Mansur, vent’anni, stava tornando nel suo Afghanistan dopo un lungo esilio in Pakistan. Poco prima di Kabul, l’autobus su cui viaggiava è stato fermato a un checkpoint Usa. Mansur non si aspettava di trovare ancora soldati nel suo paese. Si è innervosito, inveendo contro di loro.
E ha pagato con la vita.
Secondo la versione ufficiale Masur è stato ucciso perché non si era fermato al posto di blocco.
Ma chi era con lui ha raccontato un’altra storia.
Dal nostro corrispondente Marco Rivolta-logista di Emergency, che nel villaggio di Sorobi gestisce un posto di primo soccorso
Kabul (Afghanistan), 24 marzo 2004 – Mansur, vent’anni, è in viaggio verso Kabul. Sta ritornando in Afghanistan. Se ne è andato tanti anni fa, in fuga dalla guerra. Anni da rifugiato in Pakistan. Maltrattato, dalla polizia, dai vicini, dai colleghi di lavoro, da tutti. Costretto ai lavori più umili. Anni da lavoratore a giornata - eppure lui ha studiato - nei bazar di Peshawar e Islamabad. Nessun diritto per sette lunghi anni, rifugiato illegale in terra straniera. Fuggiasco. Disperato. Mansur è finalmente riuscito a racimolare il denaro necessario per il viaggio di ritorno a Kabul e per affittare una piccola stanza, mura e tetto di fango, in periferia, da dove ricominciare la propria vita ‘afgana’.
Diciotto marzo duemilaquattro. Due giorni a capodanno, recita il calendario afgano, due giorni all’inizio dell’anno 1383. Superato il posto di confine di Khyber Pass, Mansur respira aria di casa attraverso il finestrino socchiuso dell’autobus su cui sta viaggiando. Alla frontiera si e’ innervosito quando due guardie di confine hanno dubitato dell’autenticità dei suoi documenti, sospettando che fosse di nazionalità pachistana e stesse cercando di entrare illegalmente in Afghanistan. Si è spazientito. “E’ la mia terra - ha detto loro, con orgoglio - il luogo in cui sono nato e in cui riposano i miei avi. Il luogo in cui sto tornando e in cui un giorno, inshallah - se Dio lo avrà voluto – morirò”.
Un paio d’ore dopo il confine, a Jalalabad, l’autista concede a tutti i passeggeri mezz’ora di pausa, per potersi rifocillare e sgranchire le gambe. Il viaggio da Jalalabad a Kabul è lungo e non intende fare altre soste. Jalalabad è l'unica fermata sull’autobus della speranza per Mansur e i suoi compagni di esilio. Scende, fa quattro passi, compra succo di carota, pane, frittelle di patate (bulanì) e quattro arance. Poi riprende il suo posto sull’autobus sovraffollato.
Passano altre due ore di polvere e buche. All’interno dell’autobus fa sempre più caldo e l’aria si è fatta quasi irrespirabile. Per fortuna manca poco - pensa Mansur -all’entrata del villaggio di Sorobi. Una manciata di case, un bazar, e poco altro. Oggi, però, nel piccolo villaggio di Sorobi c’è un’atmosfera insolita, c’è tensione, come ai tempi della guerra. Mansur si rende conto della ragione: truppe statunitensi hanno preso il controllo del centro del paese, hanno installato un checkpoint e stanno perquisendo e ispezionando tutti i veicoli di passaggio, facendo uscire in malo modo i passeggeri dalle proprie auto e immobilizzandoli al muro braccia alzate. Cercano esplosivi, armi, terroristi...
Mansur non capisce. Si domanda chi siano questi nuovi soldati stranieri che dettano legge nel ‘suo’ Afghanistan. Eccoli salire sull’autobus e cominciare le perquisizioni. Di nuovo?! - pensa Mansur - e nuovamente si innervosisce. Comincia a inveire contro di loro. “Cosa volete ancora? Andate via, andate al diavolo!” - urla e, mentre li apostrofa, si avvicina, accaldato, nervoso, stanco, al loro interprete, afgano come lui. Invita di nuovo, bruscamente, gli stranieri ad andarsene dal ‘suo’ Afghanistan, e per far comprendere meglio il suo invito sferra un calcio all’indirizzo dell’interprete.
Sull’autobus, un attimo di silenzio. Sguardi sospesi, movimenti lenti. Soffio di morte dal finestrino. Un soldato americano trascina Mansur fuori dall’autobus, lo picchia e mentre è a terra estrae il revolver, lo avvicina alla gola di Mansur e - fissandolo negli occhi - fa fuoco. Lo uccide.
Mansur stramazza al suolo. I soldati americani urlano “L’autobus è pieno di al Qaeda!”. Arrestano tutti, mentre il sangue di Mansur secca sull’asfalto della piazza del bazar di Sorobi.
Mansur è arrivato a Kabul dentro un’ambulanza, corpo morto scortato nel suo ultimo viaggio da quattro blindati americani. Tornato a morire nel ‘suo’ Afghanistan. Morto assassinato, a vent’anni, il 18 marzo.
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