<CHECKPOINT SYNDROME> titolo originale TISMONET MAHSOM - un libro scritto da un militare israeliano dell'IDF - (più due commenti in calce)
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http://electronicintifada.net/v2/article2213.shtml Liran Ron Furer (reported by Gideon Levy), writing from Tel Aviv - 28 November 2003
November 21, 2003 - Il Sergente Maggiore Liran Ron Furer non può più andare avanti nella sua routine di vita. E' perseguitato dalle immagini dei suoi tre anni di servizio militare a Gaza, e il pensiero che questa potrebbe essere una sindrome che affligge tutti coloro che prestano servizio ai checkpoints non gli dà tregua. Sul punto di finire i suoi studi alla Bezalel Academy of Art and Design, ha deciso di lasciar perdere tutto e di dedicarsi a tempo pieno al libro che voleva scrivere. Gli editori più importanti a cui aveva portato il suo libro hanno rifiutato di pubblicarlo. L'editore che alla fine ha accettato (Gevanim) dice che la catena di librerie Steimatzky ha rifiutato di distribuirlo. Ma Furer è determinato a portare il suo libro all'attenzione del pubblico.
"Si possono sostenere le posizioni politiche più estreme, ma nessun genitore sarebbe d'accordo che il figlio diventasse un ladro, un criminale, una persona violenta" dice Furer. "Il problema è che la cosa non viene mai presentata in questo modo. Il ragazzo stesso non si raffigura in questo modo alla sua famiglia quando ritorna dai territori. Al contrario, è ricevuto come un eroe, come qualcuno che sta facendo l'importante lavoro del soldato. Nessuno può rimanere indifferente al fatto che ci sono molte famiglie in cui, in un certo senso, ci sono già due generazioni di criminali. Il padre ci è passato ed ora il figlio lo sta vivendo, e nessuno ne parla intorno alla tavola da pranzo."
Furer è certo che ciò che è successo a lui non è affatto un caso isolato. Era un sensibile e creativo diplomato del liceo artistico Thelma Yellin, divenuto una bestia al checkpoint, un violento sadico che picchia palestinesi quando non gli usano la dovuta cortesia, che spara alle gomme delle auto se i proprietari tengono troppo alto il volume della radio, che abusa di un ragazzino ritardato steso sul fondo della jeep e ammanettato solo per sfogare la rabbia in qualche modo. "La sindrome del checkpoint" (titolo del libro) trasforma gradualmente ogni soldato in un animale, indipendentemente da qualsiasi valore lui si porti da casa. Nessuno può sfuggire al suo effetto deteriorante. In un luogo dove quasi tutto è permesso e la violenza è percepita come normale comportamento, ogni soldato mette alla prova i propri limiti di impulsività violenta sulle sue vittime: i palestinesi. Il suo libro non è di facile lettura. Scritto in una prosa stringata e feroce, nel linguaggio rozzo e ottuso dei soldati, ricostruisce scene degli anni in cui ha fatto servizio a Gaza, dal 96 al 99, anni che -bisogna ricordarlo- erano relativamente tranquilli. Descrive come lui e i suoi camerati costringevano dei palestinesi a cantare "Elinor" ("era veramente uno spettacolo da non perdere vedere questi arabi cantare una canzone di Zohar Argov, come in un film"); descrive le emozioni che i palestinesi risvegliavano in lui ("a volte questi arabi mi disgustavano davvero, specialmente quelli che tentavano di leccarci il culo - i più anziani, che arrivavano al checkpoint con il sorriso in volto"); descrive le reazioni che stimolavano ("se ci davano davvero fastidio, li tenevamo inchiodati al checkpoint per qualche ora. A volte perdevano un'intera giornata di lavoro a causa di ciò, ma è il solo modo in cui imparano").
Furer scrive di come ordinavano ai bambini di pulire tutta l'area del checkpoint prima dell'ispezione; di come un soldato di nome Shahar aveva inventato un gioco: "Controlla la carta d'identità di qualcuno, e invece di dargliela indietro la lancia in aria. Si divertiva a vedere che l'arabo doveva uscire dalla macchina per andarsela a riprendere… per lui era un gioco e ci passava un intero turno in questo modo" ; descrive come umiliavano un nano che arrivava ogni giorno al checkpoint sul suo carretto: "lo costringevano a farsi fare una foto sul cavallo, lo picchiavano e lo degradavano per una buona mezz'ora e lo lasciavano andare solo quando altre macchine arrivavano al checkpoint. Il pover'uomo davvero non lo meritava". Nel libro si dice di come si erano fatti una foto ricordo con arabi legati e insanguinati che avevano appena riempito di botte; di come Shahar pisciò in testa a un arabo solo perché l'uomo aveva avuto l'impudenza di sorridere a un soldato; di come Dado costrinse un arabo a stare a quattro zampe ed abbaiare come un cane; di come rubarono rosari da preghiera e sigarette ("Miro voleva che loro gli dessero le loro sigarette, gli arabi rifiutarono, così Miro ruppe la mano a uno di loro e Boaz gli tagliò le gomme").
La più raggelante di tutte le confessioni personali: "Corsi verso di loro e sferrai un pugno ad un arabo dritto in faccia. Non avevo mai colpito nessuno a quel modo. Lui crollò sul selciato. Gli ufficiali dissero che dovevamo cercare i suoi documenti. Gli girammo le braccia dietro la schiena e io lo ammanettai. Poi lo bendammo per non fargli vedere cosa c'era nella jeep. Lo sollevai dalla strada. Il sangue scorreva dal suo labbro. Lo trascinai dietro la jeep e lo gettai dentro, atterrò con le ginocchia piegate contro il tronco. Ci sedemmo dietro e cominciammo a camminargli sopra… il nostro arabo giaceva abbastanza tranquillo, piangendo sommessamente. La sua faccia era proprio sul mio giubbotto e il suo sangue stava facendo una specie di mistura con la saliva, il che mi disgustò e mi fece incazzare, così lo afferrai per i capelli e gli girai la testa di lato. Urlò forte, e per farlo smettere gli pestammo coi piedi la schiena ancora più forte. Questo lo fece smettere per un po’ ma poi ricominciò di nuovo a urlare. Ne deducemmo che doveva essere ritardato o pazzo. "Il comandante ci informò via radio che dovevamo portarlo alla base. <Avete fatto un buon lavoro, Tigri> ci disse lodandoci. Tutti gli altri soldati erano là ad aspettare di vedere cosa avevamo preso. Quando entrammo con la jeep, fischiarono e ci applaudirono selvaggiamente. Trascinammo fuori l'arabo. Non smetteva di lamentarsi e qualcuno che capiva la lingua ci disse che gli facevano male i polsi per le manette. Uno dei soldati gli diede un calcio nello stomaco. L'arabo si piegò in due e grugnì, e ci mettemmo tutti a ridere. Era divertente… gli diedi un gran calcione nel culo e volò in avanti proprio come mi aspettavo. Urlarono che ero pazzo e si misero a ridere… mi sentivo felice. Il nostro arabo era solo un ragazzo di 16 anni mentalmente ritardato."
A vederlo nella mansarda di Tel Aviv della sorella, dove lui vive ora, Furer, 26 anni, appare un giovanotto intelligente e riflessivo. E' cresciuto a Givatayim, dopo che i suoi genitori arrivarono dall'Unione Sovietica negli anni '70. Prima dell'assassinio di Rabin, sua madre era un'attivista di estrema destra, ma lui sostiene che a casa loro non c'era politica. Desiderava entrare in una unità di combattimento dell'esercito, e ha prestato servizio in due unità speciali di fanteria. Ha fatto tutto il suo servizio militare nella striscia di Gaza.
Dopo l'esercito, ha viaggiato in India, come molti altri. "Ora sono libero… le energie di Goa e dei chakra hanno aperto la mia mente… Mi avete gettato in questa Gaza puzzolente e prima ancora di farmi il lavaggio del cervello con i vostri fucili e le vostre marce, mi avete trasformato in uno straccio che non pensa più" ha scritto da Goa. Ma è stato solo dopo, mentre studiava a Bezalel, che le esperienze fatte nel servizio militare hanno davvero cominciato a turbarlo.
"Ho cominciato a rendermi conto che qui c'era un modello invariabile" dice. "Era lo stesso nella prima intifada, nel periodo del mio servizio -relativamente calmo- e nella seconda intifada. Sta diventando una realtà permanente. Ho cominciato a sentirmi veramente a disagio per il fatto che questo pesante argomento non viene mai menzionato in pubblico. La gente ascolta le vittime e ascolta i politici, ma la voce che dice: <Io ho fatto questo, abbiamo fatto cose sbagliate> - crimini, effettivamente- è una voce che non sento. La ragione per cui non si sente è che è una combinazione di repressione -proprio come io l'ho repressa e ignorata- e profondi sentimenti di colpevolezza.
"Quando lasci la vita militare, la realtà mediatica e politica intorno a te non è pronta ad ascoltare questa voce. Mi ricordo che fui sorpreso del fatto che nessun soldato avesse ancora portato questo problema all'attenzione dell'opinione pubblica. Tutto si è come dissolto nel dibattito sull'occupazione -pro o contro- e sulla legittimità degli insediamenti nei territori, e niente di connesso alla routine di mantenimento dell'occupazione appare nei media.
Furer intende dimostrare che questa è una sindrome e non una serie di casi isolati. Ecco perché ha cancellato molti dettagli personali dal manoscritto originale, in modo da sottolineare la natura generale di ciò che descrive. "Durante il mio servizio militare credevo di essere atipico, per il fatto di avere un background artistico. Ero considerato un soldato moderato - ma sono caduto nella stessa trappola in cui cade la maggior parte degli altri soldati. Sono stato trascinato dalla possibilità di agire impulsivamente in modo primitivo, senza paura di punizione e senza controllo. All'inizio sei teso, ma col tempo ci si adatta al checkpoint e il comportamento diventa più naturale. Si testano gradualmente i propri limiti nel comportamento verso i palestinesi. Diventa sempre più rude e volgare." "Man mano che mi sentivo più a mio agio nella situazione, non appena giungemmo alla conclusione che noi siamo i padroni e siamo i più forti, quando sentimmo il nostro potere, ognuno cominciò ad estendere i limiti sempre di più, secondo la propria personalità. Quando stare al checkpoint divenne routine, ogni tipo di comportamento deviante diventava normale. Cominciò con <la raccolta di souvenir>: confiscammo rosari da preghiera e poi sigarette, e non fini' li'. Divenne una cosa normale."
"Dopo di ciò arrivarono i giochi di potere. Ricevemmo dai superiori il messaggio che dovevamo costituire un serio deterrente per gli arabi. La violenza fisica divenne la norma. Ci sentivamo liberi di punire ogni palestinese che non seguiva "l'adeguato codice di comportamento" al checkpoint. Chiunque pensavamo non fosse abbastanza cortese con noi, o che provasse di fare il furbo, veniva duramente punito. Erano molestie deliberate con i pretesti più triviali." "Durante il mio servizio militare non ci fu un solo incidente che ci facesse capire, o che facesse intervenire i nostri superior. Nessuno parlava di ciò che era permesso o no. Era solo una questione di routine. In retrospettiva, la principale fonte di sentimenti di colpevolezza per me non proviene tanto dal checkpoint, quanto dalla recinzione di Gush Katif, dove catturammo il ragazzo ritardato. Io ho dimostrato il comportamento più estremo. Avevo la possibilità di catturarne uno - la cosa più vicina al catturare un terrorista, un'occasione per dare sbocco alla pressione che veniva alimentata in tutti noi. Per sfogare la frustrazione nel modo che volevamo. Era normale dare schiaffi, ammanettare, dar calci e botte, e questa era una situazione in cui era giustificato lasciarsi andare del tutto. Anche l'ufficiale che era con noi era molto violento. Con il ragazzo abbiamo fatto un vero pestaggio, e quando raggiungemmo il posto di guardia mi ricordo di aver avuto una grossa sensazione di orgoglio, di esser stato trattato come qualcuno di forte. Gli altri dicevano "quanto sei pazzo.." che significava in sostanza "quanto sei forte".
"Al checkpoint, i giovani hanno l'occasione di essere padroni e l'uso della forza e della violenza diventa legittimo - e questo è un impulso assai più primitivo ed elementare che non le opinioni politiche o i valori che si hanno. Non appena viene data legittimità, e persino encomi, all'uso della forza, la tendenza è di usarne quanta più possibile e di sfruttarla il più possibile. Soddisfare questi impulsi oltre ciò che la situazione richiede. Oggi, li chiamo impulsi sadici."
"Non eravamo criminali o gente particolarmente violenta. Eravamo un gruppo di bravi ragazzi, un gruppo di relativamente "buona qualità", e per tutti noi -ne parliamo ancora a volte- il checkpoint è stato un luogo dove testare i nostri limiti personali. Quanto duri, quanto grezzi, quanto pazzi potevamo essere - e ci pensavamo in senso positivo. Qualcosa nella situazione -essere in un posto dimenticato da dio, lontano da casa, lontano dalla vista- lo rendeva giustificabile. La linea di ciò che era proibito non è mai stata chiaramente tracciata. Nessuno di noi fu mai punito, ci lasciavano semplicemente continuare."
"Oggi, sono sicuro dicendo che persino gli alti gradi -comandanti di brigata e di battaglione- sono consapevoli del potere che i soldati hanno in queste situazioni, e ciò che ne fanno. Come potrebbe un comandante non saperlo, quando più duri sono i suoi soldati, più tranquillo è il suo settore? Il quadro complessivo degli effetti a lungo termine di questo comportamento violento è qualcosa di cui ci si rende conto solo quando lasci il checkpoint."
"Oggi mi è del tutto chiaro che quel ragazzo a cui abbiamo umiliato il padre per la più inconsistente delle ragioni crescerà odiando chiunque rappresenti ciò che è stato fatto a suo padre. Ora riesco a comprendere le loro motivazioni. Noi siamo la crudeltà, noi siamo il potere. Sono sicuro che la loro reazione è influenzata da elementi correlati alla loro società -disprezzo per la vita umana e disponibilità a sacrificare vite- ma il desiderio basilare di resistere, l'odio stesso, la paura - Io sento che sono completamente giustificati e legittimati, anche se è rischioso dirlo."
"E' impossibile essere in un simile stato emotivo e tornare a casa e distaccarsene. A quel tempo ero piuttosto insensibile ai sentimenti della mia ragazza. Ero un animale, persino quando ero in libera uscita. Ti si appiccica anche dopo che hai finito il servizio militare. Ho visto i residui della sindrome in India: qualcosa dell'essere in un paese del Terzo Mondo, in mezzo a gente dalla pelle scura, porta alla luce il peggio del "cattivo israeliano". Oppure il modo in cui reagisci ad un sorriso: quando i palestinesi mi sorridevano al checkpoint, diventavo teso e la sentivo come una sfida. Quando qualcuno mi sorrideva in India, immediatamente andavo sulla difensiva."
"Ero un soldato nella media" dice. "Ero il burlone del gruppo. Ora vedo che ero spesso quello che assumeva il comando nelle situazioni violente. Ero spesso quello che dava la sberla. Ero quello che se ne veniva fuori con quelle idee del tipo lasciar uscire l'aria dalle gomme. Ora suona perverso, ma noi ammiravamo davvero quelli capaci di menare qualcuno. L'ufficiale che ammiravamo di più era proprio quello che sparava ad ogni occasione. Ho ancora tutti i sentimenti di colpevolezza. Un amico dell'esercito che ha letto il libro mi ha detto che ho ragione, che abbiamo fatto brutte cose, ma eravamo ragazzi. E ha detto che è una vergogna che io l'abbia presa in modo troppo duro".
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http://www.miftah.org/Display.cfm?DocId=2765&CategoryId=5 http://www.palestinemonitor.org/Analysis/corrupt_occupiers.htm HOW OCCUPATION CAN CORRUPT THE OCCUPIERS ABSOLUTELY Come l'occupazione corrompe gli occupanti
By Mustapha Karkouti Gulf News, Opinion - November 26, 2003 L'occupazione è indiscutibilmente uno strumento effettivo di corruzione. A prescindere dalla distruzione su vasta scala inflitta agli "occupati", la storia ha dimostrato che l'occupazione può fare molto più danno agli "occupanti". L'eredità del Vietnam è ancora viva nel tessuto sociale americano trent'anni dopo la fine della guerra. Sebbene ci sia una differenza nella natura e negli obiettivi dell'occupazione israeliana continuativa di terre arabe, l'avventura americana in Vietnam ha brutalizzato la morale e la politica statunitense nel mondo. Per anni, israeliani di sinistra e pacifisti e settori della società ebraica nella diaspora, nelle manifestazioni contro l'occupazione di terre arabe hanno avuto lo slogan "l'occupazione corrompe". Sono ormai trascorse decadi da quando Israele occupò territori arabi nel 1967. Pare che lo Stato ebraico raccolga ciò che ha seminato: normali ragazzi israeliani entrano nell'esercito e diventano mostri di sadismo, solo per essersi adeguati alle sue regole. Per capire fino a che punto l'occupazione corrompe i giovani israeliani che prestano servizio nell'esercito, bisogna leggere il racconto di un soldato sul suo normale servizio ad un checkpoint nei territori palestinesi. Il noto scrittore israeliano Gideon Levy ha portato alla luce questo tema sul quotidiano Haaretz la settimana scorsa, rivelando come i checkpoints, che in teoria dovrebbero essere misure di sicurezza per controllare i movimenti in situazioni d'emergenza, siano in realtà divenuti terreno di coltura per giovani mostri. Il suo articolo ha fornito la risposta parziale di un Sergente Maggiore dell'esercito. E' una franca introduzione ad un solo aspetto dell'occupazione: i checkpoints. Mentre si legge questo articolo rivelatore sull'esperienza del Sergente Maggiore, bisogna ricordarsi che l'esperienza ha avuto luogo nel periodo pre-Intifada, e durante i cosiddetti "pacifici" giorni di Oslo! (1996-1999). Se potete immaginare queste cose moltiplicate per dieci, allora comincerete a capire come è veramente la vita quotidiana adesso. […]Mustapha Karkouti is the former president of the Foreign Press Association in London.
http://www.place4peace.com/ GOOD BOYS IN GAZA Bravi ragazzi a Gaza Jerusalem Post - Larry Derfner Nov. 27, 2003
Vorrei che i 13 milioni di ebrei nel mondo potessero leggere TISMONET MAHSOM (CHECKPOINT SYNDROME), segnalato sulla stampa ebraica lo scorso venerdì, e previsto per l'uscita in libreria questa settimana. Darebbe loro un'idea di ciò che troppi soldati israeliani stanno facendo ai palestinesi - non a terroristi, ma a gente inerme che passa per la strada- e di ciò che questo sta provocando in loro. L'autore, Liran Ron Furer, era un ragazzo di buona famiglia di Givatayim, che frequentava il liceo artistico e non aveva mai fatto a botte, che voleva essere un buon soldato quando arrivò a Gaza nel 1997 all'età di 18 anni. Quando uscì tre anni dopo, era diventato un sadico esperto, avendo picchiato, schiaffeggiato e umiliato in vario modo un gran numero di palestinesi inermi, compresi padri davanti alle loro famiglie. E non era un caso isolato. Ecco la descrizione di una sua osservazione dalla torretta di guardia del checkpoint di Gaza, mentre un soldato esamina i documenti di tre palestinesi: "Si accerta che nessuno lo veda, va verso uno degli arabi e con il calcio del fucile gli spezza le costole. L'arabo crolla al suolo e il soldato rimane in piedi indifferente. So cosa prova agendo così. Mi rendo conto che è terribile dirlo, è sbagliato, ma anch'io ho messo le mani addosso ad arabi in quel modo quando non c'era nessuno intorno, è così invitante… farli a pezzi e riempirli di botte è così facile. Un secondo soldato uscì dal posto di guardia e cominciò a parlare con l'amico, senza prestare la minima attenzione all'arabo steso al suolo." Questo è ciò che gli Ebrei non sanno o non vogliono ammettere: che i giovani soldati israeliani che brutalizzano palestinesi disarmati non agiscono per paura, piuttosto è proprio il contrario - sperimentano il loro nuovo potere, loro hanno i fucili e i palestinesi di fronte a loro no. Furer e i suoi amici al checkpoint erano annoiati e stanchi per la mancanza di ore di sonno, accaldati e perennemente di cattivo umore, e sfogavano tutte le loro frustrazioni su palestinesi inermi. E' la prima volta che un soldato israeliano pubblica un libro pieno di dettagli su tutte le cose terribili che ha fatto durante il servizio militare. Ma la sostanza non è affatto nuova - nulla che non sia già apparso in innumerevoli rapporti stilati dalle organizzazioni per i diritti umani, interviste dei media ad ex-soldati, e conversazioni con israeliani su ciò che hanno fatto e visto nei territori. Io stesso ho visto queste cose, quando ero riservista a Gaza nell'estate del 1990. Un paio di poliziotti di frontiera attaccò dei taxi perché stavano troppo vicino alla base e non si muovevano abbastanza in fretta. Sferrarono un pugno in faccia all'autista, strapparono le antenne, e poi, dopo aver lanciato i manganelli contro il taxi per farlo spostare in fretta, si sono abbracciati e hanno cominciato a saltare di gioia. Un altro poliziotto, al volante di una jeep, fece avanzare l'auto fino in prossimità di un palestinese seduto su una panca, e quando arrivò all'altezza del giovane, aprì violentemente la portiera sulla faccia del tipo. Interrogai il mio comandante di plotone su tutto questo, e lui disse che non poteva farci niente. L'estate precedente, durante le esercitazioni di base nella West Bank, scaricammo una camionata di rifiuti nell'orto di una donna palestinese. Lei cominciò a urlarci contro in arabo, e l'autista le rispose in arabo. Un soldato mi tradusse ciò che aveva detto: "Taci, vecchia puttana". Però poi, non volendo sembrare femminucce già ai primi addestramenti, non riferimmo tutto ciò ai nostri superiori. Quanti soldati israeliani abusano ingiustificatamente dei civili palestinesi? Ciò sembra variare da una unità all'altra; la Polizia di Frontiera è la più nota per questo. Molti israeliani ashkenaziti amano credere che il problema sia limitato ai giovani soldati mizrahi cresciuti in quartieri poveri e violenti dove l'odio per gli arabi è un credo, ma Furer insiste sul fatto che, da ciò che lui ha visto, sia trasversale a tutti i gruppi sociali. Credo sia esatto dire che qualunque possa essere il numero di soldati israeliani brutali, è comunque maggiore del numero di soldati che sono disposti a fermarli. Altrimenti, tutto ciò non potrebbe continuare. Allora qual è il punto? - gli Israeliani sono intrinsecamente brutali? Assolutamente no. Infatti ciò che gli Israeliani fanno ai Palestinesi è come ciò che i Francesi fecero agli Algerini, ciò che gli Americani fecero ai Vietnamiti, ciò che i Russi ancora fanno ai Ceceni. E questi sono solo alcuni esempi fra i tanti. Non ci saranno fosse comuni scavate a Gaza o nella West Bank. In Asia e Africa vengono commessi crimini contro l'umanità tali da far sembrare meno rilevante ciò che Israele fa nella sua occupazione. Ma i Francesi se ne sono andati dall'Algeria, ed ora i ragazzi francesi di 18 anni non vengono muniti di fucile e gettati in situazioni tali da far emergere il loro lato peggiore. I ragazzi israeliani ancora lo sono, ed è un'esperienza formativa. "Qualcuno dice", scrive Furer, "che più gli arabi ci temono, più facili saranno le cose al checkpoint, e col tempo scoprimmo che aveva ragione". Lui ha cominciato come un bravo ragazzo di Givatayim. Anch'io ho due bravi ragazzi. Dovunque si guardi in questo paese ci sono un mucchio di bravi ragazzi...
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