Quello che abbiamo bisogno di ripristinare è un modello universalistico per comprendere e affrontare Saddam Hussein e Sharon, e di tutto uno stuolo di paesi le cui devastazioni vengono tollerate senza opporre sufficiente resistenza. Il 4 giugno del 1982 numerose aree del Libano subirono pesanti bombardamenti da parte di arerei miliari israeliani. Due giorni dopo l'esercito di Israele penetrò in Libano dal confine meridionale. Menachem Begin era il primo ministro, Ariel Sharon il suo ministro della difesa. La ragione immediata dell'invasione fu l'attentato all'ambasciatore israeliano a Londra, ma allora, come adesso, Begin e Sharon ne attribuirono la responsabilità all'"organizzazione terrorista" dell'OLP, le cui forze nel Libano meridionale in realtà osservavano un cessate il fuoco da circa un anno.
Qualche giorno più tardi, il 13 giugno, Beirut era sotto l'assedio militare israeliano, nonostante a inizio campagna il portavoce del governo israeliano avesse sostenuto di non voler spingersi oltre il fiume Awali, a 35 chilometri a nord del confine. In seguito sarebbe emerso in modo inequivocabile che Sharon stava tentando di uccidere Yasser Arafat, bombardando tutto ciò che stava attorno all'impudente leader palestinese. Oltre all'assedio c'era il blocco degli aiuti umanitari; le forniture di acqua e di elettricità erano state sospese e una campagna serrata di bombardamenti aerei aveva distrutto centinaia di edifici a Beirut. A metà agosto, quando si concluse l'assedio, si contarono 18.000 morti palestinesi e libanesi, la maggior parte dei quali civili.
Sin dalla primavera del 1975, il Libano era lacerato da una terribile guerra civile tra, da una parte, le milizie Cristiane di destra, e, dall'altra, i musulmani di sinistra e i gruppi nazionalisti arabi. Anche se Israele aveva inviato il suo esercito in Libano soltanto una volta prima del 1982, era stato subito reclutato come alleato dalle milizie cristiane di destra. Con una roccaforte a Beirut Est, le milizie cristiane cooperarono con le forze di Sharon per tutta la durata dell'assedio, che si concluse il 12 agosto, dopo un'agghiacciante giornata di bombardamenti indiscriminati, e, naturalmente, i massacri di Sabra e Shatila. Il principale alleato di Sharon era Bashir Gemayel, capo del partito della Falange, che il 23 agosto il parlamento aveva eletto presidente del Libano. Gemayel odiava i palestinesi per essere sconsideratamente entrati nella guerra civile a fianco del Movimento Nazionale, un'estesa coalizione di partiti di sinistra e di partiti nazionalisti arabi che comprendeva Amal, un precursore dell'odierno movimento dell'Hizbullah Scita, il quale avrebbe svolto un ruolo fondamentale nella cacciata degli israeliani nel maggio del 2000. Alla prospettiva di un diretto vassallaggio nei confronti di Israele, dopo che era stato l'esercito di Sharon ad averlo effettivamente fatto eleggere, Gemayel a quanto pare fece marcia indietro. Fu assassinato il 14 settembre. Due giorni dopo iniziarono i massacri dentro un cordone di sicurezza fornito dall'esercito israeliano, per consentire ai vendicativi estremisti cristiani di Gemayel di svolgere indisturbati il loro terribile lavoro nei campi di Sabra e Shatila.
Con la supervisione dell'ONU e naturalmente degli USA, le truppe francesi erano entrate a Beirut in agosto. Poco più tardi sarebbero state raggiunte dalle forze statunitensi e di altri paesi europei, benché già dal 21 agosto i combattenti dell'OLP avevano cominciato ad evacuare il Libano. L'evacuazione si concluse il primo settembre e Arafat con un piccolo gruppo di consiglieri e di soldati furono alloggiati a Tunisi. Nel frattempo la guerra civile libanese continuò fino circa al 1990, quando, a Taif, fu stilato un concordato comune che più o meno restaurava il vecchio sistema confessionale a tutt'oggi in vigore. Verso la metà del 1994, Arafat, ancora a capo dell'OLP, e alcuni di quegli stessi consiglieri e soldati riuscirono a entrare a Gaza grazie ai cosiddetti accordi di Oslo. All'inizio di quest'anno Sharon avrebbe detto di sentirsi rammaricato per non essere riuscito ad uccidere Arafat a Beirut. Certamente non per non averci provato; decine di nascondigli e di quartier generali sono stati ridotti in macerie con grosse perdite umane nel tentativo di stanarlo. I fatti del 1982 hanno consolidato negli arabi la convinzione non solo che Israele avrebbe usato una tecnologia avanzata (aerei, missili, carri armati ed elicotteri) per attaccare i civili in maniera indiscriminata, ma anche che né gli USA né i governi arabi avrebbero fatto nulla per fermare gli attacchi, anche se questi avrebbero significato prendere di mira i leader e le capitali. (Per maggiori dettagli su questo episodio vedi Rashid Khalidi, Under Siege, New York 1986; Robert Fisk, Pity the Nation, London 1990; più specificamente sulla guerra civile in Libano, Jonathan Randall, Going All the Way, New York, 1983). Così si concluse il primo vero e proprio tentativo militare dei nostri tempi di cambiamento di regime da parte di un paese sovrano contro un altro in Medio Oriente. Lo cito come sfondo caotico a quello che sta succedendo in questo momento. Oggi Sharon è il primo ministro di Israele, i suoi eserciti e la sua macchina propagandistica ancora una volta accerchiano Arafat e i palestinesi ne offrono l'immagine disumanizzata di "terroristi". Vale la pena ricordare che la parola "terrorista" cominciò ad essere impiegata sistematicamente da Israele a metà degli anni '70 per descrivere qualsiasi azione di resistenza da parte dei palestinesi. Da allora questa è stata la regola, specialmente durante la prima Intifada del 1987-93, con il risultato di eliminare la distinzione tra resistenza e puro terrore e, di fatto, depoliticizzare le ragioni della lotta armata. Durante gli anni '50 e '60 Ariel Sharon si fece un nome, per così dire, guidando l'infame Unità 101, che fece vittime tra i civili arabi e rase al suolo le loro case con l'approvazione di Ben-Gurion. Questi era incaricato della pacificazione di Gaza tra il 1970 e il 1971. Nessuna di queste azioni, compresa la campagna del 1982, è mai riuscita a scacciare il popolo palestinese, o a cambiare con mezzi militari i confini territoriali o a rovesciare il regime al punto da assicurare a Israele una completa vittoria.
La differenza principale tra il 1982 e il 2002 è che oggi i palestinesi sono assediati proprio in quei territori palestinesi che nel 1967 erano occupati da Israele e nei quali sono rimasti nonostante le devastazioni causate dall'occupazione, il tracollo dell'economia, e di tutta l'infrastruttura civile della vita collettiva. L'analogia principale sta negli spropositati mezzi impiegati, per esempio le centinaia di carri armati e di bulldozer usati per entrare nelle città e in villaggi come Jenin o in campi profughi come quelli di Jenin e Deheisheh, per uccidere, per annientare, per impedire alle ambulanze e agli operatori del pronto soccorso di recare aiuti, per tagliare l'acqua e l'elettricità e così via. Il tutto con il sostegno degli USA, il cui presidente è arrivato a chiamare Sharon "uomo di pace", proprio durante i terribili scontri del marzo e dell'aprile del 2002. L'intenzione di Sharon sia andata ben oltre quella di "estirpare il terrore": i suoi soldati hanno distrutto tutti i computer e portato via i file e gli hard drive dall'ufficio centrale di statistiche, dal ministero dell'istruzione, della finanza, della sanità, dai centri culturali, arrecando danni a funzionari e biblioteche, il tutto con lo scopo di riportare la vita collettiva dei palestinesi a un livello di pre-modernità.
Non voglio ripetere le mie critiche alle tattiche di Arafat, o ai fallimenti del suo deplorabile regime durante e dopo i negoziati di Oslo. L'ho già fatto diffusamente qui e altrove. Inoltre, mentre scrivo, l'uomo si sta letteralmente aggrappando alla vita con i denti; i suoi quartieri ridotti in macerie a Ramallah sono ancora assediati mentre Sharon sta facendo il possibile per ferirlo, senza tuttavia farlo uccidere. Quello di cui mi interessa discutere è il concetto di un cambiamento di regime come prospettiva allettante da parte di individui, ideologie e istituzioni che sono enormemente più potenti dei loro avversari. In base a quale ragionamento è possibile concepire l'idea che una grande potenza militare possa autorizzare un cambiamento politico e sociale di proporzioni in passato inimmaginabili, e di farlo senza troppo preoccuparsi dei danni su vasta scala che tali cambiamenti di necessità comportano? E come possono le prospettive di un limitato rischio di vittime di guerra (dalla propria parte) nutrire sempre nuove fantasie di attacchi chirurgici, di guerra pulita, di campi di battaglia ad alta tecnologia, di creazione di nuovi profili territoriali, di istituzione della democrazia e cose del genere, mentre si alimentano idee di onnipotenza, di colpi di spugna al passato, di controllo su ciò che conta per la "nostra" parte?
Durante l'attuale campagna americana per il cambiamento di regime in Iraq, è il popolo iracheno, la maggior parte del quale ha pagato un prezzo terribile in povertà, malnutrizione e malattie a conseguenza dei dieci anni di sanzioni, che è scomparso. Tutto ciò è perfettamente coerente con la politica americana in Medio Oriente, che è costruita su due pilastri: la sicurezza di Israele e le enormi forniture di petrolio a buon mercato. Il complesso mosaico di tradizioni, religioni, culture, etnie e storie che costituiscono il mondo arabo, soprattutto in Iraq, nonostante l'esistenza di stati-nazione con arcigni e dispotici governanti, non hanno alcun valore per gli strateghi statunitensi e israeliani. Con la sua storia di 5000 anni, l'Iraq oggi è considerato una "minaccia" per i suoi vicini, cosa che, nella attuale condizione di debolezza e nello stato di assedio in cui versa il paese, è pura idiozia, o, idiozia ancora più grossa, una "minaccia" alla libertà e alla sicurezza degli Stati Uniti. Non ho intenzione qui di aggiungere la mia condanna di Saddam Hussein in quanto essere terribile: darò per scontato che egli certamente meriti di essere rimosso e punito, soprattutto perché rappresenta una minaccia per la sua stessa gente.
Eppure, dal periodo precedente la prima guerra del golfo, l'immagine dell'Iraq come un paese arabo grande, prospero e vario, è scomparsa; l'immagine che circola sia nei media che nei dibattiti politici è quella di una landa desolata abitata da bande di bruti capeggiate da Saddam. Del fatto che lo svilimento dell'Iraq, per esempio, abbia quasi rovinato l'industria editoriale araba (l'Iraq forniva il più alto numero di lettori nel mondo arabo); che l'Iraq era uno dei pochi paesi arabi con un'ampia classe media di professionisti istruiti e competenti; che questo paese abbia petrolio, acqua e terra fertile; che sia sempre stato il centro culturale del mondo arabo (l'impero Abbasid con la sua grande letteratura, filosofia, architettura, scienza e medicina ha fornito il grande contributo iracheno alla base della cultura araba); del fatto che la ferita aperta della sofferenza degli iracheni, così come il calvario palestinese, è stata una fonte di continuo dolore per gli arabi e i musulmani - nessuno mai ne parla. Si parla, però, delle vaste riserve petrolifere irachene, e della possibilità che, se "noi" le strappassimo a Saddam e ne assumessimo il controllo, non dipenderemmo così tanto dal petrolio Saudita. Anche di questo fatto si parla poco nei vari dibattiti che spaccano il Congresso americano e i media. Ma vale la pena ricordare che, dopo l'Arabia Saudita, l'Iraq ha le più vaste riserve petrolifere sul pianeta e che una quantità di petrolio per un valore di circa 1.1 trilioni di dollari -gran parte del quale già destinato da Saddam alla Russia, alla Francia e a pochi altri paesi-sono un obiettivo primario della strategia statunitense, cosa che il Congresso Nazionale Iracheno ha usato come asso nella manica con i consumatori di petrolio non statunitensi. (Per maggiori dettagli su questo punto, vedi Michael Klare, "Oiling the Wheels of War," The Nation, 7 ottobre). Gran parte delle contrattazioni tra Putin e Bush verte su quanta percentuale di quel petrolio le compagnie statunitensi sono disposte a promettere alla Russia. Tutto ciò ci riporta curiosamente indietro ai quattro bilioni di dollari offerti da Bush Senior alla Russia. Entrambi i Bush sono dopotutto uomini di affari che operano nel campo del petrolio, e sono più sensibili a questo tipo di calcoli che ai cavilli della politica mediorentale, come la nuova devastazione delle infrastrutture dei civili in Iraq.
Così il primo passo nella disumanizzazione dell'odiato Altro consiste nel ridurre la sua esistenza a poche frasi, immagini, concetti insistentemente ripetuti. Questo rende più semplice bombardare senza scrupoli il nemico. Dopo l'undici settembre, è stato abbastanza semplice farlo per Israele e gli Stati Uniti, rispettivamente con i popoli palestinese e iracheno. La cosa importante da notare è gli americani e israeliani fanno la stessa politica e propongono gli stessi severi piani d'azione in uno, due o tre fasi. Negli Stati Uniti, come Jason Vest ha scritto nel The Nation (settembre 2/9), il Pentagono e le commissioni di Dipartimento di Stato, inclusa quella gestita da Richard Perle (nominato da Wolfowitz e Rumsfeld) sono piene di uomini dell'Istituto Ebraico per la Sicurezza Nazionale (JINSA) e del Centro della Politica di Sicurezza (CSP), entrambi di estrema destra. La sicurezza israeliana e quella americana sono identificate, e il JINSA spende il "grosso del suo bilancio mandando in Israele frotte di generali e ammiragli statunitensi in pensione". Quando ritornano, questi scrivono editoriali e vanno in televisione a propagandare la linea Likud. Nel numero del 23 agosto, intitolato "Dentro il Consiglio di guerra segreto", il settimanale Time ha pubblicato un pezzo sul Comitato di Politica di Difesa del Pentagono, molti dei cui membri provengono dal JINSA e dal CSP.
Da parte sua, Sharon ripete stancamente che la sua campagna contro il terrorismo palestinese è identica alla guerra americana al terrorismo in generale, a Osama Bin Laden e ad Al Qaeda in particolare. E questi, sostiene, fanno a loro volta parte della stessa Internazionale Terrorista che comprende molti musulmani in tutta l'Asia, l'Africa, l'Europa, e il Nord America, anche se l'asse del male di Bush sembra per il momento essersi concentrato in Iraq, Iran e Nord Corea. Sono 132 oggi i paesi con una presenza militare americana, tutti legati alla guerra al terrore, che rimane indefinita e nebulosa tale da scatenare ulteriormente l'esaltazione patriottica, la paura e l'appoggio all'azione militare sul fronte domestico, dove le cose vanno di male in peggio. Tutte le più importanti aree della striscia di Gaza sono occupate da truppe israeliane che sistematicamente uccidono e/o fermano i palestinesi perché "sospetti" terroristi o militanti; allo stesso modo, case e negozi sono spesso abbattuti col pretesto che ospitano fabbriche di ordigni, celle terroristiche e ritrovi di militanti. Non vengono fornite prove, né ne vengono richieste dai giornalisti che accettano senza commenti la versione unilaterale degli israeliani.
Un'immensa coltre di mistificazioni e astrazioni è dunque calata su tutto il mondo arabo a seguito di questo sistematico tentativo di disumanizzazione. Le parole che si usano per parlare del mondo arabo sono terrore, fanatismo, violenza, odio della libertà, insicurezza e, naturalmente, le armi di distruzione di massa, che vengono cercate non dove noi tutti sappiamo e dove non sono mai state cercate (in Israele, Pakistan, India e ovviamente gli Stati Uniti tra gli altri), ma negli ipotetici spazi delle file terroriste, nelle mani di Saddam, nelle bande di fanatici, ecc. Una costante è che gli arabi odiano Israele e gli ebrei per il solo motivo che essi odiano anche l'America. Potenzialmente l'Iraq è il nemico più temibile di Israele per le sue risorse economiche e umane; i palestinesi intralciano la completa egemonia e l'occupazione territoriale degli israeliano degli israeliani. Israeliani di destra come Sharon che rappresentano la Grande ideologia di Israele che rivendica tutta la Palestina storica come patria degli ebrei sono riusciti a imporre la loro visione della regione ai sostenitori di Israele negli Stati Uniti.
Quest'estate, in una trasmissione televisiva americana, Uzi Landau, ministro della sicurezza interna di Israele (e membro del Partito Likkud che sostiene 'il "trasferimento" di tutti i palestinesi fuori da Israele e dai Territori Occupati) ha affermato che tutto questo parlare di "occupazione" era un'assurdità. Siamo un popolo che torna a casa, ha detto. Quest'idea incredibile non è stata nemmeno oggetto di domande da parte di Mort Zuckerman, padrone di casa del programma, e proprietario delle US News e del World Report nonché presidente del Consiglio dei Presidenti delle Maggiori Organizzazioni Ebree. Ancora, il giornalista israeliano Alex Fishman, nel Yediot Aharanot del 6 settembre, definisce le "idee rivoluzionarie" di Condoleeza Rice, Rumsfeld (anch'egli parla dei "cosiddetti territori occupati"), Cheney, Paul Wolfowitz, Douglas Feith e Richard Perle (che ha commissionato il notorio studio Rand che designa l'Arabia Saudita come nemico e l'Egitto come il premio per l'America nel mondo arabo) idee da veri falchi della politica perché appoggiano il cambiamento di regime in tutti i paesi arabi. Fishman cita Sharon quando quest'ultimo sostiene che questi personaggi, molti dei quali membri del JINSA e del CCP, e connessi all'Istituto di Washington degli Affari del Vicino Oriente, affiliato dell'AIPAC, dominano il pensiero (se questo è il termine adatto) di Bush; Sharon dice che "in confronto ai nostri amici americani, Effi Eitam [uno dei più irriducibili e spietati nel governo di Israele] è una colomba."
Persino più spaventosa è l'idea incontrastata che se "noi" non preveniamo il terrorismo (o qualsiasi altro potenziale nemico), verremo distrutti. Questa è adesso l'essenza della strategia di sicurezza americana, regolarmente pubblicizzata in interviste e talk show da Rice, Rumsfeld, e dallo stesso Bush. L'esplicitazione formale di questo pensiero apparve non molto tempo fa sul National Security Strategy of the United States, un giornale ufficiale redatto come manifesto integrale della nuova politica estera dell'amministrazione all'indomani della guerra fredda. L'assunto di fondo è che viviamo in un mondo eccezionalmente pericoloso con una rete di nemici che possiede fabbriche, uffici, un infinito numero di adepti, e la cui intera esistenza è votata a distruggerci, se "noi" non li prendiamo prima. Questo assunto è quello che fonda e legittima la guerra al terrorismo e all'Iraq, ed è proprio questo che il Congresso e l'ONU sono adesso chiamati a sottoscrivere.
Il fanatismo, di gruppi o di singoli individui, certamente esiste, e generalmente appoggia azioni ai danni di Israele o gli Stati Uniti. D'altro canto, nel mondo arabo e islamico è diffusa la convinzione che Israele e gli Stati Uniti abbiano prima creato i cosiddetti estremisti della jihadi di cui Bin Laden è il più famoso, e poi abbiano allegramente ignorato il diritto internazionale e le risoluzioni dell'ONU per perseguire in quei paesi le loro politiche ostili e distruttive. Nelle colonne del Guardian del Cairo, David Hirst scrive che persino gli arabi che si oppongono ai loro regimi dispotici "vedranno [l'attacco degli Stati Uniti all'Iraq] come un atto di aggressione diretto non solo all'Iraq, ma a tutto il mondo arabo; e ciò che lo renderà soprattutto intollerabile è che verrà fatto a nome di Israele, il cui possesso di un vasto arsenale di armi di distruzione di massa sembra accettabile, almeno quanto il proprio sembra abominevole." (6 settembre)
Voglio dire che esiste anche una posizione palestinese distinta e, almeno dalla metà degli anni '80, una volontà formale di pace con Israele che è opposta alla più recente minaccia terroristica rappresentata da Al Qaeda o dalla spuria minaccia apparentemente incarnata da Saddam Hussein, uomo senza dubbio terribile, ma difficilmente in grado di lanciarsi in una guerra intercontinentale; solo di rado l'amministrazione ammette che egli possa rappresentare una minaccia per Israele, ma questo pare essere uno dei suoi gravi peccati. Nessuno dei paesi vicini lo percepisce come una minaccia. I palestinesi e l'Iraq vengono confusi sì da costituire una minaccia collettiva che i media non fanno che consolidare.
Buona parte delle storie di palestinesi che appaiono nei raffinati e influenti giornali come The New Yorker e The New York Times li rappresentano esclusivamente come fabbricanti di bombe, collaborazionisti, kamikaze. Nessuno di questi giornali ha mai pubblicato niente dalla prospettiva araba dall'undici settembre. Niente.
Così, quando addetti stampa dell'amministrazione come Dennis Ross (responsabile dello staff di Clinton ai negoziati di Oslo, ma, sia prima che dopo, membro di una lobby israeliana) continuano a dire che i palestinesi rifiutarono una generosa offerta israeliana a Camp David, questi non fanno che distorcere clamorosamente i fatti. Come svariate fonti autorevoli hanno dimostrato, infatti, in quell'offerta Israele concedeva aree palestinesi non contigue, sorvegliate da presidi di sicurezza e insediamenti israeliani tutt'intorno, e senza nessun confine comune tra Palestina e altri stati arabi (p.e. l'Egitto a sud, la Giordania a est). Perché parole come "offerta" e "generosa" dovrebbero applicarsi a un territorio tenuto illegalmente da una forza di occupazione in contravvenzione alla legge internazionale e alle risoluzioni dell'ONU, nessuno si è mai curato di chiederselo. Ma il potere dei media di ripetere, reiterare e sottolineare semplici frasi, oltre agli indefessi sforzi della lobby israeliana di ribadire lo stesso concetto (lo stesso Dennis Ross si è dimostrato particolarmente ostinato nel reiterare questa falsità) significa che ormai si è diffusa l'idea che i palestinesi hanno scelto "il terrore invece della pace". Hamas e la Jihad islamica non vengono visti come una parte (probabilmente allo sbando) della lotta palestinese di liberazione dall'occupazione militare israeliana, ma come parte del desiderio palestinese di seminare terrore, di minacciare e di rappresentare una minaccia. Come l'Iraq.
In ogni caso, con la più recente e alquanto improbabile convinzione dell'amministrazione statunitense che l'Iraq laico abbia fornito asilo e addestramento ai folli teocrati di Al Qaeda, il caso contro Saddam sembra essere chiuso. L'opinione più diffusa (ma tutt'altro che incontrastata) all'interno del governo è che, dato che gli ispettori ONU non possono accertare quali armi di distruzioni di massa possegga Saddam, che cosa nasconda e che cosa possa ancora fare, il leader iracheno dovrebbe essere attaccato e rimosso. Dal punto di vista degli Stati Uniti il vero motivo della richiesta di un'autorizzazione all'ONU è quello di ottenere una risoluzione così rigida e punitiva che non importa che Saddam Hussein vi si adegui oppure no: egli sarà incriminato per avere violato la "legge internazionale" e la sua stessa esistenza giustificherà un cambiamento di regime. D'altro canto, a fine settembre una risoluzione del Consiglio di Sicurezza passato all'unanimità (con l'astensione degli Stati Uniti), ingiunse a Israele di mettere fine all'assedio del recinto di Arafat a Ramallah e di ritirarsi dal territorio palestinese illegalmente occupato da marzo (il pretesto di Israele è quello dell'"autodifesa"). Israele si è rifiutato di ottemperare, e la giustificazione addotta dagli Stati Uniti per non aver cercato di far rispettare le proprie posizioni dichiarate è che "noi" capiamo che Israele debba difendere i suoi cittadini. Il perché l'ONU debba essere cercato in un caso e ignorato in un altro, è una delle contraddizioni che gli Stati Uniti si accordano.
Un certo numero di espressioni inventate, come "prevenzione anticipatoria" o "autodifesa preventiva", vengono fatte circolare da Donald Rumsfeld e dai suoi colleghi per persuadere la gente che i preparativi per la guerra contro l'Iraq o qualsiasi altro stato che necessiti di un "cambiamento di regime" (o, con un altro, più prezioso eufemismo, di "distruzione costruttiva") si reggono sul concetto di autodifesa. Si tiene l'opinione pubblica sulle spine con allarmi rossi o arancioni, si incoraggia la gente a informare le autorità preposte all'applicazione delle leggi di comportamenti "sospetti", e migliaia di musulmani, arabi e sudasiatici sono stati fermati, e in alcuni casi arrestati per sospetto. Tutto questo viene eseguito per ordine del presidente come parte del patriottismo e dell'amore per l'America. Personalmente non ho ancora capito cosa significhi amare un paese (nei discorsi dei politici statunitensi, "amore per Israele" è un'altra espressione corrente), ma pare che significhi lealtà cieca e incondizionata ai poteri, la cui segretezza, evasività e caparbio rifiuto di dialogare con un'opinione pubblica attenta (ma al momento l'opinione pubblica non sembra avere maturato una risposa coerente o sistematica) ha nascosto la mostruosità e la distruttività di tutta la politica in Iraq e nel Medio Oriente dell'amministrazione Bush.
Gli Stati Uniti sono così potenti in confronto alla maggior parte degli altri grandi paesi messi insieme che non possono essere costretti a conformarsi a un sistema internazionale di condotta, nemmeno quella che il segretario di stato potrebbe desiderare. La discussione sull'ipotesi di una "nostra" entrata in guerra contro un paese, l'Iraq, lontano 7000 miglia, rimane astratta, così come astratta diventa l'identità di quei popoli. Visti dai dispositivi di puntamento di un bel missile o in televisione, l'Iraq e l'Afganistan appaiono come una scacchiera che "noi" decidiamo di invadere, distruggere, ricostruire oppure no, a nostro piacere. La parola "terrorismo", così come la guerra contro di esso, ben si presta ad alimentare questo sentimento, perché a differenza di molti europei, la maggior parte degli americani non hanno mai avuto contatti o esperienze di vita con i paesi e i popoli musulmani e quindi non hanno idea della struttura di vita che una campagna sostenuta di bombardamenti (come in Afganistan) manderebbe in pezzi. E il fatto che il terrorismo venga spiegato semplicemente come il risultato di odio e di invidia, incoraggia i polemisti a ingaggiare stravaganti dibattiti dai quali la storia e la politica sembrano essere scomparsi. La storia e la politica sono scomparse perché la memoria, la verità, e la vera esistenza umana sono state declassate. Non si può parlare della sofferenza palestinese o della frustrazione araba perché la presenza di Israele negli Stati Uniti ce lo impedisce. In un'accesa manifestazione pro-israeliana lo scorso maggio, Paul Wolfowitz ha parlato en passant della sofferenza dei palestinesi, ma dopo essere stato fischiato ha lasciato cadere ogni altro riferimento.
Una politica coerente dei diritti umani o del libero commercio che rispetta le virtù infinitamente sottolineate dei diritti umani, della democrazia, e le economie libere che noi negli Stati Uniti, secondo costituzione, rappresentiamo, è suscettibile di essere insidiata all'interno da speciali gruppi di interesse (come testimoniano l'influenza delle lobby etniche, le industrie dell'acciaio e della difesa, il cartello petrolifero, l'industria agricola, i pensionati, la lobby delle pistole, per citarne solo alcune). Ogni singolo distretto dei 435 rappresentati a Washington, per esempio, ha al suo interno un'industria di difesa o legata alla difesa; così che come il Segretario di Stato James Baker disse poco prima della prima Guerra del Golfo, il vero problema in quella guerra contro l'Iraq erano "i posti di lavoro". In materia di politica estera, vale la pena ricordare che soltanto qualcosa come il 25-30 per cento (in confronto al 15 per cento degli americani che hanno viaggiato all'estero) dei membri del Congresso hanno il passaporto, e quello che dicono o pensano ha meno rilevanza con la storia, la filosofia, o gli ideali, che con gli interessi con coloro che influenzano le campagne elettorali, mandano denaro, e via dicendo. Due deputati in carica, Earl Hilliard dell'Alabama e Cynthia McKinney della Georgia, sostenitori del diritto di autodeterminazione dei palestinesi e critici di Israele, sono stati recentemente battuti da candidati relativamente sconosciuti ma generosamente finanziati con quello che è stato apertamente chiamato "denaro di New York" (cioè ebreo) proveniente da fuori degli Stati Uniti. I due sconfitti sono stati aspramente criticati dalla stampa e definiti estremisti e non patriottici.
Per quanto riguarda la politica degli Stati Uniti in Medio Oriente, la lobby israeliana non ha pari e ha trasformato il ramo legislativo del governo statunitense in quello che l'ex Senatore Jim Abourezk una volta chiamò "territorio occupato da Israele". Una lobby araba paragonabile a questa non esiste nemmeno, almeno non così efficiente. Per esempio, periodicamente il Senato invia al presidente delle risoluzioni non richieste che enfatizzano, sottolineano e reiterano il sostegno americano per Israele. Una risoluzione di questo tipo fu emanata in maggio, proprio nel momento in cui le forze israeliane stavano occupando e di fatto distruggendo tutte le più grandi città della striscia di Gaza. Alla lunga questo appoggio incondizionato alle politiche estremiste di Israele non gioverà al suo futuro in quanto paese mediorientale. Come Tony Judt ha sostenuto di recente, la prospettiva di Israele di rimanere in Palestina è insostenibile e non fa che rimandarne l'inevitabile ritiro.
Il tema della guerra al terrorismo ha consentito a Israele e ai suoi alleati di perpetrare crimini di guerra contro gli abitanti palestinesi della striscia di Gaza, 3.4 milioni dei quali sono diventati (come si dice adesso in gergo) "danni collaterali non-combattenti". Terje-Roed Larsen, Amministratore Speciale dell'ONU nei territori occupati, ha appena pubblicato una relazione che accusa Israele di catastrofe umanitaria: la disoccupazione ha raggiunto il 65 per cento, il 50 per cento della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, e l'economia, per non parlare della vita della gente, è andata in frantumi. In confronto, la sofferenza e l'insicurezza degli Israeliani è notevolmente inferiore: non vi sono carri armati palestinesi a occupare zone di Israele, e nemmeno a sfidare gli accampamenti israeliani. Nelle scorse due settimane gli israeliani hanno ucciso 75 palestinesi, molti dei quali bambini, hanno demolito case, deportato persone, raso al suolo terreni coltivabili, tenuto tutti in casa con coprifuochi di 80 ore alla volta, impedito la mobilità di civili attraverso posti di blocco e il passaggio di ambulanze e di aiuti medici, e come al solito, tagliato le forniture d'acqua e l'elettricità. Le scuole e le università semplicemente non funzionano. Sebbene questi fatti si ripetano quotidianamente da almeno 35 anni, al pari dell'occupazione stessa e delle decine di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, i media statunitensi ne parlano solo di rado, in calce a lunghi articoli sui dibattiti del governo israeliano, o come disastrosi attacchi suicidi. La concisa espressione "sospettato di terrorismo" è al tempo stesso la giustificazione e l'epitaffio per chiunque Sharon scelga di fare uccidere. Gli Stati Uniti non sollevano obiezioni se non in termini molti blandi, per esempio per dire che le azioni di Israele "non sono utili", il che non basta di certo a fermare la prossima ondata di uccisioni.
Ci avviciniamo adesso al centro della questione. A causa degli interessi israeliani nel paese, la politica mediorientale statunitense è di conseguenza centrata su Israele. Dopo l'undici settembre si è verificata una congiuntura agghiacciante in cui la destra cristiana, la lobby israeliana e la semi-religiosa belligeranza dell'amministrazione Bush sono giustificate da falchi neo-conservatori impegnati nella distruzione dei nemici di Israele, o, come si dice talvolta usando un eufemismo, a ridisegnare la geografia portando un cambiamento di regime e "democrazia" ai paesi arabi che più minacciano Israele. (Vedi "The Dynamics of World Disorder: Which God is on Whose Side?" di Ibrahim Warde, Le Monde Diplomatique, settembre 2002 e "Born-Again Zionists" di Ken Silverstein e Michael Scherer, Mother Jones, ottobre 2002). La campagna di Sharon per la riforma palestinese è semplicemente l'altra faccia del suo tentativo di distruggere politicamente la Palestina, sua ambizione di una vita. L'Egitto, l'Arabia Saudita, la Siria, persino la Giordania sono stati in un modo o nell'altro minacciati, nonostante il fatto che, per quanto terribili i loro regimi, essi sono stati protetti e sostenuti dagli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale, così come l'Iraq. In realtà pare ovvio a chiunque conosca il mondo arabo che è assai probabile che il suo stato precario peggiori sensibilmente dopo che gli Stati Uniti avranno cominciato ad attaccare l'Iraq. I sostenitori della politica dell'amministrazione ogni tanto discutono astrattamente di quanto sarebbe bello portare la democrazia in Iraq e negli altri stati arabi, senza troppo curarsi di che cosa, in termini di esperienza di vita, questo significherà per la gente che ci vive, soprattutto dopo che gli attacchi dei B-52 avranno inesorabilmente distrutto la loro terra e le loro case. Non riesco ad immaginare un solo arabo o un iracheno che non voglia vedere rimosso Saddam Hussein. Tutti i segnali provano che l'azione militare statunitense/israeliana hanno peggiorato notevolmente le cose per la quotidianità della gente comune, ma questo è nulla a confronto con l'ansia terribile, le distorsioni psicologiche e le malformazioni politiche imposte su quelle società.
Oggi né l'opposizione irachena espatriata, corteggiata intermittentemente da almeno due amministrazioni statunitensi, né i vari generali statunitensi come Tommy Franks, hanno molta credibilità come capi di governo in Iraq dopo la guerra. Né sembra si sia riflettuto abbastanza su ciò di cui l'Iraq avrà bisogno dopo il cambiamento di regime, di attori interni, dopo che persino il Baath sarà epurato. Può darsi il caso che neppure l'esercito iracheno muoverà un dito per Saddam. Tuttavia è interessante che in un recente dibattimento congressuale tre ex generali del Commando Centrale statunitense abbiano espresso serie e, oserei dire, drastiche riserve circa i rischi di quest'avventura così come è stata predisposta nei piani militari. Ma questi dubbi non riguardano al brulicante settarismo interno al paese o la dinamica etno-religiosa, soprattutto dopo 30 debilitanti anni sotto il partito Baath, le sanzioni ONU, e due importanti guerre (tre, se e quando gli Stati Uniti attaccheranno). Nessuno, nessuno negli Stati Uniti ha un'idea reale di cosa potrebbe succedere in Iraq, o in Arabia Saudita, o in Egitto nel caso di un grande intervento militare. Basta sapere, e poi tremare al pensiero, che Fouad Ajami e Bernard Lewis sono i maggiori consiglieri dell'amministrazione. Entrambi, violentemente e ideologicamente anti-arabi, sono discriminati dalla maggior parte dei loro colleghi. Lewis non ha mai vissuto nel mondo arabo, e quello che ha da dire in proposito è spazzatura reazionaria; Ajami, proveniente dal Libano meridionale, un tempo era un sostenitore progressista della lotta palestinese e adesso si è convertito all'estrema destra ed ha sposato il Sionismo e l'imperialismo americano senza riserve.
L'undici settembre ha forse fornito un periodo di riflessione nazionale sulla politica estera statunitense dopo lo shock di quella atrocità spropositata. Un terrorismo del genere deve certamente essere affrontato con forza, ma a mio avviso sono sempre le conseguenze di una reazione forte che devono in primo luogo essere tenute in considerazione, non soltanto le reazioni immediate, di riflesso, violente. Nessuno sosterrebbe oggi che, anche dopo la disfatta dei Talebani, l'Afganistan sia diventato un luogo migliore e più sicuro dal punto di vista dei cittadini che ancora soffrono. La costituzione di uno stato in questi paesi non è chiaramente la priorità degli Stati Uniti, poiché altre guerre in altri luoghi distolgono l'attenzione da quel campo di battaglia. Inoltre, che cosa significa per gli americani costruire una nazione con una cultura e una storia così diverse dalla propria come l'Iraq? Sia il mondo arabo che gli Stati Uniti sono luoghi di gran lunga più complessi e dinamici di quanto facciano pensare i luoghi comuni sulla guerra e le frasi altisonanti sulla ricostruzione. Questo è diventato evidente nel periodo successivo agli attacchi statunitensi all'Afganistan.
A complicare le cose, vi sono oggi voci di dissenso di notevole peso nella cultura araba di oggi, e ci sono movimenti di riforma su un ampio fronte. Lo stesso dicasi degli Stati Uniti, dove, a giudicare dalle mie recenti esperienze nella mie conferenza in vari campus universitari, la maggior parte dei cittadini è ansiosa di sapere della guerra, di saperne di più, soprattutto ansiosa di non andare in guerra avendo in testa tale messianica bellicosità e tali vaghi obiettivi.
Nel frattempo, come The Nation si è espresso nel suo ultimo editoriale, il paese marcia verso la guerra come in trance, mentre con un crescente numero di eccezioni, il Congresso ha semplicemente abdicato al suo ruolo di rappresentare gli interessi della gente. Da persona che ha vissuto tutta la vita tra le due culture, trovo spaventoso che lo scontro tra civiltà, questo concetto riduttivo e volgare così in voga oggi, abbia preso il sopravvento sul pensiero e sull'azione. Ciò che abbiamo bisogno di ripristinare è un modello universalistico per comprendere e affrontare Saddam Hussein e Sharon, i capi di governo di Myanmar, della Siria, della Turchia, e tutto uno stuolo di paesi le cui devastazioni vengono tollerate senza sufficiente resistenza. La demolizione di case, la tortura, la negazione dei diritti all'istruzione devono essere combattute dovunque si presentano. Non conosco altro modo di ricreare o restaurare questo modello se non attraverso l'istruzione, la promozione di discussioni aperte, di scambi e un'onestà intellettuale che non abbia niente a che fare con speciali appelli segreti o con il gergo della guerra, con l'estremismo religioso e la difesa "preventiva". Ma ciò, ahimé, richiede molto tempo, e a giudicare dai governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, il suo piccolo alleato, non porta voti. Dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per aprire una discussione e porre domande imbarazzanti, per rallentare e, infine, fermare il ricorso alla guerra che oggi è diventato una teoria e non solo una pratica.
www.zmag.org/Italy/said-israeleusairaq.htm
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