieri
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L'aquila e le galline Thursday, May. 15, 2003 at 8:31 PM |
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Ranieri, guarda che i borghesi e gli alto-borghesi esistono anche oggi, e oggi come ieri campano sul plusvalore estorto a chi alto-borghese non e'. A essere cambiata e'soltanto l'ideologia: un tempo gli alto-borghesi giocavano a fare i proletari, i bohemiens, i rivoltosi. Oggi non si vergognano piu' dei propri soldi, anzi. Il fatto che tante persone si mantenessero a vicenda senza lavorare ha ben poco a che fare col rifiuto del lavoro e del rapporto di capitale, poiche' quei "ribelli" non rifiutavano certo il denaro prodotto dallo sfruttamento del lavoro altrui, e accettavano di buon grado i benefici dell'essere dalla parte giusta del rapporto di capitale. Poi dice che uno non ce l'ha con chi costoro li venera...
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Bentley
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R. Sassi Thursday, May. 15, 2003 at 8:42 PM |
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Il situazionista G. Sanguinetti era un proprietario terriero, lui e Debord giravano in bentley (come Funari), per le strade della Toscana. Chi la lavorava la terra di Sanguinetti? E' una bischerata dire che "non lavorava nemmeno chi manteneva chi lo manteneva". I soldi non piovono dal cielo, e ho dei dubbi che quei signori facessero solo rapine ed espropri. A fare il "rifiuto del lavoro" in 'sto modo son buoni tutti (o meglio, non e' buono nessuno, a parte ovviamente i padroni).
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to whom it may concern
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Wu Ming 1 Thursday, May. 15, 2003 at 9:24 PM |
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giap@wumingfoundation.com |
Approfitto di questo thread per dire to whom it may concern che abbiamo qualche problema di server (la prossima settimana "facciamo San Martino") e l'e-mail per contattarci potrebbe anche non funzionare. Inoltre, non funziona piu' il DNS primario, il che rende impossibile l'accesso al sito a chi ha un collegamento LAN (es. utenti Fastweb). Pazientate, risolveremo questi problemi nel giro di qualche giorno. Sul discorso "chi manteneva chi manteneva Tizio e Caio": l'approccio mi sembra moralistico e un po' rigido.
Vale per tutti/e noi, in fondo: *tutti* i soldi che maneggiamo derivano dall'estorsione del plusvalore di qualcun altro, usualmente locato nel sud del mondo.
Il nostro - sempre piu' relativo - benessere e' comprato con la morte per fame o per intossicazione di miliardi di diseredati. Non e' per questo che si parla tanto di "consumo critico", di boicottaggi etc.?
E' uno squilibrio che va combattuto, ma senza manicheismi da Sendero Luminoso (secondo cui anche il vecchietto che in villaggio teneva le chiavi del cimitero era un'autorita' costituita da eliminare fisicamente), senza retorica pauperistica para-maoista, perche' ragionando cosi' finiremmo tutti, ma proprio tutti, dalla parte del torto (e dello schifo), diventeremmo ciascuno il nemico di classe dell'altro e soprattutto di se stesso.
Il movimento operaio socialista comunista anarchico acrata chiamatelocomevipare si e' sempre avvantaggiato del fatto che dei borghesi "tradissero la propria classe" e stornassero denaro in altre direzioni.
Engels era un "padrone delle ferriere" in quel di Manchester, e senza i suoi prestiti a fondo perduto Marx non avrebbe potuto scrivere.
La differenza e' che Marx si guardava bene dal vantarsene o, peggio ancora, dal farne un issue politico/esistenziale.
Su un'interpretazione coercitiva e colpevolizzante di esempi come quello di Engels ci hanno speculato personaggi come Brandirali: i militanti di Servire il Popolo erano costretti a cedere al Partito tutte le loro proprieta' ancorche' piccole, c'e' gente che si e' rovinata per fare la fortuna di un pugno di burocrati stalinisti che oggi stanno in CL.
E' un esempio estremo, ma ci vuol poco a ruzzolare giu' per quella china.
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dall'aquila alla gallina
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macorlan Thursday, May. 15, 2003 at 9:45 PM |
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Ma tu sai di chi parli e di che cosa parli? Prima di tutto, non era certo altoborghese (mi piace questo concetto di altoborghese, sembra di quelle cose che si leggevano su Servire il pollo...forse che il pollo si é fatto gallina?) la nonna di Debord. E neppure molti dei soggetti successivi. Comunque che cosa dovremmo ricavarne: che c'é una superiorità morale in chi lavora? che non lavorare é male e lavorare bene? che chi non lavora sfrutta chi lavora? e che farsi sfruttare e moralmente più degno che farsi sfruttare? chiunque non lavora é "dalla parte giusta del rapporto di capitale"? Paul Lafargue e anche suo suocero Karl Marx, che non hanno mai lavorato neanche un giorno, e lo hanno rivendicato per iscritto, criticavano il capitale, stando dalla parte giusta? obiettivamente, d'altronde, ignoro quali siano i tuoi idoli, se Lenin, Stalin, Trotsky, Mao, Pol Pot, Togliatti, Gramsci, Marcos, Casarini...in ogni caso tutta gente che MAI ha lavorato. La diffrenza é che alcuni di questi hanno parlato bene, altri male; e tu, lavori tu, gran devoto del sudore? perché son pochi, per esperienza mia, che menino vanto del lavoro proprio: preferiscono quasi sempre la fatica virile di qualchedun altro. In realtà, non lo dico per te, io volevo riferirmi alla vita come era prima della definitiva conversione di tutte le attività in lavoro, nemmeno sempre salariato. Perrché oggi vivere nell'ozio e nella depravazione é mille volte più difficile che qualche decennio fa...si chiama proletarizzazione. A te piace, buon pennuto moralizzatore?
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per sassi, il curioso etc.
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Paolo ranieri Friday, May. 16, 2003 at 12:47 AM |
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Sanguinetti era ed é ancora ricco sì, non so se grazie a terre o ad altro. Non so nulla di Bentley, quando li ho incontrati io stavano a piedi. Ma a parte che quel che scrivevo non era riferito tanto a Sanguinetti, ma per esempio a Jorn o a Lebovici, per dire...il punto non é questo. Fa parte dell'ipnosi di QUEST'EPOCA pensare che solo il lavoro slaariato o lo sfruttamento del lavoro altrui consentano di campare. Perché, e non é uno degli aspetti meno orribili di questo tempo, diventa sempre più così. Ma in epoche che io stesso rammento, era diverso, e solo una parte della vita sociale si fondava sulla vendita di forza lavoro. Io stesso, d'altra parte, sono stato coartato al lavoro non prima dei 35 anni, e la mi a famiglia, lungi dall'essere alto borghese, non aveva semplicemente una lira,
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risposta a vetril
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Wu Ming 1 Friday, May. 16, 2003 at 1:22 PM |
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giap@wumingfoundation.com |
La retorica pauperistica ("pauper" = povero, in latino) tipica del Mao-Zedong-pensiero (nella sua versione export, quella dei gruppi marxisti-leninisti occidentali) e' che il rivoluzionario va strettamente identificato col proletario, che a sua volta va strettamente identificato col povero, il quale ultimo non puo' che essere "buono".
*Tutti gli altri* sono cattivi, cattivissimi, irredimibili.
Ergo, per essere buoni occorrerebbe essere poveri, ma anche viceversa. Solo i buoni sono *davvero* poveri. Se un povero non accoglie a braccia aperte l'UCI-ml o Sendero Luminoso, cioe' se non e' buono, evidentemente c'e' sotto qualcosa, e'un finto povero, e' sicuramente un agente dell'imperialismo etc.
www.wumingfoundation.com
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leggete bene
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L'aquila e le galline Friday, May. 16, 2003 at 1:32 PM |
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Intendevo semplicemente dire che e' troppo comodo vantarsi di non lavorare (e gettare la croce addosso a chi lavora, come fosse una scelta sua) quando si ha accesso a qualche rendita. Il vero rifiuto del lavoro e' quello di chi e' costretto a lavorare, per rifiutare qualcosa bisogna che qualcuno cerchi di importale. Il rifiuto (politico) del lavoro si pratica soprattutto collettivamente, ed e' un processo storico, fatto di tutte le azioni contro il lavoro e tutte le alternative (anche temporanee) al lavoro sperimentate dalla classe (dagli scioperi ai microsabotaggi per rallentare i ritmi, dall'assenteismo alle forme creative per accedere a sussidi, welfare checks ecc.), fino ai gesti di riappropriazione della ricchezza sociale, dei tempi e degli spazi, riappropriazione che rende meno impellente la necessita' di lavorare (espropri, occupazioni, casse di mutuo soccorso comunitario ecc.) Quindi, wu ming 1, il mio non voleva essere un approccio moralistico. Se mi sono spiegato male, adesso spero di essermi spiegato meglio.
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x l'Aquila
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Wu Ming 1 Friday, May. 16, 2003 at 3:44 PM |
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giap@wumingfoundation.com |
Si', stavolta ti sei spiegato bene, e sono d'accordo.
Il "rifiuto del lavoro" non e' quello di chi puo' tranquillamente permettersi di non lavorare.
Il soggetto che rifiuta il lavoro non e' il Des Esseintes di "A ritroso" (J.K. Huysmans), non e' Dorian Gray, non e' il lettrista del Quartier Latin col vitalizio dell'antenata.
Il rifiuto del lavoro e' quello di chi, costretto dall'ordine sociale a lavorare, escogita i modi per non farlo.
Chiaramente stiamo parlando del lavoro salariato, del lavoro sotto padrone, del "job", del "travagliare".
La lingua italiana non distingue tra quel tipo di lavoro e il lavoro come opera e contributo alla vita delle persone, come auto-realizzazione, intuizione e creativita', come soddisfazione del fare bene le cose.
In questo secondo senso, a me piace molto "lavorare".
www.wumingfoundation.com
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solo per la precisione
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R.Sassi Friday, May. 16, 2003 at 4:12 PM |
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"Lenin, Stalin, Trotsky, Mao, Pol Pot, Togliatti, Gramsci, Marcos, Casarini..." Gramsci dalla Sardegna si trasferì a Torino grazie a una borsa di studio per studenti disagiati, e cominciò a lavorare come giornalista (gravi problemi di salute gli avrebbero comunque impedito un lavoro fisico). Togliatti più o meno stessa storia, borsa di studio, Torino, giornalismo, poi espatrio e il resto della storia la conosciamo. Mao era di famiglia contadina, piccoli proprietari terrieri, lavorò la terra dei suoi prima di diplomarsi e trovare impiego come istitutore e insegnante, poi dovette entrare in clandestinità e diventò il Mao che conosciamo oggi. Sia Trotsky sia Stalin fecero un sacco di lavori prima di essere (più volte) deportati in Siberia. Durante l'esilio Trotsky campò alla bell'e meglio dando lezioni di russo etc. Di Pol Pot non so. Di Marcos nemmeno. Di Casarini poco ce ne cale comunque.
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per Wu Ming 1
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Vetril Friday, May. 16, 2003 at 4:14 PM |
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"La lingua italiana non distingue tra quel tipo di lavoro e il lavoro come opera e contributo alla vita delle persone, come auto-realizzazione, intuizione e creativita', come soddisfazione del fare bene le cose." ___________
secondo me ragionavano così anche gli yuppies e i rampanti. Gli industriali,ad es., anche loro "contribuiscono alla vita delle persone", anche loro si autorealizzano, anche loro hanno intuizioni, o per lo meno sono convinti di averle. poi, per "fare bene" cosa intendi? non pestare i piedi agli altri? raggiungere degli obiettivi prefissi? riuscire a fare i pezzi meglio e più velocemente di un altro in una linea di produzione? a me sembra che con l'interpretazione che dai, non si faccia altro che rafforzare il "culto del lavoro" vivo nel nordovest e qui, a parte i proletari pauperisticizzati ;-), tutti la pensano esattamente così: il lavoro come autorealizzazione, gratifiche, utilità sociale, etc etc etc
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x Vetril
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Wu Ming 1 Friday, May. 16, 2003 at 4:35 PM |
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giap@wumingfoundation.com |
Se vivi nel nord-est, posso capire l'equivoco, ma per favore non rivoltare le parole in bocca a chi vive altrove, non fare paragoni infamanti se non hai capito di che si sta parlando.
Tra le varie definizioni della parola "lavoro", il vocabolario Zingarelli dà anche: - Impiego di energia per il conseguimento di un determinato fine; - Opera intorno a cui si lavora; Opera d'arte. - Ogni realizzazione concreta: "avete fatto un ottimo lavoro" etc.
Diverse altre lingue distinguono tra questi significati e quello che hai in mente tu. In inglese "lavoro" si puo' tradurre con "job", "labour", "toil" e "work".
Il primo indica il lavoro come impiego, attivita' socialmente e legalmente regolamentata per la produzione di beni o di servizi;
Il secondo e il terzo indicano il lavoro di fatica, il lavoro manuale, subordinato. Il "Labour party" era in origine il partito del lavoro industriale dipendente (oggi, lasciamo perdere). "Labour" significa letteralmente "travaglio" (infatti si usa anche per le doglie della gravidanza), ed è cugino del francese "travail", dello spagnolo "trabajo" e del portoghese "trabalho". E' questa accezione quella a cui tu ti riferisci.
Il quarto è un termine più generico e flessibile, e infatti l'Oxford Dictionary ne dà alcune definizioni molto pragmatiche e che nulla hanno in comune con quella che hai in mente tu: - Tasks that need to be done [Cose che c'è bisogno di fare] - Thing or things produced as a result of work [Una o più cose prodotte come risultato del lavoro] - the result of an action [il risultato di un'azione] - a book, piece of music, painting [un libro, una composizione musicale, un dipinto]
Quando Lou Reed e John Cale, in "Songs For Drella", cantano (adottando il punto di vista di Andy Warhol) "The most important thing is work" non intendono certo il lavoro glorificato dall'ideologia dei padroncini veneti, intendono la soddisfazione di creare, che si tratti di un quadro o di un tavolo o di un nuovo rapporto tra le persone.
Io *work* e campo dei miei sforzi, e quegli sforzi producono risultati che mi danno soddisfazione. Però sono per il rifiuto del lavoro inteso come legame sociale coatto basato sul *job* e sullo sfruttamento di chi esegue il *labour*.
www.wumingfoundation.com
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rifiuti del lavoro
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Paolo Ranieri Friday, May. 16, 2003 at 4:54 PM |
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Tutti - meno nel 1950, di più nel 2000 - sono costretti a lavorare, tutti possono rifiutarsi di farlo. Chi andando a rubare, chi intaccando patrimoni propri e altrui, chi chiedendo l'elemosina, chi volgendosi all'autoproduzione, etc.Tutti a partire dalle condizioni che hanno trovato in sorte, e che comprendono eventuali rendite (modeste quelle di Debord, comunque, che viene immaginato come una sorta di nababbo), audacia, capacità, conoscenze, etc. Va detto che, specie un tempo, uno che dispoensse per fortuna di qualche soldo, faceva con ciò solo la fortuna di molti. E poiché la vendita della forza lavoro era consderata riprovevole, tutti trovano simpatico e opportuno aiutare l'amico dotato a disfarsi del proprio gruzzolo, piuttosto che concedersi al giogo della compravendita di sé medesimi. Mentre, a leggere certi interventi, parrebbe che ci sia qualcosa di degno e gloorioso nel lavoratore, idea che solo chi il lavoro non lo conosce può concepire. Leggo ora delle vicende lavorative di Gramsci, Lenin, etc...occhio che se consideriamo lavorare pure dare lezioni, fare il giornalista, fare traduzioni (e allora perché no dare l'assalto ai treni, come il vecchio Stalin?), allora in quel senso, con suo grande disdoro, avrebbe lavorato pure Debord, e ancor di più Jorn, che é il meno citato, ma di sicuro quello grazie a cui Debord é vissuto nell'ozio più a lungo. Infine: l'osservazione di WM1 era magari stringata, anche se a me era parsa chiara, ma la distinzione fra lavoro/faticare e lavoro/creare, in tutte le lingue é perfino ovvia, sono gli italiani che non la trovano inscritta nel vocabolario. Va notato che le due impostazioni sono una la negazione dell'altra; quando fatichi in cambio di una mercede, non crei e se crei e se crei qualcosa si tratta delle tue catene, della tua alienazione materializzata, per cui il tuo prodotto si leva innanzi a te da nemico (e infatti lo devi "pagare", nel senso latino: acquietare, pacificare mediante una somma); e se crei non fatichi. Fare confusione fra i due piani, porta un sacco d'equivoci, tutti vantaggiosi per chi ha in animo di farci lavorare
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...
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Vetril Friday, May. 16, 2003 at 5:34 PM |
mail:
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"Se vivi nel nord-est, posso capire l'equivoco, ma per favore non rivoltare le parole in bocca a chi vive altrove, non fare paragoni infamanti se non hai capito di che si sta parlando." _________________
ho scritto nord-ovest, Cuneo, per la precisione. calmati, non ho rivoltato niente, era una mia interpretazione, qualcuno parlava di caproneria delle relazioni, mi sembra questo il caso, dispiace, cmq fortunato te che vivi "altrove" per quanto riguarda la mia accezione di lavoro (quella di fatica per l'esattezza) probabilmente è dovuta al fare un lavoro di fatica, vere e proprie doglie, credimi in ogni caso, mai mi era venuto in mente potesse avere tanti significati la parola lavoro, per me è sgobbare per la lira e basta. Ranieri: da quando in qua fare il giornalista non è un lavoro?
ps: andateci piano a pancarmi, che sono sensibile, thank.
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Genna,debord e dee colorate
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la nonnina di Debord Saturday, May. 17, 2003 at 8:52 AM |
mail:
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Allora avevo parlato di enna come di colui che tiene Carmilloa in quanto tutte i messaggi che mi arrivano da quel sito sono firmati Genna.
Poi non capisco cosa centri il link della recensione di 54 ...che non fa che confermare le ipotesi di critica preconfezionata....fra l'altro non devo capire molto di WM....Ascie di Guerra è di gran lunga(secondo me)il miglior lavoro di WM....ma è vero che ne stanno facendo un film?
Scusa ma sul serio sostieni che WM,Dazierie ed Evangelisti non appartengono alla stessa scuderia? Intanto tutti e 3 si beccano i soldi da Berlusconi(che sinceramente non so se sia + dignitoso dal prenderli da una nonnina).... poi quante volte sull'annosa questione sono scesi in campo x pararsi il culo vicenda. Dall'esterno i 3 danno l'idea di un vero clubino esclusivo.
Se non sbaglio ad attribuire le colpe della nonna alla zietta fu WM1 nel corso di un altra diatriba con i Debordiana.Se anche quella volta si parlava di nonnina allora vuol dire che la mia memoria.....
Una sola cosa non posso che concordare con WM1 .....sul fatto che gli scritti Debordiani siano ....come si dice... noiosetti....solo che anche i WM in quanto a noia non scherzano...alcune pagine di 54 sono un vero inno alla noia....anche direi assolutamente degne delle + pesanti pagine debordiane
Su Debord meet Graves......la tempesta che precede e contribuisce alla costruzione della quiete... La distruzione che diventa fondazione....l'età del ferro che si tramuta nell'età dell' oro...la dea nera che incontra quella bianca insomma!!!:)
Se Graves parla di un età,un mondo(età dell'oro) in cxui sogni,miti,realtà erano la normalità . Debord attraverso la distruzione del presernte ci indica la via ....dell'eterno ritorno
Comunque nell'assoluta ignoranza debordiana(che fantastico pro-situ sarei stato!!!)credo che la ricerca della felicità...[dal mio bignamino sui situazionisti cito "La felicità è un 'idea nuova x l'Europa"].... la ricerca della felicità,dunque, credo sia ancora la cosa + rivoluzionaria(e folle)da compiersi in questi tempi.
Un abbraccio a tutti(chi lo vuole naturalmente)
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padroncini veneti
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Antenore's dog Saturday, May. 17, 2003 at 10:00 AM |
mail:
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<<<<"..... non intendono certo il lavoro glorificato dall'ideologia dei padroncini veneti,........ >>>>
cosa intendi x padroncini? Padroni di piccole aziende o propietari di camion? Letteralmente i padroncini sono i camionisti che sono anche propietari del camion su cui lavorano si differenziano dai camionista normale x il maggiore introito lavorativo. Almeno nel Veneto
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x la zietta
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by
Wu Ming 1 Saturday, May. 17, 2003 at 12:47 PM |
mail:
giap@wumingfoundation.com |
Caro Robin,
Sulla "annosa questione" (che su Indy continui a ri-sollevare nel modo gretto e disinformato che mi sembra ti sia consueto) non e' tanto un "pararsi il culo a vicenda" tra scrittori, e' che piu' volte tutti noi abbiamo riscontrato la totale, assoluta, sconfinata ignoranza di come funzioni l'editoria da parte di chi ci attacca.
Chiunque sappia un minimo: - come sia organizzato il lavoro dentro una casa editrice (gli azionisti Mondadori non hanno influenza sulla scelta dei titoli che pubblica Einaudi); - come funzioni la Mondadori ("Il libro nero del comunismo" non fu proposto da B******** ma... dal team che adesso e' uscito insieme a Giorgio Bocca); - come funzionino i rapporti tra diverse case editrici dello stesso gruppo (l'Einaudi e' una cosa e la Mondadori un'altra); - di quali soldi campi effettivamente uno scrittore (percentuale di prezzo di copertina, cioe' tanto-mi-leggono-quanto-guadagno, quindi soldi *dei lettori*, non "di Berlusconi"); - cosa siano i rapporti tra autore ed editori (es. noi non siamo un autore "di scuderia" e non pubblichiamo "per Berlusconi", i nostri libri escono per Einaudi, Fanucci, Seuil, Grijalbo, Random House, Heinemann, Harcourt, Piper Verlag, Vassallucci, Wereldbibliotheek, Forlaget Hovedland, Travlos, Conrad do Brasil... del Berlusca ne facciamo volentieri a meno);
insomma, chiunque sappia queste cose cerca di spiegarle a chi molto evidentemente non le sa.
A turno (ma senza esserci messi d'accordo) lo abbiamo fatto noi, Evangelisti, Dazieri e tanti altri.
Sulla questione dei "padroncini": lo Zingarelli dà come primissimo significato "Piccolo imprenditore, proprietario di una piccola azienda". Solo come secondo significato dà quello di proprietario di un solo taxi o di un solo camion.
x duemilaenigmineljazz: puoi riformulare la domanda?
www.wumingfoundation.com
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x Vetril
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Wu Ming 1 Saturday, May. 17, 2003 at 1:01 PM |
mail:
giap@wumingfoundation.com |
E' quello che ho detto fin dall'inizio, se ti rileggi i miei ultimi interventi.
Nella lingua italiana non esiste questa distinzione a cui accenna anche Ranieri, distinzione che e' fondamentale, la parola "lavoro" vuol dire tutto e niente, crea confusione, per questo c'e' chi crede che qualunque forma del lavoro sia di per se' eticamente giusta, e dall'altra parte chi crede che "rifiuto del lavoro" equivalga ad abbandonarsi allo svacco senza qualita'. In altre lingue non c'e' questo problema.
Ho l'impressione - spero di sbagliarmi - che leggi quello che scrivo senza leggerlo davvero, attendendo semplicemente di scrivere a tua volta.
www.wumingfoundation.com
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editoria
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infiltrato Saturday, May. 17, 2003 at 1:25 PM |
mail:
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"Chiunque sappia un minimo"
il discorso editoria è un pò più complesso di quello riportato, quello vale per gli autori, gli autori sono i prodotti (senza offesa) dell' azienda, specialmente nel caso mondadori.
L' azienda (in questo caso editore) è una struttura piramidale di tipo quasi militare, è lì che si pone il problema vero.
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x infiltrato
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Wu Ming 1 Saturday, May. 17, 2003 at 1:41 PM |
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giap@wumingfoundation.com |
Scusami ma non e' cosi', c'e' meno verticalita' e centralizzazione di quella che pensi tu (ogni collana ha il proprio piano editoriale, e alcune godono di notevole autonomia, vedi Stile Libero, che non a caso ha sede a Roma anziche' a Torino), in piu' la cosiddetta "esternalizzazione" - con tutti i suoi pro e soprattutto contro - ha allentato ancor piu' le redini (spesso l'editore si affida a uffici-stampa free-lance o uffici grafici esterni etc.). Se dovessi descrivere la situazione della grande industria editoriale oggi, tenderei piu' a descriverla come "lassista" e "svaccata" anziche' tirannica.
C'e' piu' verticalita' in molte piccole case editrici, per quella che e' la mia esperienza. Questo vale per gran parte delle piccole aziende: e' inevitabile venire a contatto con la proprieta', quindi e' piu' probabile scazzare, e se ti succede hai chiuso (almeno, non essendo un dipendente, te ne puoi fottere del "reintegro").
Ma soprattutto non e' vero che l'autore sia un prodotto dell'azienda, almeno nel nostro caso.
Eravamo gia' un soggetto collettivo organizzato e strutturato ben prima di trattare coi grandi editori, abbiamo sempre trattato con l'Einaudi da pari a pari, facendo precisi input e richieste e riuscendo a imporre determinate condizioni, dal copyleft all'inaugurazione di una collana apposita (che oggi si chiama "Stile Libero Big" ma che nasce dalla nostra proposta di un'edizione speciale di Q), dall'autogestione delle copertine alla co-gestione del lancio in libreria, fino alla gestione della dimensione "on the road" (presenza capillare sul territorio grazie alle presentazioni/assemblee con la "repubblica dei lettori").
Se continuiamo a lavorare con Einaudi e' proprio perche' siamo riusciti a collaborare per creare la condizione piu' favorevole possibile al nostro lavoro. Con Tropea, per fare un altro nome, non e' stato possibile, e abbiamo troncato ogni rapporto.
www.wumingfoundation.com
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...
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Vetril Saturday, May. 17, 2003 at 2:04 PM |
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ti sbagli. non è che leggo con l'ansia di rispondere per il gusto di scrivere, sapessi che mme frega, è che proprio fatico a comprendere, ti sembra così strano? forse dovrei astenermi dall'intervenire e accontentarmi di quello che ho capito. in ogni caso -e qui sono io che consiglio a te di rileggere i passaggi- l'equivoco è partito da questa tua frase: "La lingua italiana non distingue tra quel tipo di lavoro e il lavoro come opera e contributo alla vita delle persone, come auto-realizzazione, intuizione e creativita', come soddisfazione del fare bene le cose." che a me così com'è continua a non arrivarmi chiara (perchè ripeto, secondo me pure mettere su un'azienda di mattoni può essere autorealizzazione, creatività, soddisfazione di fare bene le cose) mentre ho afferrato meglio nella tua delucidazione successiva. Non ho capito neppure Ranieri (tanto per confermare che la sfiga è mia) quando dice :"Tutti - meno nel 1950, di più nel 2000 - sono costretti a lavorare, tutti possono rifiutarsi di farlo. Chi andando a rubare, chi intaccando patrimoni propri e altrui, chi chiedendo l'elemosina, chi volgendosi all'autoproduzione, etc.Tutti a partire dalle condizioni che hanno trovato in sorte, e che comprendono eventuali rendite (modeste quelle di Debord, comunque, che viene immaginato come una sorta di nababbo), audacia, capacità, conoscenze, etc." insomma mi sembra che chi non ha le condizioni adatte, conoscenze, vitalizi, audacia, sia un povero sfigatello non sto a raccontare la mia vita, ma penso di essere uno di quei casi in cui proprio alcune condizioni (povertà, per esempio) mi hanno impedito l'accesso alle conoscenze tra le altre cose non amo rubare e non capisco cosa si intenda per intaccare patrimoni propri e altrui
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x Vetril
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Wu Ming 1 Saturday, May. 17, 2003 at 2:13 PM |
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giap@wumingfoundation.com |
Sulle cose che scrive Ranieri rispondera' lui. Per quanto riguarda la mia frase iniziale, a me continua a sembrare chiara, e comunque poi l'ho spiegata.
Aggiungo che quando Debord e compagni ritiravano dalla tipografia un numero ben riuscito di "Internationale Situationniste", sicuramente erano soddisfatti di aver fatto un buon lavoro, di aver creato, di essersi realizzati come esseri umani in quel lavoro (nel senso di "work", non di "job").
Stessa cosa per un vasaio che fa una bellissima brocca, per un pensionato che fa crescere piante rigogliose nel proprio orticello etc. etc.
Per questo tipo di attivita', in italiano usiamo senza sfumature la stessa parola che si usa per descrivere la schiavitu' salariata dei minatori del Sulcis o degli operai del Petrolchimico di Marghera. Questo e' un problema, e io mi riferivo a quello.
Vi lascio che devo andare fuori citta'... per *lavoro* :-) A domani, forse.
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infiltrato Saturday, May. 17, 2003 at 2:31 PM |
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io non "penso" che ci sia verticalità, la verticalità, la vedo, la tocco, credimi, la tua visione è molto romantica e questo ti fa onore, è quella che ti permette di "fare" invece di "fermarti"
sicuramente ci sono differenze tra editori infatti quando ho parlato di prodotti ho scritto "specialmente mondadori" E' vero che è peggio dai più piccoli ma questo viene dal tentativo (spesso fallito) di imitare i "grandi colossi" e essendoci meno risorse tutto viene esasperato, tutto è più rigido.
La tua visione "sono svaccati" è completamente sbagliata la parola è scoppiati, sono scoppiati.Tutti. Se hai fatto il servizio militare sai di cosa parlo. La struttura è piramidale, ed è una gerarchia di tipo militare.
Tu/voi in quanto autori siete "tutelati" il prodotto è sempre tutelato dall' azienda, ti prego non ti offendere non è assolutamente una maniera di sminuire la mia, anzi, credo che nella società di oggi è una fase che "l' autore" non può non attraversare.
il motivo per cui voi siete riusciti a mediare con l'editore è perché avete costruito quello che chiama POTERE CONTRATTUALE quindi potete imporre delle cose, personalmente credo che ora come ora sia l'unica via da percorrere per un autore che vuole confrontarsi con la "macchina". Conquistarsi quello che loro chiamano POTERE CONTRATTUALE, quindi, diventare prodotto.
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Questa si che è x Wm1
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The gretto Sunday, May. 18, 2003 at 12:14 PM |
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Ciao Roberto,
Dal Devoto-oil
PADRONCINO (pa-dron-cì-no) s.m. (f. -a) 1. Appellativo dei figli del padrone (con una sfumatura di devozione e di rispetto famigliare, spec. da parte della servitù). 2. Chi esercita il mestiere di taxista autotrasportatore disponendo di un taxi o di un camion di sua proprietà , Anche, modesto imprenditore privato (diminutivo di padrone)
e comunque la mia contestazione viene che in Veneto il termine padroncino nel parlato comune viene associato al propietario di camion...
e comunque il "modesto imprenditore"(terzo in lista) di cui parla il Devoto mal si associa al senso della frase
<<<non intendono certo il lavoro glorificato dall'ideologia dei padroncini veneti,>>>> diventa
<<<non intendono certo il lavoro glorificato dall'ideologia dei modesti imprenditori veneti>>>
Io credo che con "padroncini veneti" ti riferissi ai piccoli imprenditori veneti,quelli con aziende a conduzione familiare,quelli che lavorano 16/18 ore al giorno,quelli con meno di 15 operai x intenderci che poi sono l'ossatura del boom veneto. Sono piccoli ma di sicuro non sono modesti....
XXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXX XXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXX
e comunque ti sei inserito,in un modo un pò rozzo a mio avviso,in un piccolo botta e risposta instaurato con il G.Genna. E a me sembrava di averlo fatto in modo molto pacato ,parlando magari in modo diretto,senza troppi fronzoli...come si usa x la strada tra persone normali. Se rileggi l'articolo "Io Genna" vedrai come il mio commento fosse una replica al suo( e forse ti accorgerai anche di come sia stato il Genna a tirare fuori l'argomento "annosa questione"). Non mi interessava sapere il tuo pensiero sull'argomento(trito e ritrito)ma semplicemente replicare(e magari porre dei quesiti) al Genna. E non mi sembra di essermi rivolto al Genna in modo gretto...
:)
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e' inutile bussare qui non ti aprira' nessuno
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Wu Ming 1 Sunday, May. 18, 2003 at 2:51 PM |
mail:
giap@wumingfoundation.com |
Robin, vuoi fare a gara tra Zingarelli e Devoto-Oli? Mi sfugge il senso del tuo post. Vogliamo consultare anche il Garzanti e il Dardano e il Robin-che-si-arrampica-sugli-specchi?
Al mondo non esiste solo il Veneto, e la parola "padroncino" e' altrettanto comunemente associata al piccolo imprenditore arrogante, al padrone della fabbrichètta, al cumenda.
Puoi cercare di attaccarmi solo su queste inezie, perche' per il resto non hai proprio margine di manovra.
Mi sono "inserito" perche' mi hai tirato in ballo nella tua solita maniera volgare, miserabile e cacasentenze, scrivendo che io e altri facciamo parte di una mafietta (il senso era quello) di persone che si coprono il deretano a vicenda, e ancora una volta hai tirato fuori la storia (il tuo cavallo di battaglia) che sarei un servo di B******* etc. etc.
Le mie risposte riguardo a cio' sono "trite e ritrite" perche' sono vere, e infatti non sei mai riuscito a ribattere, perche' non sai niente. Io non mi stanchero' di spiegare come stanno le cose, a prescindere dalle calunnie e dalla pochezza di personaggi come te.
Salutami Campbell che in realta' era Graves.
x duemilaenigmideljazz:
continua a sembrarmi una descrizione totalmente astratta, e me ne sfugge il senso. puoi fare qualche esempio?
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padroncino
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professor Beccaria Sunday, May. 18, 2003 at 3:10 PM |
mail:
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dal sito delle CUB:
PADRONCINO AGGREDISCE...
Ieri a Busto Arsizio al maglificio TreVi. La lavoratrice e Marco Galli, sindacalista della CUB-tessili, convenuti in azienda per contestare un provvedimento disciplinare insieme al rappresentante associazione degli industriali, sono stati aggrediti dai figli del padrone, i quali hanno picchiato la lavoratrice, li hanno buttati fuori dall'azienda, hanno danneggiato il motorino e l'auto di Marco Galli. "Abbiamo iniziato l'incontro per definire la questione , anche alla presenza del funzionario dell' UNIVA. La tensione è subito salita di pari passo con l'arroganza della controparte che si era messa ad insultare la lavoratrice. Ho alzato la voce per difenderla, uno dei figli del titolare mi ha preso per la giacca e buttato fuori. La lavoratrice è stata presa a calci, poi se la sono presa con il motorino della signora e con la mia auto". La CUB esprime tutta la propria solidarietà alla lavoratrice e a Marco Galli e come suo costume agirà in tutte le sedi opportune per tutelare i propri iscritti e garantire l'agibilità sindacale e democratica nei luoghi di lavoro perché la democrazia non può si fermare fuori dai cancelli della fabbrica. Varese 17 maggio 2001
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dal sito del Manifesto:
BOSSI-FINI Una legge a misura di padroncino
SALVATORE PALIDDA *
Al di là della demagogia più o meno apertamente razzista dei leghisti e di buona parte del resto dell'attuale maggioranza, la politica migratoria del governo Berlusconi-Fini-Bossi non fa che accentuare tutte le pratiche ignobili già operanti durante la passata legislatura. E non è un caso che il capo di gabinetto del ministero Maroni sia lo stesso personaggio che esercitava questa funzione nel ministero della signora Turco. Come avevano segnalato gli amici dell'Asgi, la legge Turco-Napolitano rischiava di accentuare il potere discrezionale delle forze di polizia nella gestione della regolarità, in quella dell'irregolarità e nella cosiddetta repressione dei clandestini e della delinquenza degli immigrati. Il decreto d'applicazione della legge ha confermato puntualmente questa triste previsione riuscendo anche ad azzerare quasi quella parte della legge che avrebbe dovuto favorire l'integrazione, l'accesso alla parità di diritti civili e del lavoro, i ricongiungimenti familiari, insomma il riconoscimento concreto dei diritti più elementari. E' emblematico che una delle ultime direttive interne del ministero dell'Interno guidato da Bianco ha di fatto eliminato la carta di soggiorno. In altri termini, il nuovo governo ha trovato la strada perfettamente spianata per poter aggravare la precarizzazione della condizione dei regolari e la criminalizzazione degli irregolari, dei presunti devianti o di quegli immigrati che la nostra società è riuscita a far approdare rapidamente alle diverse attività illecite. Ma cosa ci sta dietro l'accanimento razzista dei leghisti e di altri dell'attuale governo? E' questa la questione forse più importante per capire come organizzare la resistenza a questo regime reazionario e razzista. La differenza fra il centro-sinistra e l'attuale maggioranza sta nel fatto che quest'ultima rappresenta gran parte se non la totalità di quegli attori economici che sguazzano in quel 27% del Pil costituito dalle economie "sommerse" o "sporche" (che vanno dall'informale all'illegale e al criminale). Com'è noto si tratta di pseudo artigiani, imprenditori, commercianti, caporali, commercialisti, ecc., ecc., che realizzano lauti profitti sfruttando manodopera al nero, ridotta a volte in condizioni di neo-schiavitù, e giocando con transazioni illecite di ogni sorta. Come mostrano persino alcune recenti inchieste nello straricco nord e in particolare nella Milano capitale italiana del trionfo liberista, il fenomeno dell'economie sommerse o del tutto illecite non è più appannaggio del meridione, anzi è diffuso soprattutto al nord e nel centro-nord. I padroncini di queste economie sono proprio quelli che votano e fanno votare Lega o Forza Italia perché hanno una perfetta comunità di interessi con Berlusconi: non ne possono più di lacci e lacciuoli, vogliono riconosciuto un solo diritto, quello della libertà d'agire del più forte che ovviamente deve corrispondere alla negazione del diritto di chi deve lavorare per questo. Castelli non si squalifica affatto quando difende a tutti i costi l'impunità di Berlusconi e Previti, perché mostra così come è pronto a difendere i suoi, quei padroncini che vogliono il diritto di organizzare il caporalato, la frode fiscale, la violazione delle norme ambientali, la neo-schiavizzazione dei deboli e a volte persino la libertà delle molestie sessuali nei confronti delle dipendenti donne. E non è un caso che fra gli elettori milanesi "doc" dell'onorevole Dell'Utri ve ne siano tanti che hanno tranquillamente dichiarato di averlo votato ben sapendo tutto quello che si dice di questo celebre amico degli amici e braccio destro del presidente perché: "fa i fatti suoi ma ci permette di fare anche i nostri". Rispetto all'immigrazione questo fenomeno si traduce in poche cose semplici (come dicono i leghisti): gli immigrati non devono avere diritti se non quello di lavorare duro ed essere pagati quanto e come vuole il padrone. La precarizzazione e l'accanimento contro i clandestini ha ovviamente un'unica conseguenza quella di accrescere il bacino dei potenziali neo-schiavi ancor più ricattabili. Come avevamo previsto, infatti, è certo che con il governo Berlusconi questo bacino aumenterà mentre resterà stabile o diminuirà l'area dei regolari più o meno sedentarizzati. Per finire, c'è però un importantissimo insegnamento da trarre da queste briciole di analisi: la lotta contro il liberismo violento e razzista (si pensi a Ion Cazacu assassinato da un caporale che lavorava per i leghisti e per questo difeso da questi anche se "terrone") non si fa con la sola mobilitazione degli immigrati ma con la mobilitazione continua di italiani e immigrati vittime delle economie sommerse liberiste. E' infatti evidente che la maggioranza dei lavoratori al nero sono italiani. La condizione degli immigrati è certamente peggiore ed è rivelatrice della condizione i tutti quei lavoratori alla mercè del liberismo. Allora lottare per i diritti degli immigrati significa anche lottare per i diritti di tutti anche dei clandestini. Come abbiamo fatto il 19 luglio a Genova, si tratta allora di affermare la piena volontà di praticare il dovere di asilo e la lotta per i diritti di cittadinanza per tutti ed anche su questo terreno che tante Ong sono chiamate a superare le loro ambiguità. Occorre costruire nel territorio a livello di quartiere la possibilità concreta di organizzare questa lotta di immigrati e italiani anche perché il liberismo sta diventando sempre più violento, mafioso e razzista, sia al nord che al sud e non si può attendere passivamente altre vittime come Ion Cazacu. * sociologo
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Ci sono!
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GesuGiuseppeSantannaeMaria Sunday, May. 18, 2003 at 3:25 PM |
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Trovato! Mi chiedevo cosa mi ricordava 'sto 3d.
La *storia de sior intento*.
Scherzetto per bimbi. Veneto e quindi in tema.
Here it is:
Questa xe a storia de sior intento che dura tanto tempo che mai no se destriga vutu che tea conta o vutu che tea diga?
Al variare della risposta naturalmente la storia non cambia.
Tutto molto bello.
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non é facile farsi capire
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Paolo Ranieri Sunday, May. 18, 2003 at 5:37 PM |
mail:
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Scrive l'ignota, o forse non ignota, o forse ignoto...
"Non ho capito neppure Ranieri (tanto per confermare che la sfiga è mia) quando dice :"Tutti - meno nel 1950, di più nel 2000 - sono costretti a lavorare, tutti possono rifiutarsi di farlo. Chi andando a rubare, chi intaccando patrimoni propri e altrui, chi chiedendo l'elemosina, chi volgendosi all'autoproduzione, etc.Tutti a partire dalle condizioni che hanno trovato in sorte, e che comprendono eventuali rendite (modeste quelle di Debord, comunque, che viene immaginato come una sorta di nababbo), audacia, capacità, conoscenze, etc." insomma mi sembra che chi non ha le condizioni adatte, conoscenze, vitalizi, audacia, sia un povero sfigatello"
be', se uno non ha nulla di nulla e neppure l'audacia per affrontare questa sua sorte, mi pare di non dire alcunché d'originale se affermo che fatalmente gli toccherà di vendere la sua forza lavoro in cambio d'un salario.
"non sto a raccontare la mia vita, ma penso di essere uno di quei casi in cui proprio alcune condizioni (povertà, per esempio) mi hanno impedito l'accesso alle conoscenze tra le altre cose non amo rubare e non capisco cosa si intenda per intaccare patrimoni propri e altrui "
credo che la povertà c'entri fino a un certo punto: beninteso un vantaggio non é. Rubare a certuni piace, ad altri schifa, a molti é indifferente: il fatto è che é una delle alternative classiche al lavoro, non l'unica ma una, insieme all'elemosinare e all'offrire prestazioni sessuali, di quelle tradizionali. Dilapidare patrimoni significa che quando uno si imbatte in un po' di soldi, non li risparmia, non li investe, non mette in piedi una ditta, non compra una casa, ma se li mangia senza lavorare, finché non li ha esauriti. Il dilapidare é addirittura un peccato grave per la chiesa e consente ai parenti di chiedere l'interdizione dello scialacquatore. E' la cavalletta del capitalismo, perché gli fa concorrenza sul suo medeismo terreno: il capitalismo stesso dilapida il mondo intero e non ama i concorrenti
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per Paolo R.
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Vetril Sunday, May. 18, 2003 at 7:18 PM |
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non ti sono ignota. mi chiamo Vetril perchè la prima volta che sono intervenuta non sapevo che nick mettere, ovviamente non volevo usare il mio solito, dunque mi sono voltata, qui in casa, ho visto il Vetril, quello che uso per lavare i vetri e mi sono identificata in lui (ti garba la ricombinazione della mia identità?) lo so, non è facile capirsi, tant'è che sono qui per cercare di farlo, più che altro capire voi, (con vostra santa pazienza come dice oliver) La povertà.. da sola forse c'entra fino ad un certo punto, ma unita a un forte senso di responsabilità (purtroppo imposto) credo proprio sia un buon corridoio per diventare un povero sfigatello, e non necessariamente uno deve essere salariato.. che poi, quale differenza tra un salariato che vende la sua forza lavoro e un artigiano che comunque deve sottostare alle leggi del mercato, dello stato, della clientela? considero "lavoro salariato" tutto quello che obbliga a piegarti ad orari non graditi, a regole imposte, a relazioni non desiderate, e che fa sì che passioni, creatività, gratifiche, siano sistematicamente sommerse dalla merda. Dilapidare i patrimoni, si, mi trovi d'accordo, ma bisogna averli...dilapidare quelli altrui mmm...servono ottime qualità (se si possono definire qualità) anche li.. sono incuriosita sull'offrire prestazioni sessuali NON tradizionali in cambio di un bel vitalizio, perchè quelle tradizionali purtroppo le offro gratis.. Rubare.. non amo (diciamo pure che non ne ho il coraggio) "rubare" nel senso violento della parola, tipo le rapine con armi alle banche, che impongono una sorta di violenza a chi ci lavora dentro, oltre al mio spauracchio per la galera Una bella truffa alle banche questo si, lo farei, ma anche li per truffare le banche devi avere gli strumenti e la povertà non ti aiuta no? come dire, mi ritrovo perfettamente nel quadro della "proletarizzazione". cmq, bacetti, penso di non aver aggiunto nulla, solo sfogo, ciao
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Editoria, potere contrattuale e l'immonda B
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giuseppe genna Monday, May. 19, 2003 at 10:28 AM |
mail:
genna@clarence.com |
Gentilissim*, perdonate l'ulteriore intrusione. Soltanto per chiarire la mia posizione personale rispetto ad alcune osservazioni presenti nel thread. Anzitutto ciò che concerne le recensioni su 54 e GIAP! che ho firmato in Clarence. Che cos'è, oggi, una recensione? A me pare che questo, che fu considerato un autonomo sottogenere letterario (di derivazione saggistica), non regga più. Ho vari motivi idiosincratici per sostenerlo, ma mi pare che sia incontestabile che di sicuro non si possa andare avanti a sostenere che la recensione equivalga a un intervento critico. E' insopportabile la spocchia di sé che gran parte dei recensori italiani spalma sui propri pezzi. Incontestabile anche il giro mafiosetto, del tutto autoreferenziato, che eietta come lapilli indifferenziati giudizi che ambiscono a un'antologizzazione - il che, tra l'altro, spesso accade. Infine, insopportabile la quota di autorevolezza ispirata che il recensore si attribuisce - qualcosa che ha un equivalente non secondario nell'auraticità psicologista di certi scrittori. Credo fermamente che l'"ispirazione" sia una maschera il cui ruolo è tutto nel pulire un atteggiamento di elezione del sé a irradiatore di potere. Tento di agire, sempre secondo inclinazioni del tutto personali, per andare in culo a questo atteggiamento che non ha nulla di sublime e molto della sublimazione. Ravvedo la necessità di esporre contraddizioni e rendere ruvido il soggetto che scrive, di farlo emergere perché possa essere contastato e abbattuto (ripeto: è soltanto una soluzione personale). Ci sono vari modi per spostare la recensioni verso lidi di irritabilità: da un lato la stroncatura gratuita ma, in fondo, motivata, che inneschi un DIALOGO; dall'altro l'utilizzo della retorica dell'iperbole, che però non sia menzognera, ma decentri il narcisismo dell* scrivente a favore di nuclei effettivi e il più possibile oggettivi che paiono emergere dal testo e dall'autore di cui si sta trattando. Capisco che tutto ciò possa apparire non condivisibile, però è un dato di fatto che, in questo modo, SI TORNA A DISCUTERE DEI TESTI E DEL LORO IMPATTO. Non importa tanto ciò che si scrive, ma ciò di cui si scrive. Se uno fa una recensione, per me, sta svolgendo un duplice servizio: a favore del testo e di chi può leggerlo o averlo letto. Questo è per me fondamentalissimo. L'irritazione che solleva il fatto che io vada sempre sopra le righe permette di assalire il soggetto che appare problematico rispetto alla diffusione del testo: che è il recensore. Credo sinceramente nella diffusione della cultura: questo è il mio lavoro. Dovessi scrivere saggi critici, sarei costretto a pensare a tutta un'altra piattaforma soggettiva e, probabilmente, sceglierei l'anonimato. Le cose prima della forma: le cose sono già lo stile - io vorrei lavorare per questa prospettiva, che mi sembra ben più comunitaria dell'espressione individuale delle mie preferenze, peraltro inquinate dal fatto che scrivo romanzi e poesie, e che sono portato a leggere per rubare, succhiare, nutrirmi degli altri. Sempre implorando perdono per le lungaggini del ragionamento, vorrei dire qualcosa sulla questione editoriale. Sta andando parecchio meglio di qualche anno fa: mi pare indubitabile. Ci sono luoghi editoriali di dibattito autentico, di rischio, di proposta alternativa. Ci sono esempi di sfondamento di vecchie croste nichiliste (questo mi pare uno degli aspetti da sottolineare circa la pubblicazione di un libro come GIAP!). Il fenomeno dell'effervescenza della piccola editoria ha trasformato anche l'editoria da mainstream. Rimane certo da affrontare ancora, in modi che siano eversivi rispetto a quelli ormai tradizionali, l'immensa questione dei rapporti tra industria e piacere. Però è indubbio che la crepa sia aperta e che dalla crepa si sprigionino forze potenti e ossigeno in gran quantità. In ciò bisogna inscrivere l'annosa questione. CHIUNQUE abbia lavorato in Mondadori sa perfettamente che, all'immonda B, dei libri non gliene frega un cazzo. L'immonda B era interessata a Mondadori soprattutto per i magazine, Panorama sopra tutti. Editor e direttori di Mondadori Libri sono generalmente di sinistra. Questo permette di mettere a nudo una macchina anideologica (o ideologica in massimo grado): la macchina del potere e del farsi mercantile della cultura. Gian Arturo Ferrari, gran capo di Mondadori Libri, in un'intervista sul Corriere della Sera di ieri, formulava un invito agli einaudiani: devono tornare a essere einaudiani, devono tornare a fare politica culturale di sinistra, secondo la tradizione einaudiana. Questo significa: 1) devono strappare a Feltrinelli la quota di mercato dei lettori di sinistra; 2) non l'immonda B, ma IL PENSIERO DI ESSERE POSSEDUTI DALL'IMMONDA B spinge a una produzione compiacente rispetto a ciò che si pensa gradirebbe l'immonda B; 3) infine, Einaudi ha deviato dalla propria tradizione per concentrarsi su una tradizione del proprio prestigio, come testimonia l'ALFABETO EINAUDI di Davico Bonino (l'idea che l'autore italiano è einaudiano o non è - il che è ben diverso dal misurarsi con l'irradiazione in termini di prassi del lavoro culturale). In tutto ciò, non si può davvero parlare di scuderia. A partire dalla banale osservazione che io, essendo autore Mondadori, come altri autori mondadoriani non voterò mai l'immonda B e lavoro alacremente per la sua cancellazione dal consorzio civile; per arrivare all'opera di penetrazione e di sfruttamento della distribuzione e della visibilità da parte di certi autori che dispongono di strategia sociale e conoscono alla perfezione la fondamentale opera di lavoro culturale (Wu Ming ed Evangelisti rientrano in questa casistica, credo). E poi: Evangelisti pubblica anche con l'Ancora del Mediterraneo, io con peQuod, Wu Ming con una caterva di altri editori: forse vale davvero la pena, in questo caso, di cercare il pelo nell'uovo. Di peli nell'uovo, in questo caso, ce ne sono molti - si spera che uno di questi peli romperà il tuorlo. Grazie e perdonate la logorrea.
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x dr
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Marco B Monday, May. 19, 2003 at 1:32 PM |
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in giro si dice che sia un falso piuttosto maldestro, scritto a suo tempo da quelli della rivista "Invarianti", che prima di chiudere baracca hanno dedicato interi numeri alle teorie del complotto su chi ci fosse dietro Luther Blissett e dietro i WM. si dice che quel testo sia stato scritto da un certo Leonelli.
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x Robin
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Pino Monday, May. 19, 2003 at 9:16 PM |
mail:
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"Debord attraverso la distruzione del presernte ci indica la via ....dell'eterno ritorno"
Stanno per rimandarti in filosofia, vero? Non prendertela troppo, quando si è al liceo si ha la sensazione che durerà in eterno, ma poi passa e diventa solo uno sbiadito ricordo.
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esempi pratici?
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duemilaenigmineljazz Monday, May. 19, 2003 at 9:51 PM |
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non ti so fare esempi pratici, speravo potessi delucidarmi tu. sono pro-situ anche io, of course :) sto leggendo La società dello spettacolo e niente, mi sembra di ricordare che lo spettatore, senza che se ne renda conto, svolge una forma di lavoro non retribuito ne convieni?
ps: sono duemilaenigmineljazz non duemilaenigmideljazz, è diverso ciao
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x duemilaenigmineljazz
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Wu Ming 1 Monday, May. 19, 2003 at 10:41 PM |
mail:
giap@wumingfoundation.com |
Beh, quando negli anni scorsi si parlava (e spesso si straparlava) di "general intellect", di produzione "immateriale" e lavoro mentale, di informazione (in senso lato) come principale forza produttiva del sistema post-fordista etc. si intendeva anche quello (benche' come la metti giu' tu sia un'estremizzazione del discorso).
Tutti produciamo, perche' oggi la produzione e' basata sull'immaginario, sul linguaggio e la sua innovazione, sui flussi di informazione che tutti contribuiamo a riplasmare. In inglese esiste la parola "prosumer", per dire che quando si comincia a ragionare su queste cose la distinzione tra produzione e consumo e' terribilmente sfumata.
Qui si entrerebbe nell'altra annosa questione, quella del reddito sociale, "reddito di cittadinanza", reddito sganciato dal salario classicamente inteso ma agganciato alla produzione di ricchezza come l'ho appena descritta.
A questo punto, prima che lo faccia "Luther Blissé 2003", ripropongo una vecchia boutade dei Luther Blissett romani:
Da "Luther Blissett - Rivista Mondiale di Guerra Psichica", n.3, Inverno 95/96
DICHIARAZIONE DEI DIRITTI
L'industria dello spettacolo integrato e del comando immateriale mi deve dei soldi. Non scenderò a patti con lei finché non avrò ciò che mi spetta. Per tutte le volte che sono comparso in televisione, al cinema o per radio, come passante casuale o come elemento del paesaggio, e la mia immagine non mi è stata pagata; per tutte le volte che le mie tracce, iscrizioni, graffiti, fotografie, disposizioni di oggetti nello spazio (come parcheggi fantasiosi, incidenti catastrofici o spettacolari, atti di vandalismo, abusivismo edilizio, ecc.) sono state usate a mia insaputa da show o telegiornali; per tutte le parole o espressioni di sicuro impatto comunicativo da me coniate nei bar periferici, nelle piazze, ai muretti, nei centri sociali, che sono poi diventate sigle di trasmissioni, potenti slogan pubblicitari o nomi di gelati confezionati, senza che io vedessi una lira; per tutte le volte che il mio nome ed i miei dati personali sono stati messi al lavoro gratis dentro calcoli statistici, per adattare alla domanda, definire strategie di marketing, aumentare la produttività di imprese che non potrebbero essermi più estranee; per la pubblicità che faccio di continuo indossando magliette, zainetti, calzini, giubbotti, costumi, asciugamani con marchi e slogan commerciali, senza che il mio corpo sia remunerato come cartellone pubblicitario; per tutto questo e per molto altro ancora l'industria dello spettacolo integrato mi deve dei soldi!
Capisco che sarebbe complicato calcolare singolarmente quanto mi spetta. Ma questo non è affatto necessario, perché io sono Luther Blissett, il multiplo e il molteplice. E ciò che l'industria dello spettacolo integrato mi deve, lo deve ai molti che io sono e me lo deve perché io sono molti. Da questo punto di vista possiamo accordarci quindi per un compenso forfeittario generalizzato. Non avrete pace finché non avrò i soldi!
MOLTI SOLDI PERCHÉ IO SONO MOLTI: REDDITO DI CITTADINANZA PER LUTHER BLISSETT!
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P.S. Scusami, non ricordavo bene le parole del pezzo di Conte.
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per puck il folletto
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telaraccontoiovuoi? Tuesday, May. 20, 2003 at 12:19 AM |
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picinin, la favola te la racconta questa mama, che la tua forse da quel che sembra non ha mai avuto il tempo di farlo, vuoi? e te la racconta pure in tema, così son contenti tutti, belli, brutti e nonnetti.
I tre miti
"Quelli che son stati adolescenti insieme a me e di anni ne hanno almeno trentatré avevano tre miti nel sessanta o giù di lì il sesso, il socialismo ed il GT Magari la ragazza c'era chi l'aveva già ma sogni rosa e petting a metà il sesso, quello vero, era tutt'altro, era lontano Hugh Hefner, o la storia di un mio amico E poi poco alla volta ce lo siamo conquistato il tabù è infranto e c'è chi s'è sposato lavoro, figli, alcuni divorzio e infine libertà ma ormai fuori dal mito e fuori età Ma ritorniamo indietro a quei vent'anni o giù di lì vediamo la faccenda del GT.. io fortunato ci son stato sopra a quell'età perchè a un mio amico lo comprò papà E dopo molti anni ce l'ho avuto pure io un GT vero proprio tutto mio ma a gas, celeste e usato ed anche arrugginito e soprattutto ormai, fuori dal mito. E c'è chi fra di noi ha abbandonato l'avventura per noia, opportunismo, o per paura e chi non l'abbandona ma non capisce cosa sia per troppa fede o per poca ironia E c'è chi come me fra sessantotto e masochismo è ancora lì che aspetta il socialismo arriverà, siam certi, euro dal volto umano speriamo che non sia di seconda mano".
E tu, puck il folletto, quali sono i tuoi miti?
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da it.politica.destra
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pasadenas Tuesday, May. 20, 2003 at 2:18 AM |
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Un messaggio di sei anni fa, trovato con google. Sì, è chiaro, era un attacco dell'estrema destra contro un fenomeno per loro indecifrabile, perchè "informe" e destabilizzante... ------
Da:by way of Luca Sambucci <luca@sambucci.com> (ridolfi_andrea@geocities.com_(andrea_ridolfi)) Soggetto:pamphlet contro Umberto Eco Newsgroups:it.politica.destra Data:1997/08/06
vi scrivo per segnalarvi una interessante pagina web dove si trova un recente pamphlet scritto contro Eco, dal titolo *Il nome multiplo di Umberto Eco*. In questo testo viene ricostruita l'attivita' politica di Eco e i suoi legami con le forze del centrosinistra, anche negli aspetti piu' nascosti e potremmo dire "esoterici" della sua decennale attivita', fino alle influenze su attuali gruppi controculturali giovanili come Luther Blissett, personaggio collettivo che tesse beffe ai giornali e in rete. Nel pamphlet e' minuziosamente descritta l'attivita' a fianco dell'Ulivo e del PDS di Eco e altri intellettuali di sinistra, come Roberto Grandi, Omar Calabrese, Carlo Freccero. L'indirizzo e' http://www.geocities.com/CapitolHill/Lobby/5999. Chi volesse riceverne una copia in attachment puo' richiedermela scrivendo a <ridolfi_andrea@geocities.com>. Saluti, Andrea
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e il guestbook
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dr Tuesday, May. 20, 2003 at 2:36 AM |
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E il guestbook del sito su geocities dove ci sta l'opuscolo, lo avete visitato?
"- 01/07/98 21:52:33 Comments: Tutti devono sapere che il nemico mortale della Tradizione europea e mondiale è il giudaismo. Mai come oggi vediamo avverarsi le profezie anticristiche che rappresentano la "Bestia" col numero 666. Se provate a pensare cos'è il 666 scoprirete che esso è il sigillo di Salomone detto anche stella di David. Esso è formato da 6 punti, 6 lati, 6 intersecazioni. Tutti i potenti della terra sono proni davanti allo strapotere dello Stato di Israele. Questo è il vero e l'unico nemico dell'intero genere umano. Meditate gente, meditate! Passa parola…. "
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Storia di Paolo B.,comontista
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Pettirosso Tuesday, May. 20, 2003 at 10:01 AM |
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Storia di un comomntista
Conobbi Paolo in galera,lo conoscevo di vista,lui era lì x un assalto a un furgone blindato io x delle bottiglie molotov. Stava in una cella singola,cucinava macrobiotico e tutti i giorni,con qualunque tempo,allungango il collo lo potevi vedere correre durante i periodi di "aria". Il professore,questo il nome con cui veniva chiamato ,era molto rispettato da tutti, politici,malavitosi,truffatori mai sentito parlar male del prof. Un di quei personaggi su cui si la sera si raccontano storie. Non era un gran bandito , diceva la sua leggenda personale, non era svelto, quando arrivava la madama era sempre l'ultimo a filarsela, come quella volta delle carte d'identità (nel corso di un assalto a un municipio della bassa padovana arrivarono i carabinieri). Tutti riuiscirono a scappare meno il professore( Dicevano che rubasse,rapinasse + x ideologia che x bisogno. Era un letterato che si era innamorato dell'azione diretta. Non essendo,come dicevo ,un grandissimo ladro,il professore viveva facendo qualche piccolo lavoretto, alternando qualche traduzione dal tedesco a qualche sceneggiatura di Diabolik....e magari alla vendita di qualche bustina di ero...e si al proffessore piaceva anche la roba....anzi direi ne fosse,come i primi beatnick, letteralmente innamorato. Paolo Bruttomesso,questo il suo nome,morì di eroina in una casa da negri a Berlino nella prima metà degli anni 80.
Ciao prof,ovunque tu sia la terra ti sia lieve
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sì, bel thread
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duemilaenigmineljazz Tuesday, May. 20, 2003 at 12:36 PM |
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invece io faccio i miei omaggi a wu Ming 1 e Paolo Ranieri, perchè sanno mettersi in gioco
per dr: chi è Elio? per curioso (ansioso3) dagli tempo no? magari non sono connessi per Wu Ming 1 sì, è Conte, anche se alla fine non so mica se il pezzo dica del o nel, io preferivo nel
ciao a todos
ah sempre per Wu Ming 1..scusa vi conosco poco, devo dedurre dai LB romani che sei per il reddito di cittadinanza?
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sul reddito
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Wu Ming 1 Tuesday, May. 20, 2003 at 1:08 PM |
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giap@wumingfoundation.com |
Uhm... Devo prenderla alla larga, perche' la questione del reddito non e' comprensibile senza alcune necessarie premesse.
Tutta la discussione e' partita da due prese d'atto: l'esistenza di una ricchezza sociale prodotta da tutt*, che non s'identifica in toto coi beni materiali, e l'esistenza di una sfera pubblica non-statale, fatta di relazioni, comunita', reti etc.
[Ne e' un esempio proprio il mezzo che stiamo usando in questo momento, Internet. Un mezzo (e una tendenza al mutamento antropologico) dalle potenzialita' inclusive (e comunitarie) molto grandi, che continuamente reagisce e produce anticorpi alla propria commercializzazione ed espropriazione capitalistica (basti pensare al software libero, che proprio i paesi poveri adottano su larga scala etc.).
Non a caso, tutti i tentativi di mercificazione (la bolla della new economy etc.) sono piu' o meno falliti, mentre la rete e' ancora qui e continua a estendersi (e non solo nei paesi ricchi). Soprattutto, come fa notare Formenti, continua a funzionare sulle basi di una peculiare "economia del dono" (la stessa che sta mandando in pezzi l'industria discografica, per intenderci) e di una orizzontalita' ben evidente.
Certo, la rete vive anche di esclusione, di "digital divide", ma a creare l'esclusione e' l'esclusione stessa, cioe' il fatto che la rete deve fare i conti con la divisione mondiale del lavoro (e dei consumi) e di tutte le controspinte per controllare e addomesticare la comunicazione.]
Ecco, chi propone il "reddito di cittadinanza" ritiene sia inevitabile (e auspicabile) sganciare il reddito sia dalla prestazione lavorativa classicamente intesa (perche' tutt* produciamo, tutt* vendiamo forza-lavoro mentale, e anche perche' un uso piu' razionale delle tecnologie esistenti permetterebbe gia' di ridurre drasticamente la necessita' del lavoro) sia dall'assistenzialismo e dallo statalismo (perché esiste una sfera pubblica non-statale, e anche perché l'Europa non puo' che andare verso la creazione di una fiscalità sovranazionale).
In parole povere: un sussidio che non sia una "certificazione di inutilita'" o di marginalita', ma proprio il contrario: il riconoscimento che tutti partecipiamo (non retribuiti) alla produzione di immaginario, di comunicazione etc.
C'è chi lo chiama "reddito di cittadinanza" e chi lo chiama in un altro modo. Si tratta di una parola d'ordine, di una rivendicazione radicale com'era il "salario uguale per tutti e sganciato dalla produttivita'", solo che dalla fabbrica vera e propria siamo passati alla "fabbrica diffusa". A erogare questo sussidio non dovrebbe essere lo stato-nazione, ma un'Europa costruita dal basso che ancora non esiste.
Io in linea di massima sono d'accordo su queste premesse, il problema e' che in dieci anni e piu' mi pare non si sia *mai* andati oltre, non si sia mai passati dall'astratto al concreto, non si sia mai cercato di individuare davvero chi potrebbe erogare quel reddito, stornando i soldi da dove, non si e' riusciti a fare entrare questa rivendicazione nelle piattaforme delle nuove lotte dei lavoratori (o dei disoccupati costretti agli spesso *inutili* "lavori socialmente utili").
Cosi' rischia di essere una cazzatella consolatoria per intellettuali.
Ecco, questa e' la mia posizione.
www.wumingfoundation.com
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MA LA MITOPOIESI E' WUMINGHIANA, VERO?
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Anubi (e non e' una fake...) Tuesday, May. 20, 2003 at 8:04 PM |
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da NYC |
PER LA VERITA' NON E' DIFFICILE INSCENARE UNA "MITOPOIESI GLOBALE" (CASARINI INTORTATO A NYC): DAVVERO, BASTA UN EX PORTAVOCE DELLE EX WHITE OVERALLS, NELLA STESSA CITY, PERALTRO ITALIANA (NON DICO DI QUALE CITY SE NO FINISCE ESATTAMENTE COME PER LA FAKE DI CUI ALL'INTESTAZIONE: SICCOME STAVOLTA SONO "IO" A SCRIVERE, ANNOTO PREVENTIVAMENTE CHE LE COINCIDENZE DEL REALE NON SONO COLPA MIA:-)))). BASTA CHE PASSI LA META' DELL'ANNO IN ITALIA, NELLA SUA CITY (EHMMMM...), E L'ALTRA META' APPUNTO A NYC. BASTA CHE SI PORTI CON SE' CERTE MINUSCOLE MA VIRULENTE DOSI DI VELENO IN ITALIA BEN NOTE. BASTA CHE SCELGA LA SCENA: NON L'INCONTRO CON CENTO PERSONE E A SOTTOSCRIZIONE (PER LA SEDE OSPITE) AL BRECHT FORUM A MANHATTAN DI SABATO SULL'ESPERIENZA DEL MOVIMENTO ITALIANO DELLE/DEI DISOBBEDIENTI (DOVE PER INCISO L' EX PORTAVOCE IN QUESTIONE NON SI PERITA DI INTERVENIRE, IN UN DIBATTITO DI DUE ORE E MEZZA CHE HA AFFRONTATO ANCHE IL PROBLEMA DELLA "LEADERSHIP" COME QUELLO DELLE PRATICHE DI RETE TRA MOVIMENTI), MA QUELLO SU "INTELLETTUALI, MOVIMENTO E RADICALITA' DELL'ULTIMO MEZZO SECOLO" ORGANIZZATO AD HOC SUL NEWSWIRE DI INDYMEDIA, IN MODO DA RENDERE APPARENTEMENTE PIU' CREDIBILE A PUBBLICI LONTANI LA SUCCESSIVA RIVENDICAZIONE D'UN PRESUNTO CONSENSO DEI PRESENTI. BASTA CHE COMPRI UNA TORTA, SI METTA D'ACCORDO CON UN PAIO D'AMICI INTELLETTUAL MEDIA ATTIVISTI E SOPRATTUTTO STAMPI UN VOLANTINO IMPERSCRUTABILE AI NEWYORKESI DAL TITOLO "WHY PIE CASARINI?" IN CUI LA SPIEGAZIONE E' CHE "CASARINI IS NOT AN INTELLECTUAL OR AN ANTI-AUTHORITARIAN" BENSI' RESPONSABILE DI "TRYING TO DOMINATE GLOBALLY" (NIENTEPOPODIMENOCHE!) "BY TAKING OVER OTHER GROUPS' ACTIONS ESPECIALLY ANARCHISTS IN TORINO AND THE REST OF ITALY, BY DISRUPTING THE BOLOGNA (ECCO, APPUNTO... OPS!) BASTA CHE IL VOLANTINO LO FIRMI CON IL NOME DELLA BIOTIC MITOPOIESI BRIGADE, OSSIA UN GRUPPO D'AFFINITA' IN CUI OGNI SINGOLO/A PUO' USARE IL LOGO E D'ALTRA PARTE ATTIVO QUASI SOLO IN QUELLA CITY DI CUI NON FACCIO IL NOME (BOLOGNA) E NON A NEW YORK DOVE NON RISULTA SIANO STATI PRESI A TORTE IN FACCIA NON DICIAMO PERSONAGGI QUALI BILL GATES O MILTON FRIEDMAN (COME APPUNTO NELLA WEST COAST) MA NEMMENO UN MISERO POLICEMAN O UN GIORNALISTA A UN TANTO AL CHILO DELLA CNN... BASTA CHE PROPRIO IN CALCE AL TESTO DEL VOLANTINO CI SCRIVA "FOR MORE INFO CHECK THE WEBLINK: ITALY.INDYMEDIA.ORG", NEVVERO... BASTA TUTTO QUESTO. CHE E' MOLTO PER I POVERI MORTALI, MA DAVVERO POCHISSIMO, EVIDENTEMENTE, PER LA DIVINA PARANOIA DI CHI HA TEMPO PER TORTE, PANZANE E MITI NEL MOVIMENTO, IN QUEST'EPOCA E CON QUESTI CHIARI DI LUNA... BAH!!!!!!!!!!! A.
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sul reddito di esistenza
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duemilaenigmineljazz Tuesday, May. 20, 2003 at 10:07 PM |
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Io in linea di massima sono d'accordo su queste premesse, il problema e' che in dieci anni e piu' mi pare non si sia *mai* andati oltre, non si sia mai passati dall'astratto al concreto, non si sia mai cercato di individuare davvero chi potrebbe erogare quel reddito, stornando i soldi da dove, non si e' riusciti a fare entrare questa rivendicazione nelle piattaforme delle nuove lotte dei lavoratori (o dei disoccupati costretti agli spesso *inutili* "lavori socialmente utili"). ____________________________
terra a terra...ma molto terra a terra... questo non conferma che alla fine quella del reddito di cittadinzanza/esistenza è una grande menata e che è impossibile da mettere in pratica, oltre, dico io, a non intaccare minimamente le dinamiche capitalistiche? a me sembra una sorta di pensione minima, così a pelle
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x duemilaenigmineljazz
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Wu Ming 1 Tuesday, May. 20, 2003 at 11:15 PM |
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giap@wumingfoundation.com |
Il fatto che si fatichi a mettere in pratica qualcosa non sempre significa che la tendenza verso cui punta sia sbagliata.
E poi: il "reddito di cittadinanza" non e' uno dei miei cavalli di battaglia (preferisco il repertorio di quando Claudio Villa cantava in falsetto, nei primi anni Cinquanta), pero' dovresti dirmi quali sono secondo te le rivendicazioni fattibili di "intaccare il capitalismo".
Oggi molte cose che ai rivoluzionari DOC sembravano (e forse sembrano) blande, riformiste, addirittura impolitiche, si rivelano in assoluto le piu' scomode per i padroni, basti vedere le reazioni isteriche delle multinazionali di fronte alla pirateria che le ha gettate in crisi strutturale, i travasi di bile della Microsoft (costretta a viaggi neocoloniali di rattoppo relazioni coi paesi poveri) quando si parla di Linux...
In fin dei conti la premessa del "reddito di cittadinanza" e' la stessa che a te sembra di aver letto nel libro di Debord (nel capitalismo contemporaneo tutti "lavoriamo" e "produciamo", e per giunta non retribuiti), e la conclusione e' la stessa che scrivevano i Blissett romani: datece li sordi!
Non e' una "pensione minima", almeno non nelle intenzioni: vorrebbe somigliare alle virulente rivendicazioni salariali che spaccarono la vecchia industria fordista e portarono a quel vero e proprio scontro militare che venne chiamato "ristrutturazione".
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RIVOLUZIONE!
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duemilaenigmineljazz Wednesday, May. 21, 2003 at 12:32 AM |
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cazzo, ma la pirateria è un'altra roba dal reddito di cittadinanza distribuito dalle istituzioni! è moooolto più revolucion! per il resto intaccherei il capitalismo così: smettere di lavorare,(job) di pagare la merce, non usare più le banche, invadere e derubare negozi, fabbriche, supermercati e multinazionali, distruggere le galere, le chiese, la famiglia, i commercianti, occupare case, strade, palazzi e campagne in ogni caso..a Claudio Villa preferisco ancora i pipponi sul rdc ciao
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il problema rimane
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Wu Ming 1 Wednesday, May. 21, 2003 at 12:53 AM |
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Quando si parla di "sfera pubblica non-statale" (lo dice la parola stessa) non si intendono le istituzioni dello stato, che ovviamente non sarebbero mai in grado di interpretare le esigenze di cui sopra.
Sul "non lavorare" e via di seguito siamo d'accordo tutti, ma su come attuare il programma non mi sembri piu' concreto di quelli che parlano del reddito di cittadinanza. Anzi, e' una posizione assimilabile alla loro: ci si accontenta di *enunciare*, e non ci si preoccupa di come tradurre l'enunciato in azione. E' questo accucciarsi nell'astrazione a farmi prendere le distanze dai "rivoluzionari", perche' le sofferenze del mondo e delle persone sono reali, e non sara' la vecchia retorica a farle scomparire.
E comunque, a prescindere da quali canzoni preferiamo cantare, il problema del "reddito di vita" saremo sempre più obbligat* a prenderlo in considerazione.
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ok
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duemilaenigmineljazz Wednesday, May. 21, 2003 at 1:42 AM |
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ti devo chiedere scusa perchè non ti avevo letto con attenzione e davo per certo che la distribuzione del reddito potesse passare solo tramite istituzioni statali (anche perchè non riesco a capire chi potrebbe distribuirlo altrimenti) in ogni caso anche la mia "Rivoluzione" era ironica, pensavo di averlo trasmesso, non penso sia fattibile, solo auspicabile
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stato e non-stato
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Wu Ming 1 Wednesday, May. 21, 2003 at 1:50 AM |
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E' proprio questo il punto su cui non si riesce a far convergere le intelligenze, che pure ci sono: chi lo distribuisce altrimenti? Come saranno organizzate le casse di mutuo appoggio delle comunità di domani, liberamente federate?
Preciso però che io non sputo sul sistema pensionistico anche se è gestito dallo stato, perché grazie a quello le mie due nonne oggi hanno un'esistenza dignitosa dopo una vita di sfruttamento nei campi della Bassa ferrarese (vengo da una famiglia di braccianti).
Quando (giustamente) attacchiamo lo Stato, non scordiamoci che lo stato non e' un monolito: il welfare state è una conquista delle lotte di generazioni di proletari, è stato imposto dal basso.
Per capire come stavano le cose prima del welfare state, consiglio l'immarcescibile - è di sessant'anni fa - ed epico "La grande trasformazione" di Karl Polanyi (Einaudi), che racconta il capitalismo delle origini e fa a pezzi l'ideologia liberista.
Sul serio, è uno dei libri più esaltanti che abbia mai letto, è meglio di un romanzo.
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x ellroy
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Wu Ming 1 Wednesday, May. 21, 2003 at 2:24 AM |
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Provo a riassumerti le diverse interpretazioni dell'espressione "sfera pubblica non-statale". Temo che sara' un'esposizione noiosa, pero' sacrifico il fascino alla chiarezza.
Intanto capiamoci: per "pubblico" si intende dire *sociale*, della societa', cio' che non appartiene a un privato.
Quasi tutta la sfera pubblica è nata come non-statale, come rete di sforzi solidali. Solo in seguito è diventata statale.
Quella che oggi e' la Sanita' pubblica, le USL etc., un tempo era la medicina popolare, e piu' in specifico la medicina dei dottori socialisti che all'inizio del secolo si organizzavano per costruire ambulatori nei paesi massacrati dalla fame e dalla pellagra etc. L'evoluzione della societa' e le spinte dal basso hanno costretto lo Stato a farsi carico di questi bisogni, e a creare la sanita' pubblica che oggi conosciamo, ma questa vittoria ha mostrato tutti i suoi limiti, perche' la medicina si e' burocratizzata, spersonalizzata, sovente disumanizzata, e soffre delle magagne che tutti conosciamo. Qualcosa di molto simile e' successo all'istruzione, agli enti locali etc.
Oggi lo stato sociale e' in declino, e (proprio come quando era agli albori ma non al massimo della forza) non interpreta la totalita' dei bisogni sociali, anzi. Tant'e' che negli ultimi anni si sono riformate delle strane "sacche" di societa' che sono *pubbliche* (nel senso di sociali e comunitarie), ma non sono istituzioni statali.
Attenzione, il fatto che siano pubbliche non significa necessariamente che siano "buone". Per dire, anche la mafia ha storicamente costruito una sua "sfera pubblica": "comunitario" puo' anche significare tribale, familista, confessionale etc. Ci sono fenomeni contraddittori, come il volontariato, le ONG etc.
Pero' quello che importa e' sottolineare che oggi lo stato non controlla gran parte della sfera pubblica. Questo avviene al massimo dello sviluppo, qui da noi, quanto nel nuovo sottosviluppo, tra le macerie delle illusioni neoliberiste. Il crollo dell'economia argentina ha costretto le persone a dar vita a esperimenti di autogestione dell'economia, di scambio non monetario, di creazione di reti e "istituzioni" di democrazia diretta come i consigli di quartiere. Ecco, quella e' un'altra forma di "sfera pubblica non-statale".
"Qui da noi", invece, un ottimo esempio di dimensione inequivocabilmente *pubblica* eppure non statale ne' statalizzata e' Internet. Internet si basa sugli scambi orizzontali, il suo motore non sono i siti delle aziende ne' quelli degli analisti finanziari: sono l'e-mail, le chat, i blog, i newsgroup, le mailing list, il peer-to-peer. Le persone non vogliono l'accesso a Internet per collegarsi al sito della Nokia o della Nestlé, vogliono l'accesso a Internet per comunicare tra loro. Che c'e' di piu' pubblico di questo?
Trent'anni fa successe con le radio libere (libere, appunto, non "private"): la "de-statalizzazione" delle frequenze porto' a un loro uso *piu' pubblico*, non piu' privato. Col riflusso, di quel patrimonio di comunicazione se ne impadroni' Berlusconi, grazie alle amicizie politiche e a leggi fatte su misura. Ma la comunicazione sta cambiando cosi' rapidamente che le leggi faticheranno sempre piu' a essere "su misura" dei padroni, lo dimostra tutto il casino sul copyright.
Appunto, un altro esempio di nuova dimensione *pubblica* e' quel processo sociale che il potere chiama "pirateria" (per quello rimando alla mia intervista su quintostato.it, qualcuno ha postato il link su questo thread, molti messaggi piu' in alto).
Scusa per il pippone, spero di aver risposto. Good night.
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cose diverse
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ellroy Wednesday, May. 21, 2003 at 2:56 AM |
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1) non capisco ma mi sebra che tu gioisca della fine dello stato sociale, buon per te se hai i soldi per pagare scuola e sanità private. La medicina disumanizzata e spersonalizzata permette di avere macchine per fare la tomografia assiale disponibili anche per un disoccupato. Negli USA senza la credit card non ti offrono neanche una flebo. I fattori di disumanizzazione prodotti da un certo uso della tecnica medica da parte dello stato mi sembrano ampiamente compensati dai vantaggi offerti dalla prorpietà pubblica di quegli strumenti sul piano dell' equità. Per altro un uso privato di quelle tecniche porta soltanto ad un intesificazione della loro componenete disumanizzante come si può notare osservando il panorama della medicina negli USA.
2) La crisi argentina mi pare avere mostrato prorpio la limitatezza del modello che proponi. In assenza di una proposta alternativa che implicasse anche la gestione dello stato e quindi del potere i movimenti argentini non hanno ottenuto praticamente nulla.
3) Eccetto la pirateria, comportamento di reale riappropriazione e infatti sancito legalmente, tutte le altre funzioni che citi riguardano più la libertà di espressione che la sfera economica. Tutti i servizi che elenchi, compreso quello che stiamo usando, utilizzano necessariamente una rete di reti mondiale che é al 95% di proprietà privata. E infatti tutti i lettori di questo scritto pagano al loro provider dei soldi.
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x ellroy e non solo
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Wu Ming 1 Wednesday, May. 21, 2003 at 1:07 PM |
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1) non ho assolutamente gioito della fine dello stato sociale, rileggiti la difesa del sistema pensionistico che ho fatto due messaggi fa, col consiglio di leggere Polanyi per rendersi conto che inferno era senza welfare.
Ero convinto che avessi letto quel post, per questo ho dato alcune cose per già assodate. Per favore, chi interviene in questo thread con domande rivolte a chicchessia, faccia almeno la fatica di leggere le cose scritte prima dall'interlocutore.
Io mi sono limitato a descrivere un dato di fatto. Lo stato sociale non e' in declino solo per le aggressioni che subisce dall'esterno, ma per alcuni suoi limiti strutturali, perche' e' troppo legato alle sorti dello stato-nazione, a un concetto di cittadinanza troppo esclusivo, all'eccessiva burocrazia e al parassitismo dei funzionari.
Hai mai provato a interessare al caso di una persona sofferente i servizi sociali del tuo Comune? Auguri.
Ti sei mai chiesto in cosa consista l'assistenza psichiatrica dell'USL? Ho piu' di un amico svuotato di ogni energia per colpa di quel sistema.
Se ne conoscessi per esperienza diretta i limiti, capiresti forse di piu' perche' e' auspicabile portare il "welfare" fuori dallo "state" senza privatizzarlo, & perche' e' necessario scardinare la dicotomia tra pubblico-statale e privato.
2) non ho assolutamente preso l'Argentina come "modello", non sono un anarcoide ne' un rivoluzionario "putschista", a differenza di moltissimi (dai Disobbedienti a molte sfumature di anarchici) non mi sono mai illuso su quel che sarebbe uscito da là.
Però non puoi negare che l'Argentinazo smentisce tutte le teorizzazioni antropologiche che stanno alla base del neoliberismo, cioe' che l'essere umano e' per natura egoista e poco incline alla cooperazione se non nella forma di competizione e commercio.
Non solo: l'Argentinazo smentisce anche l'apocalitticismo di molta sedicente critica radicale o teoria antagonista, che vorrebbe gli esseri umani totalmente rincoglioniti dai consumi e dalla propaganda.
La popolazione impoverita dell'Argentina e' riuscita in pochissimo tempo a inventarsi forme (certo, limitate e provvisorie) di socializzazione e collaborazione. Questo e' interessante, e promettente.
Se poi vogliamo buttare merda su tutto quello che succede perche' non e' abbastanza "rivoluzionario", allora ditelo. Quello e' un altro gioco, e - lo so che a Ranieri non piace la parola - si chiama "sconfittismo", il gioire quasi trionfalmente del fallimento delle esperienze messe in piedi, per la magrissima soddisfazione di dire "Ve l'avevo detto".
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dimenticavo...
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Wu Ming 1 Wednesday, May. 21, 2003 at 1:13 PM |
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Dimenticavo: quando parlo di dimensione "pubblica" di Internet non mi riferisco allo statuto giuridico di chi fornisce gli accessi, ma alla dimensione globale e complessiva della rete e degli scambi che vi avvengono. Non esiste una suprema autorità di Internet, come non ne esiste un Proprietario, e se e' per questo i servizi che continuano ad animarla e a farla crescere sono proprio quelli che non generano direttamente alcun profitto (es. i newsgroup). Certo, esistono migliaia e migliaia di providers privati (ma ve ne sono anche molti di proprieta' statale, o consorziale, o cooperativa), ma la dimensione della rete rimane pubblica (spero di aver fatto capire la differenza tra "pubblico", "statale" e "privato"), e l'accesso va rivendicato come un diritto sociale e civile fondamentale.
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Non fate il mio nick invano!
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Child Wednesday, May. 21, 2003 at 3:10 PM |
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Non so chi siano Robin e Cotroneo, non ho seguito il dibattito. Scusatemi! Su Eco so poco e niente, su L.B. pure. Anch'io ho i miei punti deboli. Non sono un complottista integrale, essendo astrologo crede nell'influenza delle stelle come elemento decisivo del comportamento umano. Il calcio.ad es., è uno di quegli ambienti ove non sono possibili congiure e se vi sono non vanno a buon fine. Il prossimo scudetto infatti lo vincerà l'Inter, noniostante i complotti continui del suo Presidente ai danni dell'allenatore... Saluti a tutti!
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segue
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ellroy Sunday, May. 25, 2003 at 2:42 AM |
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Il welfare nazionale non è la soluzione di tutti i mali ma è l' unico modello storico credibile in contrasto col progetto neo-liberale. Questo non vuol dire riproporlo tale e quale ma aggiornarlo dentro un contesto europeo che però è di nuovo un contesto statuale, diverso, ma statuale. Tra l' altro, nonostante burocrazie e funzionari, in infiniti studi si é dimostrato che l' erogazione di prestazioni sanitarie erga omnes é sempre più economica se dispensata dallo stato. Lampanti esempi della diseconomicità della fornitura di un servizio universalistico da parte del privato sono gli USA e la regione in cui vivo (Lombardia).
La medicalizzazione e ancora peggio la psichiatrizzazione del disagio psichico sono fenomeni sempre negativi, sia che avvengano per eccesso di stato come in URSS, sia che avvengano per eccesso di mercato come negli USA. Sicuramente un welfare ben finanziato permetterebbe di ridurre il prevalere delle ideologie organiciste e farmaco-centriche a favore di un' accessibilità di massa alle psicoterapie. Questo non significa pensare a degli psicologi come funzionari di stato, ma immaginare che lo stato possa permettersi di retribuire terapeuti delle più diverse scuole.
Non ho mai creduto all' antropologia hobbesiana di Von Hayek a cui si basano gli sconfitti ideologi del neo-liberismo. Sto solo dicendo che in Argentina la totale mancanza di un modello di gestione alternativa del pubblico, inteso come potere e quindi necessariamente anche come stato, ha portato i movimenti a ridursi a forme mutualistiche. Io non disprezzo affatto quegli eventi, e chiunque sia interessato ad arrestare la degenerazione neo-liberista vi ha guardato con attenzione, ma di fronte alle ultime elezioni si deve riconoscere la grave inadeguatezza di quei movimenti. Condivido quindi la critica a disobbedienti & C.
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x ellroy e x vetril
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Wu Ming 1 Sunday, May. 25, 2003 at 1:05 PM |
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Mi sa che stiamo mettendo l'accento sulle stesse cose, ma da traiettorie diverse. Io, per dire, non sarei cosi' sicuro che il nuovo contesto europeo di cui abbiamo bisogno potra' ancora essere definito semplicemente "statuale", ancorché diverso. L'Europa sara' qualcosa di molto diverso dallo stato-nazione, quindi sara' indubbiamente sfera pubblica, ma su un altro livello. La scommessa e' quella. Sul resto siamo d'accordo.
x Vetril
Le cooperative erano nate come mutuo appoggio, oggi sono imprese come le altre, una delle tante scelte a disposizione dell'imprenditore, che puo' fare una sas, una srl, una snc, una coop etc. Perlomeno qui in Emilia-Romagnia nelle cooperative c'e' parecchio sfruttamento, e ci sono affari loschi. Poi non nego che esista ancora qualche piccola "vera" cooperativa, ma son mosche bianche.
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x vetril
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Wu Ming 1 Sunday, May. 25, 2003 at 2:55 PM |
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Quello e' un altro paio di maniche, la definizione giuridica dell'impresa c'entra fino a un certo punto, ho amici che hanno messo su delle srl per poter fare precisamente quel che gli aggrada, che sia il libraio o il web designer, il ristoratore o il restauratore. E' esattamente l'inverso dell'impostazione di chi, costretto, si rassegna a "gradire" il proprio lavoro, cioe' a fingere di gradirlo. Anche nel mio/nostro caso, il nostro lavoro coincide in toto con quel che ci piace fare. Chiaro che sono situazioni rare, chiaro che e' difficilissimo instaurare una situazione del genere, ci sono pressioni di ogni tipo per farti risultare noioso o alienante quel che fai, ma bisogna essere realisti, e cercare di realizzare l'impossibile :-)
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mmm
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Vetril Sunday, May. 25, 2003 at 3:25 PM |
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porta pazienza, sono caprona. conosco le coop ma non la loro storia ma se nascono con spirito mutalistico, un significato ci sarà, no? magari quello uscire dal classico salariato (da qui il mio riferimento a job e work, dico cazzate? che poi nascano già impostate male, con ruoli definiti, che di orizzontale non hanno proprio nulla è un altro discorso (e forse è questo che le ha portate ad essere delle vere srl mi piacerebbe capire, visto che sono l'ennesimo fallimento rosso
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x Vetril
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Wu Ming 1 Sunday, May. 25, 2003 at 4:13 PM |
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Ho l'impressione che stiamo parlando su due piani differenti, senza mai appoggiare i piedi su un terreno comune. O sono io che mi spiego male e sembra che parli d'altro oppure non so.
Il mio punto fermo e' che "lavorare" puo' voler dire molte cose, e che non necessariamente la critica al lavoro come sfruttamento e alienazione deve portare all'apologia dello svacco e del non fare un cazzo. Non ho intenzione di teorizzare sopra questo assunto: il mio approccio e' puramente pragmatico. Esiste un "lavoro" che e' creazione e auto-realizzazione, ho fatto degli esempi di come in altre lingue questa distinzione sia meglio specificata che in italiano.
Un sarto e' contento quando fa un bel vestito, un artigiano freak e' contento quando fa una bella scultura di fil di ferro e riesce a venderla montando un banchetto in montagnola, un musicista di strada e' contento quando la gente si ferma ad ascoltarlo, batte il ritmo col piede e sorride, il Sottoscritto e' contento quando riceve feedback e commenti su qualcosa che ha scritto cercando di metterci cuore e cervello. Punto. Anche questi sono *lavori*.
Che c'entrano le coop con questo, che c'entra l'essere una coop, o una srl, o una sas? Se quel sarto per poter tenere aperta la bottega deve diventare una Sas (societa' in accomandita semplice), d'accordo, e' un po' una rottura di coglioni, ma non necessariamente questo lo privera' del piacere di tagliare e cucire e creare.
Man mano che io spiegavo questo discorso, tu ne hai introdotti altri due che non vanno confusi col primo ne' vanno confusi tra loro: - cosa vuol dire "rifiuto del lavoro" - a cosa serve una cooperativa
Io non sono un esperto, ma so che in Italia le cooperative nacquero in un'economia della penuria e della sussistenza, passi necessari per gestire socialmente quel poco che c'era, per non morire di fame. Lo scopo era molto pratico, non era liberarsi dal lavoro, bensi' campare, socializzare le poche risorse.
Pian piano le cooperative si sono ingrandite, hanno messo in piede una rete alternativa, ma basata piu' sulla distribuzione che sul cambiamento della produzione.
Qui vale quanto scrisse Marx nella "Critica del programma di Gotha": se si pensa che il problema del capitalismo sia tutto nell'iniqua distribuzione dei beni, non si va da nessuna parte. Difatti in Emilia (ma anche in Italia) quando si dice "la Coop" si intende quella grande cooperativa di consumo che nel frattempo si e' "ipermercatizzata".
Queste cooperative non hanno proposto un'alternativa all'impresa capitalistica, hanno semplicemente riverniciato di egualitarismo una struttura tradizionale: ci sono padroni e dipendenti, ma sulla carta sono tutti "soci"! C'e' sfruttamento, ma non c'e' problema, in fin dei conti "la Coop sei tu".
In realta' la storia e' piu' complessa, la cooperativa e' stata anche lo strumento principale di attuazione di filosofie autogestionarie, ma stiamo parlando di *altri* modelli cooperativi, non della Lega Coop.
Il "rifiuto del lavoro", invece, viene teorizzato come lo conosciamo oggi nella societa' del boom, dell'abbondanza, del progresso tecnologico. Prende le mosse da pratiche operaie, ma presto si allarga alla citta', alla fabbrica sociale.
Il punto era: da un lato c'e' una ricchezza prodotta socialmente che va riappropriata, dall'altro persiste la costrizione al lavoro salariato. La ricchezza che viene prodotta col nostro tempo e col nostro olio di gomito va ad arricchire i padroni. Vogliamo avere una fetta della torta, non fare da ingrediente. Da qui tutte i modi (che Ranieri elencava per sommi capi, e anche qualcun altro, non ricordo se Sassi o l'Aquila) di cercare di prendersi la ricchezza socialmente prodotta senza dare in cambio forza-lavoro, o dandone in cambio il meno possibile (lavorare meno). Quindi il "rifiuto del lavoro" contesta direttamente il modo in cui funziona la produzione.
Quindi: differenti i contesti, differenti le premesse, differenti le pratiche.
Ma ho l'impressione che questo thread somigli sempre di piu' al "gioco del perche' ". La richiesta di spiegarsi sempre nei minimi particolari e *oggettivamente* "a prova di caprone" porta a un ingarbugliamento, o sbaglio?
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cioe'?
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Wu Ming 1 Wednesday, May. 28, 2003 at 3:06 AM |
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Perche' pensi che il fatto che i poveri si uniscano per sopravvivere sia merda? E cosa intendi con "si sfruttano tra loro"? A sfruttare sono i ricchi, mica i poveri, e si parla delle cooperative "snaturate" di oggi, non di quelle di allora.
Quanto a "cooperative rosse", e' perche' le fondarono i socialisti di fine Ottocento, come le societa' operaie, le societa' di mutuo soccorso etc. etc. Ma esistono pure un fottìo di cooperative bianche, quelle fondate dal cattolicesimo sociale e che hanno avuto lo stesso processo di concentrazione e snaturamento: i loro "mostri" si chiamano Conad e Iperconad.
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cioé.
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Vetril Wednesday, May. 28, 2003 at 11:10 AM |
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eccolo! dov'eri stato? mi mancavano le nostre discussioni appassionate, a te no? Noto che oltre ad avere un linguaggio povero, umile e proletario non riesco neppure ad esprimermi ho chiamato le cooperative "merda" non per il fatto che i poveri si uniscano tra loro, siamai, ma per il fatto che si uniscono e POI si sfruttano e riportano le stesse dinamiche di chi li sfrutta. le coop di produzione sono già allucinanti ma quelle "sociali" (che non mi sembra siano bianche, ma rosse) sono il top dei top qualche esempio? in nome del fatto che uno diventa "socio" (e ti obbligano ad esserlo) c'è un vero e proprio mancato rispetto dei "diritti dei lavoratori, che so, turni dalle 18.00 alle 14.00 del pomeriggio dopo, con otto ore notturne NON PAGATE (non il sovrappiù del notturno MA PROPRIO NON PAGATE) perchè considerate passive, in quanto bene o male quando non ci sono casini uno dorme (ma cazzo io dormo volentieri a casa mia...no?) poi succede che ti fai sette/otto di questi bei turni notturni al mese e NON RAGGIUNGI IL MONTE ORE PREVISTO (38 ore settimanali) e tu sei sempre a lavorare e non hai le ore Bello eh? poi tutte le ore fatte in piu' al mese (molti per contratto chiedono di "regalarne" un po' come volontariato) mica ti vengono pagate come straordinario, noooooooo, ma NEPPURE PAGATE, sono a recupero del mese successivo (o quando si puo') e gli stipendi? a volte due mesi di arretrati e nel frattempo la coop investe in altri mega progetti, così, tanto per ingrandirsi questo un esempio al volo, che sono di corsa per quanto riguarda la storia delle coop, te l'ho detto che non la sapevo! sono nate nell'800??? io pensavo fossero molto piu' recenti, grazie dell'info, ciao!
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Vetril Wednesday, May. 28, 2003 at 10:04 PM |
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ma allora sbaglio quando dico che sono state "sussunte" dal capitale? oppure, se ti va, mi spieghi cosa cazz è la sussunzione? ti da fastidio se ti assillo così con le mie domande e ti "uso" per acculturarmi un po'? d'altronde...il cantastorie sei tu... io ci provo, ma escono un po' stonate
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questa cazzo di sussunzione
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Wu Ming 1 Wednesday, May. 28, 2003 at 11:19 PM |
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E chi ti ha contestato l'espressione :-) Semmai te la contesto dal punto di vista del buon italiano, giacché "sussunzione" è un termine molto caro a Toni Negri ma incomprensibile al resto della popolazione che parla l'idioma di Dante, e del tutto impronunciabile per noi emiliani-romagnoli senza far partire piccoli bengala di saliva.
Comunque, ecco la definizione dello Zingarelli:
SUSSUNZIONE, s.f. (filos.) Nella logica aristotelica, operazione mediante la quale, in un sillogismo, il termine medio si presenta come soggetto della premessa maggiore e predicato della premessa minore.
Dice: e che cazzo c'entra???
E che ne so io?
Non lo so perché al momento di tradurre certi passaggi di Marx a qualcuno sia saltato in mente di tradurre "sussunzione" quando "sottomissione" sarebbe andato più che bene.
Si renderebbe un servizio a tutti quanti, facendo capire che stiamo parlando del passaggio (avvenuto qualche tempo fa) tra la "sottomissione formale" della società al capitale e la "sottomissione reale", dove "reale" significa "a tutti gli effetti", "vera e propria".
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sussunzione reale
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Paolo Ranieri Thursday, May. 29, 2003 at 1:23 AM |
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Io continuo preferire, anche se mi rendo conto che é meno esatto, dominio formale e dominio reale. Comunque non é esatto che reale significhi semplicemente "vero e proprio", significa attraverso le cose e non attraverso le forme, non dall'esterno ma dall'interno. Nel dominio formale il mondo é oppresso, comandato, asservito al capitale, ma ha una sua autonoma potenza ed esistenza. Nel dominio reale non esiste più mondo: esisotno solo il capitale e l'ambienete che glki é proprio. Non esiste nulla che stia FUORI: oggi si usa dire globalizzazione, ma siamo sempre lì. Passa la differenza che esiste fra la Francia occupata dai nazisti e la germania nazista. Ci sono nazisti qui e lì, e proletari oppressi qui e lì, ma nel secondo caso non c'é più diaframma fra l'individuo e ciò che lo aliena. Evidente che il dominio reale é peggio: pure non implica che non esista via d'uscita, come interpretano molte pallemosce
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sussunzione
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rum Thursday, May. 29, 2003 at 1:49 AM |
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Nella logica sussumere significa "ricondurre un concetto ad uno più generale nella cui estensione esso é compreso".
In termini marxiani sussunzione si potrebbe intendere come incorporare, inghiottire. Nel caso della sussunzione formale un dato concetto o modo di vita viene inghiottito, ma non ancora digerito. Diciamo che inizia ad adattarsi esteriormente alla forma dello stomaco di ciò che lo ha inghiottito. Nel caso della sussunzione reale il sussunto è ormai stato digerito ed è divenuto consustanziale al sussumente, cioè compartecipa della sua sostanza a livello di essenza.
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x Rum e x Paolo
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Wu Ming 1 Thursday, May. 29, 2003 at 2:13 AM |
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La mia sulla "sussunzione" era una battuta, come credevo fosse chiaro dal riferimento all'impronunciabilita' da parte degli emiliano-romagnoli.
Se e' per questo c'e' anche un significato prettamente giuridico del verbo "sussumere" che chi ha l'orecchio per queste cose puo' sentire riecheggiare: sussumere significa ricondurre un fatto preciso alle legge che lo contempla.
La mia interpretazione di "reale" come "vera e propria" e la tua come "attraverso le cose" sono in realta' nello stesso spazio semantico, quel "vera e propria" lo basavo sull'idea del passaggio dall'astratto al concreto, dal virtuale (nel senso anche di potenziale) al reale, dal formale al materiale.
Tant'e' che in inglese se non sbaglio l'aggettivo e' "actual", che vuol dire "vero", "nella realta'" e/o "in atto" [contrapposto a "in potenza"].
E' chiaro pero' che la mia traduzione non puo' avere le stesse sfumature della tua, perche' come ben sai non sono d'accordo con la tua (e non solo tua) descrizione della societa' sotto il dominio reale del capitale.
Per te tutto (sistema e ambiente) e' ormai capitale ipercubico, quadridimensionale, nei cui paradossi spazio-temporali siamo impigliati.
Per me invece la quarta dimensione e' il conflitto, sono presenti ovunque e in ogni momento le irriducibilita' al capitale e le controspinte, i "prerequisiti di comunismo" da far emergere, come ho cercato di spiegare piu' in alto in questo chilometrico thread.
C'e' una *teleologia del comune*, una corrente meno visibile eppure ben presente che accompagna il capitale in tutte le tappe del suo sviluppo, portando ogni volta la resistenza a un livello piu' alto. Diverse formazioni, diversi approcci.
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"subordinazione"
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Wu Ming 1 Thursday, May. 29, 2003 at 2:32 AM |
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Gia' che c'ero sono andato a ri-sfogliarmi Panzieri e altri operaisti.
Ho notato che in certi testi il concetto viene reso con "subordinazione reale", che mi sembra piu' che accettabile, e comprensibile ai profani come me.
"Subordinazione" rende tanto l'idea del dominio (difatti l'insubordinazione e' il rifiuto di un dominio) quanto quella del "mettere in un sottordine", e in linguistica e' il legame di dipendenza di una proposizione a una seconda.
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risposta
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Wu Ming 1 Saturday, Jun. 07, 2003 at 12:32 PM |
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E' l'atteggiamento degli Scrittori con la S maiuscola che nei festival letterari si fanno contemplare su un palco da un pubblico di spettatori passivi e ammirati, che poi cercano di avere l'autografo, stringergli la mano o anche solo toccarlo. Come faceva il pueblo con Juan ed Evita Perón. E' un riferimento ironico alle scene che abbiamo visto al Festivaletteratura di Mantova dell'anno scorso, ma puo' essere esteso: il culto di Baricco e' un chiaro caso di peronismo letterario.
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da carmilla
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ravanatore Tuesday, Jun. 17, 2003 at 6:40 PM |
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un'intervista ai WM su carmillaonline:
D- ?Giap!?: ancora oggi qualcuno si interroga, qualcuno non ha ben capito, qualcuno fa finta di ignorare ?Giap!?, poi c?è chi si ritrae imbarazzato ed evita di dire la sua: ora vi chiedo, ingenuamente, ma ?Giap!? per chi è stato scritto?
R- Per quella che - "rubando" e modificando un'espressione cara a Paco Ignacio Taibo II° - abbiamo chiamato la "repubblica democratica dei lettori", quella che abbiamo incontrato in questi anni in giro per l'Italia e non solo, quella con cui teniamo tentacolari contatti giornalieri tramite il sito e la newsletter, quella che interferisce positivamente col nostro modo di scrivere e di narrare offrendoci continuamente nuovi spunti, dubbi, motivi di trionfo o di perplessità, filamenti di storie, echi di conversazioni lontane nel tempo... Di tutto questo forniamo sintesi temporanee, precarie, è quello il lavoro del narratore, del cantastorie, secondo noi: essere il nocchiero al centro della bufera popolare, stare al centro dei flussi di informazione e immaginazione, setacciare l'aria e l'elettrosmog, operare da "riduttore di complessità". Con "Giap!", idea proposta a Tommaso de Lorenzis (o Lorenzo De Tommasis?) dal nostro amico Giangi, abbiamo inteso fornire una primissima sintesi delle sintesi, tracciare un percorso tra i mille appunti di lavoro decollati dai nostri cassetti dacché esiste la nostra band. "Giap!" consente alla "repubblica democratica dei lettori" di trarre un sunto del lavoro fatto sinora insieme a noi, e indica le direzioni lungo le quali ci muoveremo tutti insieme, continuando a raccontare storie.
D- Il libro è stato curato da Tommaso De Lorenzis: tre anni di articoli, racconti, interventi, interviste. In tre anni molta della nostra storia è cambiata: è giusto dire che la società è rimasta ferma all?anno 2000? Io credo che la nostra società si è adoperata per portare avanti la conoscenza ma solo in ambito tecnico, mentre poco o nulla è stato fatto per migliorare la qualità della vita sociale, culturale e intellettuale. ?Giap!? offre delle risposte o delle soluzioni?
R- Raccontare serve a porre (molte) domande e dare (qualche) risposta usando vicende emblematiche: i sogni interpretati da Giuseppe, le mille e una storie di Sheherazade, le parabole raccontate da Gesù, le storielle zen, le favole studiate da Propp, i casi di cui Freud scrive i resoconti, i miti degli eroi studiati da Campbell, le biografie trasformate in ballate popolari: le tappe di una vita o di tante vite, messe una in fila all'altra, contengono archetipi, memi, nuclei di riflessione esistenziale in forma di "Che fare?", cosa farà Pollicino, cosa faranno Hansel e Gretel, con che trucco Robin Hood parteciperà al torneo di tiro con l'arco? Questo è un sapere che non si riduce alla Tecnica (codesto spauracchio di molte filosofie novecentesche) ma alle "tecniche" che chiunque può padroneggiare per raccontare bene. Una vita che abbia qualità è una vita dove ci si raccontino storie, con il raccontare e l'ascoltare storie acquista un senso e un contesto qualunque vicissitudine della tua vita.
D- Come si è orizzontato Tommaso De Lorenzis per riunire il materiale di ?Giap!??
R- Il suo è stato un corpo-a-corpo con ciascun numero di Giap, più di un centinaio di numeri dal 2000 a oggi. Se li è riletti tutti di fila, ha isolato alcuni grumi tematici più consistenti, ne ha fatto una griglia di sezioni che è stata modificata molte volte: "Giap!" è un libro che, nel suo farsi, è stato parecchio incalzato dagli eventi. La selezione è cambiate diverse volte, testi si aggiungevano o si volatilizzavano... Il lavoro di selezione è durato un anno e mezzo. Dopodiché Tommaso ha scritto l'introduzione.
D- Nella ?Dichiarazione di intenti? del Gennaio 2000 dichiaraste: ?Wu Ming intende valorizzare la cooperazione sociale tanto nella forma del produrre quanto nella sua sostanza: la potenza del collettivo è allo stesso tempo contenuto ed espressione del narrare." Rimanendo fedeli a questa ottica, ?Giap!? cosa rappresenta? Chi rappresenta?
R- Quella che sopra abbiamo definito "repubblica democratica dei lettori", per l'appunto.
D- Controinformazione e no copyright. Le storie sono di tutti, ?le leggi che regolano la proprietà intellettuale rappresentano la camicia di forza, repressiva e anacronistica, paradossale e inefficace, alla produzione di intelligenza, alla cooperazione e allo scambio di risorse e saperi come open source, sorgente aperta e a disposizione dello sviluppo della comunità". In questo contesto ?Giap!? apre nuove strade verso la cultura e la sua diffusione a tutti i livelli, ma io sono scettico: il povero intellettuale o artista che sia, come farà a vivere del suo lavoro?
R- Noi viviamo del nostro lavoro. La maggiore circolazione del sapere non dissipa bensì aumenta la ricchezza sociale e, di conseguenza, anche quella di cui ciascuno di noi può godere. Molti programmatori di GNU/Linux vivono del proprio lavoro. I nostri libri vendono di più, non di meno, per il fatto di essere liberamente riproducibili. Ciò che funziona è il passaparola. La "pirateria" non fa che aumentare la popolarità di un artista o di un intellettuale, il "plagio" è necessario perché le idee fecondino il maggior numero di teste possibile, così si alza il livello di comprensione generale, e ciò fornisce nuovi spunti all'intellettuale, che produrrà le sue sintesi partendo da un contesto migliore.
D- ?Giap!? è anche memoria politica e sociale: si parla delle contestazioni contro il G8, della morte di Carlo Giuliani, dei movimenti pacifisti. Che senso ha contestare se la contestazione si limita a schiamazzi in piazza e a bandiere lasciate al vento come moda sventolata? Recentemente Giovanni Lindo Ferretti ha detto: ?La pace non è una soluzione, è una parte enorme della questione. La condizione umana è contingente, determinata da una serie infinita di problemi. Non accettare il fatto che il mondo vive una serie infinita di cambiamenti incredibili e veloci, urlare Pace!, Pace! in un tempo in cui molto intorno a noi è guerra, è come urlare Sanità! Sanità! in una corsia d?ospedale. Tutti noi vorremmo vivere in pace, tutti noi vorremmo essere sani: non sempre è possibile, non sempre è plausibile, non sempre ce la fai.? E la vostra posizione in merito, qual è?
R- Bisognerebbe conoscere il contesto in cui Ferretti ha inserito quella frase. Così isolata, non ci sembra granché come aforisma o apoftegma, perché non si capisce dove voglia andare a parare, e fa pensare - oltre che a un certo snobismo che del resto si confà al personaggio - a un grosso equivoco di fondo. La "pace" richiesta da chi ha manifestato nei mesi e negli anni scorsi non è una pace conservatrice, non è il "lasciatemi in pace", è una pace fortemente progressiva, vista come condizione per far procedere il mondo in una direzione diversa da quella, spaventosa, impressagli da Bush e da chi lo manovra. E' una pace fortemente costruttiva, cooperativa, fondante, è potere costituente. La richiede non chi vuole restare accucciato in casa sperando che il mondo esterno non vi penetri, ma chi è costitutivamente nel mondo esterno, per strada, ha già attivato reti sociali, ne è parte, respira con esse.
D- "Nessun medium annulla i precedenti, li ridefinisce. La carta ha ancora una sua funzione insostituibile. Trasformare in libro la newsletter vuol dire storicizzarla, tornare sopra alle emozioni del momento per rimeditarle..." Io sono un po? tonto, non sempre afferro quanto mi viene spiegato. ?Giap!? ha subito venduto benissimo, e io sono rimasto sconcertato e penso che tanti altri abbiano provato la mia stessa sorpresa: un libro vende ed è una raccolta (!) di newsletter. Storicizzare la newsletter: come è possibile un simile processo?
R- Tutti i nostri libri, non soltanto "Giap!", sono scaricabili gratis dal nostro sito, gratis e in versione integrale, eppure sono tutti dei best-seller. Lo sconcerto prodotto da "Giap!" tra gli addetti ai lavori è maggiore perchè non si sa bene come definirlo: è saggistica? E' narrativa? E'..."varia"? Per quanto riguarda la storicizzazione, è una parola grossa, ed è un'impresa con cui si cimenteranno soprattutto altri dopo di noi. Noi abbiamo voluto offrire una sintesi ragionata, dei percorsi di lettura.
D- Essendo io un po? tonto, mi è sorto un dubbio ed è questo: se io storicizzo le mie idee, forse le consegno alla storia ma faccio anche atto di svendita. Non ho le idee molto chiare? Una spiegazione circa questo punto, credo toglierebbe molti dubbi a me e a tanti altri che come me hanno fra le mani un libro vero, di carta.
R- "Giap!" non è una speculazione, uno di quei "Greatest Hits" che si pubblicano tra un album e il successivo per tenere in movimento il mercato, il più delle volte contenente un solo inedito che poi diventa il singolo (ma c'è ancora qualcuno che li compra, i singoli?). Tutta l'attività di Wu Ming da quando esiste converge in questa sintesi temporanea, e il lavoro di sintesi è stato un lavoro creativo a tutti gli effetti. Avere quei testi raccolti in un volume è un considerevole valore aggiunto. Un recensore ha scritto che "Giap!" è "il libro più Wu Ming dei Wu Ming". Siamo d'accordo.
D- I movimenti, non li ho mai compresi appieno. In questi anni ne sono sorti tanti e quasi tutti avevano delle idee da portare in piazza. Ma io ho la netta impressione che le idee siano rimaste tali e non si sono tradotte in realtà. La guerra in Iraq, ad esempio, ci ha toccato da vicino, ha smosso milioni di coscienze, ma la coscienza da sola è insignificante se è incapace di diventare atto concreto di ribellione. Oggi io vedo l?Iraq in mano ad irakeni prezzolati dagli americani, vedo l?Iraq invaso dagli americani che ne hanno fatto una loro colonia. Perché non si combatte contro questa insulsa colonizzazione con qualcosa di più di uno slogan che grida ?Pace!??
R- Gli ultimi movimenti mostrano al mondo delle pratiche, non delle idee. A prescindere dai giudizi che uno può esprimere, il software libero e il copyleft sono pratiche, non idee. Il "consumo critico", i boicottaggi e il "commercio equo e solidale" sono pratiche, non teorizzazioni. Il "bilancio partecipativo" è una pratica, come lo è l'obiezione fiscale, come lo è fare volontariato, fare cooperazione internazionale, corridoi umanitari, fare il missionario in Africa. La comunicazione-guerriglia è un insieme di pratiche. L'autorganizzazione attraverso le reti è una pratica. Mettere su un blog è una pratica, non una teoria. Che poi queste pratiche siano ancora insufficienti è un altro paio di maniche, ma è banale operare una reductio ad unum e presentarle come un solo slogan urlato senza criterio e senza conseguenze.
D- Il prossimo romanzo collettivo dei Wu Ming prenderà spunto dall'osservazione del movimento contro la guerra in Iraq: «Discutere su alcune dinamiche del movimento per la pace ci ha fatto venire molte idee. E abbiamo deciso di scrivere un western. D'altronde, nella realtà, c'è già George W.Bush che vorrebbe portare il mondo ad un "Mezzogiorno di fuoco". Noi, invece, vogliamo scartare da questa prospettiva. E circondare la carovana insieme agli indiani». Un bellissimo spunto, ma comunque uno spunto? commerciale? Sembra che la guerra, in ogni tempo, abbia prodotto spunti di riflessione politici e sociali poi tradotti in romanzi? Perché? Ed è giusto che così sia?
R- Da che altro prendere spunto se non dal conflitto? La realtà è conflitto, non è mai pacificata, questa intervista è conflitto, unità e lotta dei contrari, dialettiche che funzionano e dialettiche che si inceppano. E' così l'amore, è così l'odio. Le guerre sono vicissitudini umane come le carestie e le malatie, gli esodi e i nuovi insediamenti, i naufragi e le fondazioni di nuove comunità, le invenzioni e le amnesie. Un cantastorie deve cantare tutto questo o una significativa parte di esso, altrimenti la comunità ha mille modi per revocargli il "mandato".
D- In ?Giap!? parlate anche del Subcomandante Marcos e dell?esercito zapatista. Nutro profonda ammirazione intellettuale e politica nei confronti del Subcomandante: esiste forse il rischio che venga idealizzato e/o strumentalizzato come è successo con Che Guevara? E da parte di chi? Dei giovani in piazza, nei centri sociali, da chi è contro perché crede sia giusto essere CONTRO? La mia profonda, immatura paura è che venga ridotto a una semplice bandiera.
R- Lo zapatismo è già stato strumentalizzato e banalizzato, in Italia ne circola una versione caricaturale e distorta, ad opera di alcune correnti - per fortuna, ormai marginali - del ceto politico di "movimento". Le metafore zapatiste sono diventate boli di merda in bocca a certa gente. Lo zapatismo non riguarda "l'essere contro", è una particolare e feconda articolazione del rapporto tra ribelle e comunità, è per il 90% pars construens.
D- ?Giap!? è uscito nella collana ?Stile libero? per Einaudi. Molti critici non sanno come ?catalogarlo?. Per me non è importante sapere se è un saggio, un romanzo, una antologia o che altro. Ma volendo dare una indicazione a questi critici, cosa direste loro?
R- E' una raccolta di ballate, o una cassetta degli attrezzi. Ogni raccolta di ballate è, nell'atto, una cassetta degli attrezzi. Ogni cassetta degli attrezzi è, in potenza, una raccolta di ballate: ciascun utensile (cacciavite, martello, lima, sega, pialla...) può raccontare una o più storie, i graffi e i segni e le sdentellature sono come incisioni in cuneiforme su tavolette di argilla. Bisogna imparare a leggere tutto.
D- Infine, ?Giap!?? In questa intervista molte sono state le mie provocazioni, ma una cosa voglio dirla ancora e questa volta senza alcun tono studiatamente polemico: ?Questo libro dovrebbe essere il primo mattone per costruire una coscienza collettiva che disegni il nostro futuro.? Dico giusto o sto idealizzando il vostro pensiero? E se anche vi idealizzassi, sarebbe poi così grave?
R- Il rischio è sempre che si instauri una relazione come quella tra John Lennon e Mark Chapman. Essere accoppato dal tuo più grande fan. No, nessuno ci idealizzi, siamo dei poveracci come tutti voi, gente che cerca di cavarsela come può.
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... Saturday, Jun. 28, 2003 at 11:46 PM |
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" R- Il rischio è sempre che si instauri una relazione come quella tra John Lennon e Mark Chapman. Essere accoppato dal tuo più grande fan. No, nessuno ci idealizzi, siamo dei poveracci come tutti voi, gente che cerca di cavarsela come può. "
Why? Mitizzare il personaggio non è cosa buona? Sempre di mitopoiesi si tratta...
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wuminghi
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*** Sunday, Jun. 29, 2003 at 10:23 AM |
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Si,ma in ogni caso non credo ci siano molte persone in giro,con il pallino di...uccidere WM. magari può stare sulle palle....ma non così tanto:) così come non credo (e spero)ci siano wuminghiani così fanatici(tipo Chapman... quelle persone in cui realtà e fantasie personali si mescolano tra di loro.....
Ma i wuminghi sono i wu ming tutti assieme o i loro fans?
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risposte
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Wu Ming 1 Monday, Jun. 30, 2003 at 1:58 PM |
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giap@wumingfoundation.com |
Quello sarebbe, appunto, peronismo letterario, la contemplazione passiva della star da parte del pubblico, la ri-erezione di barriere invalicabili tra chi emette mito e chi lo riceve. Le stesse barriere che, non ultimo, il punk aveva eletto come principale bersaglio polemico e pratico (Lester Bangs, critico rock americano, ha scritto cose eccelse su questo aspetto - l'anno prossimo Minimum Fax pubblichera' l'antologia postuma di articoli, "Psychotic Reactions and Carburetor Dung". Insomma, si tratta di Abbattere il Muro della Vergogna che Delimita la Zona Rossa in cui Stanno le Celebrita'.
L'aspetto della mitopoiesi che valorizziamo noi e' quello del processo *dal basso*, corale, in cui le storie vengono prodotte pluralmente e rimangono aperte, manipolabili, riplasmabili, di proprieta' di nessuno e disponibili alla comunita' (copyleft, etc.)
L'aspetto reazionario del mito, quello che piace alla destra, al pensiero tradizionale/sapienziale e ai fanatici di tutte le religioni organizzate, e' il suo essere calato dall'alto, mediante processi passivizzanti.
Quanto all'altra domanda: non saprei. Wu Ming e' il nome di un preciso collettivo, che pero' ha intorno a se' una comunita', anzi, diverse comunita', e che ormai e' federato con altri collettivi e altre comunita' formatesi anche grazie al suo input (I Quindici, Kai Zen, Tronco del Senegal, e tutti i partecipanti ai progetti di scrittura collettiva che abbiamo lanciato).
www.wumingfoundation.com
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grazie, letto
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Vetril Monday, Jul. 07, 2003 at 11:34 PM |
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mi piacerebbe approfondire la questione Internet vietata a Cuba io non sono un'esperta di realtà sudamericana, ma non riesco a vedere tutta questa repressione nel vietare Internet, che spesso a parere mio è anche manipolazione, e spesso omologazione, e non rappresenta poi tutto quell'emblema di libertà, anzi direi che è un palliativo io la vedo come una sorta di tutela per il popolo cubano (piano con le panche...)
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I disagree
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Wu Ming 1 Tuesday, Jul. 08, 2003 at 1:46 PM |
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giap@wumingfoundation.com |
Ovviamente, non sono d'accordo con quanto dici su Internet.
A parte il fatto che l'accesso alla comprensione e all'utilizzo della Rete (una tecnologia e un mezzo di comunicazione che permettono di superare le barriere, aggirare le censure, comunicare in modi non necessariamente verticali e piramidali) dovrebbe essere una rivendicazione basilare, a maggior ragione dove la liberta' d'espressione e' limitata o soffocata (non dimentichiamo che Internet permette ai dissidenti di regimi autoritari di far conoscere la loro condizione, e per questo è temuta o odiata, vietata o snaturata da tutte le dittature), a parte questo, dicevo:
Internet e' uno dei risultati piu' importanti della condivisione di saperi, dei processi collettivi e delle dinamiche di cooperazione tra singoli e comunità. Lo scrive Pekka Himanen nel suo saggio sull'etica hacker: "Internet non ha alcun direttorio centrale che ne guidi lo sviluppo; al contrario, la sua tecnologia viene ancora sviluppata da una comunità aperta di hacker. Questa comunità discute idee che diventato standard soltanto se la comunità di Internet nel suo insieme pensa che vadano bene e inizia a usarle".
Inoltre Internet ha permesso lo sviluppo della "pirateria", cioè una pratica di riappropriazione della cultura e trasformazione del modo di produrla e fruirla. Una delle cose più sovversive al momento.
Più in generale, Internet è frutto diretto o indiretto del lavoro vivo di tutti gli abitanti del pianeta, e qualunque spinta al godimento di quel frutto è sacrosanta riappropriazione.
Il "digital divide" (e i processi di esclusione che ne derivano) e' uno dei problemi piu' grossi nel contesto della divisione tra Nord e Sud del mondo.
www.wumingfoundation.com
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I quit
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Wu Ming 1 Wednesday, Sep. 10, 2003 at 3:58 PM |
mail:
giap@wumingfoundation.com |
Ultimamente la mia presenza su questo nw sta causando diversi problemi, contribuisce a polarizzare ed esasperare posizioni, costringe a schierarsi "pro" o "contro" il mio collettivo, addirittura fa nascere leggende urbane sul mio presunto ruolo dietro alcuni fakes, persino tra gli admin...
Evidentemente il nome "Wu Ming" è troppo ingombrante.
Siccome, fin dai tempi delle BBS (ECN prima di diventare Isole nella Rete e l'area Cyberpunk di Fidonet, parlo del periodo 1990-94) mi sono formato nella telematica di base e negli spazi comunicativi di movimento, ho sempre ritenuto normale intervenire, rispondere, discutere con chi, qui su Indy, mi/si chiedeva qualcosa prima su LB e poi su WM.
Dopotutto, Indy ha una struttura a weblog, molto informale e orizzontale. Ho pensato che la spinta "livellatrice" del mezzo, le mie buone intenzioni e un po' di pazienza fossero sufficienti a mantenere un certo livello di chiarezza ed evitare la dispersione da "flame".
Forse non mi sono soffermato a pensare agli effetti collaterali. Effetti che oggi mi appaiono sempre più chiari.
Indy *non è* un normale forum né un normale blog, prova ne sia che quando io o i miei compadres interveniamo in altri ambiti, la cosa è percepita come normale e tranquilla.
Qui no: tutto si trasforma in un processo a noi o a chi ci critica. Gli scambi hanno un brutto retrogusto di "arringhe affumicate", con obiezioni accolte o respinte non si sa bene da chi. E alla fine sembra quasi che sia stato io a fomentare.
L'intento era forse troppo venata di populismo ("gli scrittori vadano al popolo", vecchio motto dell'Ottocento russo). E invece mi sto trasformando in una specie di troll...
Questa di fare la ricerca interna con le parole "Wu Ming" o "WM" o "wuminghi" è diventata una cattiva abitudine. Esistono altri spazi per rispondere ai dubbi. E' notorio che abbiamo già un ambito - intimo e allargato allo stesso tempo - in cui discutiamo con chi vuole confrontarsi, porci questioni, criticarci etc.
E' Giap.
E' senz'altro meglio non disperdere le energie, e concentrarmi con gli altri a migliorare quell'ambito.
www.wumingfoundation.com
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non doveva
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gavi Wednesday, Jan. 19, 2005 at 12:53 AM |
mail:
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Me lo sono letto tutto. Secondo me wm1 ha sbagliato a lasciare il newswire. almeno lui discuteva e ragionava, e i topic avevanoun senso. andando via ha lasciato campo libero a mezzi sbirri e frustratissimi pezzi di merda, che non vedevano l'ora di infamarlo alle spalle.
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