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BOLIVIA VERSO LA BATTGLIA FINALE: L'OMBRA DEGLI USA
by anubi Tuesday October 14, 2003 at 03:11 AM mail:  

Le ultimissime dai media indipendenti boliviani: tregua armata a La Paz circondata dai contadini e dai minatori, intanto il Condoleeza Rice e il Dipartimento di Stato richiamano la "comunità internazionale" a sostenere il presidente Sànchez de Lozada, amico di Bush

E' sera a La Paz: decine di migliaia di manifestanti stazionano da otto ore oramai intorno a Plaza Murillo, sede del Palazzo Presidenziale vuoto, fronteggiando un imponente schieramento di reparti blindati dell'Esercito, che hanno già fatto largo uso della mitraglia pesante.
I violenti scontri tra militari e cittadini delle periferie della capitale e dei villaggi dell'Altiplano, armati solo di pietre e fionde, sono andati scemando nel corso del pomeriggio; dopo che l'Esercito si è reso conto di non poter smobilitare le strade se non a prezzo d'un nuovo bagno di sangue, e dopo che decine di leader comuntari avevano preso il controllo della piazza, che è riuscita ad organizzarsi e ad autodisciplinarsi nella resistenza.
E' testimoniato dai giornalisti che è stata evitata ogni inutile devastazione, mentre la gente si dedicava a fissare la situazione del confronto con barricate che isolano il centro di La Paz, la zona di San Francisco.
Colonne di manifestanti in ribellione sono intanto dilagate ai margini dei quartieri ricchi della capitale, nella zona meridionale, dove è situata anche la residenza dove è rinchiuso da oltre 24 ore il presidente Gonzalez "Gony" Sànchez de Lozada, miliardario imprenditore del settore minerario che ha contribuito a gettare in miseria, grande amico dei Bush e loro "grande elettore", nel Cono Sur, per la realizzazione dell'accordo ALCA, insieme al collega (in tutti i sensi) colombiano Pastrana.
Il bilancio dei civili in rivolta uccisi dalla repressione militare, dopo il massacro a El Alto di domenica, che aveva fatto 26 morti tra cui alcuni bimbi, è così ulteriormente salito: le sole fonti fin qui credibili, quelle delle organizzazioni non ufficiali e in particolare dell'Associazione per i Diritti Umani in Bolivia, parlano di almeno 40 morti complessivamente in queste 48 ore. Almeno altri 5 stamane nella stessa El Alto, che ha reso ingovernabile l'imposizione della legge marziale effettuata il giorno prima dai militari, gli altri quasi tutti a La Paz; uno, forse due, nel Chaparé, la regione tropicale roccaforte dei cocaleros e del MAS di Evo Morales, a sua volta mobilitatasi in questo lunedì.
Proprio l'inizio della mobilitazione nella regione centrale ha interrotto il traffico per tutta la giornata sulla grande autostrada Cochabamba-La Paz, portando a scontri sporadici ma continui tra i blocchi contadini e altre unità dell'Esercito riunite sotto un comando speciale apposito.
Tutta l'opposizione politica e sociale boliviana si è unificata su due obiettivi, dopo il discorso minaccioso con cui "Gony" aveva replicato alla marcia nella capitale che aveva rifiutato il suo dietrofront della mattina sul nuovo piano di esportazioni negli USA di gas naturale andino: gli obiettivi di un'insurrezione civile ormai dilagata in tutto il paese sono l'immediato rovesciamento del presidente medesimo, e il controllo popolare sull'industrializzazione e l'esportazione di gas e petrolio.
Sullo stesso fronte si trovano così il sindacato operaio COB, finora tenutosi sul piede d'uno sciopero piuttosto debole, il MAS di Evo Morales, i sindacati contadini, i sindacati degli insegnanti, dei commercianti al minuto, dei trasporti (che hanno interamente bloccato i mezzi pubblici di terra, su ferro e su gomma, e isolato via aerea la capitale), le organizzazioni studentesche e soprattutto le assemblee delle comunità indigene dell'Altiplano, del Valle, del Chaco e della Cordillera, ora unificate in un unico movimento fuso con la confederazione contadina.
Proprio un'assemblea del genere ha riunito nella prima serata le delegazioni di tutti i villaggi dell'Altiplano, che hanno giurato sui loro 30 morti delle ultime 48 ore di marciare su La Paz entro la mattinata, di rovesciare il presidente e di "prendere i politici", in nome di "dignità e vita" delle comunità indie aymara.
Mentre si prepara, dunque, una notte di vigilia per la sfida finale tra la forza repressiva mobilitata da Sànchez de Lozada e la sollevazione moltitudinaria delle popolazioni del più povero paese dell'America del Sud, si è stesa sulla Bolivia l'ombra dell'intervento diretto di Washington: già nel pomeriggio, infatti, la consigliera presidenziale alla sicurezza Condoleeza Rice aveva invocato "l'appoggio della comunità internazionale al presidente costituzionale" boliviano. Poi, in serata, una nota del Dipartimento di Stato annunciava minacciosamente che "non sarà tollerabile alcun insediamento d'un regime extracostituzionale in Bolivia" e che gli USA "difenderanno gli assetti democratici" del paese!
Nel frattempo, continuano a giungere notizie delle difficile tenuta dello stesso esercito boliviano, al livello della truppa: a partire dalle notizie di torture inflitte a molti soldati semplici della regione del Oriente trascinati nella repressione di El Alto e che si sono in molti casi rifiutati di sparare sulla folla, dopo il bagno di sangue della domenica.

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gli interessi americani contro il resto del mondo
by giova Wednesday October 15, 2003 at 03:43 PM mail:  

Non è pensabile che, ogni qualvolta il Governo degli Stati Uniti d'America deve difendere i propri interessi economici, venga scatenata una nuova guerra. Il possibile interevento Americano in Bolivia a fianco delle truppe governative sarebbe, come tra l'altro gli interventi in Iraq e Afghanistan, un atto terroristico di entità pari a quello compiuto a New York l'11 settembre. La popolazione Boliviana ha il diritto di difendere le risorse del proprio Paese che gli Americani strappano con la forza.

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Una revolución no es una fiesta. Es un sacrificio obligado y amargo. Nadie va a ella .....
by w1789 Wednesday October 15, 2003 at 05:48 PM mail:  

...... por propia voluntad, sino porque ya no queda otra.


2003-10-15 La Jornada
M U N D O México D.F. Miércoles 15 de octubre de 2003

Adolfo Gilly

Bolivia, la suave patria tan amarga

Bolivia está viviendo una revolución. Las movilizaciones en las ciudades y en el campo se proponen tumbar al gobierno neoliberal ma-sacrador.

El punto de unificación fue la tentativa -una más- de entregar la explotación y la exportación del gas boliviano a las empresas trasnacionales.

Este punto, empero, es aglutinador de todas las diferentes ofensas, agravios y despojos que los sucesivos gobiernos neoliberales han inferido al pueblo boliviano.

Los insurrectos del campo y de la ciudad exigen la renuncia del presidente. Este se niega, sostenido abiertamente por Washington, el ejército represor y los sectores em-presariales bolivianos más ligados a las finanzas internacionales. Son los tres pilares del mando neoliberal en Bolivia.

A similitud del movimiento popular en Argentina en diciembre de 2001, las manifestaciones callejeras exigen que se vaya Gonzalo Sánchez de Lozada.

A diferencia de Argentina, no piden "que se vayan to-dos", sin otro punto de unión. Las exigencias de renuncia están convergiendo en la demanda de una Asamblea Constituyente y un gobierno provisional para convocarla: es decir, de otra república y otro gobierno.

Como en Argentina ayer, nadie tiene hoy en Bolivia legitimidad para hablar en nombre de todo el movimiento. Pero, en cambio, en el país andino los diversos sectores sociales en rebelión han logrado conservar una fuerte estructuración territorial y sectorial, formas de organización y de lucha he-chas cultura, viejos saberes insurreccionales de los bolivianos.

Por otra parte, en Argentina no hay tradición de revoluciones, sino de huelgas y pa-ros generales de dimensiones excepcionales, sin paralelo en América Latina.

Bolivia, en cambio, desde los tiempos de la Colonia tiene tradiciones de insurrecciones indígenas, campesinas y mineras, y de una gran revolución popular radical en el siglo XX, la revolución de abril de 1952, cuando los mineros armados y el pueblo de La Paz asaltaron los cuarteles, destrozaron al ejército y repusieron en el gobierno al presidente nacionalista cuya elección había sido desconocida, Víctor Paz Estenssoro.

El movimiento revolucionario que hoy sacude Bolivia está cubriendo todo el país y tiene focos indígenas, mineros, urbanos y populares diferentes.

Su rabia y su fiereza para enfrentar al ejército, recoger los propios muertos y volver a la carga es propia de un pueblo en revolución, donde se ha acumulado en décadas y en siglos una cultura insurreccional, en la cual todo el mundo sabe qué hacer en los enfrentamientos porque ese saber viene de los padres, de los abuelos y de los bisabuelos, propios y ajenos.

Las abuelas bolivianas indígenas, jóvenes abuelas casi todas, aparecen en las fotos dando aliento y piedras a los nietos y a los hijos, para que las disparen con sus hondas.

La honda, arma antigua de las insurrecciones indígenas en la Colonia, es la misma que hoy lanza las piedras o los cartuchos de dinamita contra el ejército. A manejar una honda se aprende en la experiencia del trabajo y en la vida de labrador, de pastor o de minero.

Lo que están haciendo en estos días las ciudades y los barrios de El Alto, La Paz, Oruro, Cochabamba y las comunidades ai-maras del Altiplano no se improvisa ni se trasmite por una proclama o un manifiesto.

Se sabe por experiencia, es la amarga herencia de una patria amarga desde hace muchas generaciones de oprimidos, excluidos y hu-millados que en sus comunidades, en sus barrios y en sus centros mineros conservaron el honor y el respeto de sí mismos y de sus pares contra el racismo atroz de los se-ñores, los gobernantes y los políticos urbanos.

Ese respeto de sí mismos hoy se desborda en una rabia y un arrojo que son la sustancia anímica de esta nueva revolución latinoamericana, esta insurrección de estos tiempos en que, según dijeron, globalización y neoliberalismo habían acabado con la era de las revoluciones.


Una revolución no es una fiesta. Es un sacrificio obligado y amargo. Nadie va a ella por propia voluntad, sino porque ya no queda otra.

Hoy globalización capitalista y neoliberalismo financiero, que habían prometido la paz y el paraíso, están resultando ser, más bien, la matriz donde se engendran otras revoluciones con sujetos nuevos, herederos de antiguos métodos de combate y movidos por rabias ancestrales; y donde, en paralelo, se engendran crueles y desiguales guerras coloniales y resistencias sin piedad y sin cuartel, como en Irak, Afganistán, Pa-lestina y Chechenia hoy, y quién sabe dónde más mañana.

En este creciente y violento desorden mundial cuyos puntos focales están en el Pentágono y en la Casa Blanca, esta nueva revolución boliviana recupera un orden insurreccional y unas costumbres probadas y pulidas a través de los tiempos.

El lunes 13, mientras los indígenas aimaras del Altiplano se aprestaban a marchar en orden de combate sobre La Paz, en todo el centro de esa capital se produjeron enfrentamientos entre el pueblo rebelde y los militares.

Al anochecer llegó noticia, por las ra-dios populares, de que el ejército se aprestaba a tomar ese sector. Los rebeldes se replegaron en orden a las 20 horas, dejaron calles y plazas céntricas y levantaron sus barricadas en los accesos a los barrios pobres de las alturas de la ciudad.

Eludieron, pues, el choque. A la madrugada del 14 los tanques retomaron el control de las calles desiertas.

El martes 14, al mediodía, miles de mineros de Huanuni -el centro donde en 1944 se fundó la Federación Sindical de Trabajadores Mineros de Bolivia, eje obrero de la re-volución de 1952 y de las décadas siguientes- marcharon sobre la ciudad de Oruro y, junto con el pueblo, ocuparon el centro de esta ciudad capital de los mineros y se preparaban a converger sobre La Paz.

El día 13 de octubre las comerciantes de los mercados de Oruro había partido desde la parroquia de la Virgen del Socavón, bajo la lluvia y el frío del Altiplano, a ocupar poblaciones vecinas y disponerse a marchar a La Paz.


Estas son apenas descripciones, instantá-neas, momentos puntuales reveladores de una situación general de insurrección popular. En este movimiento convergen diversas tradiciones de vida y de combate: aimara, quechua, urbana, minera, cocaleros, trasportistas, artesanos, comerciantes pobres y una incontable multitud de jóvenes a quienes nada, salvo pobreza y desempleo, les ofrece la Bolivia amarga de estos tiempos.

Esa convergencia de estados de ánimo, formas organizativas y visiones políticas diferentes puede leerse en los dos declaraciones que se publican hoy en La Jornada: una, del Movimiento al Socialismo (MAS), encabezado por el dirigente cocalero Evo Morales; la otra, del movimiento indígena aimara, dirigido por el Mallku Felipe Quispe. Ambos, Morales y Quispe, son hoy diputados.

El documento del MAS, que exige la renuncia del presidente y una Asamblea Constituyente, habla de "la gente", "la so-ciedad civil", "un proyecto de nación", "una democracia incluyente", en lenguaje afín al de las direcciones políticas y partidarias urbanas, lenguaje no ajeno al que en México circula en los mismos ámbitos.

El manifiesto de la Confederación Sindical Unica de Campesinos de Bolivia habla en nombre de las "comunidades aimaras" y de los "comunarios", se dirige a los "hermanos y hermanas del gran Kollasuyu y del mundo" invocando "la voz del pueblo de cara morena", y también exige la renuncia del presidente. Pero no habla, como el otro, de Constituyente ni de "refundar la democracia".

Es un grito de furia antigua contra la humillación, el racismo, el despojo y la explotación, que termina invocando las figuras de Tupaj Ka-tari y Bartolina Sisa, símbolos de la gran insurrección aimara anticolonial de 1781 que sublevó al Altiplano y puso sitio a la ciudad de La Paz, rebelión después ahogada en sangre por el ejército colonial español.

Son dos insurgencias convergentes en la defensa del gas, en el odio a las fuerzas represoras y en la renuncia del presidente, aunque diferentes en su lenguaje, en sus objetivos sociales y en su dinámica interna.

Es natural que quienes se reconocen en uno de estos manifiestos encuentren ajeno y ex-traño el lenguaje y el espíritu del otro.

Son enlaces posibles entre ambos movimientos la rebelión minera y sus organizaciones, el pueblo indígena urbano de El Alto, los ba-rrios pobres de La Paz, de Oruro, de Cochabamba y de otros centros urbanos.

Hasta ahora esta insurrección parece jugar su suerte no sólo a la increíble voluntad de sacrificio de los insurrectos sino también al logro de una dirección, si no única, al me-nos unificada en algunos objetivos comunes.

Existen los elementos y las exigencias de abajo para que ésta sobrevenga. Pero al ser los agravios tan antiguos y diversos, no es sencillo reconocerse unos a otros entre el polvo, la sangre, el ruido y la furia de los enfrentamientos con el enemigo que a todos reprime.

De esta convergencia, sin embargo, parece depender el destino de esta revolución de los indígenas, los campesinos, los mineros, los trabajadores, los puesteros de los mercados, los pobres, los estudiantes, los vecinos, los empleados y los desempleados de Bolivia contra un aparato represivo que sigue matando sin piedad y sin medida.


De Bolivia me escriben, hoy 14 de octubre. Describen la rebelión. Trascribo aquí uno de esos mensajes de amigos de La Paz:

"Ayer vimos imágenes de jóvenos alteños en la Plaza San Francisco enfrentándose con los policías, lanzando piedras con sus hondas.

El Alto, donde se concentra la represión y de donde ha emergido la insurgencia de estos días, es una ciudad aimara de composición cultural y demográfica muy campesina.

Si estamos viviendo otra rebelión aimara en este tiempo, con notables coincidencias en sus formas de lucha con movimientos del pasado, las fuerzas insurgentes ya no son sólo del campo, sino también concentrados en esa ciudad medio campesina donde radica la nueva población indígena urbana de los últimos 30 años.

"En el último censo boliviano, más de 60 por ciento de la gente se autoidentificó co-mo indígena. Muchos de ellos ya no viven en el campo, y muchos ni siquiera hablan aimara.

Son jóvenes en gran parte, azotados por la gran pobreza en las urbanizaciones marginales. La cultura que tienen es de una profunda raíz aimara, y eso se expresa políticamente en estos momentos: la honda es un símbolo.

"No hay liderazgos fuertes y, por otro lado, sí fuertes impulsos desde las bases.

En estos días han sido los barrios de El Alto, cada uno por su cuenta, que se han levantado contra el gobierno para pedir la cabeza del Goni. Los líderes ni siquiera aparecieron en la marcha y en las protestas de ayer.

No tiene control ni Evo, ni Mallku, ni Jaime Solares de la COB, ni los dirigentes de El Alto. Las bases vecinales -una forma social de raíz política entre sindicato obrero y co-munidad aimara- están con tremenda bronca.

Son ellos quienes reivindican los intereses nacionales en torno al gas, y los que han recibido el mayor impacto de la represión por el hecho de ser vistos como 'pobres indios' cuyas vidas no se contabilizan como las de gente de las 'clases decentes' de La Paz.

La represión estatal desplegada en El Alto sólo se puede entender en términos de la larga historia del racismo y la violencia coloniales y neocoloniales".

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