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IL TRIANGOLO DELLE BERMUDE: misteri italiani
by morfeo Thursday, Dec. 11, 2003 at 5:19 PM mail:

dalla somalia alla moby prince, strane interconnessioni tra casi non risolti(versione riordinata di un post precedente)

SOMALIA
prime interconnessioni

VOLPE 132
come affondare un elicottero e vivere felici

MOBY PRINCE
navi sfortunate in posti sbagliati

JADRAN EXPRESS
ascesa e caduta di un miliardario russo; l’enigma di Therese

21 OKTOBAAR
un’altra nave di passaggio

...trova i punti in comune... Sembra un gioco di società: quale sarebbe il punto comune? Premessa: non ho mai avuto la pretesa di scoprire fatti nuovi. Ma trovo interessante rimettere in fila la serie di interconnessioni intorno a questo nome nella storia "oscura" d'Italia. Per chi ha voglia di un po' di fantapolitica reale. Ovviamente in modalità "scuoti l'albero"...sacchetto scomposto di informazioni cadute dalla rete. Dunque, Li Causi; un buon amico di Ilaria Alpi, sembra spuntare ovunque ci sia qualcosa di marcio;tipo Wolf di Pulp Fiction, quello che risolve i problemi. Fino a quando improvvisamente qualcuno decide di creargli un problema di quelli a forma di pallottola; Cercare Li Causi, dunque. Spunta questo pezzetto su Google, ma non sono autorizzato ad accedere all'informazione. Allora, Li Causi è Comandante della sezione siciliana di Gladio. Niente male. “SENATO DELLA REPUBBLICA XIV LEGISLATURA ... Carabinieri Alto Tirreno - La Spezia, al Centro Scorpione di Trapani, la sede siciliana di Gladio comandata dal maresciallo Vincenzo Li Causi...“ <http://www.parlamento.it/rc/interrogazioni/gladio.htm> A proposito;i gladiatori sono qui, uno per uno, tutti i 622 ufficialmente dediti alla lotta segreta contro il comunismo; <http://www.misteriditalia.com/servizisegreti/gladio/elenco/download/OK%20GLADIO%20(i%20nomi%20dei%20622).doc> Li Causi salta fuori, sempre su Misteriditalia, sezione "cosa nostra". Riporto tutto. “La struttura supersegreta di Gladio è mai stata utilizzata in funzione antimafia? E la sua azione si è sempre collocata nell'ambito della legalità? L'aspetto più inquietante riguarda comunque proprio la presenza di una cellula di Gladio a Trapani. Con sede in una palazzina di via Virgilio 123, fino allo scioglimento dell'organizzazione decretato nel gennaio 1991 dall'allora presidente del consiglio Giulio Andreotti, il Centro Scorpione è stato guidato da due agenti del SISMI, il tenente colonnello Paolo Fornaro (oggi in pensione) e il maresciallo Vincenzo Li Causi. Entrambi, interrogati dai magistrati di Roma e di Trapani sulla reale funzione del Centro Scorpione, avrebbero dato risposte dissonanti che non sono servite ad appurare la verità. Li Causi è costretto ad ammettere che la base di Gladio a Trapani, la città dove è stata scoperta la prima loggia massonica coperta a cui erano iscritti diversi mafiosi, disponeva di una pista segreta di atterraggio in località Castelluzzo, nascosta da una scogliera e situata in modo da sfuggire al controllo radar degli aeroporti di Birgi e di Palermo. La stessa pista che - stando alle confessioni del pentito italo-americano Joe Cuffaro - Cosa nostra avrebbe più volte usato per i suoi traffici di droga. E ancora la stessa pista che - secondo una testimonianza - l'ex dirigente di Lotta Continua, Mauro Rostagno, assassinato vicino a Trapani nel 1988, avrebbe filmato. Rostagno all'epoca era uno dei responsabili della comunità per tossicodipendenti Saman e collaborava ad una televisione privata trapanese. Li Causi non ha nascosto ai giudici che il Centro Scorpione disponeva di un deltaplano a motore, anche se non ha spiegato il tipo di impiego che fu fatto di questo piccolo velivolo. Morte di un agente segreto Il maresciallo Vincenzo Li Causi è morto in circostanze ancora misteriose il 12 novembre 1993, durante una missione in Somalia per conto del SISMI. Aveva 41 anni ed era stato un uomo di punta della struttura Gladio, ma non solo in Sicilia. Colpito al fianco destro da una pallottola vagante mentre viaggiava a bordo di una jeep lungo la strada che da Mogadiscio porta a Balad, il gladiatore siciliano ha perso la vita il giorno successivo all'emissione, da parte della magistratura di Caltanissetta, di 17 ordini di custodia cautelare contro gli assassini del giudice Falcone. Dentro quell'inchiesta l'ombra dei servizi segreti non ha mai fatto mancare la sua presenza. Ascoltato dal sostituto procuratore di Roma Francesco Nitto Palma, Fornaro invece ha raccontato: "Per un breve periodo si pensò di utilizzare la struttura in funzione anti-criminalità organizzata e, in tal ambito, mi recai in Sicilia e gestii personalmente i collegamenti con i gladiatori locali". Già, perché in Sicilia erano stati arruolati da Gladio 11 agenti, dislocati tra Messina, Palermo, Giardini Naxos, San Piero, Patti e Catania. A questi ne andrebbero aggiunti altri 12, ritenuti però dal SISMI "inattivi". Secondo l'ammiraglio Fulvio Martini, capo del SISMI dal 1984 al 1991, i gladiatori in Sicilia sono stati solo cinque, più sei supplenti. A partire dal potenziamento della rete clandestina, avvenuta nel 1984, Giadio ha potuto disporre in Sicilia di ben 12 punti di appoggio [1]. Come questa, ufficialmente piccola, composita rete di Gladio dovesse operare in Sicilia sia nel caso del suo utilizzo in funzione anti-invasione, sia nella lotta alla mafia, è tuttora un mistero. L'unico dato certo è che proprio l'impiego dei gladiatori anti-cosche costò, agli inizi del 1991, il posto di direttore del SISMI a Martini. Andreotti, infatti, nell'apprendere che il SISMI aveva attivato questa struttura per contrastare Cosa nostra, ufficialmente a partire dal 10 agosto, molto probabilmente assai prima, andò su tutte le furie e in una drammatica seduta alla Camera arrivò a denunciare un uso illegittimo e senza autorizzazioni governative di tale struttura. Nella migliore delle ipotesi infatti resta da approfondire in particolare un punto: se ai gladiatori siciliani erano stati assegnati dal SISMI - ma all'insaputa del presidente dei Consiglio - compiti informativi e di infiltrazione nelle cosche, con che metodi gli uomini di Gladio dovevano agire? Chi esercitava su di loro un adeguato controllo? E che fine facevano le informazioni raccolte? Nel capitolo dei legami esistenti tra servizi segreti e criminalità organizzata c'è infine da chiedersi quali furono gli effettivi rapporti che si stabilirono tra gladiatori e mafiosi, tra volontari agli ordini di strutture dello Stato e uomini di Cosa nostra. E c'è poi una domanda cruciale che attende ancora una risposta: è vero che Gladio offrì collaborazione all'alto commissario Domenico Sica? La circostanza è stata confermata dal generale Mario Benito Rosa al giudice Saviotti della procura di Roma, nel corso di un interrogatorio. E' bene ricordare che nel suo tentativo di incastrare il sostituto procuratore di Palermo Alberto Di Pisa nella vicenda delle lettere anonime del corvo, Sica si giovò dell'apporto di tecnici del SISMI che pasticciarono ampiamente sulle impronte estorte dall'alto commissario al magistrato. La scelta di affidare proprio al SISMI l'analisi di quelle impronte aveva a che fare con Gladio? Sandro Provvisionato - Segreti di mafia - Laterza, Bari 1994. <http://www.misteriditalia.com/lamafia/cosa-nostra/misteri-palermo/> strane-morti/download/La-strana-morte.rtf - Bene. Ripasso veloce alla voce Ilaria Alpi: Mandolini e Li Causi. "Non è la parola "fine" che molti pensavano (o speravano) per chiudere definitivamente il caso. La sentenza con cui, il 26 giugno scorso, la seconda Corte d'Assise d'Appello di Roma ha ridotto a 26 anni di reclusione la pena per Hashi Omar Hassan, il somalo ritenuto uno dei killer di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, lascia aperte tutte le strade. In particolare, non affossa la tesi dell'omicidio premeditato. Ne è convinto l'avvocato Domenico d'Amati, legale dei coniugi Alpi. "Ho letto la motivazione", dice d'Amati. "Ci sono indicazioni che devono essere tenute ben presenti. La prima: le prove sull'esistenza dei mandanti ci sono già, ma al momento non sono processualmente utilizzabili, poiché si tratta di informazioni fornite da fonti che la Digos di Udine e il Sisde non vogliono svelare. Sono due persone diverse, entrambe giudicate attendibili, che - come mandanti - indicano concordemente i membri di un gruppo affaristico composto da italiani e da somali, individuati con nomi e cognomi". "Se, ora, queste notizie non possono essere utilizzate come prove a carico di qualcuno", continua d'Amati, "possono, anzi devono, costituire degli stimoli a indagare con rinnovato slancio. Infine, trasmettendo al pm romano Franco Ionta i verbali delle deposizioni di Gianpiero Sebri e dell'ex dirigente del Sismi Luca Rajola Pescarini (il primo ha confermato in aula di aver incontrato l'ex generale, che gli avrebbe detto: "È stata sistemata la giornalista comunista"; il secondo ha negato con decisione di conoscere Sebri; la Procura indagherà per falsa testimonianza), la Corte offre un'ulteriore opportunità di far luce sulla tragedia. Io continuo a pensare che il 20 marzo 1994, Ilaria e Miran siano stati uccisi a Mogadiscio per bloccare i servizi realizzati nelle ore precedenti a Bosaso, nel Nordest della Somalia". L'avvocato d'Amati promette battaglia. "Sto sentendo testimoni preziosi, sto raccogliendo riscontri. E mi chiedo: la Digos di Udine e il Sisde non hanno voluto svelare le loro fonti per garantirne l'incolumità; perché non sono state ancora inserite in un programma di protezione? L'omicidio di due giornalisti, poi, è di per sé stesso un attacco alla libertà di stampa, una minaccia al sistema democratico: come mai polizia, servizi segreti e Procura di Roma sembrano seguire l'evoluzione di questo caso con un sentimento a metà tra il fastidio e la rassegnazione? Confido che, proprio a partire dagli spunti forniti dall'ultima sentenza, sia il pm Ionta che la Digos di Roma, chiamata a svolgere le indagini, intensifichino i loro sforzi per arrivare finalmente alla verità". Che la Somalia, in quegli anni, fosse un esplosivo crocevia di traffici d'armi, di rifiuti tossici e scorie radioattive lo hanno dichiarato d'altronde numerosi personaggi sentiti da diverse Procure. Dal 1998 Famiglia Cristiana tenta di mettere insieme i tanti tasselli del puzzle. Ora, questo lavoro giornalistico è diventato libro. Alcuni degli elementi raccolti, finora inediti, rimandano ad altri omicidi irrisolti. Altre morti sospette È il caso, ad esempio, di un messaggio inviato il 9 novembre 1989 dal Sios (Servizio informazioni) Carabinieri Alto Tirreno-La Spezia al Centro Scorpione di Trapani, la sede siciliana di Gladio comandata dal maresciallo Vincenzo Li Causi, anche lui morto in Somalia in circostanze mai del tutto chiarite, pochi mesi prima di Ilaria Alpi, il 12 novembre 1993. Secondo il diario del maresciallo dei carabinieri Francesco Aloi, i due si conoscevano, si scambiavano informazioni ed erano preoccupati per la loro vita. Il documento è classificato come riservato: "Nostro operatore Ercole", vi si legge, "est accreditato presso ufficio sped. Oto Melara La Spezia. Est confermato invio materiale vostro Centro come da n. 101/0. Confermata data spedizione. Disporsi adeguate ed efficienti misure copertura visiva in area per detto periodo. Per particolare riservatezza operazione richiedesi presenza Capo Centro Vicari. Eventuali difficoltà mi siano immediatamente esposte avvalendosi mezzi più solleciti. Ulteriori comunicazioni in cifra. Trasferimento da farsi con mezzi di superficie M.M. (Marina militare, ndr) per vostro deposito Favignana. Vostro specifico materiale est trasferito adiacenze ospedaliere Lenzi-Napola. Est necessario attivazione temporanea campo Milo. Immediata risposta in cifra". "Ercole" sulla via della Somalia Tradotto in un italiano non militare, il dispaccio afferma che "Ercole" sta per effettuare il trasporto di materiale proveniente dall'Oto Melara, un'industria bellica spezzina, destinato al Centro Scorpione. Data la delicatezza dell'operazione, viene richiesta la presenza del capo Centro, Vicari, che da fonti ufficiali risulta essere il nome di copertura di Vincenzo Li Causi. Il campo Milo, invece, dovrebbe essere il vecchio aeroporto militare di Trapani, ormai in disuso ma riattivabile all'occorrenza in poche ore. E proprio su una pista militare vicina a Trapani, ufficialmente abbandonata, il giornalista Mauro Rostagno, fondatore della comunità terapeutica Saman e anche lui vittima di un omicidio mai chiarito, avvenuto il 26 settembre 1988, avrebbe girato clandestinamente un filmato con immagini di aerei militari italiani intenti a scaricare aiuti umanitari e a imbarcare casse di armi. Lo stesso Rostagno, poco prima di morire, ne aveva parlato con alcune persone, tra cui l'amico Sergio Di Cori e, sembra, il giudice Giovanni Falcone. Quelle casse, secondo Rostagno, erano destinate proprio alla Somalia. Chi è veramente Ercole? C'è dell'altro. "L'operatore Ercole", secondo quanto riferito a Famiglia Cristiana da una fonte riservata, "sarebbe il maresciallo Marco Mandolini". Mandolini era un paracadutista-incursore della Folgore, addestratore dei corpi speciali alla base Nato di Weingarten, in Germania, e nel '92 caposcorta del generale Bruno Loi in Somalia. Mandolini è stato ucciso il 13 giugno 1995 su una scogliera di Livorno, con 40 coltellate e la testa fracassata da una pietra di 25 chili. Omicidio irrisolto, anche se la Procura, nonostante lo scetticismo di familiari e commilitoni, aveva collegato la sua morte a un giro di omosessuali. Ma proprio il maresciallo Aloi, nel suo diario, aveva scritto: "È morto anche il maresciallo Mandolini, non c'è male come sceneggiata. Solo un incursore può uccidere un altro incursore". Secondo il fratello Francesco, Marco Mandolini era molto amico di Vincenzo Li Causi fin da quando avevano frequentato insieme un corso a Capo Marrargiu, dove si addestravano gli uomini di Gladio, e, come Li Causi, aveva collaborato con il Servizio segreto militare. È un'altra pista investigativa da approfondire. Tra le tante. fonte: Famiglia Cristiana n.36 del 8-9-2002 Riporto anche un frammento del contributo di tal Ciancarella: Forze Armate: cosa sta accadendo? Un filo rosso da Ustica alla Somalia Somalia. Un Generale, il Gen. Loi, ottiene il reale controllo della situazione, secondo quelle che pensava fossero le pur incerte direttive politiche, ed adattandosi ad una situazione di ambiguità verso le due parti in lotta -Aidid ed Alì Mahdi-, che i poteri politici, l'ONU in primis, non intendono sciogliere con scelte di trasparenza. Ha immediatamente la possibilità di catturare Aidid, ma si scontra con la sconcertante volontà americana di non dare seguito a nessun arresto del genere. E dunque realizza un tacito trattato di "pacifica convivenza", certificato da corrispondenze con il leader somalo. I miliziani di Aidid "vegliano", anche con un corrispettivo in denaro, sulla "sicurezza" dei nostri soldati, in specie durante i turni notturni al Check-Point Pasta. Avviene, improvviso, un durissimo scontro con gli americani e con l'emissario dell'ONU. Quel Kofi Annan, ghanese e tuttavia figlioccio dello zio Sam, che qualche mese più tardi avrebbe assunto il ruolo di Segretario Generale. Indisciplina alle disposizioni del Comando di Teatro si dirà, senza che mai alcun giornale o politico o ministro ci abbia detto che si stava procedendo ad esautorare la autorità e capacità di controllo del territorio, alterando -non ufficialmente ma occultamente e per scopi inconfessabili- l'equilibrio raggiunto sul campo. Accordi inconfessati con la parte più disponibile -quella di Alì Mahdi- a vendere l'anima per ottenere il potere futuro sul Paese, prevedendo traffici illeciti di sostanze tossiche e radioattive e materiali militari, come caparra dei contratti futuri per lo sfruttamento delle risorse della Somalia e per la destinazione di quei territori a pattumiera di rifiuti tossico-nocivi prodotti dai nostri Paesi. Il nostro rappresentante diplomatico "vedeva", o "sapeva"? Comunque "consentiva", senza dare alcuna informazione o direttiva al nostro contingente. Arriva in Somalia un "pezzo da novanta" di quella struttura deviata che fu ed è Gladio (al servizio di tutti meno che del nostro Paese), per garantire una "presenza italiana" nell'affare: il Maresciallo (formalmente) o meglio il Colonnello (sostanzialmente) Li Causi, che sarà poi giustiziato per strada a Mogadiscio, se dai suoi stessi controllori o dalla parte avversa non è dato sapere per assoluta mancanza di indagini. La fazione di Aidid, meno disponibile forse perché maggiormente carica di un legittimo "orgoglio nazionale", si sente truffata e reagisce. Con violenza. Dieci nostri ragazzi pagano nel sangue la rinnovata scelleratezza politica. Una abitudine terribile alla passività di fronte alla superiorità gerarchica induce Loi a tacere e subire la sostituzione con il Gen. Fiore. La missione di pace è divenuta improvvisamente un luogo di "guerra sporca", dove i violenti che sono quasi sempre dei vili, trovano finalmente terreno fertile per la esplosione di ogni più turpe istinto. E nascono gli Ercole, certi di impunità perché troppo alti gli interessi e delicati gli equilibri di potere che entrerebbero in gioco se si dovesse indagare fino in fondo sulle loro "eroiche gesta". Mario Ciancarella http://members.xoom.virgilio.it/tabularasa2/1997/5_ciancarella.htm poi, dal sito di Capitano Ultimo, “ESCLUSIVO / CASO ALPI Ecco perché è morta Ilaria Tangenti, traffico d'armi e rifiuti tossici: l'ultima pista della giornalista Rai Ilaria Alpi in Somalia Diversi documenti e testimonianze affermano che la Alpi stava arrivando al cuore dei malaffari che legavano la Somalia all'Italia e ai Paesi dell'Est, dai quali provenivano gli armamenti, pagati col permesso di seppellire in loco le sostanze nocive. di BARBARA CARAZZOLO, ALBERTO CHIARA e LUCIANO SCALETTARI Il premio Saint Vincent ai nostri inviati Barbara Carazzolo, Alberto Chiara e Luciano Scalettari, gli inviati di Famiglia Cristiana che da due anni e mezzo stanno conducendo l'inchiesta sul caso Alpi, hanno vinto l'edizione 2000 del prestigioso Premio Saint Vincent (ex aequo con Espresso e Panorama) per il servizio pubblicato dal nostro giornale nel giugno 1999. Il 29 maggio, al Quirinale, il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, consegnerà il riconoscimento. Da anni custodisce i suoi segreti. Segreti di morte. Quale mistero nasconde Bosaso, piccola città del Nord-Est della Somalia affacciata sul golfo di Aden, ridotta a un ammasso di rovine da 10 anni di guerra civile? Quale mistero ha intravisto Ilaria Alpi, inquietante al punto da costarle la vita? Un fatto è certo: tra il 16 e il 20 marzo 1994 la Alpi lavorò a Bosaso con l'operatore Miran Hrovatin. Qualche ora dopo aver rimesso piede a Mogadiscio, i due giornalisti furono uccisi in un agguato condotto da sette killer. Cosa videro, esattamente? La domanda è senza risposta, perché da allora omissioni, coperture, depistaggi, silenzi hanno impedito ai familiari, e a tutti gli italiani, di sapere. Nonostante ciò, sono molti gli indizi che meritano ulteriore attenzione e che potrebbero gettare luce sull'intera vicenda. Oltre due anni di lavoro permettono a Famiglia Cristiana di pubblicare elementi utili a squarciare il velo sui malaffari che hanno visto intrecciarsi a Bosaso traffici d'ogni genere: armi, rifiuti tossici, scorie radioattive, tangenti e riciclaggio di denaro sporco. In questo intricato scenario potrebbero nascondersi movente e mandanti del duplice omicidio. Marzo 1994. Ilaria Alpi sta seguendo tracce di questi traffici illegali. Al processo celebratosi un anno fa contro Hashi Omar Hassan (accusato dell'omicidio, ma definito dalla seconda Corte d'assise di Roma "un capro espiatorio", e quindi assolto; a ottobre ci sarà l'appello), qualcuno ha sostenuto che Ilaria e Miran giunsero a Bosaso per caso. È invece vero il contrario. La loro, fu una scelta voluta. "Ilaria intendeva da tempo recarsi a Bosaso", dichiara a Famiglia Cristiana Alberto Calvi, l'operatore Rai che la accompagnò in Somalia per ben quattro volte (la prima nel 1992, le rimanenti nel 1993): "Non ci andammo prima perché impegnati a seguire i fatti di cronaca a Mogadiscio e perché non avevamo soldi e scorta a sufficienza; c'era il rischio di lasciarci la pelle". Anche i genitori non hanno dubbi: "Che Ilaria volesse andare a Bosaso, lo provano gli appunti da lei scritti prima di partire per il suo ultimo viaggio e ritrovati in redazione, a Roma". Il suo caporedattore al Tg3, Massimo Loche, ha dal canto suo confermato in udienza che "sin dalla partenza da Roma Ilaria aveva intenzione di recarsi a Bosaso". Di Bosaso, e del rilievo che assume in relazione a diversi affari illeciti, parla inoltre Guido Garelli, uno "007" abituato a muoversi con disinvoltura sullo scacchiere internazionale, uomo dal passato avventuroso. Garelli dichiara di aver lavorato soprattutto per l'intelligence dell'Autorità territoriale del Sahara (l'area che da anni punta a staccarsi dal Marocco, amministrata dal Fronte Polisario), ma è considerato da molti vicino anche ai servizi segreti statunitensi e italiani. Il 27 maggio 1999, in una lettera scritta a Famiglia Cristiana dal carcere in cui è attualmente detenuto, Garelli racconta che il 4 maggio 1994, nemmeno due mesi dopo il duplice omicidio, a Nicosia, nell'isola di Cipro, incontrò Ilija Fashoda, "un cittadino somalo, in possesso di passaporto jugoslavo", con il quale parlò del delitto. "Lei ficcava il naso negli affari del sultano" L'uomo gli disse: "Ero al Nord della Somalia mentre quella giornalista ficcava il naso negli affari di Bogor, il sultano di Bosaso, e immaginavo che l'avrebbero minacciata di non andare più in là di tanto. Quello che di sicuro le ha creato dei problemi è il fatto di aver "grattato" le questioni della cooperazione. Ho saputo con certezza", è sempre Fashoda che parla, "che la giornalista aveva ripreso delle scene nel Nord della Somalia, con delle lunghe carrellate sulle casse di materiale in mano alle "bande" di Bosaso: tu sai che origine avevano quelle armi, no?". Garelli non dice se ha replicato. Alcune risposte si trovano invece nell'inchiesta condotta dalla Procura di Torre Annunziata, in provincia di Napoli (pm Paolo Fortuna), e dai Carabinieri di Vico Equense, al comando del maresciallo Vincenzo Vacchiano, i cui atti all'inizio del 1999 sono stati trasmessi alla Procura di Roma e consegnati al pm Franco Ionta, titolare delle indagini sulla morte dei due giornalisti. "Siad Barre voleva armi ad alta tecnologia" Diversi testimoni raccontano agli inquirenti un articolato sistema di traffici di armi, rifiuti pericolosi e scorie radioattive, i cui proventi alimentavano in parte conti neri o finivano in tangenti. Un sistema gestito da faccendieri italiani e stranieri, che chiamano in causa complicità politiche legate in special modo all'area socialista. Testimoni e faccendieri fanno ripetutamente i nomi di Paolo Pillitteri e di Pietro Bearzi, all'epoca rispettivamente presidente e segretario generale della Camera di commercio italosomala, stretti collaboratori di Bettino Craxi, nonché i nomi di uomini dell'Intelligence dell'Italia e di altri Paesi. In particolare, gli investigatori di Torre Annunziata, sulla base del materiale raccolto, ritengono che Ilaria Alpi possa essere stata uccisa non tanto per aver raccolto informazioni e prove su presunti trasporti di armi fatti con i pescherecci della società italo-somala Shifco, quanto per aver scoperto a Bosaso depositi di armi trasportate da Hercules C-130 italiani e ancora recanti l'indicazione della loro provenienza dai Paesi dell'Europa orientale. A indicare questa pista è soprattutto l'imprenditore Francesco Corneli, ritenuto vicino ai servizi segreti siriani, nonché ex collaboratore esterno del Sisde (servizio segreto civile italiano), ascoltato più volte nel giugno 1997. Corneli aggiunge dettagli inediti: sostiene che per fronteggiare la guerra civile che lo vedeva perdente, il dittatore somalo Siad Barre, tra il 1990 e il 1991, chiese ai suoi referenti socialisti in Italia di procurargli "armamenti di alta tecnologia ". Secondo Corneli, il Psi si accordò con il Pci, per aprire un canale di rifornimento con i Paesi del blocco orientale. "Allora e negli anni successivi", conclude Corneli, "armi provenienti dall'Europa dell'Est furono veicolate attraverso l'Italia con voli militari che giungevano in Somalia". Il 7 agosto 1997 un altro testimone, Marco Zaganelli, dichiara: "Nel periodo in cui sono stato in Somalia, io e tanti altri abbiamo notato con cadenza settimanale la presenza di aerei militari non identificati del tipo Hercules che scaricavano armi in Somalia". Che Bosaso fosse importante non soltanto per il suo porto, ma anche perché vi potevano tranquillamente atterrare aerei militari da trasporto, ci è stato confermato di recente da Guido Garelli. Armi, insomma. Dall'Italia alla Somalia, via mare e via cielo. Così nel 1992, nel 1993 e anche nel 1994, sotto gli occhi della missione Onu. Ne parla diffusamente il collaboratore di giustizia Francesco Elmo, che ha lavorato nello studio di un avvocato svizzero, a Lugano, dai cui uffici transitavano documenti relativi a questi traffici (da lui spesso "intercettati") e alle relative operazioni bancarie. Francesco Elmo ha altresì precisato che le armi non finivano soltanto alle fazioni somale in lotta tra loro, ma pure ad altri Paesi ("Eritrea, Yemen del Sud, Sudan"), oltreché ai guerriglieri palestinesi, irlandesi (Ira) e baschi (Eta). Nel corso di indagini diverse, altri inquirenti avevano d'altronde acquisito un documento datato settembre 1992 che ricostruiva, traccia dopo traccia, una spedizione di componenti di carri armati Leopard 1 e Leopard 2 fabbricati da una ditta tedesca, partiti dal porto di La Spezia e arrivati a Mogadiscio (ma forse destinati a rifornire gli arsenali dell'Iran o dell'Irak). Perfino il generale Carmine Fiore, comandante del contingente italiano in Somalia fra il 1993 e il 1994, in un interrogatorio a Torre Annunziata, il 3 dicembre 1997, ammette che "in quel periodo entravano senz'altro armi, specie dalla strada costiera che dal porto di Obbia arriva a Mogadiscio. Il traffico di armi avveniva con mezzi navali e anche con piccoli aerei che atterravano su una striscia di terra battuta ubicata a circa 40 chilometri a Nord-Est di Mogadiscio". Che i loschi affari fossero in pieno svolgimento proprio nell'anno in cui vennero uccisi Ilaria e Miran, lo sostiene anche Francesco Elmo. Nel suo memoriale del 22 agosto 1997 dice: "Nel 1994 un gruppo di personaggi di area socialista erano posti alla regìa di una vendita di armamenti "libici" alla Somalia ". Elmo fornisce pure dettagli circa la rotta della nave che li trasportava. Armi, ma non solo. Nei giorni precedenti la sua partenza per Bosaso, Ilaria incontra Faduma Mohammed Mamud, figlia dell'ex sindaco di Mogadiscio, definita dai giudici della seconda Corte d'assise di Roma teste "attendibile e disinteressata ". Nell'aula-bunker di Rebibbia, il 16 giugno 1999, Faduma racconta: "Ilaria mi aveva detto che seguiva una certa pista, una pista abbastanza pericolosa... Era una questione delicata, di cui non dovevo parlare con nessuno, salvo con qualche persona che poteva aiutarci, di cui potevo fidarmi ciecamente... Lei si interessava a certe cose orrende che venivano fatte sulle coste somale. Aveva appreso che erano stati scaricati rifiuti tossici; cose che noi sapevamo già. Ma eravamo impotenti, non potevamo farci niente". "Io le ho detto", prosegue Faduma, "che dal 1988 le cose avevano cominciato ad andare alla deriva; non avevamo guardiacoste, non avevamo niente. Avevo sentito che in quasi tutto il litorale somalo, a Merca, a Mogadiscio, a Obbia, nel Moduk, in Migiurtinia (l'area di Bosaso, ndr) erano sepolti dei fusti di cui non si conosceva il contenuto. Ho inoltre fatto notare a Ilaria che erano comparse in Somalia delle malattie nuove, e che si erano registrate morie di pesci". La deposizione di Faduma trova riscontro nelle informazioni rese agli investigatori da Marco Zaganelli il 7 agosto 1997: "Tra il 1987 e il 1989 mi chiamò una persona che conoscevo, prospettandomi un grosso affare, perché era stato contattato da alcuni italiani, i quali dovevano sbarazzarsi di un carico di container fermi al porto di Castellammare di Stabia o a quello di Gioia Tauro, contenenti rifiuti tossici o radioattivi, e volevano un referente capace di riceverli e sotterrarli in un'area desertica della Somalia. Successivamente seppi che un carico di materiale radioattivo era stato portato in Somalia e i contenitori sotterrati in un'area desertica nel Nord del Paese". Il 24 marzo 1999, in una delle sue lettere inviate a Famiglia Cristiana, Guido Garelli accenna all'omicidio dei due giornalisti. "Ilaria Alpi", scrive, "aveva delle informazioni buone, forse molto buone. Ritengo che abbia avuto qualcuno che le ha dato la possibilità di vedere copie di rapporti... Bisognerebbe sentire con quali accordi si è giunti a concedere l'uso di parti del territorio somalo, etiopico ed eritreo per interrare rifiuti", operazioni che sono condotte, stando al Garelli, da "banditi vestiti con le divise più strane e variegate", insieme a "membri di organismi di informazione e sicurezza domestici e più in generale occidentali, operanti a mezzo servizio per conto di imprese pubbliche e private delle potenze industriali". Più avanti, nel corso della stessa lettera, Guido Garelli annota: "Ilaria Alpi ha toccato il segreto più gelosamente custodito in Somalia, lo scarico di rifiuti pagato con soldi e armi da non meno di vent'anni. La regìa di tutto questo è appannaggio dei servizi d'informazione coinvolti in quello che è sicuramente il business più redditizio del momento. Non mi riferisco solo al Sismi (servizio segreto militare italiano, ndr) e al Sisde; vi sono anche gli organismi omologhi dei Paesi che hanno "usato" vari Stati dell'Africa per smaltire porcherie". Il 30 aprile 1999, citando un rapporto da lui stesso stilato nel marzo 1994, poco dopo la tragedia, Garelli ricorda che ipotizzò sin da subito l'intervento dell'Intelligence italiana e somala nella vicenda, perché "era chiaro che Ilaria era capitata su uno dei punti sensibili che la Somalia cercava affannosamente di proteggere e che l'Italia aveva la necessità di coprire". Nell'informativa, Garelli rammenta di aver messo in evidenza "il rapporto che esisteva tra il traffico di rifiutie la fornitura d'armi". Alpi, Li Causi, Rostagno: intrecci sospetti Da Mogadiscio a Trapani Lugubre matrioska, la Somalia cela misteri nel mistero. Ci sono tre nomi, e altrettanti delitti, che si legano: Ilaria Alpi, Vincenzo Li Causi, Mauro Rostagno. La giornalista della Rai venne assassinata insieme all'operatore Miran Hrovatin a Mogadiscio, il 20 marzo 1994. Vincenzo Li Causi, uomo del Sismi (servizio segreto militare italiano), per un certo tempo attivo presso la struttura di Gladio operante a Trapani (il centro Scorpione), fu ucciso a Balad, in Somalia pochi mesi prima: era il 12 novembre 1993. Mauro Rostagno, ex leader di Lotta Continua, giornalista e fondatore, insieme a Francesco Cardella, della comunità Saman per il recupero dei tossicodipendenti, venne trucidato nei pressi di Trapani il 26 settembre 1988. Questi omicidi, apparentemente senza nesso tra loro, hanno un comune denominatore: la Somalia. Secondo quanto dichiarato ai magistrati da Carla Rostagno, sorella di Mauro, il fratello avrebbe visto e filmato l'arrivo a Trapani, in un aeroporto abbandonato (già usato da un gruppo di Gladio), di velivoli militari italiani da trasporto che scaricavano aiuti umanitari per imbarcare armi e ripartire. Rostagno avrebbe dato copia della registrazione a Francesco Cardella. "Li stiamo armando invece di aiutarli" Tutte queste circostanze sono state confermate da Sergio Di Cori, giornalista amico di Rostagno che ne raccolse le confidenze nell' 88, prima che questi fosse ucciso. "Quelle armi vanno in Somalia", gli disse con sicurezza Rostagno: "Noi stiamo armando la Somalia mentre ufficialmente stiamo aiutando quei poveri cristi". Dall'inchiesta Cheque to cheque, condotta dalla Procura di Torre Annunziata, è emerso che esistevano rapporti dei servizi segreti italiani sulla morte di Rostagno ordinati da Bettino Craxi. Copia di essi fu ritrovata durante una perquisizione della sede romana del gruppo craxiano Giovane Italia. Cardella conosceva l'ex segretario del Psi; Giuseppe Cammisa, stretto collaboratore di Cardella, era in Somalia nei giorni della morte della Alpi e di Hrovatin: Cardella l'aveva inviato perché si occupasse di aiuti umanitari e della costruzione di un ospedale a Bosaso. Anche sulla morte di Vincenzo Li Causi non è stata fatta finora piena luce. Si sa che operò per Gladio a Trapani, che dal 1991 il Sismi lo aveva inviato ripetutamente in Somalia e che il 12 novembre 1993 morì in un agguato dalla dinamica strana, compiuto da "banditi" somali. Stando ad alcune testimonianze raccolte da inquirenti italiani, Li Causi si sarebbe interessato all'operazione Urano (un grosso progetto di smaltimento di rifiuti tossiconocivi e di scorie nucleari, in Somalia e in altri Paesi africani) e avrebbe manifestato una crescente inquietudine. S'è confidato con Ilaria Alpi? Secondo il maresciallo dei Carabinieri Francesco Aloi, che prestò servizio presso il comando della missione Ibis in Somalia, i due si conoscevano. Che Ilaria avesse contatti professionali con un uomo del Sismi in Somalia l'hanno anche affermato, senza però specificarne il nome, l'operatore della Rai Alberto Calvi e Giancarlo Marocchino, un imprenditore italiano a lungo presente in Somalia dall'84 al '99. BarbaraCarazzolo , Alberto Chiara , Luciano Scalettari Maria Lina Veca ILARIA ALPI: INTRECCI SOSPETTI E' sottile il filo nero che lega tre esecuzioni avvenute a distanza di tempo tra di loro e che hanno sullo sfondo una paese che cela troppi segreti: la Somalia. Le esecuzioni sono tre, ma i morti quattro: la giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e il suo operatore Miran Hrovatin, assassinati a Mogadiscio il 20 marzo 1994; L'uomo di Gladio Vincenzo Li Causi, agente del SISMI, il servizio segreto militare italiano, ucciso a Balad, in Somalia pochi mesi prima: il 12 novembre 1993; Mauro Rostagno, ex leader di Lotta Continua, giornalista e fondatore, insieme a Francesco Cardella, della comunità Saman di Trapani per il recupero dei tossicodipendenti: fu trucidato davanti alla comunità la notte del 26 settembre 1988. Lo scenario di questo intreccio è stato ricostruito dal settimanale Famiglia Cristiana. Questi delitti, apparentemente senza nesso tra loro, sarebbero - secondo quanto ha dichiarato ai magistrati Carla Rostagno, sorella di Mauro - intimamente intrecciati. Stando alla donna, il fratello avrebbe visto e filmato l'arrivo a Trapani, in un aeroporto abbandonato (già usato sia dalla mafia siciliana per il traffico di droga che da un gruppo di Gladio, il Centro Scorpione, di velivoli militari italiani da trasporto che scaricavano aiuti umanitari per imbarcare armi e ripartire. Rostagno avrebbe dato copia della registrazione a Francesco Cardella. Tutte queste circostanze sono state confermate da Sergio Di Cori, giornalista amico di Rostagno, che ne raccolse le confidenze nell'88, prima che questi venisse ucciso. Anche sulla morte di Vincenzo Li Causi non è stata fatta finora piena luce. Si sa che dal 1991 il Sismi lo aveva inviato ripetutamente in Somalia e che il 12 novembre 1993 morì - come Ilaria e Miran - in un agguato dalla dinamica strana, compiuto da "banditi" somali. Stando ad alcune testimonianze raccolte da inquirenti italiani, Li Causi si sarebbe interessato all'operazione Urano (un grosso progetto di smaltimento di rifiuti tossici nocivi e di scorie nucleari, in Somalia e in altri Paesi africani) e avrebbe manifestato una crescente inquietudine. Stando al maresciallo dei Carabinieri Francesco Aloi, che prestò servizio presso il comando della missione Ibis in Somalia, i due si conoscevano. Che Ilaria avesse contatti professionali con un uomo del SISMI in Somalia l'hanno anche affermato, senza però specificarne il nome, l'operatore della Rai Alberto Calvi e Giancarlo Marocchino, un imprenditore italiano a lungo presente in Somalia dall'84 al '99. Secondo altre fonti punti di riscontro con l'omicidio Alpi/Hrovatin ci sarebbero anche con la tragedia del Moby Prince (1991) e con la scomparsa, nel 1994, dell'elicottero della Finanza, nome in codice Volpe 132, svanito nel nulla, durante una missione sulle coste sud orientali della Sardegna. A bordo c'erano il maresciallo Gianfranco Deriu e il pilota, il brigadiere Fabrizio Sedda” <http://www.capitanoultimo.it/d/ambientes1.htm> A questo punto, cerco connessioni tra la storia Moby Prince e il caso Alpi. Ma qui trovo solo illazioni, e un paio di proposte d'inchieste parlamentari che non so che fine abbiano fatto. A questo punto però ci è cascata dentro anche la Moby Prince. Bene, c'è tutto. Ilaria Alpi, la Somalia, la Moby Prince, Cosa Nostra, Gladio, il caso Rostagno. Sembra che in qualche modo tutti questi casi irrisolti degli ultimi anni siano collegati. Tanti di quei morti per caso o sfortuna da perderci la testa. Comunque, ecco qui le proposte d’inchiesta parlamentare: “Assegnazione di una proposta d'inchiesta parlamentare a Commissione in sede referente. A norma del comma 1 dell'articolo 72 del regolamento, la seguente proposta d'inchiesta parlamentare e deferita alla III Commissione permanente (Affari esteri), in sede referente: PROPOSTA D'INCHIESTA PARLAMENTARE GAMBALE ed altri: "Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sui traffici internazionali di armi e di armamenti nei porti e nei mari italiani, con particolare riferimento al disastro della nave Moby Prince, all'uccisione dei giornalisti Ilaria Alpi e Mirian Hrovatin e all'affondamento del motopeschereccio Francesco Padre" (doc. XXII, n. 22) Parere delle Commissioni I, II, IV, V e IX. <http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/stenografici/sed089/acom.htm> Annunzio di una proposta di inchiesta parlamentare. In data 18 giugno 1996 è stata presentata alla Presidenza la seguente proposta di inchiesta parlamentare d'iniziativa del deputato PISTONE: "Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sui traffici internazionali di armi e di armamenti nei porti e nei mari italiani, con particolare riferimento al disastro della nave Moby Prince, all'uccisione dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e all'affondamento del motopeschereccio Francesco Padre" (doc. XXII, n. 12). A questo punto due percorsi mi rimangono in sospeso: L’abbattimento dell’elicottero Volpe 132 L’affondamento della Moby Prince e del peschereccio Francesco Padre
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Partiamo dall’elicottero. FILE: VOLPE 132
Sembra sempre più una storia sul triangolo delle Bermude... Questa volta sparisce un elicottero. Le connessioni sono via via più labili...ma esistono. E di Volpe 132 si parla sul sito di "Chi l'ha visto?" (giuro...) <http://www.chilhavisto.rai.it/CLV/misteri/1996-1997/deriusedda.htm> “Alle 18,40 del 2 marzo 1994, l'elicottero Agusta A109 "Volpe 132" della Guardia di Finanza, decolla dall'aeroporto militare di Elmas (Cagliari), per una missione di controllo lungo la costa di capo Carbonara. A bordo, il brigadiere ventinovenne Fabrizio Sedda e il maresciallo Gianfranco Deriu, di 42 anni. Nel campo operativo è presente anche l'unità navale cooperante Colombina. Dopo mezz'ora di volo i piloti segnalano un obiettivo, l'elicottero compie una virata a 360° e sparisce dai tracciati radar. Un testimone, Giovanni Utzeri, telefona poco dopo ai Carabinieri: ha visto esplodere l'Agusta di fronte a capo Ferrato. Al momento non viene creduto, ma il 4 marzo, proprio al largo di capo Ferrato, vengono ripescati un casco, un paio di cuffie con una ciocca di capelli e pochi pezzi dell'elicottero. L'elicottero avrebbe volato a bassa quota per una decina di miglia, e ciò spiega perché i radar non lo avrebbero più seguito. Poi, racconta Utzeri, avrebbe compiuto più giri attorno a una nave porta-containers finché, all'improvviso, sarebbe esploso. Che cosa è successo al "Volpe 132"? Dopo il decollo i piloti comunicano alla motovedetta di avere fuori uso il sistema radio a lunga portata HFSSB e che non è loro possibile mantenere il contatto con la base operativa di Elmas: chiedono, pertanto, di mantenerlo con la Colombina stessa. Già questo, forse, basterebbe ad annullare l'operazione, ma la nave-appoggio accetta e chiede all'elicottero un contatto radio ogni cinque miglia. E' piuttosto strano, sostiene l'ex comandante della Marina militare Aimone Costa, poiché le comunicazioni militari seguono intervalli di tempo, non di spazio. L'Agusta lascia l'ultima traccia radio alle 19,15 e radar alle 19,18: la sua posizione è 131° a nove miglia da capo Carbonara in direzione Sud. La motovedetta tenta un nuovo contatto solo alle 19,20 e continua a chiamare invano fino alle 19,30 quando, inspiegabilmente, sospende ogni tentativo senza lanciare alcun allarme. Non solo. Alle 19,50 la Colombina avverte la base del silenzio radio, ma ancora nessuno lancia l'allarme. I soccorsi, quindi, partono in ritardo. Dopo il ritrovamento dei frammenti a capo Ferrato, le ricerche vengono sospese. Ma altrii frammenti sono stati trovati anche a capo Carbonara da alcuni sommozzatori ingaggiati dai parenti dei piloti. Allora dove è precipitato l'A109? Costa ritiene che, seguendo i frammenti tra capo Carbonara e capo Ferrato, e calcolando le correnti che li hanno trascinati, si potrebbe individuare con accettabile margine il punto dell'impatto. Alcune settimane orsono Gianni Zirottu, un pentito che è stato in passato sotto regime di protezione, si presenta alla redazione del quotidiano La Nuova Sardegna. Questo il suo racconto. La barca di un trafficante d'armi corso parte carico da Olbia diretto a Nuoro. La segue da terra un'auto su cui viaggia anche Zirottu. A Nuoro si incontrano e avviene la prima consegna. Poi barca e auto ripartono per Villa Simius dove sono attese da altri clienti. Mentre l'auto attende l'imbarcazione, Zirottu sente una forte esplosione provenire dal mare: secondo il suo racconto, un elicottero della Finanza aveva intercettato il natante in fase di scarico ed era stato abbattuto con un lanciarazzi portatile Stinger. Zirottu organizza un incontro con il giornalista Pietro Mannironi per mostrargli il luogo dell'abbattimento. Ma il giorno concordato, viene arrestato per furto d'auto e per violenza carnale nei confronti di una minore con cui ha una relazione. Su questa vicenda c'è da registrare un altro oscuro episodio. Il 26 marzo del '94 si scopre che da un hangar della zona industriale di Oristano, nella parte opposta della Sardegna, è stato rubato un Agusta A109 civile identico a quello scomparso. Il 5 maggio, in seguito a una telefonata anonima, l'A109 viene ritrovato a Quartu Sant'Elena, a pochi chilometri dal luogo in cui è scomparso il "Volpe 132", privo di alcune parti. Secondo qualcuno chi ha rubato il velivolo voleva disperdere in mare quei pezzi sottratti, facendo sì che chi li trovasse li credesse frammenti del "Volpe 132": questo allo scopo di depistare le indagini e di avallare la pista dell'incidente. AGGIORNAMENTO (puntata del 17 febbraio 1998) A quattro anni di distanza dalla scomparsa del "Volpe 132" ci sono altre tre persone che confermano il racconto di Giovanni Utzeri, secondo cui il velivolo sarebbe precipitato in mare nei pressi di Capo Ferrato. Dunque a nord del Capo di Carbonara e non a sud, come sembrerebbe emergere dall'inchiesta militare. Il questi anni il testimone Giovanni Utzeri non ha mai cessato di cercare conferme alla sua verità. E le ha trovate in alcuni frammenti di elicottero rinvenuti non molto lontano da Capo Ferrato. I familiari dei due piloti scomparsi continuano a cercare i resti dell'elicottero, nella convinzione che solo il loro ritrovamento possa consentire di far piena luce su quanto accaduto la sera del 2 marzo 1994. Intervenuto in trasmissione, il fratello del Brigadiere Sedda accusa la Procura militare di voler creare falsi presupposti per archiviare l'inchiesta sostenendo che si tratta di un incidente. Della vicenda, intanto, ha cominciato ad occuparsi anche la Commissione Antimafia che chiede spiegazioni sul perché il velivolo si trovasse a nord di Capo Carbonara quando la missione non lo prevedeva. La Commissione vuole anche sapere se sono stati fatti accertamenti sulle dichiarazioni rese da Gianni Zirottu e conoscere il ruolo della nave porta container scomparsa la sera stessa dell'"incidente". <http://www.chilhavisto.rai.it/CLV/misteri/1996-1997/deriusedda.htm> Insomma, sempre lo stesso giochino. Armi che girano, carico e scarico merci, militari... Un altro articolo: “Un elicottero e due militari della Finanza scompaiono una notte di otto anni fa nel mare della Sardegna. Un intreccio di armi, morti ammazzati e depistaggi. I familiari chiedono: Chi li ha uccisi?" "Volpe 132 a Elmas, mi sentite? Passo" "Avanti Volpe 132, vi sentiamo forte e chiaro. Qual'è la vostra posizione?" "Sorvoliamo Capo Carbonara, fra qualche istante saremo sull'obiettivo a Capo Ferrato" "Volpe 132, quale obiettivo?" "…………………………………………….." "Volpe 132, mi sentite? Passo? ……………………………………………… "Volpe 132, mi sentite? Qual è la vostra posizione?" Poco più di otto anni fa, un elicottero della Finanza spariva nel mare di Capo Ferrato, nella costa sud est della Sardegna. Cosa accadde realmente in quella sera di marzo? Era una solo un volo di routine o si trattava di una missione segreta per intercettare un traffico di armi? Perché ci sono stati i depistaggi e le orribili morti in Algeria? Perché i testimoni che hanno visto e hanno parlato non sono stati ascoltati dai magistrati? Partiamo dai fatti. Nel pomeriggio del 2 marzo 1994 l'elicottero della Guardia di Finanza, con a bordo il maresciallo Gianfranco Deriu e il brigadiere Fabrizio Sedda, decolla dalla base dell'aeroporto militare di Elmas. La missione è di normale controllo, "di routine", come affermato in seguito. Alle 19.15, il velivolo ha l'ultimo contatto con Elmas; alle 19.18 scompare dagli schermi radar. Negli stessi istanti la "Jadran Express", nave da carico, incrocia nel Mediterraneo; probabilmente quando l'Agusta A109 scompare, è alla fonda nella zona di Capo Ferrato. La "Jadran Express" è una nave sospetta che viene fermata qualche giorno nell'Adriatico con duemila tonnellate di mitragliatrici, lanciarazzi, bazooka e munizioni. Tutto l'occorrente per la guerra nell'ex-Jugoslavia. Iniziano le ricerche dell'elicottero, ma niente, neanche un rottame. I testimoni, che chiedono inutilmente di parlare con i magistrati, affermano di aver visto una nave portacontainer alla fonda, un elicottero, un bagliore e una violenta esplosione, come un tuono. Ma nessuno gli da ascolto. Uno di questi testimoni, il più attendibile, due giorni dopo viene arrestato per futili motivi, ma fa in tempo, in una intervista, a dichiarare che quella stessa notte avrebbe dovuto avere un incontro con la nave di un trafficante d'armi corso. Si fanno le prime ipotesi: la Finanza parla di guasto, altri di un colpo di Stinger partito dalla nave. Ma cos'è veramente la "Jadran Express"? Come quasi tutte le navi da carico ha cambiato spesso nome, e voci affermano che sia la "Lucina", la nave di Cellino. Quella stessa nave che, nel luglio 1994, diventa teatro di un massacro in Algeria. Una notte, sette marinai napoletani vengono sgozzati mentre dormono sottocoperta nel porto di Djen Djen. Si parla di FIS, di integralismo, ma anche di strani traffici, farina e armi. I misteri s'infittiscono quando la stampa britannica afferma che quello è il porto più sicuro dell'Algeria, e che senza la complicità dei servizi segreti algerini, nessun estraneo sarebbe mai potuto salire a bordo. I familiari di Sedda e Deriu, tentano di parlare con le famiglie dei marittimi, ma gli incontri saltano sempre all'ultimo minuto. La cosa più incredibile è che il 26 marzo sempre del 94, appena 24 giorni dopo la scomparsa di "Volpe 132", da un hangar di una azienda di trasporto di Oristano, viene rubato un Agusta A109, il gemello di quello scomparso a Capo Ferrato. Viene ritrovato poche settimane dopo a Quartu, nei dintorni di Cagliari, parzialmente smontato. Il rischio del depistaggio è concreto, con la seria possibilità che quei pezzi fossero stati gettati in mar per confondere le indagini. Gli autotrasportatori affermano che la società che diede l'ordine di trasportare il prezioso carico, non è mai esistita. Una società fantsma. I misteri continuano. Qualcuno, lo stesso giorno della scomparsa dei due militari, forza gli armadietti personali della base di Elmas. Cercava il telefonino, perché temeva che avessero comunicato qualche cosa durante quell'ultimo sorvolo. Un altro fatto, avvenuto il 17 aprile 2001: il trafficante d'armi russo Alexander Zhukof, viene arrestato al suo arrivo a Olbia dalla DIA, con l'accusa di dirigere le operazioni della "Jadran Express" dalla sua casa in Costa Smeralda. Nel frattempo vengono ritrovati alcuni pezzi, presunti, dell'elicottero ma, stranamente, non vengono fatte le analisi per stabilire se vi siano tracce di esplosivo. Il carico della nave, sequestrato nell'Adriatico, viene trasferito nel porto di Venezia, "dimenticato" nei 133 container fino al 1999, fino a quando viene portato in Sardegna in una base militare della NATO. Ci si mette anche lo Stato e il Governo; Scalfaro e Mancino non rispondono alle lettere delle famiglie, Violante fa sapere di non avere nessun potere sulla magistratura. Qualche anno dopo la tragedia, alla famiglia Sedda arriva una lettera anonima: si sostiene che i due finanzieri sarebbero stati attirati in una trappola, perché si sarebbero rifiutati di interrompere la caccia a una nave che trasportava armi. Sono passati otto anni, ma le acque sono sempre più torbide. I familiari chiedono solo una cosa: "Diteci chi li ha uccisi". Disgrazia o delitto? Federico Marini <http://pinoscaccia.homestead.com/files/Due_morti_dimenticati_e_un_grande_giallo.htm> A questo punto una nave fantasma entra da protagonista nel giallo: la Jadran Express. Ma da lei torno dopo, prima la Moby Prince. FILE: MOBY PRINCE
Ecco qua... <http://misteriditalia.com/altri-misteri/moby-prince/cronaca/> I familiari delle 140 vittime della tragedia di dodici anni fa sono convinti che a Camp Darby sappiano come andarono le cose nella notte del rogo, quando il traghetto urtò la petroliera Agip Abruzzo e in rada c'erano cinque navi Usa di ritorno dalla guerra del Golfo ANGELO MASTRANDREA «Sono convinto che gli americani sanno quanto accadde la notte del disastro della Moby Prince. C'erano quattro navi americane che riportavano alla base di Camp Darby armi e munizioni dalla guerra del Golfo, quella sera nel porto di Livorno. Ed è impensabile che in pieno conflitto e con l'allarme terrorismo da Camp Darby non controllassero quelle imbarcazioni militari». Eppure, nonostante la base Usa venisse considerata «l'orecchio del Mediterraneo», la sera del 10 aprile del `91 non ha visto né sentito il botto e le fiamme sprigionatesi nello scontro tra la Moby Prince, che usciva dal porto, e la petroliera Agip Abruzzo, ormeggiata proprio tra una delle imbarcazioni militari e un'altra petroliera, l'Agip Napoli. Erano le 22,25, i soccorsi arriveranno sulla Moby Prince solo attorno alla mezzanotte e, alla vigilia di una nuova guerra del Golfo e dell'ennesimo imbarco di armi da Livorno, ai familiari delle vittime, cioè tutti quelli che si trovavano a bordo tranne l'unico superstite, il mozzo napoletano Alessio Bertrand, non rimane che accontentarsi del risarcimento danni e di una commemorazione che l'anno scorso è approdata anche allo stadio, quando nella curva delle Brigate autonome livornesi è comparso lo striscione «Moby Prince, 140 vittime, nessun colpevole». Dodici anni dopo, a processi conclusi e reati ampiamente prescritti, Loris Rispoli, presidente di una delle due associazioni delle vittime, fazzoletto bianco di Emergency legato a un pantalone militare e una sorella morta nell'incidente, vede un'inquietante analogia con quanto accadde allora: «L'unica differenza sta nel fatto che allora le navi cariche di armi ritornavano dal Golfo, mentre questa volta sono in partenza». E ancora una volta il porto di Livorno potrebbe trovarsi, malgrado l'opposizione dei portuali, al centro di un traffico militare che non gli competerebbe, legato alla contiguità geografica con la più grande base americana in Europa, punto nevralgico di sbarco e imbarco d'armi e mezzi militari. «Sono stati proprio i traffici di armi a impedire che emergesse la verità», insiste Angelo Chessa, figlio del comandante della Moby Prince e presidente del secondo comitato di familiari delle vittime, che non crede alla versione dei militari e pensa invece che le registrazioni e le foto satellitari esistano eccome, anche perché sulle navi Usa in quei giorni lo stato era di massima allerta. «D'altronde, anche l'allora comandante della Guardia di finanza di Livorno Gentile testimoniò di aver visto quella notte movimenti di navi americane nella rada - racconta, anche se non abbiamo mai saputo con certezza che cosa trasportassero». Di tre sappiamo anche i nomi: Cape Flattery, Cape Breton e Gallant 2. Presenza confermata dagli americani, che anzi correggono: le navi non erano quattro, bensì cinque. E lo fanno rispondendo al consigliere regionale della Margherita Erasmo D'Angelis che chiedeva loro la consegna dei tracciati e delle foto satellitari sull'incidente. Così, il Dipartimento di stato Usa, con una lettera firmata dal capitano di vascello della Marina militare Usa John T. Oliver, capo ufficio responsabile dell'avvocatura militare, scrive da una parte che la base di Camp Darby «non aveva alcun motivo di monitorare il porto di Livorno con un sistema di immagini satellitari» e dall'altro ammette che nel porto si trovavano quella sera «cinque navi merci noleggiate dal comando trasporti militari Usa, una delle quali dovette essere rapidamente allontanata perché minacciata dalle fiamme della Moby Prince». «Chi ci dice che una di queste non abbia ostacolato la manovra?», attacca D'Angelis, al quale, al pari di Rispoli, pare strano che, con cinque navi cariche di armi in rada, «il governo Usa non abbia predisposto un sistema di controllo e di monitoraggio satellitare del porto e soprattutto che non esistesse un sistema di comunicazione in grado di coordinare le operazioni militari in mare tra Camp Darby e la capitaneria». Ma le stranezze non finiscono qui. Nei fascicoli processuali è riportata la comunicazione radio tra una fantomatica nave Therese e un'altrettanto mai identificata nave uno: «This is Therese, this is Therese to ship one in Livorno ancorage, I'm moving on, I'm moving on, I'm moving on» («qui Therese a nave uno nel porto di Livorno, sto andando via»). Ancora, a una trasmissione televisiva di quei giorni arrivò una telefonata di un anonimo che diceva di essere di servizio quella notte, che «abbiamo visto tutto», ma che, riferitone a un ufficiale, si sarebbe sentito rispondere che la decisione sulla eventuale divulgazione sarebbe spettata alle autorità americane. «Abbiamo pensato che si dovesse trattare di una persona che lavorava all'interno della base, e gli unici italiani che possono avere accesso alla base sono carabinieri», spiega Rispoli, che si dice «convinto che a Camp Darby sappiano tutto». Nonostante la lettera del Dipartimento di stato Usa affermi che «il governo degli Stati Uniti ha ampiamente contribuito alle indagini ufficiali svolte dalle autorità italiane». Metto in grassetto la parte su “Therese”, mi colpisce, sembra davvero uno dei racconti sulle navi nel triangolo delle Bermude. Più in dettaglio: <http://misteriditalia.com/altri-misteri/moby-prince/cronaca/> <http://misteriditalia.com/altri-misteri/moby-prince/cronaca/download/Moby%20Prince%20(cronologia).doc> Moby Prince, ovvero una Ustica del mare. Ora gli Usa dicono: c'erano nostre navi articolo di Erasmo D'Angelis* È L'ALBA TRAGICA dell'undici aprile di dodici anni fa. Nel piccolo spazio di coperta della bettolina che fende le onde del mare livornese e ci fa scivolare verso quella tragica camera ardente che è diventato il traghetto Moby Prince, ormai del tutto annerito e in fiamme, c'è un portuale che si tormenta. "Adesso le hanno portate via, le hanno fatte sparire!", sbotta rabbioso. Cosa? Chi?, chiediamo. "Le navi americane…erano cinque le navi militari americane… erano qui ieri sera e dovevano scaricare a Camp Darby. Sparite!". Sparite, appunto. Dodici anni dopo, quella strage con 140 morti carbonizzati, arsi vivi o soffocati dal fumo, la più grave tragedia nella storia della marineria italiana, torna alla ribalta insieme al suo doppio, la base statunitense di Camp Darby. La base è a due passi da qui, al Tombolo. È il più grande arsenale di George W. Bush all'estero, da qui provenivano le munizioni usate in Iraq nel 1991 e la maggior parte delle bombe cadute sulla Serbia nel 1999. La strage e la base. Legate da una crepa che può allargarsi o inesorabilmente restringersi, e da una domanda, proprio quella che frullava nella testa di quel portuale: dove erano posizionate quelle navi militari al momento dell'incidente? Già, dove erano posizionate? Chi lo sa? Possibile che non esista uno straccio di documento, di tracciato radar, di foto satellitare, che possa chiarire il dubbio? Possibile che quella sera maledetta del 10 aprile 1991 non vi fosse un solo satellite militare in orbita e in funzione di controllo, quando il traghetto della Navarma si schiantò contro la superpetroliera Agip Abruzzo, nella rada di Livorno? Possibile che, dopo tre processi, la nebbia avvolga ancora tutto e tutti e che dobbiamo accontentarci del destino cinico e baro? Perizie e documenti ufficiali agli atti dei processi parlano di cause tecniche, distrazione, addirittura nebbia. C'è chi ha parlato anche di traffici di armi o di carburante che erano in corso a quell'ora nel porto di Livorno. Già, perché sono rimaste sullo sfondo le imbarcazioni militari che facevano la spola tra il porto e Camp Darby? Abbiamo chiesto per anni lumi all'ambasciata Usa a Roma e, con nostra grande sorpresa, è ora giunta una riposta ufficiale, inviata al gruppo della Margherita nel Consiglio Regionale della Toscana. È l'unico documento ufficiale statunitense sull'incidente del Moby Prince. È una lettera del governo Usa, firmata dal Capitano di Vascello della Marina Militare John T. Oliver capo ufficio responsabile dell'avvocatura militare del Dipartimento della difesa degli Stati uniti. I militari si dicono certi che "il governo degli Stati uniti abbia ampiamente contribuito alle indagini ufficiali svolte dalle autorità italiane". "Niente radar a Camp Darby" Aggiunge il Capitano Oliver: "Sono convinto che non vi sia altro in possesso del governo americano che possa gettare luce sul disastro del Moby Prince". Ma la risposta getta poi più di un'ombra sulla più grande santabarbara statunitense fuori dai confini nazionali: "Camp Darby - si legge ancora - non è in possesso, né lo era all'epoca, di attrezzature in grado di intercettare le comunicazioni radio del Moby Prince. Poiché non si tratta di una base portuale, Camp Darby non ha motivo di intercettare le comunicazioni che le navi trasmettono a terra. Allo stesso modo Camp Darby non è dotata di attrezzatura radar… Il governo Usa non aveva alcun motivo di monitorare il porto di Livorno con un sistema di immagini satellitari e non lo stava facendo. Non sono quindi disponibili immagini o registrazioni di alcun tipo". Il Dipartimento della difesa chiarisce poi definitivamente: "Non vi erano navi della Marina militare Usa nel porto di Livorno la notte dell'incidente. Vi erano, al contrario, cinque navi merci noleggiate dal Comando Trasporti Militari Usa nel porto, una delle quali dovette essere rapidamente allontanata perché minacciata dalle fiamme del Moby Prince… le autorità italiane hanno avuto la possibilità di interrogare i capitani e gli equipaggi delle cinque unità nel corso delle indagini ufficiali". La missiva così si conclude: "A nome del Presidente degli Stati uniti e dell'ambasciatore Usa in Italia desidero rivolgere a Lei e alle famiglie delle vittime l'espressione della mia comprensione per le perdite e il dolore causati dalla continua incertezza sullo svolgersi degli eventi. Sfortunatamente però non siamo in possesso di alcun ulteriore elemento che possa spiegare la tragedia". Pur apprezzando la disponibilità dell'ambasciata e del Dipartimento della difesa, prendiamo atto che, dopo due processi in primo grado [tutti assolti] e un processo di appello [con la condanna, prescritta, di un marinaio dell'Agip Abruzzo], i misteri che ancora avvolgono la tragedia restano tali e ricordano molto da vicino quelli della strage di Ustica. È davvero strano infatti che, pur avendo ben cinque navi militarizzate cariche di armamenti e munizioni alla fonda all'interno del porto di Livorno, e al termine dell'operazione di guerra "Desert storm", il governo Usa non abbia predisposto un sistema di controllo e di monitoraggio satellitare del porto e, soprattutto, non esistesse un sistema di comunicazione via radio in grado di coordinare le delicatissime operazioni militari in mare tra Camp Darby e la Capitaneria del Porto. Se ciò fosse vero, alla vigilia della guerra in Iraq, dovremmo tutti essere preoccupati per le condizioni di elevata insicurezza del porto livornese. Le uniche due certezze che restano, a questo punto della nostra storia, riguardano la lentezza assassina dei soccorsi [il traghetto bruciava nella rada, i primi soccorritori sono giunti con un ritardo pazzesco e nessuno si è potuto salvare] e l'impossibilità di raggiungere un qualche credibile spiraglio di verità. Il Presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, chieda al suo amico Bush di collaborare, perché è del tutto evidente che esistono tracciati e foto satellitari. Ci dicano, in particolare, dove erano posizionate almeno le tre navi, "Cape Flattery", "Cape Breton" e "Gallant 2". È assai probabile che in quelle foto e in quei tracciati si nasconda il segreto di quel tragico speronamento. Nessuno può escludere, infatti, che una delle navi-arsenale di ritorno dalla Guerra del Golfo - che al momento dell'incidente stazionavano, tutte, nella rada livornese navigando con codici militari senza alcun coordinamento con la Capitaneria del porto - possa essere divenuta un ostacolo improvviso sulla rotta del Moby Prince per una manovra incauta e non comunicata. Dopo anni di silenzio è l'ora di aprire gli archivi, anche per eliminare qualsiasi dubbio sul ruolo attivo delle navi nella strage senza colpevoli. Soprattutto, è interesse del nostro governo fugare ogni dubbio sui sistemi di sicurezza nel porto livornese, alla vigilia di un possibile conflitto in Iraq. Ancora oggi il traghetto Moby Prince, costruito nei cantieri inglesi di Birkenhead, entrato in esercizio in Italia l'8 maggio 1986, con stazza lorda di 6187 tonnellate e quattro motori entrobordo che consentivano una velocità di 19 nodi, continua a bruciare accanto ai bunker di Camp Darby. Senza un colpevole. (<http://www.carta.org>) Vedete? Non c’è niente di nuovo. Sono solo le interconnessioni che mancano. Quindi, visto che a questo caso ne è stato affiancato anche un altro nella proposta di inchiesta, cerchiamo anche questo motopeschereccio affondato a San Benedetto. E chi ci trovo? Toh! Gli UFO! Mancavano...già ai tempi di Ustica, se non sbaglio, si parlava di questo. Un aereo o imbarcazione misteriosa che colpisce e scompare in Italia può essere solo due cose: O un mezzo alieno o un mezzo NATO... Tant'è, gli unici che parlano di questo peschereccio sono dei parlamentari e degli ufologi. Il tocco dell'uomo morto col volto terrorizzato è degno di un f

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il triangolo delle bermude parte 2
by morfeo Thursday, Dec. 11, 2003 at 5:33 PM mail:



...Il tocco dell'uomo morto col volto terrorizzato è degno di un film di serie Z... ma ne vorrei sapere di più. <http://guide.supereva.it/ufologia/interventi/2001/02/32987.shtml> “Poi, avvenne il momento dei fratelli Vittorio e Gianfranco De Fulgentiis di Martinsicuro: pescatori trentenni inesperti (ma buoni naviganti) che porteranno per sempre nel silenzio la propria tragica storia. I vecchi uomini della costa, collegano agli altrettanti misteriosi avvenimenti UFO, il rocambolesco esito della loro scomparsa: nella notte tra il 14 e il 15 ottobre, il loro motopeschereccio "Francesco Padre" affondò nelle acque di S.Benedetto, affogandoli. "Una morte troppo strana: uno dei giovani fu ritrovato con il volto spaventato e senz'acqua nei polmoni. Da escludere la morte per annegamento.", come riferirono alcuni colleghi del posto i quali esclusero assolutamente la causa di morte dei propri cari, se dovuta a circostanze "naturali". Di questo ne è convinto ancora oggi. Il sig. Antonio Pallesca, uno dei pescatori che a suo tempo fu "seguito in mare" da misteriose luci rosse. Anche qui torna a farsi sentire la presenza e testimonianza d'epoca di personaggi militari, o comunque adibiti alla pubblica sicurezza, che furono piuttosto solidali (certamente responsabilizzati, talvolta testimoni) e preoccupati per le sorti del Mare Adriatico e dei suoi "ospiti". Inizialmente pensarono (o misero a credere) potesse trattarsi di qualche sottomarino - spia: ipotesi saltata per via del fondo troppo basso del Mar Adriatico. Poi, formularono problemi collegati alla Nato.” A questo punto passiamo alla Jadran Express. Quella che potrebbe aver fatto saltare in aria l’elicottero della Finanza, per intendersi. FILE: JADRAN EXPRESs

Navi fantasma e trafficanti russi: Jadran Express, Therese Tutti gli articoli seguenti sono tratti dal sito dell'Unione Sarda <http://www.unionesarda.it> “Sono pochi i processi internazionali celebrati per traffico d’armi a questo livello. Un altro si sta svolgendo proprio in Italia, a Torino, e vede come personaggio di maggior spicco Alexander Borisovich Zhukov, 48 anni, di Mosca, noto anche alle cronache mondane. La Procura di Torino lo vuole incriminare per traffico internazionale di armamenti e per avere introdotto illegalmente armi da guerra nelle acque territoriali nazionali. A Zhukov i pubblici ministeri fanno risalire la proprietà e la gestione di un carico intercettato in Italia l’11 marzo 1994, quando alcune unità della Marina militare bloccarono la motonave Jadran Express in acque territoriali italiane. Nella stiva dell’imbarcazione, ufficialmente diretta al porto di Venezia, le autorità trovarono 30mila kalashnikov e 400 missili teleguidati, oltre a decine di migliaia di munizioni e razzi anticarro. Sembra che le armi non fossero indirizzate in Italia e che la nave sia transitata per errore nel canale d’Otranto. Secondo le indagini le armi provenivano dalle fabbriche ucraine e bielorusse, grazie all’intermediazione di cittadini croati e greci. Nessuna informazione invece sulla destinazione finale del carico, ma tra i possibili clienti della via balcanica delle armi è stato indicato il Gia algerino, i feroci fondamentalisti islamici che, con l’aiuto dei governativi, straziano l’Algeria da dieci anni a questa parte. Blitz a Olbia contro il “signore delle armi” Potente trafficante russo finisce in manette mentre scende dal suo jet Olbia Aveva deciso di trascorrere la Pasqua nella sua villa in Costa Smeralda ma gli agenti della Dia lo hanno dirottato senza troppi complimenti verso una cella del carcere di Tempio. Alexander Zhukov, uno degli uomini di spicco del gotha economico russo, è stato arrestato appena è sceso dal suo jet personale, sulla pista dell’aeroporto di Olbia. Secondo la Procura distrettuale di Torino una quota della sua fortuna, settore petrolifero, è costruita su un colossale traffico internazionale di armi. Parte di queste armi, compresi 30.000 kalashnikov, sono state sequestrate nel 1999 e ora sono custodite in un deposito militare sardo che potrebbe essere La Maddalena. Su questo particolare però la Dia torinese non vuole fornire altri particolari. «Possiamo solo confermare che le armi sequestrate sono custodite in Sardegna ma non possiamo rivelare in quale base». La Maddalena, però, potrebbe aver offerto la discrezione che serve a operazioni che devono restare strettamente riservate. La Sardegna ha solo un ruolo marginale in questo intrigo internazionale, come magazzino militare e luogo di vacanza e di investimenti per Zhukov. Non è direttamente coinvolta nella maxi inchiesta che ha portato in cella dieci persone con ordini di custodia cautelare eseguiti in Germania, Austria, Belgio e Italia. L’inchiesta parte nel gennaio di due anni fa da Torino dove la Procura distrettuale indaga su un traffico di armi effettuato utilizzando l’Italia come paese di transito. L’attenzione dei magistrati si punta su tre società che effettuano operazioni sospette, triangolazioni commerciali con la Bulgaria destinate a mascherare la reale destinazione degli utili. Iniziano così le rogatorie internazionali che danno i primi riscontri. Il capo del gruppo criminale, un russo operante a Panama, viene identificato in Francia mentre in Belgio si scopre il mediatore, Gesa Mesozy, un broker operante nella fornitura di armi da guerra nell’Europa centrale e balcanica e nel sud Africa. Il terzo passaggio è il controllo dei dati sulle operazioni compiute dalla Nato per il rispetto dell’embargo nei confronti dei paesi dell’ex Jugoslavia. Così i magistrati scoprono che nel 1994 le forze navali avevano intercettato una nave, la Jadran express con 133 container pieni di armi. All’epoca l’inchiesta non aveva avuto alcun esito e la nave era stata dimenticata nel porto di Otranto. Per i magistrati torinesi è un tassello importante del puzzle e nell’agosto del 1999 ordinano il sequestro delle armi: 30.000 kalashnikov, 400 missili filoguidati, 50 postazioni di tiro, 5061 razzi campali, oltre diecimila razzi anticarro, cinquemila spolette per razzi e 32 milioni di munizioni di vario calibro. Ora ci sono tutti gli elementi per ricostruire i movimenti dell’organizzazione che si avvale della protezione di alti esponenti della politica ucraina. La base sono due società, la Global technologies international e la Global tecnologies Ukraine che esibivano certificazione false per l’acquisto di armi, provenienti dalla Bielorussia e dall’Ucraina, da parte dei governi di Egitto, Marocco, Sudan e Nigeria. In realtà erano dirette nei Balcani passando prima per i porti italiani. Utilizzando queste modalità il gruppo aveva organizzato otto spedizioni per un totale di 13.500 tonnellate di armi destinate a foraggiare le fazioni del conflitto serbo-croato. L’ultima era quella della Jadran express partita dal porto di Octyabrsk e diretta ufficialmente in Egitto per la consegna delle armi. In realtà durante una sosta in Turchia vennero caricati altri container destinati al porto di Venezia, per nascondere quelli contenenti armi, e la Jadran fece rotta verso l’Italia, dove nel canale di Otranto venne fermata dalle forze navali della Nato. Arrivano così i primi ordini di custodia cautelare. Attraverso la verifica dei conti correnti, poi, scatta la seconda parte dell’operazione che porta all’arresto di Zhukov. Parte dei ricavi derivanti dal traffico illecito erano stati trasferiti dalla Gti alla Trade concept, il motore finanziario della Sintez corporation, una enorme holding impegnata a livello internazionale nel commercio del petrolio greggio capeggiata da Alexander Zhukov. Il rampante imprenditore russo, che gode di influenti amicizie politiche, ha conquistato in breve tempo un ruolo di primo piano nella gestione delle risorse petrolifere. Una delle sue società con sede a Milano è servita per acquistare la villa che fu di Giulio De Angelis al Romazzino. Dove quest’estate lo champagne scorreva a fiumi per accompagnare il caviale nelle affollate feste del misterioso russo”. (Caterina De Roberto) Donne in villa e caviale in cella per mister Zhukov Dal nostro inviato A Porto Cervo «Posso ordinare da un ristorante? Vorrei mangiare qualcosa di meglio, non mi piace quello che mi date». L’agente del carcere di Tempio non crede alle sue orecchie. I modi sono gentili, niente affatto arroganti, ma Alexander Borisovic Zhukov, moscovita residente a Londra nella signorile Couternay Avenue, forse non sa che il servizio della “Rotonda” non lo prevede. E non serve che lui, miliardario russo, abbia un pacco di dollari e decine di carte di credito nel portafogli lasciato in custodia al momento del suo ingresso in carcere. Gli agenti accompagnano il cuoco sino alla sua cella e dopo aver scambiato qualche battuta con lui, Zhukov si accontenta di due panini con salame che scalda poggiandoli sui termosifoni. Per il resto della permanenza (due giorni e due notti) decide di adeguarsi a ciò che passa il convento. Lo avevano dipinto come un personaggio pericolosissimo, di quelli da prendere con le pinze. Alla Rotonda, invece, sono sorpresi dal suo aplomb, in contrasto con il ritratto da boss della mafia russa fatto dalla Dia. Quasi a smentirli, il giorno del trasferimento a Torino c’è un esercito a scortarlo. Non si sa mai. Eppure, l’impressione degli agenti di polizia penitenziaria è la stessa di chi ha avuto modo di conoscerlo in questi anni. In Costa Smeralda, da sei-sette anni frequentata dal petroliere russo, ne parlano tutti in termini positivi. «È un gran signore dice Mario, custode di una villa vicina Ñ e non riesco ancora a credere al suo arresto». Mario che, come tutti da queste parti, preferisce mantenere l’anonimato, racconta qualche aneddoto. Una volta, seduto al bar nella piazzetta di Porto Cervo, mentre dà il numero del suo cellulare all’interprete si rende conto di non avere una penna. Zhukov, scusandosi con la compagnia, si alza dal tavolo e si infila nella boutique di Cartier per uscirne con una penna d’oro, valore un milione e mezzo. È uno che non ha mai badato a spese. Non è il solo. Tutti i suoi connazionali, arrivati da pochi anni in Costa, hanno sostituito, nelle abitudini di cassa, gli arabi di un paio di decenni fa. Non fanno mai questioni di prezzo, comprano solo l’oggetto più costoso. Nei ristoranti, in quelli più esclusivi naturalmente, è normale vederli bere un Brunello di Montalcino d’annata per accompagnare l’aragosta. E poi sono generosi. A dipendere dal conto (se è alto, per intenderci), sono capaci di lasciare nel locale una mancia pari allo stipendio di un cameriere. Anche Zhukov è fatto così, per la gioia e la felicità di chi lavora per lui. A Porto Cervo, nella villa che fu di De Angelis, ci sono due custodi, un manutentore, una cuoca e un tuttofare. Gli vogliono un gran bene. E lui ricambia con regali principeschi ad ogni festa comandata (che non si limitano a Pasqua e Natale, sia chiaro), in dollari o in qualcosa di (molto) prezioso. Non sono certo i soldi a mancargli. Si dice, ed è vero, che l’estate scorsa, per avere il top dei vip della Costa nella sua villa, non abbia lesinato dollari a nessuno. I soldi, si sa, non puzzano. Nemmeno qui, e così a casa Zhukov è arrivato il fior fiore dei frequentatori di Porto Cervo. Erano in cinquecento, tra industriali e politici (Paolo Cirino Pomicino in testa), star appannate dello spettacolo come Alba Parietti, prezzemoline del calibro di Daniela Santanché (che aveva poi ricambiato l’invito, gratis), donnine in abiti succinti a far colore, venti e passa chili di caviale del Volga sui tavoli e champagne a fiumi. Tutti ospiti “Chez Therese” come dice la scritta al neon sull’ala barbecue del giardino (un ristorante di lusso all’aperto). Il nome fa il verso al celebre “Chez Maxim” parigino ma per Alexander Borisovic è semplicemente un gesto d’affetto per Teresa, la cuoca. Che ora, con gli altri dipendenti, teme per il suo futuro. Già, le vicissitudini giudiziarie del loro datore di lavoro sono appena all’inizio. Soprattutto, con quella valanga di documenti in mano alla Dia torinese, la fine non sembra neanche molto vicina. Probabile che l’agosto 2001 a Porto Cervo sia meno allegro. Qualche cameriere avrà un montemance inferiore ma si sopravviverà lo stesso. Da queste parti, si sa, morto un miliardario se ne fa un altro. (Vito Fiori) Ed è qui, in questo articoletto di colore (diciamo così), che il cerchio trova una quadratura imprevista: "Tutti ospiti “Chez Therese” come dice la scritta al neon sull’ala barbecue del giardino (un ristorante di lusso all’aperto). Il nome fa il verso al celebre “Chez Maxim” parigino ma per Alexander Borisovic è semplicemente un gesto d’affetto per Teresa, la cuoca." Eccola! Leggete qui: "Nei fascicoli processuali è riportata la comunicazione radio tra una fantomatica nave Therese e un'altrettanto mai identificata nave uno: «This is Therese, this is Therese to ship one in Livorno ancorage, I'm moving on, I'm moving on, I'm moving on» («qui Therese a nave uno nel porto di Livorno, sto andando via»). La Jadran Express è Therese? La Jadran Express è nel porto di Livorno nello stesso momento della Moby Prince e di tre navi americane? Singolare… Ma c’è un'altra nave ancora nell’immane bordello di quel porto…che notte, quella notte… Si chiama 21 Oktobaar, implicata anch’essa in traffici d’armi, ma in rete salta fuori anche come nave da pesca. E sapete dove vanno a pesca, questi? Al largo della Somalia. Ebbene sì.

FILE: 21 OKTOBAAR





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