Due ani dopo il G8 e la morte di Carlo Giuliani, la procura si prepara a chiudere l'inchiesta contro i manifestanti. Restano praticamente ferme, invece, le indagini sulle violenze compiute in quei giorni dalle forze dell'ordine.
Al nono piano del palazzo di giustizia genovese, sul tavolo del pm Andrea Canciani che indaga sugli scontri del G8, c'è una cartellina con l'intestazione «Acip». Sta per «avvisi di conclusione delle indagini preliminari», ultimo atto prima della richiesta di rinvio a giudizio. Nella cartellina ce ne sono ventisette e sarebbero già stati notificati agli indagati se procura e questura non preferissero far passare il 20 e 21 luglio, il secondo anniversario del G8 che sarà ricordato a Genova con incontri e manifestazioni del movimento. «Gli avvisi - spiegano i magistrati - partiranno entro la fine del mese». Sono destinati a presunti «black bloc» e non, tutti accusati di devastazione e saccheggio (pena prevista da otto a quindici anni) e alcuni anche del lancio o della fabbricazione di bottiglie molotov (per la legge armi da guerra), nonché di resistenza e violenza a pubblico ufficiale. Si tratta dei ventiquattro «no global» - anarchici, antagonisti, disobbedienti ma anche tifosi ultras e un paio di delinquenti comuni - già colpiti da arresti e altre misure restrittive il 4 dicembre scorso. Quello messo peggio (Francesco Puglisi, catanese di 29 anni) è da quasi otto mesi in carcere a Messina, altri scontano i domiciliari, altri ancora hanno l'obbligo di firma in commissariato, solo due sono liberi e l'ultimo - il 24enne genovese Eurialo Predonzani - si è dato alla macchia prima in Germania e poi chissà dove. Anche oggi c'è un'udienza al tribunale del riesame: riguarda Alberto Funaro, romano di Radio onda rossa agli arresti domiciliari. Con gli stessi capi d'imputazione da brivido la procura chiederà il giudizio per altri tre. Il primo era già stato proposto per la misura cautelare ma il gip la rifiutò, gli altri due sarebbero stati individuati negli stessi filmati che hanno inchiodato i ventiquattro perché partecipavano ai disordini accanto a qualcuno di loro, ma sono stati identificati più tardi. L'inchiesta però non finisce qui: oltre a decine di manifestanti già processati o in attesa di giudizio per reati minori, ce ne sono ancora «circa 150» inquisiti per devastazione e saccheggio. E formalmente ce ne sono altri 93, quelli massacrati (61 feriti) alla Diaz e già scagionati dall'accusa di aver fatto resistenza nella scuola. Per loro, visto che non compaiono nelle immagini degli scontri, l'archiviazione è scontata, ma i pm Canciani e Anna Canepa, coordinati dal procuratore aggiunto Giancarlo Pellegrino, non hanno ancora trovato il tempo per richiederla.
Forse si salvano i Canterini boys
La fine della prima tranche dell'inchiesta sul «blocco nero», dopo l'archiviazione dell'omicidio di Carlo Giuliani, è l'unico risultato giudiziario certo (o almeno imminente) a due anni da un disastro con un morto, centinaia di feriti, quasi trecento arresti e violenze inaudite da parte di polizia, carabinieri e guardia di finanza. Dall'altra parte, sul fronte cioè delle indagini sulle forze di polizia, la procura marcia dall'inizio assai meno speditamente. Anzi, a ben vedere, sulle violenze alla Diaz e nella caserma di Bolzaneto l'indagine non sembra affare della procura ma piuttosto di quattro-cinque pm, tra i quali Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona, che procedono al rallentatore tra mille ostacoli interni ed esterni al palazzo di giustizia, mentre sulle cariche in piazza si comincia solo adesso.
Per questo vanno prese con le molle le informazioni che circolano in procura su conclusioni ormai prossime, «entro l'estate», anche per le indagini sui poliziotti. Per Bolzaneto si preparerebbe il rinvio a giudizio di una trentina degli attuali indagati (un centinaio), appartenenti a polizia, polizia penitenziaria e carabinieri. Non più di cinque o sei sono stati individuati come responsabili di specifici episodi di violenza; gli altri sono inquisiti per concorso «omissivo» nei vari reati (lesioni, violenza privata, abuso di autorità su arrestati) e cioè per non averli impediti pur essendovi tenuti per legge. Per la Diaz rischiano il processo una ventina di funzionari, alcuni dei quali di primo piano come Francesco Gratteri (capo del Servizio centrale operativo e vicinissimo al capo della polizia Gianni De Gennaro) e il numero due dell'antiterrorismo Gianni Luperi, accusati di falso e calunnia per le bottiglie molotov collocate nella scuola dagli stessi poliziotti e di concorso nelle lesioni anche gravi (una milza spappolata, un polmone perforato, un testicolo a pezzi e decine di fratture). Le stesse accuse pesano su Vincenzo Canterini, comandante dei settanta «super-celerini» romani che con altri poliziotti (mai identificati) presero parte all'irruzione, sul suo vice Michelangelo Fournier e sui nove capisquadra, mentre potrebbe spuntare a sorpresa una richiesta di archiviazione per i 70 della «truppa», tutti a volto coperto e perciò di difficile individuazione. Altri diciotto poliziotti sono indagati per la distruzione e il furto di hard disk e documenti nel media center allestito nella scuola di fronte, la Pertini.
Procuratore o «avvocato» della Ps?
L'indagine sui manifestanti mobilita da due anni la procura, ha potuto contare sull'impegno senza risparmio da parte di polizia e carabinieri e ha comportato circa due miliardi di lire di spese per i macchinari e il software impiegati per l'analisi dei video e la gestione dei dati. Al contrario le inchieste sulla polizia, specie quella sulla Diaz che fa tremare i piani alti del Viminale, viaggiano con lentezza esasperante. E non è detto che dipenda dai pm che le portano avanti, che sono soli, boicottati dai corpi di polizia e al massimo tollerati, non certo sostenuti, dai capi della procura, prima Francesco Meloni e poi Francesco Lalla. Per loro anche le normali fotocopie sono un problema, per non dire i 60 mila euro richiesti da un'azienda privata per la riproduzione del fascicolo, filmati compresi.
Da due anni ogni passaggio dell'inchiesta Diaz è segnato da indiscrezioni su riunioni infuocate e trattative infinite soprattutto tra i sostituti e Lalla, che sin dall'inizio, da procuratore aggiunto, si distinse per l'atteggiamento morbido e comprensivo nei confronti della polizia. L'aria è pesante: ieri al formale insediamento del procuratore non c'era neanche un sostituto, a differenza di quanto avvenne nel 2000 per il «primo giorno» di Meloni. E se gli argomenti del pm si ritrovano negli atti di indagine, dalla scoperta delle false molotov alle bugie conclamate messe a verbale dai superpoliziotti indagati, ritratti attorno al sacchetto azzurro con le due bottiglie (v. il manifesto del 7 gennaio), le tesi del dottor Lalla sono meno note. Il manifesto avrebbe voluto intervistarlo ma purtroppo il procuratore ha detto di no, sia pure con grande cordialità. E così l'ultima sua intervista sul G8 rimane quella al Corriere della Sera del 6 dicembre scorso, quando Lalla era procuratore reggente, puntava alla nomina a capo e ci teneva, tra l'altro, a far saper di aver parteggiato da subito per l'archiviazione delle accuse a Mario Placanica, il carabiniere che sparò in piazza Alimonda. "Ricordo i giorni dopo la morte di Carlo Giuliani - diceva Lalla - Le prime impressioni andavano in direzione della legittima difesa». L'archiviazione è poi arrivata, con tanto di «uso legittimo delle armi». E anche al Csm devono aver gradito: ad aprile gli sono arrivati perfino due voti di «laici» di sinistra.
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