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Quale democrazia in Iraq?
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lupo9449 Tuesday, May. 18, 2004 at 5:47 PM |
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Chi e quanti vogliono la democrazia in quel paese, ma sopratutto, che genere di democrazia sara a regolare il suo futuro politico ed economico?
Se partiamo dall'esempio italiano possiamo dire che la nostra attuale democrazia è arrivata dopo la eliminazione fisica e politica di leader capaci e, di magistrati a Capaci............Oltre al fatto che l'azione dei magistrati che potevano, con il codice penale in mano, decapitare una intera classe politica è stata bloccata dall'azione dei Servizi segreti deviati soltanto dopo due anni.
E le bombe nelle banche e alle stazioni e, i morti sui treni esplosi e gli aerei buttati giù coi missili e le stragi di mafia, sacra corona unita, camorra e n'drangheta? Dove le mettiamo? Nel dimenticatoio? Trppo comodo paisà............!
La democrazia è una conquista soltanto se arriva senza azioni violente e decapitazioni di movimenti operata con la forza delle armi e del denaro.
Quella cosa che le lobby economico-politico-mediatiche chiamano democrazia è un comodo paravento dietro al quale si nascondono i complotti giornalieri e gli affari di una intera generazione di politici corrotti!
http://www.nonsolostoria.org
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1 Maggio 1982
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Carlo Alberto Dalla Chiesa Tuesday, May. 18, 2004 at 5:55 PM |
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"Se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue Istituzioni e delle leggi; non possiamo oltre delegare questo potere nè ai prevaricatori, nè ai disonesti, nè ai prepotenti.
Potere può essere un sostantivo ma è anche un verbo: POTERE......
Poter convivere, poter essere sereni, poter guardare in faccia l'interlocutore senza abbassare gli occhi, poter ridere, poter parlare, poter sentire, poter guardare in viso i nostri figli e i figli dei nostri figli senza avere la sensazione di doverci rimproverare qualcosa, poter guardare ai giovani per trasmettere loro una vita fatta di sacrifici, di rinunce, ma di pulizia, poter sentirci tutti uniti in una convivenza, in una società che è fatta di tante belle cose, ma sopratutto del lavoro, del lavoro di tanti, di operai, impiegati, dirigenti, che quì oggi rappresentano gli angoli più remoti della Sicilia, che vuole essere buona, che vuole essere sana, che vuole lavorare, che vuole essere difesa, vuole progredire, che non può restare vittima di chi prevarica, di chi attraverso il potere lucra....."
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Il Generale nel suo labirinto
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Giorgio Bocca Tuesday, May. 18, 2004 at 6:01 PM |
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Ho incontrato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a Palermo, il sabato 7 agosto. Credo sia stata la sua ultima intervista. Nelle sue parole comunque, c'era qualcosa di definitivo, come una scommessa totale, finale. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa l'ha persa e l'ha fatta perdere alla sua giovane moglie che del resto era decisa a condividerne i rischi e la sorte. E' stata più forte la mafia, come si poteva prevedere, come nei limiti dell'educazione cercai di dirgli quel giorno quando ci trovammo a tavola, sua moglie lui ed io in un noto ristorante a mare, tre foresti seguiti dagli occhi dell'establishment. Credo di avergli detto proprio così: generale, lei è stato qui a Palermo per sei anni, dal '67 al '73. Lei è convinto di conoscere la mafia. Ma come può pensare che le lascino mettere a nudo i legami tra la mafia e il potere politico? Lei generale li ha letti, no, gli atti dell'antimafia? Dove sono finiti i deputati, i dirigenti industriali, i notabili che secondo la commissione d'inchiesta avevano lavorato per la mafia, lucrato con la mafia, avuto dalla mafia votazioni preferenziali impudentitrecentomila voti di preferenza a persone sin lì sconosciute che si presentavano per la prima volta alle elezioni? (...) Ma i tempi sono cambiati, la mafia uccide tutti e il generale Dalla Chiesa lo sapeva. "Generale, se volessero potrebbero ucciderci tutti e tre a questo tavolo". "Spero di no diceva lui non sarebbe cortese da parte mia averla invitata qui a Palermo. Ma, vede, noi l'abbiamo messo sul conto, io e lei". E guardava la moglie, crocerossina bionda con gli occhi azzurri che sorrideva devota. Sì, anche lei l'aveva messo nel conto. Questo generale Dalla Chiesa certe volte non sapevamo bene come prenderlo con le sue vene retoriche: ci riceveva nell'ufficio dell'Arma, con la sua statua del carabiniere sulla scrivania, diceva cose interessanti, da grande professionista del terrorismo, ma non rinunciava all'aneddoto deamicisiano: il capodanno passato con i carabinieri di guardia a Ponte San Luigi al confine con la Francia; le commozioni per le bandiere, per gli alamari, per tutto ciò sembrava arrivare da un mondo lontano, dal quadrato di Villafranca. Ma come si è buon carabiniere se non si crede a queste cose, se non si hanno di queste memorie? Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa era un uomo difficile da giudicare proprio perché in certo modo ambiguo: carabiniere, fratello di carabinieri, figlio di carabinieri, un figlio della piccola aristocrazia piemontese abituata da secoli al servizio delle armi, l'uomo delle grandi retoriche; ma anche un esperto della politica italiana, dei suoi retroscena, dei modi per sopravvivere con i signori del palazzo, con la stampa, con i mass-media.
Perché allora un uomo così esperto, così scaltro aveva accettato la scommessa impari con la mafia? Perché fingeva di non capire ciò che il cronista arrivato da Milano su suo invito continuava a ricordargli: ma generale, lei chiede i pieni poteri sui prefetti, sui questori; lei vuole coordinare la lotta alla mafia, controllare le banche, entrare nel commercio della droga. Ma generale non lo vede che questa grande città vive della droga? Non lo sa che i mafiosi sono nel palazzo? (...) La verità è che Dalla Chiesa, l'uomo forte, il generale di ferro, lo sterminatore di terroristi, è stato mandato a Palermo allo sbaraglio. (...) Ma chi lo ha mandato a Palermo doveva pur saperlo che lo mandava a rischi supremi: di pessime figure e di morte. La richiesta insistente che Dalla Chiesa ha fatto di pieni poteri è stato il suo ultimo gesto retorico, la sua ultima parte nella recita di un grande Stato, di uno Stato serio che non c'è. Dalla Chiesa e sua moglie vanno alla sepoltura. La mafia resta.
(4 settembre 1982)
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Dalla Chiesa, il Generale!
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"Avvenimenti" Tuesday, May. 18, 2004 at 6:06 PM |
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Dalla Chiesa : “il generale”
Link collegato: L’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa
Carlo Alberto Dalla Chiesa, nato a Saluzzo, in provincia di Cuneo il 27 -9-1920.In servizio permanente effettivo nell’arma dei carabinieri e comandante la prima brigata di Torino dal 1 Ottobre 1973. Dopo oltre sette anni di comando dell’arma in Sicilia occidentale col grado di colonnello. E’ stato insignito delle seguenti decorazioni:
Medaglia d’argento al valor militare
Medaglia di bronzo al valor Civile
Due croci al merito di guerra
Oltre a numerose altre decorazioni , ha conseguito durante il servizio militare nell’arma una ventina di encomi solenni per importanti operazioni contro il banditismo e la delinquenza organizzata, anche a seguito di conflitti a fuoco.
Laureato in Giurisprudenza e scienze politiche. Ufficiale di fanteria in zona di guerra, in Montenegro, fu al comando di plotoni”guerriglieri”. Come ufficiale inferiore nell’arma dei carabinieri, fra l’altro ha la “speciale campagna di Caloria per la lotta contro il brigantaggio del 1946-1948, il gruppo e raggruppamento squadriglie di Corleone nella lotta contro la banda di Salvatore Giuliano.
E’ stato quindi comandante del gruppo interno del nucleo di polizia giudiziaria, del gruppo unificato di Milano fra il 1960 e il 1966, capo ufficio addestramento della scuola allievi di Torino. “ Il primo Luglio 1966 prende il comando della importante legione di Palermo con giurisdizione anche sulle province di Agrigento, Trapani, e Caltanisetta”.
Dalle biografie “ Se è vero che su tutti rimane lo sviluppo dato. Dopo la scomparsa del giornalista De Mauro, alle indagini che, condotte in ogni parte d’Italia, portarono l’arma fin dalla fine degli anni 70 ad intuire e conoscere la mafia, superando i confini della Sicilia, si fosse estesa a molte zone dell’Italia del nord, del centro e della Campania, fino a colpirla direttamente e frontalmente nelle note operazioni contemporaneamente dell’estate del 1971, è anche vero che non possono essere dimenticati i successi conseguiti contro l’abigeato,, contro la mafia della droga e delle baracche, contro le sofisticazioni, contro gli episodi di gravissima delinquenza quali quello del delitto Ciuni, contro molteplici faide e prepotenze nell’entroterra e nei cantieri, contro tanti e tanti catturandi da tempo dati per irreperibili in Italia e all’estero.
Generale a Torino nel maggio del 1974, sotto la direzione del procuratore generale Carlo Reviglio della Venaria,guida personalmente le operazioni che portano alla strage nel carcere di Alessandria.(sei uccisi durante il conflitto a fuoco).
Nello stesso periodo costituisce lo speciale nucleo di polizia giudiziaria la cui attività se non unica, per lo meno principale, consiste nella lotta e alla caccia alle Brigate rosse.
Dopo la scoperta della base di Robbiano di Mediglia tiene una conferenza stampa:
a molti rappresentanti degli organi d’informazione appare scostante, particolarmente reattivo alle molte domande delle quali pensa siano poste in malafede. Tiene a chiarire: ho fatto la guerra di liberazione, sono stato io a scoprire , a Roma, il primo “fascio di combattimento” e ne ho arrestato i componenti.
Ad Aqui Terme. Dopo la battaglia di Arzello tiene una nuova conferenza stampa drammatica e sconcertante, con molti scontri verbali con i giornalisti.
Di famiglia con solide tradizioni militari, ha per l’arma un vero culto. Due episodi appaiono significativi. Negli anni settanta, in un centro dell’hinterland Milanese, un carabiniere catturò un bandito, dopo un conflitto a fuoco. Erano anni ancora relativamente tranquilli, la notizia fece grande sensazione, interessava ai giornalisti la foto del carabiniere, Dalla Chiesa benché orgoglioso del proprio carabiniere e dell’impresa svolta dal milite, non voleva autorizzare nessuna foto, ma dietro le insistenze, dei suoi colleghi, Dalla Chiesa sembrò fiaccarsi nella sua negazione, a mezza voce spiegò:
niente foto, è un brutto ragazzo, infine cede, chiama il milite e prima di abbandonarlo ai flashes dei fotografi gli ravvia personalmente i capelli col suo pettinino.
Dalla Chiesa amava raccontare un aneddoto , vero , di quando giovane ufficiale, alla fine della guerra andò col fratello maggiore a ricevere il padre, ufficiale superiore reduce dalla prigionia. Un abbraccio commosso, poi l’alto ufficiale, gli occhi ancora umidi di pianto disse” ringrazio entrambi, ma tu considerati agli arresti: non si saluta così un ufficiale”.
Un generale di altri tempi , assolutamente un servitore dello stato, democratico e liberale, così venne definito da Berlinguer a chi gli domandò cosa pensasse di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nominato il 2 Aprile 1982 prefetto di Palermo”senza poteri speciali ma con compiti speciali”, verrà assassinato dalla mafia con la moglie Emanuela e l’agente di scorta Domenico Russo, esattamente dopo 100 giorni dal suo insediamento alla prefettura.
Avvenimenti Italiani
La memoria non si archivia
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Dalla Chiesa, l'Arma e la politica.
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Nando Dalla Chiesa Tuesday, May. 18, 2004 at 6:08 PM |
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"Dalla Chiesa, l'Arma e la politica" La lettera inviata da Nando Dalla Chiesa, figlio del generale dei Carabinieri ucciso dalla mafia nel 1982, nell'anniversario della morte. 4-9-2001, fonte: Corriere della Sera di Nando Dalla Chiesa Caro Direttore, ho partecipato ieri alle cerimonie ufficiali che si sono tenute a Palermo (come in altre città d’Italia) per ricordare la strage mafiosa di via Carini in cui, diciannove anni fa, venne ucciso mio padre, il generale-prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, con la moglie Emanuela e l’agente Domenico Russo. Ma ieri ho avvertito un disagio amaro nel misurare la distanza tra le idee, la vita, gli insegnamenti di mio padre e il clima che si va formando nel Paese sui temi che lo videro protagonista in tempi difficili. Su un punto mi preme qui soffermarmi. E riguarda i valori a cui egli ispirò la propria attività di ufficiale dell’Arma. Il prestigio anzitutto. Mio padre pensava che la massima ricchezza di una istituzione - ma anche di una persona - fosse il suo prestigio. Lo pensava in particolare per le istituzioni «in divisa» e soprattutto per l’Arma dei Carabinieri, in quanto suprema difesa e garanzia delle istituzioni democratiche nel loro complesso.
Era questa la risorsa principale per sconfiggere i nemici della democrazia e della legalità; e non per nulla anche negli ultimi drammatici giorni egli chiese al governo di non scalfire il suo prestigio davanti alla mafia. Sapeva però che il prestigio non è gratuito. Ma che lo si conquista, lo si merita sul campo. Perciò diede l’esempio sul piano personale accettando o offrendosi continuamente per i compiti più rischiosi ed esposti. E sapeva pure che il prestigio si nutre di fiducia, specie quando sia quello di una istituzione posta davanti al proprio popolo. Arma-popolo: ecco, questo rapporto di identificazione e di fiducia fu centrale nella sua visione.
Operò per decenni in un contesto segnato da una diffidenza reciproca tra forze dell’ordine e sinistra. Anzi, nei primi anni di piombo egli si trovò a essere un po’ il simbolo dell’Italia moderata, grazie alle tante miopie e pigrizie e giustificazioni che a sinistra si mostrarono davanti alla scelta della lotta armata. Ma non si accontentò di quel sostegno. Perché sapeva che solo grazie a un consenso diffuso avrebbe potuto battere il terrorismo (e poi la mafia). Ma anche per profonda convinzione sulla natura e sulle funzioni dell’Arma; la stessa convinzione che gli faceva apprezzare le onorificenze civili acquisite per i soccorsi ai terremotati del Belice alla stessa stregua delle onorificenze militari.
L’Arma era di tutto il popolo. Non pensò mai ad un’Arma «di parte», per quanto fosse un fedele servitore di governi inevitabilmente di parte. Tanto religiosamente osservava questo principio che nessuno di noi seppe mai per che partito votasse. E certo fu in questa logica che, di fronte al terrorismo o alla mafia, ebbe rapporti rispettosi e di stretta collaborazione anche con esponenti della sinistra di opposizione, a partire da Pio La Torre. O che, a volte meravigliando anche me, cercò costantemente e coraggiosamente il contatto con i giovani che avevano idee critiche verso l’Arma o verso di lui, considerato il «Grande Repressore».
«Le genti d’Italia», «il popolo dei buoni». Queste ed altre espressioni a lui familiari testimoniarono quali fossero i riferimenti profondi della sua azione. Verso di essi si sentì in obbligo nei momenti più drammatici. Quando c’era chi sosteneva (anche allora) che con il terrorismo si dovesse convivere. Quando occorreva sconfiggere anzitutto la paura ed egli, per combatterla, decise di farsi vedere in Galleria a Milano in divisa e senza scorta. Quando occorreva inventare sempre nuovi strumenti (intelligence, infiltrati, pentiti, pool di magistrati) per non allargare burocraticamente le braccia e non tradire la fiducia dell’opinione pubblica.
Vinse, nel rispetto dello Stato di diritto. Con il prestigio che ne derivò, lui e i suoi uomini contribuirono alla fine a rendere l’Arma l’istituzione di gran lunga più popolare. Tornato in Sicilia nell’82, mise quel prestigio al servizio dei «cittadini onesti». E in nome loro, anch’essi senza colore come il «popolo buono», sfidò a Palermo l’isolamento e l’«operazione Carlo Alberto» annunciata dalla mafia. Se la sua memoria ha un senso, se egli ha costituito un esempio, mi sembra difficile, davvero difficile dimenticare e cedere alle suggestioni ideologiche che chiedono oggi di uscire da questi orizzonti di riferimento. Si farebbe torto, più che a lui, agli interessi delle istituzioni in divisa e del Paese.
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Intervista al Generale: La mia vita? Un'esperienza duramente vissuta!
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Enzo Biagi Tuesday, May. 18, 2004 at 6:13 PM |
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L’intervista di Enzo Biagi al generale Carlo Alberto dalla Chiesa
a cura di Giorgio Bongiovanni
Il 7 marzo del 1981 andava in onda, dagli studi di Telemond, un’intervista del giornalista Enzo Biagi a Carlo Alberto dalla Chiesa. “Insieme con quella rilasciata a Giorgio Bocca nel fatidico agosto dell’82 a Palermo – ha dichiarato più tardi l’on. Nando dalla Chiesa, figlio del prefetto assassinato dalla mafia – si tratta dell’intervista più importante rilasciata da mio padre nel corso della sua vita. Se l’incontro con Bocca è il più drammatico, quello con Biagi è certamente il più preparato e il più completo, quello che spazia su tutti i temi professionali e che compie anche più disgressioni utili a mettere in luce personalità, psicologia e sfera privata”. Parla del terrorismo, dalla Chiesa, come di un fenomeno che poteva essere battuto in tempi più rapidi e non manca di esprimere il fondamentale valore dei pentiti. Della sua lunga chiacchierata con Biagi colpiscono il rispetto per il nemico e l’analisi di personaggi e di eventi allora poco conosciuti all’opinione pubblica.
“Il ritratto finale – prosegue il figlio Nando – è quello di un ufficiale che sa di avere affrontato una vita difficile. Che non se ne arroga i risultati, poiché ha potuto contare su un’Arma “piena di valorosi”, grazie alla quale non ha mai avuto il problema di trovare collaboratori validi nei momenti cruciali. Che proprio perché ha affrontato una vita difficile può pensare – dice con una punta di civetteria – di avere anche più di “duecento uomini devoti”. E che questa vita, proprio perché difficile e irta di spine, egli non racconterà ai suoi nipotini “come una fiaba”. La racconterà, semmai, ai giovani dell’Arma. Poiché, è questo uno dei suoi messaggi più forti, “credo nei giovani e nel loro sguardo pulito”. La stessa cosa che dirà un anno dopo agli studenti palermitani quando chiederà il loro aiuto contro la mafia”.
Generale dalla Chiesa, perché un giovane decide di diventare ufficiale dei Carabinieri?
Certamente perché crede e perché ha bisogno di continuare a credere.
Ma che qualità deve avere un ragazzo che intende entrare in quest'Arma?
Sicuramente deve avere anche una carica di contenuti tale da affrontare sacrifici e rinunzie con la consapevolezza che tutto viene proiettato nella difesa dello Stato, delle istituzioni e di quella stessa collettività da cui lui proviene.
C'è qualche altro mestiere che le sarebbe piaciuto fare?
Se è necessario rispondere, da piccolo il tranviere, poi mia madre, e forse, anzi senza forse, sbagliava, riteneva che dovessi intraprendere la carriera diplomatica. Qualcun altro invece mi suggeriva di fare il direttore d'orchestra.
Quali sono i fatti che hanno contato di più nella sua vita?
Almeno un paio: sotto il profilo militare, quando ufficiale dell'Arma, nel contesto della Resistenza, mi trovai alla testa di bande di patrioti e responsabile di intere popolazioni. Sotto il profilo umano, l'incontro con mia moglie.
Lei è religioso?
Sì. Credo in Dio, nell'immenso. Anche se, su questa terra, forse perché siamo piccini piccini, qualche volta diventa difficile.
E' praticante?
continua su http://www.antimafiaduemila.com/index.php?module=subjects&func=viewpage&pageid=894
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“Il nostro,come disse Sciascia,è un paese senza memoria e verità,ed io per questo cerco di
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"Avvenimenti" Tuesday, May. 18, 2004 at 6:20 PM |
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Roma, 20 marzo 1979: è appena uscito dalla redazione di OP, il periodico da lui diretto, quando Carmine Pecorelli, detto Mino, 51 anni, viene ucciso a colpi di pistola. Una vera esecuzione. Il movente di questo delitto insoluto sta tutto nella controversa personalità della vittima.
Laureato in legge, Pecorelli per qualche anno esercita la professione di avvocato, specializzandosi in grandi fallimenti fraudolenti, cominciando così a penetrare nei delicati meccanismi che legano il sistema degli affari a quello della politica. Nell’ottobre del 1968, fonda OP, "Osservatorio Politico Internazionale", un periodico scandalistico secondo molti uno strumento, legato ai SERVIZI SEGRETI di ricatto e condizionamento del mondo politico. Per altri invece Pecorelli è un giornalista d’assalto, anche se indubbiamente ispirato da ambienti ambigui. L’unica certezza è che il direttore di OP è realmente legato ad alcuni corpi dello stato. Lo riferisce Nicola Falde, colonnello del SID dal 1967 al 1969, lo testimoniano si suoi legami con Vito Miceli, capo del servizio segreto militare dal 1970 al 1974 e – stando ad alcune testimonianze – anche con il gen. Carlo alberto dalla chiesa.OP si configura come un’agenzia di stampa che, attraverso grosse rivelazioni, sembra lanciare messaggi cifrati e spesso ricattatori. Dal marzo del 1978 OP diventa un settimanale: anticipa lo scandalo dei petroli, destinato ad esplodere anni dopo e soprattutto mostra di sapere moltissimo sul caso MoroChi ha ucciso Pecorelli? In oltre vent’anni di indagini sono state battute le piste più disparate: l’l’estremismo di destra la massoneria deviata, fino ad Andreotti in combutta con la mafia e ancora con la destra estrema. Risultato: l’assoluzione, a Perugia, dell’ex presidente del consiglio e di tutti gli altri imputati.
marzo 1979: Carmine "Mino" Pecorelli viene ucciso a Roma con quattro colpi di pistola calibro 7.65 poco dopo avere lasciato la redazione di "Op". L'inchiesta, a carico di ignoti, viene affidata al magistrato di turno, dottor Mauro, e a Domenico Sica. Nell'indagine vengono coinvolti Massimo Carminati, Licio Gelli, Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti.
15 novembre 1991: il giudice istruttore Francesco Monastero proscioglie tutti gli indagati per non avere commesso il fatto.
6 aprile 1993: Tommaso Buscetta, interrogato dai magistrati di Palermo, accusa Giulio Andreotti e le indagini ripartono. Due giorni dopo il verbale del pentito viene inviato dai pm siciliani a quelli di Roma che il 14 aprile iscrivono Andreotti nel registro delle notizie di reato.
29 lug 1993: il Senato concede l'autorizzazione a procedere per l'ex presidente del Consiglio, "in qualità di mandante" dell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli: il reato configurato è omicidio premeditato in concorso con più persone. In base alle dichiarazioni di Buscetta il pm Giovanni Salvi indaga anche Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò.
Agosto 1993: le dichiarazioni dei pentiti della banda della Magliana, in particolare quelle di Vittorio Carnovale, coinvolgono l'allora pm romano Claudio Vitalone.
17 dicembre 1993: l'inchiesta arriva alla procura di Perugia competente ad indagare sui magistrati romani. Nel capoluogo umbro Vitalone viene ufficialmente iscritto nel registro delle notizie di reato.
7 gennaio 1995: in base alle accuse dei pentiti Fabiola Moretti ed Antonio Mancini, i pm umbri indagano Michelangelo La Barbera e chiedono la riapertura dell'inchiesta su Carminati.
20 luglio 1995: l'allora procuratore capo Nicola Restivo ed i sostituti Fausto Cardella ed Alessandro Cannevale depositano la richiesta di rinvio a giudizio, con l'accusa di omicidio, per Andreotti, Vitalone, Badalamenti, Calò, La Barbera e Carminati. Quest'ultimo chiede ed ottiene di essere processato con il rito immediato, saltando così l'udienza preliminare.
novembre 1995: il gip Sergio Materia rinvia a giudizio gli altri cinque imputati.
11 aprile 1996: comincia formalmente il processo. A presiedere la Corte d'assise è Paolo Nannarone che però risulta incompatibile in base alla sentenza della Corte costituzionale sul doppio ruolo dei giudici. Lo sostituisce Giancarlo Orzella. In 169 udienze vengono sentiti 250 testimoni e raccolte oltre 300 mila pagine di atti.
27 aprile 1996: in base a una sentenza della Corte Costituzionale in materia di incompatibilità nelle funzioni giurisdizionali, il processo è sospeso e rinviato al 6 giugno perché uno dei giudici a latere aveva fatto parte del tribunale della libertà, pronunciandosi su istanze di coimputati di Andreotti.
9 settembre 1996: Tommaso Buscetta conferma le accuse contro Andreotti, affermando che Badalamenti e Stefano Bontade gli hanno detto che l'omicidio Pecorelli lo "avevano fatto loro, su richiesta dei cugini Salvo, nell'interesse del sen. Andreotti"; secondo Buscetta, Pecorelli poteva pubblicare documenti che riguardavano il caso Moro e che erano in possesso del gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il giorno dopo, però, Buscetta ritratta in parte le affermazioni.
11 gennaio 1997: il 'pentito' Vittorio Carnovale, ex membro della "Banda della Magliana", afferma che il mandante dell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli è il magistrato Claudio Vitalone.
28 febbraio 1997: il medico Gaetano Sangiorgi, genero di Nino Salvo, afferma che il 21 luglio 1993 i giudici di Palermo lo invitarono, "in modo esplicito", a dire qualcosa su Andreotti.
9 luglio 1997: Pippo Calò, il "cassiere" della mafia, nega di aver preso parte all'organizzazione dell'omicidio Pecorelli, di aver avuto notizie sul delitto e di essere stato un mafioso.
5 ottobre 1997: Giulio Andreotti nega di essere stato infastidito dagli attacchi di Pecorelli o di avere mai saputo che Franco Evangelisti finanziasse "OP". Aggiunge che né Evangelisti né Claudio Vitalone gli parlarono della cena alla "Famiglia piemontese" in cui l'ex magistrato avrebbe messo in atto un ultimo tentativo di far cessare gli attacchi del giornalista al gruppo andreottiano.
30 aprile 1999: i pm Fausto Cardella e Alessandro Cannevale chiedono l'ergastolo per tutti gli imputati del processo: Giulio Andreotti, Claudio Vitalone, Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò come presunti mandanti dell'omicidio; Michelangelo La Barbera e Massimo Carminati accusati di essere stati gli esecutori materiali.
13 settembre 1999: il pm Alessandro Cannevale ribadisce la richiesta dell'ergastolo per i sei imputati.
20 settembre 1999: la corte d'Assise di Perugia (presidente Giancarlo Orzella e gli altri sette giudici, un togato e sei popolari) entra in camera di consiglio.
24 settembre 1999: dopo 102 ore di camera di consiglio viene pronunciato il verdetto: assolti tutti gli imputati, per non aver commesso il fatto.
Giulio Andreotti Il mandante secondo l’accusa
Senatore a vita dal’91, ha dominato la scena politica degli ultimi cinquant’anni anni: sette volte presidente del Consiglio, otto volte ministro della Difesa, cinque volte ministro degli Esteri, due volte delle Finanze, del Bilancio e dell’Industria, una volta ministro del Tesoro e una ministro dell’Interno, sempre in Parlamento dal 1945 ad oggi, ma mai segretario della Dc. La storia politica della Repubblica italiana è la storia di Giulio Andreotti. Laureato in giurisprudenza, inizia la sua carriera politica come delegato nazionale dei gruppi democristiani; nel ‘45 partecipa all’Assemblea Costituente. L’attività di governo incomincia a 28 anni come sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel quarto governo De Gasperi. continua
PECORELLI: SENTENZA CASSAZIONE SU EX AGENTI SISDE La Cassazione ha confermato l' assoluzione di Vittorio Faranda, uno dei tre agenti del Sisde, ora in pensione, inquisiti per avere reso false dichiarazioni al pm nel corso dell' inchiesta sull' omicidio di Mino Pecorelli. Annullato invece con rinvio il proscioglimento dei suoi colleghi Mario Fabbri e Giancarlo Paoletti. Per Faranda, all' epoca sottufficiale, la Suprema corte ha accolto la tesi dei suoi difensori, gli avvocati Marco Brusco e Luca Maori, che hanno reso nota la sentenza. I legali avevano chiesto che fosse rigettato il ricorso dell' accusa. Gli avvocati Brusco e Maori hanno espresso "soddisfazione" per la decisione della Cassazione che rende definitiva l' assoluzione del loro assistito. Per Fabbri e Paoletti - difesi dagli avvocati Giovanni Militerni e Titta Castagnino - il processo e' stato invece rinviato davanti alla Corte d' appello di Firenze. In primo grado al questore Fabbri e al colonnello Paoletti erano stati inflitti otto mesi di reclusione; il sottufficiale Vittorio Faranda venne invece condannato a sei mesi. Pena sospesa e non menzione per tutti. La sentenza venne emessa il 13 luglio del 1996 dal tribunale di Perugia. Una sentenza riformata il 19 settembre del 2001 dalla Corte d' appello del capoluogo umbro che assolse i tre imputati con la formula "perche' il fatto non sussiste". Ora la sentenza della Cassazione.
Il Sen: sono contento la giustizia funziona
Giulio Andreotti non è colpevole, non è il mandante del delitto di Mino Pecorelli: lo ha stabilito la Corte d'assise di Perugia, che ha assolto il senatore a vita - per il quale i pubblici ministeri avevano chiesto l'ergastolo - dall'accusa di omicidio. Prosciolti anche gli altri cinque imputati: l'ex magistrato ed ex ministro Claudio Vitalone, i boss di Cosa Nostra Pippo Calò e GaetanoBadalamenti, il mafioso Michelangelo La Barbera, e l'ex terrorista nero dei Nar Massimo Carminati. La motivazione è identica per tutti: non hanno "commesso il fatto".Ecco il primo commento rilasciato, a caldo, da Andreotti, rimasto lontano da Perugia: "Sono soddisfatto, la giustizia italiana funziona. Nel mio animo non avevo dubbi, però non basta avere ragione: bisogna trovare chi te la dà". Subito dopo ha parlato anche Vitalone, presente in aula: "Sono stati anni di amarezze e sofferenze che non possono e non devono essere dissipate; questa teoria grave di abusi e prevaricazioni non può restare senza un seguito". Diverso l'umore della sorella di Mino Pecorelli, Rosita: "Sono ancora convinta - ha detto - della bontà del materiale raccolto dall'accusa, e continuo ad avere fiducia nella giustizia".Termina così, col sollievo degli imputati e l'amarezza dei parenti della vittima, uno dei più clamorosi processi dell'Italia repubblicana, che ha visto alla sbarra un leader politico che è stato sette volte presidente del Consiglio. Mino Pecorelli, direttore della rivista "Op", fu assassinato il 20 marzo del 1979. Secondo la ricostruzione dell'accusa, il movente del delitto è da ricercare nei "segreti" legati alla prigionia di Aldo Moro (e in particolare al suo famoso memoriale): tra queste verità, di cui il giornalista era venuto in possesso e che minacciava di utilizzare, anche alcune rivelazioni scottanti su Andreotti. Per questo il leader Dc avrebbe chiesto aiuto, sia a Cosa Nostra siciliana (attraverso i boss Badalamenti, Calò e Bontate, quest'ultimo deceduto), sia - attraverso il suo braccio destro Vitalone - alla banda della Magliana: entrambe le organizzazioni avrebbero mandato un proprio sicario, ad uccidere il giornalista. Adesso, dopo vent'anni, la sentenza, che ribalta e nega le conclusioni dei pm. Un verdetto giunto al termine di una giornata di spasmodica attesa, cominciata in mattinata, quando la Corte d'assise di Perugia, presieduta da Giancarlo Orzella, ha fatto sapere di aver raggiunto il verdetto. I sei componenti, 2 giudici e 6 non togati, hanno deliberato dopo quattro giorni di discussione: erano riuniti camera di consiglio dalla tarda mattinata di lunedì. Oltre alle sei assoluzione, è stato deciso anche il trasferimento al pubblico ministero dalle dichiarazioni rese da uno dei principali testi dell'accusa: Fabiola Moretti, allora vicina alla banda della Magliana. E intanto, proprio per l'arrivo della della sentenza Pecorelli, a Palermo è stato sospeso il processo nel quale Andreotti è accusato di associazione mafiosa; questa mattina, appena giunte le notizie da Perugia, l'udienza è stata interrotta, e il dibattimento rinviato alla prossima settimana. Appare chiaro comunque che la sentenza di oggi non potrà non influire sulla vicenda giudiziaria palermitana, visto che le dichiarazioni di alcuni pentiti, fra cui Tommaso Buscetta, sono alla base di entrambe le accuse. Non a caso, questa sera, il senatore a vita ha dichiarato: "Adesso sono fiducioso anche per Palermo".
(24 settembre 1999)
CARMINE PECORELLI E LA SUA ATTIVITA’
La morte violenta di una persona, a meno che l’uccisione non sia frutto di un raptus improvviso o di una malattia mentale, trova la sua ragione d’essere in motivazioni profonde che sono inscindibilmente legati alla persona dell’ucciso. Necessariamente quindi per individuare i suoi assassini deve analizzarsi la personalità di Carmine Pecorelli nella molteplicità dei suoi rapporti interpersonali, siano essi di natura privata o collegati alla sua attività nelle varie forme in cui essa si è manifestata. Leggi il seguito
Se Giulio è colpevole. E se è innocente
Se e quando leggerete quanto scritto di seguito, Giulio Andreotti potrebbe essere stato dichiarato un assassino e un ergastolano virtuale, in attesa dell'appello; o uno statista restituito alla condizione laicale di senatore a vita e mondato dall'infame accusa di aver disposto l'uccisione di Carmine Pecorelli detto Mino, 20 anni fa. Esaminiamo le conseguenze politiche, civili e fantastiche dei due cosiddetti scenari.leggi il seguito
I pm: ergastolo per Andreotti
PERUGIA - Ergastolo. Per Giulio Andreotti, senatore a vita ed ex presidente del Consiglio; per Claudio Vitalone, ex ministro della Repubblica e magistrato. Ergastolo anche per Gaetano Badalamenti, vecchio boss della mafia perdente detenuto negli Usa, e per Pippo Calò, faccendiere di Cosa Nostra recluso in Italia. Furono loro - secondo la pubblica accusa - a ordinare l'omicidio di Carmine Pecorelli, noto Mino, giornalista discusso e scomodo che alle 16,07 di ieri ha avuto - a vent'anni dalla morte - una pubblica, appassionata e inaspettata riabilitazione: "Uno spregiudicato e scanzonato avventuriero della notizia", l'ha definito il pm Alessandro Cannevale. Rosita, la sorella del giornalista, alla parola "ergastolo" ha pianto: "Avevo detto immediatamente che quello di Mino era un delitto di Stato".leggi il seguito
Sentenza Pecorelli: Andreotti condannato (17 Novembre 2002)
Il 13 maggio 2002 comincia la celebrazione del processo d'appello. Se mesi dopo, il 15 novembre, i giudici entrano in camera di Consiglio. In due giorni la sentenza: 24 anni per Giulio Andreotti e per Gaetano Badalamenti. Assolti - qui l'Appello conferma il giudizio di primo grado - Giuseppe Calò, Claudio Vitalone, Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera.
Lo strano caso del Sen Andreotti
La Corte d'Assise d'appello di Perugia ha condannato Giulio Andreotti a 24 anni per omicidio. Come mandante dell'assassinio del giornalista Mino Pecorelli. Critiche scomposte, a destra e a sinistra. Ma in un Paese (davvero) normale, i giocatori di poker non si siedono al tavolo verde con un baro: e non aspettano una sentenza. Da noi, invece, i giustizialisti (quelli veri) non escludono dalla politica gli indegni, prima vogliono la sentenza: se è di assoluzione, attaccano i magistrati; se è di condanna, non ci credono, e attaccano i magistrati... leggi il seguito
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Quel corleonese che parlava in TV
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Peppino di Palermo Tuesday, May. 18, 2004 at 6:30 PM |
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PEPPINO DI PALERMO QUEL CORLEONESE CHE PARLAVA IN TV... CORLEONE - Peppino Di Palermo è morto il 19 aprile dell'anno scorso, all'età di 89 anni, e stasera Corleone lo ricorda, insieme a Pio La Torre, con una manifestazione organizzata dalla Cgil e dal circolo Auser, in collaborazione col Centro studi dedicato al dirigente comunista assassinato dalla mafia il 30 aprile di 22 anni fa. Di Palermo e La Torre si erano conosciuti a Corleone nel 1949, quando quest'ultimo fu mandato in questo paese del cuore interno dell'isola, per provare a riorganizzare il movimento contadino, colpito duramente dall'assassinio mafioso del segretario della Camera del lavoro Placido Rizzotto. Di Palermo era cognato di Rizzotto. Ne aveva sposato la sorella Agata, dalla quale ebbe tre figlie. "Con Placido eravamo anche amici e compagni di lotte", ha raccontato tante volte Di Palermo, ricordando che, dopo l'8 settembre del '43, il cognato si era tolto la divisa militare per salire sui monti della Carnia a combattere con i partigiani delle brigate "Garibaldi". Per il suo impegno a favore dei contadini, Rizzotto fu sequestrato e assassinato dalla feroce mafia del feudo la sera del 10 marzo 1948. Un colpo durissimo per il movimento, che già aveva cominciato ad occupare gli ex feudi, dove erano campieri e gabelloti i rappresentanti del "ghota" mafioso di Corleone, a cominciare da Luciano Liggio, Vincenzo Collura e Pasquale Criscione. Proprio questi tre personaggi furono indicati come gli autori materiali del delitto. "Ad incastrarli - ha raccontato Di Palermo - fu l'allora capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa, che dirigeva la locale compagnia dei carabinieri. Un giorno il capitano convocò me e mio suocero nel suo ufficio e ci promise che avrebbe fatto di tutto per trovare i colpevoli, anche perché - sottolineò - Rizzotto era un partigiano come me. Mantenne la promessa". Nella Corleone di quegli anni, quindi, si ritrovarono Peppino Di Palermo, Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa. Tre personaggi che, a diversi livelli, avrebbero dato il loro contributo alla crescita civile della Sicilia. Di La Torre e Dalla Chiesa già sappiamo. Di Palermo, nel suo piccolo, contribuì nel '45 alla nascita della cooperativa agricola "B. Verro" e nel 1949 ne divenne vice-presidente. "Uno dei primi feudi che occupammo - ha raccontato - fu il feudo Gristina, che poi ci venne concesso dalla prefettura. Ma il primo giorno che andammo sul posto per quotizzarlo, i mafiosi ci spararono addosso, costringendoci a scappare. Il giorno successivo, però, vi tornammo con i carabinieri e così potemmo iniziare a coltivarlo". Partecipò alla ripresa delle lotte contadine dell'autunno '49, ma proprio per questo fu arrestato e rimase 15 giorni nel carcere dell'Ucciardone. "Dopo un viaggio allucinante su un cellulare della polizia, nel cortile del carcere - aggiungeva Peppino - vidi decine e decine di contadini, che erano stati arrestati come me. Molti li conoscevo: erano di Campofiorito, Bisacquino, Contessa Entellina, San Giuseppe Jato. Fortunatamente, non restammo molto in galera grazie ad una amnistia". Dal 1952 al 1979, ininterrottamente, fu consigliere comunale del Pci e dal 1958 al 1960 anche vice-sindaco di Corleone. "Gli anni più difficili furono sicuramente gli anni '50 - ricordava spesso Di Palermo - perché a Corleone c'erano fame, disoccupazione e miseria. Furono tanti, allora, i contadini senza terra costretti ad emigrare in Germania, in Belgio o al Nord Italia. Il paese rimase spopolato, in mano alla mafia". Nel 1962 queste considerazioni Peppino Di Palermo li fece a Gianni Bisiach, che l'intervistò per l'almanacco settimanale Rai, diretto da Enzo Biagi. "Certo che la mafia a Corleone esiste e fino a pochi anni fa Michele Navarra ne era il capo incontrastato", disse al giornalista, che non mancò di sottolinearne il coraggio. Lo stesso coraggio che, qualche anno prima, aveva dimostrato Carmelo Rizzotto, padre di Placido, indicando in un pubblico comizio tutti i mafiosi di Corleone, colpevoli dell'assassinio del figlio. Negli anni '70 e '80 Di Palermo fu punto di riferimento per quei giovani che si avvicinavano alla sinistra, ai quali cercò di trasmettere i valori della giustizia e della solidarietà.
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Chi era palcido Rizzotto?
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Pasquale Scimeca Tuesday, May. 18, 2004 at 6:36 PM |
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Chi era Rizzotto Placido da Corleone ?
Tante volte me lo sono chiesto. Tante volte ho provato a immaginarmelo, a dargli un volto, una camminata, un tono di voce.
Troppo poco sono le uniche due foto che lo ritraggono. Le fotografie, in quegli anni, i poveri le facevano per il matrimonio. E Placido non è arrivato a sposarsi. Allora preferisco pensare a lui come a un nome.
Già i pensieri.
Chissà a cosa pensava quella sera tiepida di marzo Placido Rizzotto, mentre in compagnia dei suoi assassini, percorreva le strade buie di una Corleone senza tempo ? Chissà se era ancora vivo mentre lo precipitavano in quella "ciacca" che sprofonda nel ventre della terra ? Chissà se ha tremato, se si è difeso, se ha chiesto aiuto ?
A cosa può servire un film su Placido Rizzotto ? E perché raccontare ancora (e a chi ?) la sua vita e la sua morte ?
Io penso che , lontano da ogni retorica, il sublime senso poetico che emana ogni manifestazione di coraggio, ogni puro sentimento di dignità umana, ogni difesa dei deboli, ogni fatto autenticamente popolare, merita di essere narrato , ha bisogno anzi di essere narrato e tramandato alle generazioni, affinché tra le generazioni gli uomini non smarriscano più i sogni.
Già i sogni.
Quel sogno spezzato la sera del 10 marzo del 1948, quando scompare nel nulla il segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto. Per uno strano caso del destino, attorno alla sua scomparsa vi fu il convergere di una serie di giovani uomini che in seguito diventeranno importanti , in un verso o nell’altro, nella storia dell’Italia contemporanea: L’allora capitano dei carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, che fece le indagini e arrestò gli assassini di Rizzotto; il giovane studente universitario, Pio La Torre, che sostituì Rizzotto alla guida dei contadini. E , dall’altra parte, Luciano Liggio, (l’assassino di Rizzotto), e gli uomini della sua banda, che in seguito diventeranno i padroni della Mafia.
Pasquale Scimeca (Regista di "Placido Rizzotto")
Continua su http://www.cnimusic.it/cdrizzotto.html
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fermare la guerra di bush!!Fermare le TORTURE!
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mai piu' guerre e TORTURE! Tuesday, May. 18, 2004 at 6:52 PM |
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FUORI GLI USA DALL'IRAQ! Ritiro immediato di tutti i soldati italiani dall'Iraq!
Rispetto dell'ART 11 della Costituzione! Manifestazioni e proteste continuein tutta Italia contro le TORTURE e la GUERRA di bush! Mai piu'!
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Siamo un popolo di ignoranti
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Michael Moore Tuesday, May. 18, 2004 at 7:00 PM |
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Il regista intervistato da Ballarò ha dichiaratro più o meno questo..........e quasi tutti in studio si sono scandalizzati.
Ma Michael si riferiva alla vita sociale e politica e non alla abilità di fare sodli e accumulare ricchezze!
Un popolo che manda alle urne solo il 35% dei suoi abitanti certo che è ignorante.........ignora la fine che può fare se non si sveglia e manda a casa gli affaristi che hanno occupato la politica.
D'altra parte capisce anche che gli serve il petrolio, ma non sa o non ha captato immediatamente che a guadagnarci saranno soltanto coloro che trasformano il petroli in sottoprodotti tipo: benzina, plastica gasolio etcc........e che chi lavora perderà sempre di più potere e diritti.
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