1231>94 Dimostrare il contrario PLEASE
[…] ¿Cómo podrían las fotografías ilustrar los siguientes hechos?: desde el 29 de septiembre hasta el 8 de marzo
94 israelíes han muerto [en la Franja de Gaza] -27 civiles y 67 soldados,
según el ejército israelí. Desde esa misma fecha hasta el 18 de febrero del 2004,
1.231 palestinos han muerto
¿Eran todos ellos terroristas? A falta de una agencia palestina existen divergencias entre los datos aportados por los diferenets grupos palestinos y ninguno admite que sus cálculos sean un 100% correctos. […]
[...] 4 novembre: Yitzhak Rabin viene assassinato dallo studente di estrema destra Ygal Amir. Shimon Peres, ministro degli esteri, assume l'interim.[...]
I miraggi dello stato palestinese Inventario degli accordi di Oslo http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Aprile-1999/9904lm15.01.html
Dieci anni di «processo di pace» http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Novembre-2000/0011lm07.01.html
I miraggi dello stato palestinese Inventario degli accordi di Oslo http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Aprile-1999/9904lm15.01.html
Cosa succederà il 4 maggio 1999, data in cui finisce il periodo di autonomia dei territori palestinesi? L'applicazione del diritto internazionale sarebbe uno dei mezzi per uscire dall'attuale impasse. Ma per far ciò bisognerebbe che la comunità internazionale, e in particolare l'Unione europea, si imponessero con tutto il loro peso. E che infine si ammettesse che la scelta è tra una situazione in cui convivono due stati indipendenti, uno ebreo l'altro arabo, e un regime di apartheid incompatibile con i valori a cui Israele si richiama (leggere alle pagine 15, 16 e 17).
di Alain Gresh 4 maggio 1999. Davanti a una folla in delirio, Yasser Arafat, con la voce spezzata, proclama la nascita dello stato palestinese. Più di 120 paesi, in maggioranza del Sud, riconoscono la nuova entità, che si affretta a chiedere l'adesione alle Nazioni unite. Come rappresaglia, Benyamin Netanyahu estende la legge israeliana a tutte le "zone di sicurezza" in "Giudea-Samaria". Gli Stati uniti che condannano la decisione di Arafat e l'Unione europea che si limita a dispiacersene sottolineando la responsabilità del governo israeliano nella crisi si appellano alla moderazione delle due parti e chiedono la ripresa dei colloqui. Gli scenari che la stampa israeliana immagina da circa un anno su questa giornata differiscono a partire da questo momento (1). Alcuni evocano un bagno di sangue, scontri frontali tra la polizia palestinese e l'esercito israeliano, la riconquista da parte di quest'ultimo dei grandi centri urbani della Cisgiordania. Altri, meno catastrofisti, prevedono che la crisi permetterà di far uscire i negoziati di pace dall'impasse. Anche se lo svolgimento di elezioni anticipate in Israele, il 17 maggio prossimo con un secondo turno probabilmente il primo giugno per la designazione del primo ministro ha creato confusione e spingerà senza dubbio il leader palestinese a rimandare la decisione di qualche settimana o di qualche mese, la scandenza esiste comunque: il 4 maggio 1999 si conclude il periodo transitorio di autonomia di cinque anni tracciato dagli accordi di Oslo e nulla è stato previsto nel caso in cui i negoziati sullo statuto finale falliscano. Yasser Arafat vuole approfittare di questo vuoto giuridico per confermare il "diritto" di portare a battesimo "uno stato palestinese sulla terra palestinese". Nel corso degli ultimi mesi ha fatto crescere l'aspettativa. "Il 4 maggio non può essere un giorno come un altro" non ha smesso di ripetere. Tre ragioni lo spingono a intraprendere questa strada. Accettare di prolungare il periodo transitorio di autonomia equivarrebbe, per Yasser Arafat, a riconoscere che la fine di questo periodo dipende da un accordo con il governo isrealiano, e che il governo israeliano ha un "diritto di veto" sull'avvenire dei territori occupati. Ariel Sharon, ministro degli esteri israeliano, ha d'altronde elaborato un piano che prevede una nuova fase "interinale", di fatto di durata illimitata, fino a quando i problemi in sospeso non siano stati risolti. Ma questi problemi sono numerosi e "insolubili" nel quadro dell'attuale contesto della società israeliana rifugiati, colonie, Gerusalemme (2). In altri termini, significherebbe bloccare la situazione attuale. D'altra parte, Yasser Arafat deve anche tener conto della propria opinione pubblica, delusa dall'autonomia, vissuta sempre di più come un proseguimento dell'occupazione sotto un'altra forma, e irritata dalle pecche dell'Autorità palestinese: corruzione, autocrazia, cattiva gestione economica. Benché ancora maggioritario, il sostegno alla pace rischia di sfumare rapidamente (3). La proclamazione dello stato potrebbe ricompattare l'opinione pubblica e persino riportare nei ranghi una parte dell'opposizione palestinese. Terzo argomento a favore di un gesto forte il 4 maggio 1999: l'età di Yasser Arafat. Il "vecchio", come lo chiamano i suoi, avrà 70 anni ad agosto, sa che i suoi giorni sono contati e vuole passare alla storia come il fondatore dello stato palestinese indipendente. Yasser Arafat spera in questo modo di "forzare il destino", di ottenere un riconoscimento internazionale, di costringere il governo israeliano qualunque esso sia ad accettare finalmente una pace durevole. In un discorso passato relativamente sotto silenzio, pronunciato ad Oslo il 5 dicembre 1998, il leader palestinese ha d'altronde delineato le grandi linee per una soluzione "giusta e mutualmente accettabile", fondata sull'esistenza di due stati. Garantirebbe la sicurezza delle due parti si è impegnato a non far partecipare i palestinesi ad alcuna corsa agli armamenti né ad alcun confronto militare contro Israele farebbe di Gerusalemme una città aperta, non divisa, e permetterebbe "ai popoli palestinese e israeliano di vivere, lavorare, spostarsi più liberamente in qualunque parte della Palestina e d'Israele, senza mettere in causa i diritti di sovranità e le leggi delle due parti". Per questo sarebbe conveniente assicurare la transizione da "una logica di guerra e di confronto a una logica di pace" (4). Questo discorso riconosceva implicitamente gli insuccessi del "processo di Oslo", inaugurato dalla stretta di mano tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, il 13 settembre 1993, a Washington, e della logica di pace che allora si pensava di avviare. La Dichiarazione di principio sugli accordi interinali di "autogoverno" (self government) annunciava allora che il governo israeliano e l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) "concordano sul fatto che è ora di mettere fine a decenni di conflitto, di riconoscere i diritti legittimi e politici reciproci, di sforzarsi di coesistere pacificamente, nella dignità e nella mutua sicurezza, e di arrivare sia a un regolamento pacifico giusto, durevole e globale che a una riconciliazione storica". Per un periodo transitorio di cinque anni erano state istituite l'autonomia e una Autorità palestinese, la cui giurisdizione avrebbe dovuto estendersi alla Cisgiordania e alla striscia di Gaza. La soluzione dei problemi più spinosi in particolare quelli dei rifugiati, di Gerusalemme e dei coloni veniva rimandata ai negoziati finali. Due anni dopo l'avvio del "periodo transitorio", cioè il 4 maggio 1996, sarebbero dovute iniziare le discussioni sullo statuto definitivo della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme. La Dichiarazione rifletteva i rapporti di forza, cioè l'egemonia degli Stati uniti alleati di Israele, l'isolamento dell'Olp dopo la guerra del Golfo, ma anche una presa di coscienza di una parte della socieà israeliana, dopo anni di Intifada, che la pace sarebbe dipesa dal riconoscimento delle aspirazioni palestinesi. Il testo del 13 settembre 1993 rappresentava anche una opportunità storica per Israele di integrarsi nel Medioriente: ne sono testimonianza la firma della pace con la Giordania nel 1994 e l'allacciamento di contatti con numerosi paesi arabi. Ma, fin dall'inizio, il governo laburista israeliano ha imposto una lettura restrittiva dell'accordo. Per giustificare i ritardi accumulati rispetto al calendario di Oslo, Yitzhak Rabin affermò che "nessuna data è sacra". Numerosi impegni sottoscritti dagli israeliani non sono stati rispettati: costruzione di un passaggio sicuro tra la Cisgiordania e Gaza, liberazione dei prigionieri politici palestinesi, soluzione per il diritto al ritorno dei rifugiati del 1967 (5) ecc. Ogni attentato di Hamas è stato usato come scusa per misure unilaterali israeliane, dando così all'area islamista una sorta di "diritto di veto" sui colloqui di pace. Uri Savir, uno dei principali negoziatori israeliani degli accordi di Oslo, riconosce oggi che il suo governo, facendo del terrorismo "la questione principale", ha rafforzato la "posizione degli assassini e di tutti gli oppositori al processo di pace" dando così loro "la prova che possedevano un'arma temibile contro la pace". Secondo lui, la verità avrebbe dovuto essere detta al popolo israeliano: "Il terrorismo continuerà fino a quando non avremo concluso una vera pace. (Non dobbiamo quindi cedere) a nessun costo" (6). Bisogna d'altronde ricordare che gli attentati-suicidi di Hamas in Israele sono aumentati in rappresaglia all'attacco di Baruch Goldstein, un colono che, il 25 febbraio 1994, attaccava i fedeli musulmani di una moschea di Hebron, uccidendone 29. In questo contesto, la moltiplicazione dei blocchi nei "territori autonomi", ha vuotato di ogni contenuto la cooperazione economica tra le due parti. Le restrizioni alla libera circolazione delle persone e delle merci hanno impedito i commerci e il lavoro di decine di migliaia di palestinesi in Israele. Il livello di vita della maggioranza dei palestinesi è crollato, la disoccupazione e la povertà si sono estesi. Il meccanismo avviato ad Oslo si è inceppato. La colonizzazione contro la pace Nessun meccanismo di arbitraggio era stato previsto in caso di blocco dei negoziati. "Non esiste all'interno di questo accordo aveva sottolineato Ilan Halevi nel 1994 una istanza di ricorso di fronte alla violazione della lettera o dello spirito dell'intesa di una delle due parti" (7). Il governo laburista ha così potuto, senza conseguenze, rinnegare gli impegni presi. Gli Stati uniti, i soli in grado di fare pressione, si sono invece allineati sulle posizioni di Tel Aviv. Il rifiuto israeliano del principio di scambio, "pace contro territori" è stato confermato dal proseguimento della politica di colonizzazione tra il 1993 e il 1996, il numero dei coloni è passato in Cisgiordania da 110mila a 145mila, quello di Gaza da tremila a 5.500. La confisca delle terre e la costruzione di infrastrutture sono continuate. Invece di ritirarsi dall'insieme della Cisgiordania, fatta eccezione per le colonie il cui avvenire si sarebbe dovuto discutere solo più tardi, il governo di Yitzhak Rabin ha imposto una frammentazione kafkiana della Cisgiordania in zone A, B e C. La zona A, costituita dalle grandi agglomerazioni, passava sotto totale controllo palestinese fatta eccezione per Hebron, che godeva di uno "statuto speciale". Nella zona B praticamente l'insieme dei 450 villaggi della Cisgiordania la sicurezza e la "lotta contro il terrorismo" venivano assicurate dall'esercito israeliano, che conservava il diritto di pentrarvi, perquisire le case, distruggerle, procedere ad arresti ecc. In ultimo, la zona C, che comprendeva la maggior parte della Cisgiordania, ma che era praticamente senza palestinesi, rimaneva sotto occupazione. Uri Savir sottolinea che Yitzhak Rabin, facendo sue le valutazioni dell'esercito sui "luoghi essenziali alla sicurezza" e alla "necessità di proteggere gli insediamenti" (8), non sarebbe stato pronto, alla fine del periodo interinale, a concedere più del 50% della Cisgiordania ai palestinesi. E' vero che, nelle settimane che hanno preceduto il suo assassinio, il 4 novembre 1995, si è assistito a un'evoluzione di Rabin, a una presa di coscienza del fatto che l'Olp doveva essere considerata un partner a tutti gli effetti e che non bisognava perdere il treno della pace. Ma era già troppo tardi. La destra israeliana, che aveva accettato gli accordi di Oslo tirata per i capelli, quando è arrivata al potere nel maggio 1996 ha aggravato ulteriormente questa strategia. La colonizzazione è stata intensificata. Secondo l'organizzazione Peace now, la popolazione delle dieci colonie più grosse è cresciuta durante i primi nove mesi del 1998, del 5,9%, cioè tre volte di più della crescita naturale: è passata da 87.331 a 92.584 persone (9). Per Netanyahu non si trattava più soltanto di rafforzare e di estendere le colonie esistenti, ma di costruirne delle nuove. Conformemente agli appelli di Ariel Sharon, i coloni hanno preso possesso delle sommità delle colline, suscitando persino la reazione degli Stati uniti, per i quali queste attività "erano molto nocive al proseguimento del processo di pace". Tuttavia Washington ha rifiutato, diversamente da quel che aveva fatto l'amministrazione statunitense negli anni '80, di dichiarare che erano illegali (10)... Le strade di circonvallazione, che permettono ai coloni di raggiungere Israele senza passare attraverso i villaggi arabi, avvolgono la Cisgiordania in una rete soffocante. Per questo, alla fine del periodo di autonomia, l'Autorità palestinese controlla solo il 10% della Cisgiordania appena il 30% se si addizionano le zone A e B e i due terzi di Gaza (11). Il suo governo si esercita dunque su parcelle sparpagliate: per circolare da un'enclave all'altra, il cittadino palestinese viene sottomesso a interminabili posti di blocco e controlli israeliani. Viaggiare all'estero è ancora più aleatorio e dipende totalmente dalla buona volontà dell'occupante. Anche l'aeroporto di Gaza, inaugurato con grande pompa nel dicembre scorso è, come ha riconosciuto Souha Arafat, la moglie del presidente palestinese, una semplice succursale dell'aeroporto Ben Gourion, sotto la supervisione di poliziotti israeliani (12). La libera circolazione delle persone, uno dei diritti umani fondamentali, resta, più che mai, un privilegio. A ogni tappa dei colloqui, per strappare qualche brandello di territorio e instaurarvi l'Autorità, Yasser Arafat ha dovuto moltiplicare le concessioni. La sicurezza (dei soli israeliani) è diventata la base di tutte le trattative, a detrimento del già malmesso principio "pace contro territori". Attraverso la realizzazione di strutture di cooperazione economica e di sicurezza, Israele ha reso totalmente dipendente una parte delle classi dirigenti palestinesi, il cui statuto, privilegi e potere sono legati all'occupante. L'impegno diretto della Cia nella formazione e nell'addestramento della polizia palestinese dà alla "compagnia" statunitense, che dispone di due centri, uno a Gaza, l'altro a Ramallah, un ruolo determinante nella preparazione della successione ad Arafat. Al termine di cinque anni di autonomia, possiamo valutare i benefici che il governo israeliano trae da questa situazione. Non deve più, per l'essenziale, assicurare la sicurezza nelle zone palestinesi il compito tocca ormai ai poliziotti palestinesi. Si è tolto dalle spalle gran parte del peso finanziario dell'occupazione, poiché la comunità internazionale, con un'iniezione massiccia di capitali, aiuta i palestinesi a sopravvivere. Ha potuto continuare la colonizzazione e la "ebraizzazione" di Gerusalemme est. E' riuscito a rompere l'isolamento diplomatico anche se le sconfessioni successive di Netanyhau, in particolare il rifiuto di applicare gli accordi di Wye Plantation da lui stesso firmati nell'ottobre 1998, hanno bloccato la penetrazione diplomatica israeliana nel mondo arabo e degradato in modo sensibile le relazioni tra Tel Aviv e Washington. Tuttavia, gli accordi di Oslo hanno creato una realtà nuova, in parte irreversibile. Il dato di fatto palestinese è ormai riconosciuto, anche in Israele e negli Stati uniti. Il sostegno diplomatico all'Olp si è rafforzato. Malgrado le tendenze autoritarie dell'Autorità palestinese, molteplici istituzioni si sono svilppate apparati statali, consiglio legislativo eletto nel gennaio 1996, organizzazioni non governative sullo stesso territorio della Palestina. Dopo cinque anni di duri negoziati, le questioni in sospeso sono le più ardue. Prima di tutto, quella dei rifugiati palestinesi: sono sempre vari milioni ad aspettare, nel "cortile " della patria, che la loro sorte venga decisa. Parcheggiati nei campi, spesso sottoposti a discriminazioni da parte dei paesi che li hanno accolti, mentre aspirano a una vita stabile dopo molteplici esili, questi negletti della pace reclamano il "diritto al ritorno" previsto dalle risoluzioni dell'Assemblea generale delle Nazioni unite. Mentre le frontiere rimangono difficili da definire Israele rifiuta di tornare nei confini del 4 giugno 1967 Gerusalemme, città santa di tre religioni, resta un pomo della discordia ancora più amaro. Israele, che ha proclamato la città "riunificata" capitale eterna, vi esercita una politica di colonizzazione e di espulsione degli abitanti arabi. Infine l'acqua una questione che avrebbe dovuto essere affrontata durante il periodo interinale e che alla fine è stata "rinviata" vista la sua complessità resta una risorsa contesa, perché rara. Come fare allora ad uscire dall'impasse? I palestinesi, anche se si trovano in una situazione di debolezza per il prossimo futuro, hanno qualche buona carta in mano. La demografia, prima di tutto, poiché sui territori storici della Palestina saranno maggioritari tra il 2007 e il 2013 (leggere l'articolo a fianco). In questo contesto, Israele dovrà fare una scelta dolorosa: o accettare la coesistenza di due stati capaci di sviluppo e sovrani, uno accanto all'altro; oppure conservare i territori e instaurare un regime di apartheid; oppure, ancora, accettare su tutto il territorio storico della Palestina la creazione di uno stato formato da tutti i cittadini che siano arabi o ebrei e rinunciare quindi all'idea di stato ebraico. D'altra parte, i palestinesi possono appellarsi al diritto internazionale. Qualunque cosa si pensi degli accordi di Oslo, questi non hanno modificato la situazione della striscia di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme est rispetto al diritto: restano dei territori occupati in modo illecito e le colonie che vi sono insediate sono illegali. Israele non dispone di alcun titolo di sovranità su queste terre, non esercita che un'autorità di fatto (vedi articolo qui sotto). Cosa succederà allora il 4 maggio? La campagna elettorale in corso in Israele ha spinto l'Unione europea e gli Stati uniti a moltiplicare le pressioni su Yasser Arafat perché rimandi questa scadenza, per non fornire un argomento elettorale a Benyamin Netanyahu. Alcuni leader laburisti, come Yossi Beilin o l'ex generale Oren Shahor, hanno proposto un compromesso: Israele riconoscerebbe il diritto dei palestinesi a uno stato, in cambio del prolungamento del periodo di autonomia fino al primo gennaio 2001. Se Arafat mantiene la sua decisione pur rinviandola di qualche mese il "giorno dopo" sarà diverso per i palestinesi? La loro situazione cambierà davvero? Azmi Bishara, deputato arabo israeliano, non vi vede vantaggi. Secondo lui, questa proclamazione sarebbe una diversione, poiché le energie palestinesi saranno mobilitate per ottenere da Israele e dalla comunità internazionale il riconoscimento della nuova entità a detrimento degli sforzi "per eliminare le colonie, ritrovare tutti i territori occupati nel 1967 e liberare Gerusalemme". Ma Israele finirà per accordare questo riconoscimento in cambio di concessioni di fondo, in particolare sul diritto al ritorno dei rifugiati (13). "Proclamare uno stato palestinese una volta ancora? si interroga lo sceicco Ahmad Yassine, capo spirituale del movimento Hamas Dove? Esiste un territorio liberato dove possa essere proclamato uno stato palestinese? La dichiarazione di uno stato palestinese, fatta ad Algeri nel 1988, non ha cambiato nulla" (14). Scoraggiato, l'intellettuale palestinese Edward Said constata: "Israele prende sistematicamente la nostra terra e noi lasciamo fare, limitandoci a dichiarare: non ce l'hanno presa, noi consideriamo questa terra come nostro stato" (15). Nei fatti, molto dipenderà dalla comunità mondiale. Il diritto internazionale ha posto i principi di una pace giusta e durevole: ritiro di Israele da tutti i territori arabi occupati nel 1967, diritto dei palestinesi all'autodeterminazione, diritto d'Israele alla pace e alla sicurezza all'interno di frontiere sicure e riconosciute. Con la proclamazione dello stato, Yasser Arafat spera di ottenere dagli Stati uniti e dall'Unione europea un impegno attivo in questa direzione. Bisogna infatti riconoscere che il "processo di Oslo" ha toccato i suoi limiti. Nell'ottobre del 1991, all'indomani della guerra del Golfo, la conferenza di Madrid aveva segnato una svolta nella storia del Medioriente.Per la prima volta, i protagonisti del conflitto israelo-arabo avevano gettato la basi per un'intesa. Il rilancio di questa conferenza, sotto l'egida di Washington, di Mosca e di Bruxelles permetterebbe di gettare le basi per una pace globale, che coinvolgerebbe non solo Israele e la Palestina, ma anche la Siria, il Libano e l'insieme del mondo arabo.
note:
(1) Cfr., per esempio, Uri Avnery, sul quotidiano Maariv, ripreso da Mideast Mirror, Londra, 23 giugno 1998; il dossier di The Jerusalem Report, Gerusalemme, 6 luglio 1998; Gershon Baskin e Zakaria al Haq, The day after, Israel-Palestinian Center for Research and Information, Gerusalemme, dicembre 1998.
(2) Akiva Eldar, "Sharon's new plan", Haaretz, Tel Aviv, 5 novembre 1998.
(3) Khalil Shikaki, "Peace Now or Hamas Later", Foreign Affairs, New York, luglio-agosto 1998.
(4) Riprodotto su Internet da Fofognet, 8 dicembre 1998. Sito: fofognet@lists.Mcgill.ca (5) Le "persone dislocate" sono i palestinesi che sono stati espulsi in occasione della guerra del 1967. Allora erano stimati a 250mila, oggi sarebbero un milione.
(6) Uri Savir, Les 1100 jours qui ont changé le Moyen-Orient, Odile Jacob, Parigi, 1998, p.174.
(7) Ilan Halevi, "Glossaire de la négociation israélo-palestinienne", Revue d'études palestiniennes, Paris, n.50, inverno 1994.
(8) Uri Savir, op. cit., pag. 218.
(9) Haaretz, 16 febbraio 1999, ripreso da Summary of World Broadcasts, SWB, Londra, 18 febbraio 1999.
(10) "Taking the West Bank, Hill by Hill", International Herald Tribune, Parigi, 17 marzo 1999.
(11) Se gli accordi di Wye Plantation fossero stati integralmente applicati, la ripartizione sarebbe stata la seguente: zona A, 18,2%, zona B, 21,8% (di cui il 3% di "parchi naturali"), zona C, 60%.
(12) "A New Palestinian Power: Mrs Arafat", International Herald Tribune, Parigi, 5 febbraio 1999.
(13) Al Hayat, Londra, ripreso da Mideast Mirror, Londra, 26 agosto 1998.
(14) Citato da Mideast Mirror, Londra, 22 maggio 1998.
(15) Edward Said, "After the Final Acre", Al Ahram Weekly, Il Cairo, 23-29 luglio 1998. (Traduzione di A.M.M.)
Dieci anni di «processo di pace» http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Novembre-2000/0011lm07.01.html
1991 17 gennaio-3 marzo: Guerra del Golfo. 30 ottobre: Apertura della Conferenza di pace di Madrid seguita, il 3 novembre, dai primi negoziati bilaterali israelo-arabi. Che proseguiranno, non senza difficoltà, a Washington. 1993 9-10 settembre: Riconoscimento reciproco di Israele e dell'Olp. 13 settembre: Firma, a Washington, della Dichiarazione di principi sull'autonomia palestinese, negoziata nel corso dell'estate a Oslo. 1994 24 febbraio: Massacro di 29 palestinesi da parte del colono Baruch Goldstein a Hebron. 29 febbraio: Israele e l'Olp concludono un accordo sulle relazioni economiche. 4 maggio: Yasser Arafat e Yitzhak Rabin ratificano al Cairo le modalità di applicazione dell'accordo del 13 settembre 1993, dette accordo di Oslo I. 1995 Gennaio-luglio: Serie di attentati rivendicati dalla Jihad e da Hamas. Arresti di simpatizzanti di Hamas. Israele impone il «blocco» totale di Gaza e della Cisgiordania. 26 settembre: Firma di un accordo interimario (detto Oslo II) sull'estensione dell'autonomia. 4 novembre: Yitzhak Rabin viene assassinato dallo studente di estrema destra Ygal Amir. Shimon Peres, ministro degli esteri, assume l'interim. 1996 20 gennaio: Arafat e i candidati di Fatah vincono le elezioni nei territori autonomi di Cisgiordania e Gaza. Febbraio-marzo: Ondata di attentati sanguinari organizzati a Gerusalemme, Tel Aviv e Ashkelon da Hamas, come rappresaglia all'uccisione dell' «ingegnere» Yehyia Ayache, avvenuta il 5 gennaio. Aprile: Israele bombarda massicciamente il Libano. Massacro di Cana. 5 maggio: Apertura formale dei negoziati sullo statuto finale dei territori occupati. 29 maggio: Vittoria elettorale della coalizione di destra ed estrema destra guidata da Benyamin Netanyahu 27 settembre: L'apertura, a Gerusalemme, di un tunnel al di sotto della spianata delle Moschee scatena gravi violenze (76 morti). 1997 15 gennaio: Natanyahu e Arafat trovano un'intesa sul ritiro dell'esercito israeliano dai quattro quinti della città di Hebron e sul proseguimento dell'attuazione di Oslo II. 25 febbraio: La decisione del governo israeliano di insediare una colonia di ebrei sulla collina di Abu Ghneim (Har Homa) a Gerusalemme Est, blocca i negoziati di pace. 1998 23 ottobre: Accordo di Wye Plantation. Israele si impegna a ritirarsi entro tre mesi da un ulteriore 13% di Cisgiordania, a aprire un «passaggio sud» tra questa parte e la striscia di Gaza e a liberare 700 prigionieri palestinesi, in cambio di un impegno da parte dell'Autorità palestinese a reprimere più duramente i movimenti terroristi, con l'aiuto della Cia. 14 dicembre: Davanti ai dirigenti palestinesi che, riuniti a Gaza, confermano la revisione della Carta dell'Olp, il presidente Usa, Clinton, afferma che «il popolo palestinese è a una svolta: alle vostre spalle, una storia di espropriazioni e diaspore; davanti a voi, la possibilità di costruire il vostro avvenire sulla vostra terra». 1999 17 maggio: Il candidato laburista Ehud Barak prevale ampiamente sul capo del Likud 4 settembre: Accordi di Sharm el-Sheik (Egitto) tra Arafat e Barak. 15 dicembre: Riprendono, a Washington, i negoziati israelo-siriani. 2000 26 marzo: A Ginevra, il fallimento del vertice tra il presidente Clinton e il suo omologo siriano Hafez El Assad segna la fine delle speranze di pace tra Israele e la Siria. Dall'11 al 25 luglio: Vertice di «Camp David II», che si conclude senza un accordo. 28 settembre: Visita di Ariel Sharon, capo della destra israeliana, alla spianata delle Moschee di Gerusalemme. Violenti scontri che si estendono rapidamente alla Cisgiordania e alla striscia di Gaza. 4 ottobre: Riunione a Parigi tra Madeleine Albright, Arafat e Barak. 12 ottobre: Due soldati israeliani vengono linciati a Ramallah. Israele risponde bombardando obiettivi legati all'Autorità palestinese. Dal 16 al 18 ottobre: Vertice a Sharm el-Sheik. L'accordo prevede l'arresto delle violenze, la costituzione di una commissione di inchiesta e la ripresa dei negoziati. 21-22 ottobre: Vertice arabo al Cairo. 2 novembre: Yasser Arafat e l'ex premier Shimon Peres raggiungono un accordo che prevede la cessazione immediata delle violenze. Esplode una bomba in un mercato di Gerusalemme. Continua lo stillicidio quotidiano dei morti. Al 7 novembre se ne contano ormai 180, quasi tutti palestinesi.
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