Intervista a cura di Rinaldo Gianola
«Io non vado a votare». Sergio Cofferati scioglie la sua riserva sul referendum del 15 giugno sull’articolo 18 in quest’intervista a l’Unità in cui denuncia la «grave emergenza» causata dagli attacchi di Silvio Berlusconi alla magistratura e al mondo dell’informazione e dal suo irrisolto conflitto d’interesse. Una deriva drammatica per il nostro Paese che va fronteggiata da un’opposizione parlamentare «senza sbavature», con un Ulivo unito e forte: «Non è questo il momento per la ricerca consolatoria di piccole identità».
Cofferati, perchè non andrà a votare il 15 giugno? «Penso sempre che sia indispensabile estendere e modulare i diritti verso tanti lavoratori che non ne hanno o non ne hanno a sufficienza. Ho dedicato a questo obiettivo un parte consistente del mio lavoro passato perchè ritengo che i diritti sono fondamentali per ogni cittadino, che qualsiasi modello competitivo deve rispettare. In una parte consistente del mercato del lavoro in Italia esistono lavoratori senza diritti oppure lavoratori che dispongono di una quota non sufficiente di diritti. Questa diversità rende necessario l’uso di uno strumento che renda possibile insieme l’estensione e la modulazione dei diritti. L’unico strumento efficace è la legge, non esistono altenative e scorciatoie.
Quale legge? «Tra le ipotesi avanzate dallo schieramento di centro sinistra credo che la più efficace, anche se tutte hanno una ragione positiva, sia il disegno di legge di iniziativa popolare della Cgil. L’approvazione dunque di una legge con quelle caratteristiche deve restare una delle priorità fondamentali delle forze che oggi sono all’opposizione»
Perchè non le piace il referendum? «Il referendum abrogativo della soglia dei 15 dipendenti per l’applicazione del reintregro previsto dall’art.18 è uno strumento inefficace e distorsivo. Non risolve nessun problema e ne crea di nuovi. Ho detto all’epoca ai promotori, e non ho cambiato idea, che consideravo e considero la loro scelta, al di là delle intenzioni dichiarate, un grave errore e oggettivamente diversa, per ragioni di merito e di effetti prodotti, dalla strategia che la Cgil in quel momento praticava».
Lei si chiama Cofferati, ha guidato la Cgil alla più grande manifestazione del dopoguerra nella difesa dell’articolo 18. Questo referendum, secondo molti osservatori e suoi critici, è figlio di quella stagione. «Nemmeno per sogno, è uno stravolgimento strumentale. Oggi di fronte al referendum mi pongo come credo che laicamente occorrerebbe fare sempre. Non ho nessuna funzione di rappresentanza dunque non devo dare indicazioni ad alcuno ma semplicemente esercitare un diritto-dovere di fronte a una scelta fatta da altri che considero sbagliata. Se nella consultazione referendaria prevalessero i “no” si determinerebbe una condizione politica equivalente alla negazione dell’esistenza del problema dell’estensione e della modulazione. E per chissà quanto tempo l’esigenza di dare diritti ad una parte ormai rilevante dei nuovi lavori resterebbe lettera morta. E’ bene non sottovalutare che il referendum non parla in alcun modo a milioni di lavoratori atipici che sono completamente privi di diritti e che non sono in alcun modo interessati agli esiti referendari».
Ma se vincesse il “sì”? «E’ sorprendente per me la sottovalutazione anche degli effetti che produrrebbe la vittoria del “sì”. Il quadro normativo che ne deriverebbe finirebbe con l’essere in pari tempo inappropriato e in larghissima parte inapplicabile. Infatti tutti sanno che le condizioni organizzative e i rapporti delle aziende piccole o piccolissime sono del tutto diversi rispetto a quelli delle aziende più consistenti. E per questa ragione il legislatore dell’epoca opportunamente aveva tenuto conto di queste diversità di contesto e di condizioni oggettive. Il disegno di legge della Cgil è potenzialmente efficace e corretto perchè continua a tenerne conto. Il meccanismo referendario invece cancella automaticamente queste diversità, dunque la prevalenza del “sì” renderebbe improponibile la legge di iniziativa popolare della Cgil. Chi sostiene che una vittoria dei “sì” faciliterebbe l’attuazione di una legge sostiene una tesi priva di fondamento. Non ci sarebbe in quel caso nessun vuoto legislativo da colmare e non a caso i proponenti del referedum non hanno mai indicato soluzioni legislative diverse dall’estensione automatica del reintegro e ancora, non a caso, quella parte di promotori presente in Cgil ha votato contro l’ipotesi di legge che è la più efficace».
L’astensione, dicono i referendari, è poco di sinistra. Non le pare? «Questa è la strada migliore secondo me: non andare a votare. Il referendum è uno strumento democratico dagli effetti semplificati a volte addirittura rozzi, è un istituto di fronte al quale bisogna porsi laicamente scegliendo tra le tre ipotesi possibili: sì, no, non voto. Sono tre le ipotesi, a tal punto che lo stesso ordinamento costituzionale lo esplicita attraverso la fissazione di un quorum minimo per la validazione dell’esito referendario. Quorum che non è richiesto infatti a nessun altra modalità elettorale. Per questo penso che si possa decidere consapevolmente, ripeto consapevolmente, come esercizio attivo il non partecipare al voto e non capisco per quale ragione bisognerebbe sottostare alla semplificazione rozza di chi, come Rifondazione Comunista, si pone obiettivi strumentali».
I contrari all’astensione sostengono che così cresce la disaffezione al voto. «Considero una mancanza di rispetto verso gli elettori l’insistenza sulla tesi che se non si vota si favorisce la disaffezione. In tempi passati, ma non lontani, gruppi di quesiti referendari hanno incontrato una scarsissima attenzione da parte degli elettori e gli stessi elettori sono tornati a votare nelle occasioni successive sia nelle elezioni politiche o ammnistrative che per altri voti referendari.
Le intenzioni della maggioranza dei proponenti sono oggettivamente diverse, addirittura alternative alla strategia alla quale avevo dato qualche contributo. Sarebbe utile non nascondere questo aspetto della vicenda. Poi ognuno, nel rispetto dell’altro, scelga come meglio crede, in libertà. L’etica della responsabilità presuppone che sia chiara la ragione della propria scelta. Immaginare che l’esercizio di un diritto sia la stessa cosa in un’azienda di tre persone come in una di sedici è tesi che non ho mai sostenuto perchè la considero priva di fondamento».
La sua scelta è diversa da quella della Cgil, ammetterà che è una notizia clamorosa. «Rispetto le scelte dell’organizzazione della quale oggi sono un semplice iscritto, ma la mia opinione è quella che le ho appena raccontato». Sa cosa le diranno? Che lei ha la stessa posizione della Confindustria. E poi ci sono i suoi compagni dei Ds, quelli di Aprile, molti dei quali sono a favore del “sì”. «Non mi preoccupo dell’uso strumentale che si potrà fare di questa mia opinione, quello che per me conta è la trasparenza delle posizioni anche quando queste possono non essere condivise. Non mi sono mai sottratto alle mie responsabilità, sarebbe fuori luogo che lo facessi adesso». Il referendum cade in un momento tremendo per il Paese. Berlusconi ha scatenato l’attacco alla magistratura, all’informazione, alle stesse istituzioni democratiche. «Siamo di fronte a quella che considero una vera e propria emergenza. Delle caratteristiche dello schieramento di centro destra e delle intenzioni del presidente del Consiglio in passato ho più volte detto, anche in polemica con chi pensava che in fondo questa destra potesse avere caratteristiche simili a quelle dei più tenaci conservatori europei come Margaret Thatcher, sottovalutando invece la vocazione a cancellare e a stravolgere le regole istituzionali e il tessuto connettivo della democrazia sostanziale. L’immagine dell’Italia, la nostra credibiltà nella comunità internazionale è in caduta libera, ciò che avevamo riconquistato con tanta fatica nel corso del lungo periodo di risanamento che ci aveva portato in Europa è oggi messo in discussione. L’adesione subalterna a una guerra illegittima ci ha portato ad essere considerati in una larga parte della comunità internazionale come corresponsabili della lesione dell’efficacia delle funzioni dell’Onu. Lo stesso vale in Europa, la nostra credibilità è ancora più compromessa proprio mentre toccherà all’Italia il semestre della presidenza comunitaria nel quale si conclude il lavoro della Convenzione. Si deciderà dunque qui quale sarà il futuro per milioni e milioni di cittadini e il governo italiano e il suo presidente sono considerati dai commentatori e dall’opinione pubblica europea inaffidabili per svolgere questo delicato compito»
Negli ultimi giorni c’è stata una “svolta” radicale nella linea di Berlusconi. Come mai? «L’accelerazione prodotta dal presidente del Consiglio, come dimostrano le affermazioni di ieri a Udine, è determinata dalle vicende giudiziarie che hanno interessato prima Cesare Previti e poi lui. L’attacco sistematico alla magistratura e alla sua autonomia ed indipenddenza è la messa in discussione di uno degli assi importanti dell’assetto istituzionale e del suo equilibrio. Il centro destra vuole ricavarsi spazi di azione protetta destinati a stravolgere le regole istituzionali e quelle della corretta rappresentanza politica». Le minacce non sono solo per le “toghe rosse”, adesso Berlusconi ce l’ha anche col tg3, con i giornalisti... «La vera novità è l’accentuazione sul sistema della comunicazione dell’effetto della mancata soluzione del conflitto d’interessi. Non solo permane quella anomalia considerata un’aberrazione nel resto del mondo, ma il monopolio del sistema della comunicazione che ne consegue è oggi usato dal presidente del Consiglio per aggredire la magistratura, i suoi avversari politici e tutti coloro che non sono d’accordo con lui. I pessimi e inaccettabili comizi che ci vengono oramai inflitti quotidianamente non a caso passano da questa forma di monopolio. C’è una lesione dei diritti fondamentali di cittadinanza che viene reiterata sistematicamente. Personalmente osservo con preoccupazione quella che mi pare una rabbia da assuefazione a queste brutture da parte di molti commentatori che un tempo si definivano orgogliosamente liberali. Negli ultimi giorni questa furia distruttiva si è manifestata con attacchi verso alti livelli istituzionali, penso alla presidenza della Repubblica, alla presidenza dell’Unione europea, alla vice presidenza della Convenzione». Anche sul fronte dell’economia le cose stanno peggiorando, per stessa ammissione di Berlusconi. Miracoli non se ne vedono. «Disinvoltamente, il presidente del Consiglio gioca con i numeri dell’economia come se parlasse di una partita di calcio: adesso la ripresa si è ulteriormente allontanata nel tempo e non contento ha aggiunto valutazioni sulla quantità della crescita dell’anno in corso ovviamente ben lontane da quelle presentate solo qualche giorno fa. A Berlusconi sfugge completamente che cosa ciò possa significare per milioni di persone e migliaia e migliaia di imprese. Molte persone e imprese hanno cominciato a rendersi conto dell’incapacità del governo di produrre buona politica e scelte economiche efficaci. Credo che il governo abbia percezione di questi scricchiolii soprattutto al Nord».
In questa situazione cosa deve fare l’opposizione di centro-sinistra? «Ho la sensazione che si produrranno rapidamente ulteriori drammatizzazioni a causa di Berlusconi. Per questa ragione credo sia indispensabile una forte ed efficace azione parlamentare senza sbavature. E’ necessario, ad esempio, tenere ben fermo il principio che i cittadini sono uguali davanti la legge. Le ipotesi di immunità parlamentare e di sospensione dei processi sono profondamente sbagliate e dunque da contrastare. E’ poi indispensabile una fortissima azione della società attorno a questi temi. L’opposizione e l’Ulivo hanno conosciuto momenti di importante unità e anche di dannose divisioni in tempi recenti. Io credo tuttavia, che pur scontando queste diversità, occorra programmare in tempi brevi uno sforzo straordinario per affrontare questa emergenza. Non è il momento della ricerca consolatoria della piccola identità, ma del rilancio della ricerca di una nuova identità comune nell’Ulivo. Come si può ben vedere il referendum sull’articolo 18 era l’ultima cosa di cui c’era bisogno in questo momento».
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