NON LA POSIZIONE DELLO ZIO DI UN AMICO DEL MIO AMICO, bensi la posizione ufficiale dell'ANP
Esclusivo Salah Salah, portavoce Anp a Beirut di Stefano Minutillo Turtur 13 May 2004 Dal nostro inviato a Beirut Cola Square, trafficata arteria stradale di una Beirut caratterizzata da scheletri di edifici a pezzi, tangibile testimonianza di quindici anni di guerra, e ricchi grattacieli in costruzione. Tra rumorosi ingorghi di macchine ed in mezzo al via vai frenetico delle persone, io ed il mio collega aspettiamo sotto l'insegna di un distributore di benzina; ci siamo persi, perché a Beirut i palazzi non hanno numeri civici ma nomi in arabo, ed aspettiamo che ci vengano a prendere. Finalmente ci chiamano: è una donna dallo sguardo gentile e divertito che ci conduce a casa sua dove il marito già ci aspetta da un po'. Nel salotto, sul divano ci attende Salah Salah, dirigente politico prima dell'Olp e poi dell'Anp, membro del Security Council ed attualmente Chairman per il governo palestinese in Libano.
Dopo le dovute presentazioni ed il caffè arabo, rito di ospitalità, la prima domanda che gli poniamo riguarda un'analisi degli ultimi 10 anni di politica in Palestina, dagli Accordi di Oslo alla Road Map. Salah Salah risponde a ruota libera.
"Al principio, gli Accordi di Oslo sembravano essere una luce di speranza per tutti, palestinesi, israeliani ed anche per quei paesi arabi da sempre nemici di Israele e contrari a qualsiasi tipo di compromesso con lo stato ebraico. Gli accordi vennero salutati da tutti con entusiasmo, credendo che potessero portare ad una normalizzazione politica in Palestina e in tutta il settore mediorientale. Ma ben presto ci rendemmo conto che la mediazione di Oslo era contraria ai diritti dei palestinesi per tre evidenti motivi: primo, ci chiedevano esplicitamente di dissolvere la guerriglia palestinese prima ancora di averci concesso qualcosa; secondo, era chiara l'intenzione degli israeliani di tenere in pugno la popolazione palestinese lasciando irrisolti, anzi in alcuni casi creandone nuovi, i profondi disagi che da sempre la sconvolgono; terzo, le condizioni israeliane puntavano a far valere solo le loro pretese e niente più".
"Molte altre mediazioni ci sono state subito dopo Oslo (Wye Plantation, il Rapporto Mitchell, la mediazione Tenet); in tutte, Israele ha sempre dimostrato la chiara volontà di non voler trovare un compromesso con i palestinesi: i governi israeliani, sia del Likud sia i laburisti, non hanno mai rispettato gli accordi presi, ma ogni volta hanno messo fine alle speranze d6i pace perseguendo unilateralmente i loro obiettivi. Io, personalmente, credevo nelle mediazioni internazionali come Oslo, ma non ho mai creduto nella sincera volontà israeliana di compromesso con la parte palestinese".
"Si deve tenere in considerazione che l'obiettivo finale di Israele è la costituzione di uno solo stato in Palestina, quello ebraico. Questo è chiaro quando gli israeliani appellano il proprio territorio "Eretz Israel", implicando l'esclusione totale della popolazione araba di religione non ebraica; uno stato per gli ebrei e per nessun altro, che preservi l'omogeneità etnica di Israele. La negazione di ogni possibilità di accordo è dimostrata dalle rivendicazione che Israele ha sempre imposto in ogni negoziato: Gerusalemme, capitale unica e indivisibile del solo stato israeliano, espropriazione, occupazione ed insediamento nei territori palestinesi, rigorosa negazione dei diritti della popolazione palestinese, tra cui il fondamentale diritto di ritorno".
"Le negoziazioni finora prese, soprattutto quelle cosiddette "Oslo II", firmate a Taba nel 1995, - continua - hanno avuto come unico risultato la divisione fisica dei territori palestinesi in 8 enclavi, 4 nella sola West Bank e le altre sparse principalmente nel nord, che fanno capo alle principali città palestinesi di Nablus, Tulkarem, Ramallah, Betlemme. Questa sistemazione in Bantustan ha di fatto frammentato la continuità territoriale della parte palestinesi, dividendola fisicamente ed isolandone le popolazioni. Ogni possibilità di spostamento e di movimento, anche solo per recarsi al lavoro, è rese difficile se non vietata; checkpoints, "misure di sicurezza" come muri e recinzioni e gli insediamenti colonici vigilano che ogni contatto o spostamento tra le città palestinesi sia difficile o impossibilitato. Con questa politica oppressiva, non ci sarà mai la possibilità di un compromesso con gli israeliani".
Ma deve pur esserci una possibilità di dialogo che ricerca la pace per i due popoli?
"Come si può cercare un compromesso con chi non lo vuole e persegue solamente i propri obiettivi? Durante Camp David 2000, Arafat si rese conto che non c'era possibilità di trovare un accordo con Barak: sia gli americani che gli israeliani, nel promettere la creazione di "un'entità statale palestinese", imponevano unicamente le loro condizioni, obbligando la parte palestinese ad accettare o ad abbandonare e rendersi responsabile del fallimento del negoziato. Era una chiara strategia: gli israeliani, appoggiati dall'amministrazione americana, non concedevano niente di importante, ma imponevano rigidamente i loro interessi".
Durante Camp David 2000, Barak fece un'importante concessione mai proposta nelle precedenti negoziazioni: il 97% dei territori della West Bank.
"Falso. Non è vero, come si è voluto far credere, che Barak concesse il controllo da parte palestinese del 97% della West Bank. In realtà, fu concesso solamente il 41% di un territorio già in parte sotto il controllo dell'ANP e per di più molto frammentato, per la presenza obbligatoria di insediamenti colonici e di postazioni militari. Il "piano di disimpegno" di Sharon è molto simile a quello di Barak: si offre terra, ma in verità non si concede niente di importante. Non credo nelle sincere intenzioni di Israele".
Confidate nelle intenzioni e nelle possibilità delle mediazioni internazionali come il Quartetto o la Comunità europea?
"Non crediamo più nella diplomazia internazionale. L'Europa non ha fatto nulla per risolvere i problemi del popolo palestinese. Ci sono governi europei, tra cui quello italiano, completamente schierati con la linea politica americana. Anche se sappiamo che ci sono molte manifestazioni in Europa in favore della nostra causa e contro la politica degli Usa, non ci sarà mai nessuna possibilità di cambiamento e di ritorno al dialogo con questi governi. In questo momento ci sentiamo isolati nel panorama politico internazionale".
Che tipo di soluzioni cercate in questo momento per risolvere la situazione in Palestina?
"Nessun tipo di soluzione che implichi un compromesso con Israele. L'unica possibilità di soluzione è la guerriglia. La resistenza irachena, per esempio, rappresenta per noi un'importante opportunità; vedo l'Iraq come un nuovo Vietnam per gli americani. Se la resistenza irachena riuscirà a sconfiggere le truppe americane ed far abbandonare l'occupazione militare, allora la situazione politica internazionale potrà cambiare e volgere in nostro favore. Con il ritiro americano dall'Iraq, potrebbe subentrare al suo posto l'Unione europea, che con maggiore libertà e una politica più equa potrebbe riportare alla normalizzazione il paese e tutta l'area mediorientale, compresa la Palestina. Determinare le condizioni adatte per la ripesa del dialogo in Palestina".
"Al contrario, se gli americani dovessero uscire vittoriosi dall'Iraq, allora la situazione in Palestina diverrebbe ancora più drammatica perché Israele, come conseguenza di un maggiore controllo americano nel settore, accentuerebbe la sua repressione nei territori palestinesi, incidendo politicamente, con le sue menzogne, anche sull'Europa. Nella difesa dei nostri diritti, i movimenti di liberazione arabo-palestinesi sono stati appellati dall'Occidente come "fondamentalismo islamico", evidenziandone il solo fattore religioso-integralista, senza considerare la loro matrice socio-politica di liberazione e rivendicazione dei propri diritti. In questo impasse politico, caratterizzato da menzogne e falsità, la nostra unica possibilità è la resistenza".
Parlando dei diritti fondamentali del popolo palestinese, pensa che il ritorno dei quasi 5 milioni di esuli palestinesi nelle terre che appartenevano ai loro padri sia una possibilità realistica e realizzabile? Crede che ci siano spazi e risorse sufficienti per un numero così alto di abitanti, palestinesi ed israeliani, in tutta la Palestina?
"Il diritto al ritorno nelle proprie terre degli esuli palestinesi non può essere messo in discussione. Israele nel '48 ci ha cacciato dalle nostre case, dai nostri villaggi e dalla nostra terra. Come dovremmo comportarci noi dopo questo trattamento? Se io venissi a casa vostra e vi cacciassi via e prendessi possesso delle vostre proprietà, come vi comportereste voi? Non possiamo far altro che difendere i nostri diritti e rivendicare il ritorno nella nostra terra di tutte quelle famiglie che ne sono state cacciate. Chiediamo il rispetto della Risoluzione ONU n.194 ( 11 dicembre 1948, sancisce che Gerusalemme sia posta sotto un regime internazionale e che ai rifugiati palestinesi sia permesso il ritorno nelle loro terre e case, ndr)".
Quanto è importante per la causa palestinese il supporto dei paesi arabi cosiddetti "fratelli"?
"Non c'è stato nessun supporto o sostegno reale da parte di quei paesi arabi che difendono i nostri diritti. Siria, Libano e Giordania, per esempio, non supportano realmente la nostra lotta. Anche se lo volessero, non sarebbero in grado di sostenere uno scontro con Israele (che è la massima potenza militare nel settore, ndr). La Siria, che è il maggior nemico di Israele, è stata bombardata dall'aeronautica israeliana questo inverno a scopo intimidatorio, quando in sede di Nazioni Unite, i siriani avevano proposto di mettere al bando ogni armamento nucleare in tutta l'area mediorientale, riferendosi indirettamente all'arsenale atomico israeliano".
"I paesi arabi non potrebbero sostenere l'Intifada palestinese, sia materialmente che politicamente, perché sarebbero accusati di sostenere il "terrorismo internazionale" e andrebbero incontro a sanzioni economico-militari e all'isolamento politico internazionale. E poi i paesi arabi, storicamente, non hanno mai avuto un'identità politica comune: la Siria ed il Libano che ospitano il maggior numero di esuli palestinesi, hanno, a fasi alterne, strumentalizzato per i propri scopi la questione dei profughi. Basti pensare alla guerra civile in Libano, in cui i profughi palestinesi sono stati usati come causa di destabilizzazione politica, pagando anche un alto numero di vittime (il massacro di Sabra e Chatila durante l'invasione israeliana nel 1982 e non solo, ndr)".
Ancora una domanda: Yasser Arafat è ancora il leader incontrastato di tutta la popolazione palestinese?
"Si. Finché sarà in vita rimarrà l'unico leader del popolo. Anzi più l'Occidente e gli israeliani ne chiedono l'isolamento politico, più il popolo si stringe a lui".
Ma non c'è nessuna figura politica di spicco che possa essere il suo successore? Ad esempio Marwan Barghouti, attualmente detenuto nelle carceri israeliane?
"Attualmente nessuno gode del consenso necessario per essere un leader per tutto il popolo palestinese. Lo stesso Barghouti non è così popolare: il suo consenso non va oltre la città di Ramallah ed il suo territorio. In Palestina non c'è al momento nessun politico che possa prendere il posto di Arafat".
Con quest'ultima risposta si chiude la conversazione con Salah Salah. Molte sono ancora le domande, ma non approfittiamo troppo della sua disponibilità. L'ultimo saluto è per la moglie, che come quando ci è venuta a prendere, ci lascia con un sorriso.
Stefano Minutillo Turtur s.mturtur@reporterassociati.org http://www.reporterassociati.org/index.php?option=news&task=viewarticle&sid=2231
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