di Vittorio Rieser
La flessibilità del lavoro è da anni un tema quasi ossessivo delle istituzioni economiche nazionali e internazionali.
In queste note, cercherò di indicare alcuni cambiamenti che, su questo terreno, vengono introdotti dalle politiche del governo Berlusconi in tema di legislazione del lavoro e di relazioni industriali/sistemi contrattuali (1).
1. Il peso del ‘lavoro flessibile’ nell’occupazione complessiva
Per discutere del problema, è utile partire da alcuni dati sull’andamento e la composizione dell’occupazione in Italia, per vedere qual è – al suo interno – il peso dell’‘occupazione flessibile’. (Mi riferirò, infatti, in queste note, alla flessibilità dell’occupazione, e non a un altro aspetto – ugualmente ‘ossessivo’ – che riguarda la flessibilità nella prestazione di lavoro, in termini di ritmi, mobilità tra mansioni, orari/turni, ecc.)
I ‘lavori atipici’
Nelle statistiche correnti, il più diretto riferimento all’occupazione flessibile è costituito dai dati sui cosiddetti ‘lavori atipici’. Ma tale riferimento è, al tempo stesso, troppo ampio e troppo restrittivo. Da un lato, infatti, esso comprende il lavoro part time, che costituisce un terreno molto rilevante di flessibilità nella prestazione, ma che – dal punto di vista occupazionale – può molto spesso essere regolato da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Dall’altro, dal momento che i ‘lavori atipici’ si riferiscono solo al lavoro dipendente in senso stretto, i dati riferiti a questi lavori non comprendono la vasta e crescente area delle collaborazioni (coordinate e continuative od occasionali), cioè di lavori parasubordinati che costituiscono una quota importante dell’‘occupazione flessibile’ (2).
(Naturalmente, c’è poi il fatto – su cui tornerò più oltre – che una porzione consistente dei lavori a tempo indeterminato sono in realtà molto ‘flessibili’, specie nelle piccole e piccolissime imprese). Cercherò dunque di concentrarmi, da un lato, sui rapporti di lavoro dipendente di carattere temporaneo (contratti di formazione-lavoro, apprendistato, contratti a tempo determinato, lavoro interinale), dall’altro sulle varie forme di lavoro parasubordinato.
L’espansione del lavoro atipico negli ultimi anni
Il recente Rapporto annuale dell’Istat (La situazione del paese nel 2001) fornisce – tra le altre cose – un dato sull’incremento dell’incidenza del lavoro atipico nell’occupazione italiana, tra il 1996 il 2002 (la scelta del ’96 come riferimento di partenza non è arbitraria, anche se l’espansione del lavoro atipico era iniziata prima, perché le misure legislative che regolano in termini nuovi e più sistematici il lavoro atipico – il noto ‘pacchetto Treu’ – sono del 1997).
Nel lavoro dipendente, gli atipici passano dal 18% al 23,4%. Questi dati comprendono anche tutti i lavoratori part time (compresi quelli a tempo indeterminato, che non rientrano nella definizione che ho proposto prima), ma non comprendono i collaboratori coordinati e continuativi, che – dice l’Istat – «sono aumentati del 34% rispetto al 1996» (già nel 1999 avevano superato il milione). Conclude l’Istat: «Una stima prudenziale dell’incidenza complessiva del lavoro atipico nell’industria e nei servizi privati nel 2000 si colloca oltre i 3 milioni di occupati, pari a una quota del 23% del totale» (3). ... ma il quadro è più complicato Tuttavia, il quadro – e le tendenze – non sono così lineari come potrebbero apparire a prima vista. In primo luogo, gli avviamenti al lavoro del 2001 segnano un’inversione di tendenza rispetto agli anni precedenti, che avevano registrato una prevalenza di assunzioni ‘atipiche’. Su un aumento dell’occupazione di circa il 2%, le assunzioni a tempo indeterminato contribuiscono per circa il 75% (il restante 25% si divide in parti quasi uguali tra lavori ‘atipici’ e lavori – formalmente – ‘indipendenti’). In parte, ciò può essere attribuito agli effetti delle norme (allora) vigenti, che imponevano l’assunzione a tempo indeterminato dopo una serie (più o meno lunga e articolata) di rapporti a termine. Ma, anche in questo caso, ciò indica che le imprese, accanto a un ‘bisogno di flessibilità’, hanno un ‘bisogno di stabilità’ della forza-lavoro.
Chi, per esempio, faccia un po’ d’inchiesta tra i piccoli imprenditori (e non solo tra questi) vede che, spesso, il problema è come ‘tenere’ i lavoratori (specie quelli più qualificati, ma non solo quelli), più che come licenziarli (4). Ma c’è un dato più generale, e più rilevante. Per quanto riguarda la mobilità del lavoro, l’Italia risulta ai primi posti in Europa, seconda solo alla Gran Bretagna.
Quindi, di flessibilità dell’occupazione ce n’è parecchia. Ma non si tratta di una novità: anche anni fa, quando le normative per favorire il lavoro flessibile non erano ancora state introdotte, e tutti si lamentavano della ‘rigidità’ del mercato del lavoro italiano, l’Italia risultava ai primi posti, tra i paesi occidentali, come tassi di mobilità del lavoro (5). Ciò vuol dire, probabilmente, che alcuni elementi strutturali contano di più delle stesse normative.
L’Italia, allora come oggi, vede una prevalenza del tessuto di piccole imprese: dove è più elevata sia la mobilità ‘forzata’ (non solo perché sotto i 15 addetti non c’è Art. 18 ma perché queste imprese scompaiono – e nascono – con molta maggiore frequenza) sia la mobilità ‘volontaria’, perché spesso i lavoratori se ne vanno, o per mettersi in proprio, o per muoversi verso approdi giudicati (a torto o a ragione) come più sicuri e remunerativi; per esempio, imprese più grandi o il pubblico impiego (di qui, appunto, il problema che spesso assilla gli imprenditori, di come ‘tenersi’ i lavoratori).
A questo punto, una domanda fondata, anche se ‘ingenua’, viene spontanea: perché intervenire sul quadro legislativo e contrattuale quando si è già in presenza (e non da ora) di una elevata flessibilità dell’occupazione? In realtà, l’obiettivo di queste nuove politiche non è tanto l’aumento quantitativo del grado di flessibilità dell’occupazione, quanto i meccanismi decisionali che la regolano e, a partire da questi e più in generale, i meccanismi decisionali sul lavoro.
Ma, prima di affrontare direttamente questo problema, sarà opportuno fare un passo indietro e vedere come, negli anni passati, lo sviluppo delle ‘normative di flessibilizzazione’ dell’occupazione è stato accompagnato e sostenuto dalla contrattazione/concertazione sindacale.
2. Fino al 2001: l’‘espansione negoziata’ del lavoro flessibile
Nel corso degli anni ’90, il movimento sindacale italiano (unitariamente) ha di fatto accettato la tesi che l’aumento della flessibilità era una condizione per incrementare l’occupazione – e ha agito di conseguenza, sia sul terreno politico generale della concertazione, sia su quello più specifico della contrattazione, di categoria e aziendale. La ‘flessibilità concertata’ L’accordo del 23 luglio 1993 contiene, insieme a molte altre cose, un’indicazione in questo senso.
Ma esso era stato preceduto, già molti anni prima, da altri accordi – meno generali – che davano lo stesso segnale: valga per tutti l’accordo sui contratti di formazione-lavoro della metà degli anni ’80 (6). Le linee-guida, già accennate in quell’accordo, vengono poi definite – negli anni seguenti, e in particolare sotto i governi di centro-sinistra – in una serie di provvedimenti legislativi, di cui il più noto (e il più ‘complessivo’) è il cosiddetto ‘pacchetto Treu’ (Legge 196 del 24 giugno 1997). Non ci interessa qui vedere in dettaglio i provvedimenti, quanto piuttosto renderne evidente la logica complessiva. Essa è quella di una espansione negoziata della flessibilità: negoziata in prima battuta attraverso le forme di concertazione che precedono la decisione legislativa, e in seconda battuta direttamente attraverso la contrattazione sindacale (di categoria e aziendale) cui tutti i provvedimenti legislativi esplicitamente rinviano per la definizione più precisa delle condizioni della flessibilità. Attraverso questo metodo, si intende, da un lato, aprire nuovi spazi di flessibilità, dall’altro definire alcune regole (di tipo quantitativo e qualitativo) che delimitino il ricorso alle forme di lavoro flessibile: anzitutto specificando e circoscrivendo le condizioni necessarie per far ricorso a queste forme ‘atipiche’ di rapporto di lavoro (condizioni produttive, organizzative, congiunturali), e in secondo luogo stabilendo dei ‘tetti’ quantitativi all’utilizzo delle diverse forme di lavoro flessibile. Queste condizioni sono descritte in termini generali dalla legislazione, che sempre rimanda alla contrattazione sindacale per una loro definizione più precisa e perché esse divengano operative.
La flessibilità contrattata
Ma il rinvio alla contrattazione non ha – tranne qualche eccezione – avuto l’effetto di precisare e rendere più vincolanti le regole per l’utilizzo del lavoro flessibile. Al contrario, esso ha quasi sempre ampliato – in termini sia quantitativi che qualitativi – le possibilità di utilizzo di tali forme di rapporto di lavoro. Per far vedere come, attraverso una serie di passaggi (sempre in qualche modo negoziati), tali possibilità si siano ampliate, mi limito a un esempio, relativo al lavoro interinale. L’accordo del 23 luglio 1993 dava, sia pure in termini molto generali, un’interpretazione molto restrittiva. Oltre al caso di sostituzione di assenti, si indicavano casi di cui un esempio può essere la manutenzione di una macchina molto sofisticata in una piccola impresa: nessuna piccola impresa terrebbe un ‘manutentore-super’ tutto il tempo per farlo lavorare (nei compiti suoi propri) pochi giorni l’anno, e quindi deve ricorrere a un rapporto di lavoro temporaneo che – sia pure sotto altre etichette – esisteva da sempre.
Il ‘pacchetto Treu’ apre una breccia, proprio attraverso il riferimento alla contrattazione, sia nelle causali che nei divieti. Il ricorso al lavoro interinale può avvenire «nei casi previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi». Certo, è previsto un divieto «per le qualifiche ad esiguo contenuto professionale individuate dai Contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi»: ma si tratta di un divieto molto debole, perché si sa che gli inquadramenti ‘gonfiano’ in genere i requisiti richiesti a ogni livello, per cui un terzo livello metalmeccanico, sulla carta, risulta un operaio qualificato (Gastone Sclavi diceva che, se si prendevano alla lettera le declaratorie del quinto livello, ci arrivava forse un Premio Nobel). In questa ‘breccia’ si è inserita la contrattazione (nazionale e aziendale), non per restringerla ma per ampliarla. I contratti che si sono succeduti hanno agito su più piani: – allentando le condizioni di utilizzo dei vari tipi di lavoro flessibile; – alzando progressivamente le ‘quote’ di lavoratori flessibili permesse alle aziende; – introducendo ‘quote complessive’ per le diverse causali (es.: interinale e tempo determinato), e indebolendo così i vincoli specifici di ciascuna di esse (7). I risultati sono ben noti. Vediamo lavoratori interinali utilizzati strutturalmente per le mansioni più dequalificate. O vediamo, attraverso un’accorta alternanza di diversi ‘contratti atipici’, lavoratori che restano precari per molti anni, pur lavorando in modo praticamente continuativo per una stessa azienda. Le carenze legislative Ma tutto ciò riguarda – comunque – lavoratori dipendenti riconosciuti come tali, che godono (almeno sulla carta) di diritti e tutele sindacali. Per i lavoratori parasubordinati, la contrattazione sindacale non è competente.
E qui emerge un altro aspetto dell’intreccio tra azione sindacale e azione legislativa di quegli anni. Mentre le leggi che miravano a un mercato del lavoro flessibile sono passate (col consenso sindacale) e sono state applicate ad abundantiam (anche grazie all’impostazione prevalente della contrattazione), quelle rivolte a consolidare ed estendere le forme di tutela e di rappresentanza dei lavoratori si sono insabbiate.
Il caso più clamoroso è quello della legge sulla rappresentanza sindacale (su cui, del resto, si manifestarono le divisioni di fondo tra Cgil e Cisl che sarebbero esplose dopo); ma per quanto riguarda più direttamente i problemi affrontati l’episodio più significativo è quello della cosiddetta ‘legge Smuraglia’, volta a estendere il sistema di diritti e tutele anche alle forme ‘improprie’ o ‘spurie’ di lavoro dipendente. Su questo, il sindacato non è stato capace di far valere la sua forza di pressione su un ‘governo amico’ (si fa per direà), arrivando così ‘disarmato’ al cambiamento di maggioranza parlamentare.
3. La ‘svolta’
In cosa consiste la svolta, che si realizza a partire dalla metà del 2001? Proviamo a darne una prima, schematica definizione. Fino ad allora, il contratto di lavoro a tempo indeterminato era il ‘contratto standard’ (termine con cui non a caso è definito nei dati dell’Istat), e gli altri tipi di rapporto di lavoro dipendente erano considerati ‘eccezioni’ al rapporto standard, appunto per questo indicati come ‘lavori atipici’. La possibilità di queste eccezioni e la loro ampiezza venivano, in ultima analisi, definite dalla negoziazione collettiva (in forma diretta, o nella forma indiretta della concertazione, di cui le leggi recepivano i risultati). Certo, nel corso degli anni, la varietà e la quantità delle ‘eccezioni’ si è molto ampliata – perché il sindacato lo consentiva – ma l’‘impianto concettuale’ restava lo stesso. Oggi, tale impianto viene in certo modo rovesciato. Si parte dalla pluralità/flessibilità dei rapporti di lavoro, tra cui quello a tempo indeterminato è solo ‘uno dei tanti’ (per cui gli altri, ormai non più ‘eccezioni’, non richiedono – in linea di massima – motivazioni particolari), e si ‘rimodula’ la struttura normativa e contrattuale in funzione di questo. Ma, come vedremo, tale ‘rimodulazione’ non ha solo questo obiettivo, ma investe più in generale il problema del controllo/comando sul lavoro da parte dell’impresa. Il primo segnale: l’accordo separato sui contratti a termine e la sua traduzione in legge Un primo segnale si ha già prima dell’avvento del governo Berlusconi, nella prima metà del 2001. Vi è un tavolo di concertazione tra le parti sociali per definire un ‘avviso comune’ che recepisca le direttive generali dell’Ue in materia di contratti a termine. La concertazione è lunga e faticosa, e alla fine la Cgil (che pure a lungo si era mossa nella prospettiva di un ennesimo accordo ‘liberalizzante’) rifiuta di firmare. È il primo caso importante di accordo separato (non a caso sarà citato elogiativamente nel Libro Bianco). Le linee dell’ ‘avviso comune’ vengono sostanzialmente recepite nella legge emanata pochi mesi dopo. Gli elementi più significativi di novità sono: – in primo luogo, appunto, il nuovo ‘status’ dei lavori, per cui il lavoro a termine diviene non più ‘atipico’, ma si colloca ‘a parità’ accanto al rapporto a tempo indeterminato; – i vincoli al suo utilizzo non vengono più fissati attraverso una definizione precisa delle causali che lo permettono ma attraverso la sola elencazione dei ‘divieti espliciti’ (ovviamente più limitati); – alla stessa logica si ispira la definizione delle possibilità di proroga; – infine, per la prima volta si indicano aspetti della definizione del rapporto che sono sottratti alla contrattazione collettiva (8).
Il Libro Bianco
Del Libro Bianco s’è già molto scritto. Qui vale comunque la pena di farvi riferimento, perché costituisce la più organica e completa esposizione della ‘svolta’ di cui abbiamo parlato. Una maggior flessibilità nel mercato del lavoro è l’obiettivo dichiarato fin dall’inizio, quando si parla di asimmetrie tra il grado di flessibilità all’ingresso e le forme di rigidità in uscita. La visione in cui ciò si inquadra viene poi ulteriormente sottolineata, quando si prospetta un mercato del lavoro con più creazione e distruzione di posti di lavoro e con più percorsi irregolari e discontinui, come quadro in cui è necessario muoversi. Bisogna cioè eliminare i ‘vincoli-capestro’ che si frappongono a tale prospettiva. Naturalmente, questo richiede anche l’uso di ammortizzatori sociali, che però non devono comportare ulteriori oneri per le imprese (e, come vedremo nel paragrafo successivo, neanche per lo stesso bilancio pubblico): i sussidi di disoccupazione, per esempio, devono essere ‘alla Blair’: se il disoccupato rifiuta più di una volta un posto che gli viene offerto perde il sussidio. In questo quadro, oltre a ribadire l’impostazione già contenuta nella legge sui contratti a termine, il Libro Bianco contiene alcuni ulteriori spunti, che ampliano la tipologia dei ‘lavori flessibili’ o ne accentuano la ‘flessibilità’: viene riproposto con forza il lavoro a chiamata (già bocciato a suo tempo dai lavoratori della Zanussi), e viene – per esempio – sottolineata, approvandola, la ‘svolta giurisprudenziale’ sui soci-lavoratori delle cooperative, che ne allenta la definizione che li collegava al lavoro dipendente (con i relativi diritti). Che, però, l’aumento di flessibilità del mercato del lavoro non sia l’unica né la principale preoccupazione del Libro Bianco emerge da più aspetti. Anzitutto, quasi parallelo al discorso sulle esigenze di flessibilità, corre il discorso sulle esigenze di ‘fidelizzazione’ della manodopera (ne abbiamo già accennato prima). Ma, soprattutto, l’insieme di indicazioni contenute nel Libro Bianco va ben al di là del problema della flessibilità in senso stretto. Infatti, un elemento centrale è l’attacco alla vigente struttura contrattuale, che è sistematico e completo. Neppure la concertazione viene risparmiata, perché ostacola la rapidità dei meccanismi decisionali e perché – appunto – ha impedito la revisione della struttura della contrattazione. I contratti nazionali di categoria vengono criticati per l’eccessiva centralizzazione che produrrebbero; in particolare, il salario contrattuale ‘nazionale’ costituirebbe una percentuale troppo elevata di quello effettivo, e questo contribuirebbe a far sì che i differenziali salariali tra Nord e Mezzogiorno siano troppo ridotti. I contratti nazionali dovrebbero quindi ridurre la loro funzione a quella di un ‘accordo-quadro’, «capace di salvaguardare il potere di acquisto delle retribuzioni minime, di fissare standard minimi comuni, di assicurare un clima di fiducia reciproca nelle relazioni industriali’. Ma nel Libro Bianco ciò che, in tal modo, verrebbe ‘perso’ dalla contrattazione nazionale di categoria non viene attribuito alla contrattazione collettiva decentrata. Emerge infatti un nuovo (e alternativo) livello contrattuale: il contratto individuale, che può essere «scelto dal lavoratore in alternativa a quello collettivo». Naturalmente, tale proposta viene motivata col fatto che, già ora, figure professionali particolarmente forti sul mercato hanno, in pratica, un regime di contrattazione individuale. Ma ci vuol poco a capire che, se introdotta, questa possibilità sarà spesso utilizzata nel senso opposto, cioè per figure troppo deboli per esigere di fruire di tutele della contrattazione collettiva. Non a caso, su questo punto, il Libro Bianco pone il problema di «modificare l’attuale contesto normativo che inibisce al datore e al prestatore di lavoro di concordare condizioni in deroga non solo alla legge ma anche al contratto collettivo, se non entro il limite, sempre più ambiguo (!), delle condizioni di miglior favore». Emerge cioè, non più un quadro integrato di livelli contrattuali tra loro complementari, ma un panorama in cui ciascuno (padrone o lavoratore) può ‘scegliere’ quello che più gli aggrada... L’attacco del Libro Bianco si rivolge però anche ad alcune delle principali leggi attualmente vigenti a tutela dei lavoratori. L’orientamento generale cui si ispira è una preferenza per le soft laws (il termine ‘tecnico’ è eloquente...), perché quelle ‘pesanti’ – che caratterizzerebbero la legislazione italiana – escludono le possibilità di pattuizione individuale e spingerebbero all’evasione. La prima legge a essere posta sotto attacco, in quest’ottica, è la Legge 626 sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Poi, viene attaccata la legge che vieta l’intermediazione di manodopera, nel quadro di un ragionamento che punta a liberalizzare le possibilità di esternalizzazione delle attività (outsourcing) da parte delle imprese (9). In questo quadro di smantellamento delle normative di tutela si colloca la proposta di introduzione dell’arbitrato (che, non a caso, è fatta in collegamento, anche se non esclusivo, con la proposta di modifica delle norme vigenti sui licenziamenti individuali).
Il ‘collegato’ alla legge finanziaria
Che il Libro Bianco non sia un ‘manifesto ideologico’ ma un ben più pesante programma operativo, è dimostrato dall’insieme di ‘deleghe’ al governo, contenute nel disegno di legge collegato alla finanziaria. Esso infatti contiene una serie di misure volte a realizzare una serie di punti qualificanti del Libro Bianco (10): – l’abrogazione della legge sul divieto di intermediazione di manodopera: una delega molto articolata e dettagliata, che include (come ‘particolare secondario’) una ri-definizione del concetto di rappresentatività delle organizzazioni sindacali, tale da legittimare la pratica degli accordi separati che si è inaugurata; – una riforma degli ammortizzatori sociali ‘a costo zero’, che getta molti dubbi sulle (pur esigue) contropartite ottenute in materia dalle organizzazioni sindacali firmatarie dell’accordo separato sull’Art. 18; – una normativa sull’orario di lavoro che, di fatto, prescinde dall’‘avviso comune’ firmato a suo tempo, e che introduce ulteriori margini di flessibilità nella gestione dell’orario da parte delle imprese (in particolare sul part time); – l’introduzione del lavoro a chiamata e ulteriori ‘liberalizzazioni’ nel ricorso ad altre forme di lavoro temporaneo; – l’introduzione dell’arbitrato, anche al di là delle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva; – infine, ovviamente, le deroghe all’Art.18 dello Statuto dei Lavoratori, di cui si è abbondantemente detto. Non è scontato che il principale effetto complessivo di questa strategia e delle misure in cui si esprime sarà quello di aumentare il grado di mobilità/precarietà del lavoro (11). È possibile che molte aziende le usino per congegnare itinerari di lavoro di fatto stabili, ma basati sulle più varie e ingegnose combinazioni di contratti precari. Come ho già detto, l’obiettivo strategico è più ampio e pericoloso: si tratta di ampliare le leve di decisione sul lavoro in mano alle imprese, sottraendole (direttamente o indirettamente) alla contrattazione sindacale.
note:
(1) Nello scrivere queste note, ho potuto avvalermi di una preziosa documentazione legislativa e contrattuale, fornitami da Donata Canta e Bruno Roberti della Cgil piemontese. Purtroppo, dati i limiti di tempo fissati alla stesura dell’articolo (e per evitare di occupare uno spazio eccessivo) l’ho utilizzata solo parzialmente. Queste note, dunque, non forniscono una lettura analitica di leggi (per la quale d’altronde non avrei la competenza) e di contratti, ma solo alcuni spunti di lettura e di interpretazione.
(2) Negli stessi lavori dell’Istat, del resto, si tiene conto di questo problema, e si forniscono elaborazioni che meglio corrispondono alla definizione di ‘lavoro flessibile’ qui adottata. Un discorso a parte meriterebbero i soci-lavoratori delle cooperative: la cui condizione varia tra l’estremo di un lavoratore dipendente iper-garantito fino all’estremo opposto (sempre più frequente) di lavoratore sotto-tutelato, la cui condizione di dipendente spesso non viene riconosciuta. Proprio questa varietà di condizioni rende difficile una valutazione numerica di quanti, tra i lavoratori delle cooperative, vadano inclusi tra i ‘lavoratori flessibili’ e quanti rientrino nella tipologia ‘standard’ del lavoro dipendente.
(3) Si badi che il dato è riferito all’occupazione complessiva, e non al solo lavoro dipendente e parasubordinato. Dalla valutazione resta fuori la pubblica amministrazione, che invece viene sempre più toccata da forme di lavoro atipico – non solo i classici contratti a termine, come i ‘trimestrali’ delle Poste, ma il lavoro interinale o i soci-lavoratori delle cooperative sociali.
(4) Non a caso c’è chi – nel mondo imprenditoriale – ha ventilato (contestualmente all’attacco all’Art. 18) l’introduzione di una ‘giusta causa’ per le dimissioni volontarie! Ancora in questi giorni l’idea è stata ripresa, a mo’ di battuta, da un dirigente della Lamborghini (Cfr. «l’Unità», 31/7/2002): ma, se non sbaglio, essa era stata ventilata in termini ben più ‘seri’ in uno dei seminari della Confindustria degli scorsi mesi.
(5) Si vedano le analisi condotte da Bruno Contini sui dati Inps.
(6) Mi sia consentita a questo proposito una digressione. Nell’accordo sui contratti di formazione lavoro, la flessibilità (e una serie di trattamenti ‘di minor favore’ anche sul piano salariale) venivano concessi in cambio di un intervento formativo – che, com’è noto, non viene quasi mai onorato o è puramente di facciata. Ora, lo ‘scambio flessibilità/formazione’ sembra essere diventato una costante del pensiero sindacale, anche ‘di sinistra’: va bene la precarietà del posto di lavoro purché ‘negli intervalli’ ci sia formazione. Ma, di fatto, negli ‘accordi di scambio’ tra flessibilità e formazione la prima è l’elemento reale e la seconda si è quasi sempre rivelata un elemento fittizio. In termini più generali, possiamo dire che questa impostazione rientra in quelle ‘versioni di sinistra del pensiero unico’ in cui al concetto di occupazione è stato sostituito quello di occupabilità. (7) Si può notare che qualcosa di analogo è avvenuto – in vari accordi e contratti – per il part time, dove sono state progressivamente ampliate (in termini quantitativi e qualitativi) le possibilità di ricorso al lavoro supplementare, facendo così del part time una forma di orario estremamente flessibile (al rialzo...).
(8) Mi sono avvalso, per questa sommaria analisi, delle ‘note di lettura’ predisposte sull’argomento dal dipartimento del Mercato del lavoro della Cgil Piemonte.
(9) Ma il Libro Bianco porta il suo attacco anche su altri temi, tra cui quello delle pari opportunità: «una politica delle pari opportunità deve basarsi sugli incentivi fiscali, sulle politiche attive, sulla flessibilità dei contratti atipici (part time), nonché sulle politiche sociali di sostegno alle donne sposate che lavorano, per dare loro la possibilità di conciliare meglio l’attività lavorativa con gli impegni familiari». Non è un caso che, come esempio di ‘azione positiva’ volta a promuovere ‘pari opportunità’, venga citato l’accordo separato concluso da Cisl e Uil col Comune di Milano!
(10) Anche in questo caso, ho utilizzato le preziose ‘note di lettura’ più sopra citate. 11 Non mi riferisco qui, ovviamente, agli esuberi collettivi che derivano da crisi aziendali o di settore (e di cui la vicenda Fiat offre sinistri presagi): questi, del resto, non sono l’oggetto diretto né nel Libro Bianco né dei provvedimenti che abbiamo esaminato.
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